L’invasione dei superbatteri


I microrganismi patogeni si evolvono (anche a causa dei nostri comportamenti) e resistono ai farmaci. Presto potrebbero causare più decessi del cancro. Già oggi alcuni superpatogeni fanno paura.

Da un secolo a questa parte, la medicina e la farmacologia hanno fatto continui progressi che hanno permesso di curare patologie dall’esito infausto fino ai primi quarant’anni del Novecento.

È del 1928 la scoperta da parte di Alexander Fleming della penicillina, una molecola prodotta da un fungo e capace di aggredire la parete cellulare dei batteri, provocandone la morte. I microrganismi (batteri, virus, funghi, protozoi, eccetera) sono spesso in competizione tra loro e una delle strategie più collaudate è proprio quella di produrre sostanze antibiotiche (a cui i produttori sono immuni) per sterminare gli avversari. In questa «guerra molecolare», in cui l’uomo è l’ultimo arrivato, antibiotici e fenomeni di resistenza sono le due facce di una stessa medaglia. Questo è il motivo per cui i microrganismi patogeni trovano spesso una strada per non soccombere sviluppando resistenza ai farmaci in uso (antimicrobico-resistenza o farmaco-resistenza). Oggi, uno dei principali problemi di salute pubblica è quello della nascita di superpatogeni, capaci di resistere a pressoché ogni forma di difesa di cui l’uomo dispone.

Batteri e resistenza: un problema serio

Solo nel nostro paese ogni anno muoiono circa 10mila persone a causa dell’antimicrobico-resistenza. L’Italia, con la Grecia e la Romania, è uno dei paesi europei con i maggiori tassi di antimicrobico-resistenza. In particolare, negli ospedali italiani i ceppi del batterio Klebsiella pneumoniae (Kpc) resistenti ai carbapenemi (classe di antibiotici ad ampio spettro, con struttura molecolare simile a quella delle cefalosporine e delle penicilline) sono già intorno al 50%, mentre quelli di Acinetobacter resistenti sono circa l’80-90%. E queste sono solo due delle specie di batteri che stanno creando seri problemi ai pazienti ospedalieri. Si stima che in Europa siano già circa 33mila i decessi annuali legati all’antimicrobico-resistenza con un impatto di circa un miliardo e mezzo di euro a livello economico sia per le spese sanitarie, sia per la perdita di produttività. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), se la tendenza attuale non verrà modificata, nel 2050 l’antimicrobico-resistenza sarà responsabile di circa 2,4 milioni di decessi all’anno solo nei 38 paesi dell’area Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) con un impatto economico da 3,5 miliardi di dollari annui. Secondo uno studio commissionato dal governo britannico, a livello mondiale i decessi annui legati a questo fenomeno potrebbero raggiungere i 10 milioni nel 2050 (superando gli 8 milioni di morti previsti per il cancro), con una riduzione del Prodotto interno lordo (Pil) stimabile nel 2-3%, che potrebbe tradursi in una perdita fino a 100mila miliardi di dollari a livello mondiale da qui al 2050. Oltre all’impatto sui singoli sistemi sanitari, infatti, un aumento delle resistenze ai farmaci avrebbe ripercussioni sulla forza lavoro in termini di mortalità e di morbosità e quindi sull’intera produzione economica. Di fatto, si sta diffondendo un panico silenzioso negli ospedali, ma per la maggior parte delle persone, dei gruppi politici e di quelli d’affari sembra essere un problema molto lontano. Del resto, governi e istituzioni di tutto il mondo, dopo aver ripetutamente ridotto i fondi a disposizione della ricerca, sono piuttosto riluttanti a rendere pubbliche epidemie di infezioni resistenti ai farmaci.

Batterio di Escherichia coli al microscopio elettronico. Foto WikiImages – Pixabay.

Pericoli e ricerca

L’Oms ha stilato una lista dei principali batteri che presentano antibiotico-resistenza, classificandoli in base alla loro pericolosità e alla loro resistenza, in modo da promuovere la ricerca e lo sviluppo di nuovi antibiotici. L’accento è posto in particolare sui batteri Gram-negativi resistenti a molteplici antibiotici. Questa lista è suddivisa in tre categorie, a seconda dell’urgenza di nuovi antibiotici: priorità fondamentale, elevata e media. I batteri appartenenti al primo gruppo sono quelli resistenti a più farmaci, rappresentando una particolare minaccia in ospedali, case di cura e tra i pazienti che necessitano di ventilatori e di cateteri. Tra questi ci sono Acinetobacter, Pseudomonas e vari componenti della famiglia delle Enterobacteriacee (tra cui Klebsiella, Escherichia coli, Serratia, Proteus). Essi possono causare gravi infezioni, spesso mortali, come setticemie e polmoniti e sono diventati resistenti a un gran numero di antibiotici compresi i carbapenemi e le cefalosporine di terza generazione, tra i migliori antibiotici attualmente a disposizione. La seconda e la terza categoria della lista comprendono altri batteri sempre più resistenti ai farmaci e capaci di causare malattie più comuni come gonorrea e salmonellosi.

La Candida auris, il fungo killer

Un altro superpatogeno, che desta sempre più preoccupazione come emergenza di salute pubblica, non è un batterio bensì un fungo, la Candida auris. Si tratta del cosiddetto fungo killer, che è molto resistente ai farmaci ed è capace di uccidere la metà dei soggetti colpiti in tre mesi. La sua diffusione, cominciata in sordina, ha raggiunto ogni zona del globo. Fu identificato per la prima volta nel 2009 nell’orecchio di una donna giapponese di circa 70 anni e da allora è stato rinvenuto in tutto il mondo, nelle Americhe, in Asia, in Africa, in Australia e in Europa, dove sono stati identificati 52 casi al Royal Brompton Hospital di Londra nel 2015 e 85 casi al Politecnic La Fe di Valencia nel 2016. Si rivela molto pericoloso per chi ha il sistema immunitario immaturo o compromesso come i neonati o gli anziani, i fumatori, i diabetici e le persone con patologie autoimmuni costrette ad assumere farmaci steroidei, che funzionano come immunosoppressori. I ricercatori che hanno studiato la Candida auris ritengono che essa sia comparsa in contemporanea e in modo indipendente negli stati di tre diversi continenti, in particolare in India, in Sudafrica e in Sud America e questo fatto singolare non può essere imputabile solo all’abuso di antibiotici e di antimicotici, quindi alla farmaco-resistenza.

Il riscaldamento globale

Un recente studio suggerisce che i cambiamenti climatici possano avere favorito la diffusione del fungo killer e la sua capacità di infettare gli esseri umani. Confrontando il comportamento di Candida auris con quello di altre specie micotiche strettamente imparentate dal punto di vista genetico, i ricercatori si sono resi conto che il fungo killer sa adattarsi molto bene all’aumento della temperatura e sarebbe perciò predisposto a infettare l’essere umano, a differenza della maggior parte dei funghi, che sono incapaci di sopravvivere alla nostra temperatura corporea e vengono quindi facilmente eliminati dai nostri meccanismi di difesa. Secondo uno degli autori di questo studio, Alberto Casadevall (John Hopkins Bloomberg School of public health) «il riscaldamento globale porterà alla selezione di lignaggi fungini, che sono più tolleranti alle alte temperature e che dunque possono violare la zona di restrizione termica dei mammiferi». Si tratta di un’ipotesi ancora da verificare, ma senz’altro suggestiva e meritevole di ulteriori approfondimenti. Sicuramente sono necessari migliori sistemi di sorveglianza per segnalare rapidamente nuove infezioni fungine come quella di Candida auris.

I batteri e i loro geni

Cosa causa l’antibiotico resistenza? Alla base di questo fenomeno vi è una serie di cause. Sicuramente la resistenza ai trattamenti è un fenomeno naturale presente in tutti gli organismi. I batteri, rispetto ad altri patogeni, hanno una marcia in più rappresentata dalla capacità di trasferimento genico orizzontale, che li caratterizza, cioè la capacità di trasmettere materiale genetico ai loro simili senza passare attraverso la riproduzione. Spesso nel materiale trasferito si trovano geni che conferiscono la resistenza a qualche farmaco. Questo consente ai batteri di essere più veloci nell’evolvere le loro difese. Dall’analisi di campioni di acque profonde un centinaio di metri è stata rilevata la presenza di batteri con geni della resistenza ad alcuni antibiotici. Questo dà un’idea di quanto sia diffuso questo fenomeno.

La «Candida auris», un fungo molto pericoloso. Foto notiziescientifiche.it.

Antibiotici vecchi e nuovi

Ci sono antibiotici nuovi, che generano resistenza già poco tempo dopo la loro immissione sul mercato, mentre alcuni antibiotici vecchi di decenni come le tetracicline si dimostrano ancora efficaci contro la filariosi, una malattia parassitaria dei cani veicolata dalle zanzare. Le case farmaceutiche si dimostrano un po’ restie a investire nello sviluppo di nuovi antibiotici, perché è sempre più difficile produrne uno che duri a lungo come le tetracicline. L’insufficienza degli investimenti nella ricerca di nuove terapie è un problema evidenziato anche dall’Oms.

L’uso sconsiderato ed eccessivo di antibiotici è sicuramente una parte del problema. Questi farmaci, infatti, sono inutili per la cura delle patologie di origine virale, dal momento che i virus non sono esseri viventi, a differenza dei batteri, dei funghi, dei protozoi e dei parassiti pluricellulari, quindi non possono essere uccisi dagli antibiotici.

Inoltre, spesso l’antimicrobico-resistenza si osserva in microrganismi isolati da pazienti con diagnosi effettuata in ritardo, che hanno avuto prescrizioni non adeguate, che hanno assunto farmaci qualitativamente scadenti o che non hanno effettuato per intero il ciclo di cura. È infatti molto pericoloso interrompere il ciclo di cura non appena si attenuano i sintomi della malattia. Queste variabili possono portare alla selezione di ceppi sempre più resistenti e la difficoltà di trattare le infezioni aumenta i rischi delle procedure mediche come la chemioterapia, gli interventi chirurgici e odontoiatrici.

Il problema allevamenti

Un’altra fonte di rischio di antimicrobico-resistenza è l’uso massiccio di antibiotici, che si è fatto finora in campo veterinario, soprattutto negli allevamenti intensivi, i quali massimizzano la resa economica, ma anche la diffusione delle malattie che necessitano di un trattamento antibiotico. Poiché è complicato curare i singoli individui malati di un allevamento, solitamente vengono trattati tutti gli animali presenti, malati e sani. Questo abuso di antibiotici per curare gli animali d’allevamento supera quello in campo umano. Inoltre, questi prodotti vengono anche usati per stimolare la crescita degli animali. I batteri farmaco-resistenti, che vengono selezionati negli allevamenti, hanno diverse possibilità di diffusione: possono infettare gli operatori del settore; essere ingeriti, se la carne viene consumata senza un’adeguata cottura; finire nelle feci usate come fertilizzanti e raggiungere i campi coltivati oppure passare i loro geni ad altri batteri secondo il meccanismo del trasferimento genico orizzontale già visto. A tal proposito, l’Agenzia europea per la regolamentazione dei farmaci (Ema) ha fissato una soglia per l’uso della colistina, che dovrebbe essere limitata ad un massimo di 5 mg per chilogrammo di bestiame.

Come prevenzione, va detto che sono senz’altro importanti le raccomandazioni sulle norme igieniche personali di base, come il lavaggio frequente delle mani, come abbiamo sperimentato durante la pandemia di Covid. Tuttavia, sono misure ampiamente insufficienti. È infatti indispensabile, da parte delle amministrazioni nazionali e locali prendere provvedimenti seri contro le infestazioni di roditori e di insetti ematofagi.

Negli allevamenti intensivi si fa un uso massiccio di antibiotici con gravi conseguenze. Foto Ralphs fotos – Pixabay.

Dalla storica peste ai superpidocchi

Non dimentichiamo che la Yersinia pestis, che ha più volte decimato le popolazioni europee nel corso dei secoli, è un batterio trasmesso all’uomo dalle pulci dei ratti e dei topi, roditori di cui purtroppo attualmente le nostre città sono piene. Proprio come capitò nel Medio Evo, quando il batterio si diffuse in comunità affollate e malnutrite di città fiorenti, uccidendo circa il 30% della popolazione europea. Cosa succederebbe se questo batterio si ripresentasse adesso, magari dopo avere acquisito qualche gene dell’antibiotico-resistenza? E che dire della diffusione dei pidocchi diventati resistenti agli insetticidi attualmente in uso, tanto da essersi meritati l’appellativo di superpidocchi? Questo fenomeno è la diretta conseguenza dell’abuso fatto per anni del Ddt, che colpisce il sistema nervoso dei pidocchi provocandone la morte. Dopo decenni di esposizione, in alcuni pidocchi sono comparse mutazioni genetiche, che li hanno resi insensibili a questo insetticida. Mentre i loro simili non resistenti venivano sterminati, la popolazione resistente è aumentata enormemente e a nulla è valsa la sostituzione del Ddt con insetticidi naturali a base di piretrine o dei loro analoghi sintetici, i piretroidi, che hanno un meccanismo d’azione simile a quello del Ddt. In Europa si sta ricorrendo a metodi alternativi come l’uso di siliconi e di oli sintetici per incapsulare i pidocchi e provocarne la morte; tuttavia, i casi d’infestazione sono in aumento. Oltre al fastidio rappresentato dall’infestazione, non dimentichiamo che i pidocchi potrebbero trasmettere il tifo petecchiale, essendo tra i vettori della Rickettsia prowazekii, il batterio che causa questa patologia.

Zanzare e superzanzare

Ritroviamo lo stesso fenomeno della resistenza a piretrine e a piretroidi nelle zanzare, che sono i vettori del plasmodio della malaria, malattia che, nel 2019, ha colpito 229 milioni di persone in tutto il mondo con circa 409mila morti, la maggior parte dei quali nell’Africa subsahariana. Naturalmente anche il Plasmodium malariae si è dato da fare ad acquisire la farmaco-resistenza nelle zone dove la malaria è endemica, per cui attualmente i ceppi ancora sensibili alla clorochina sono presenti solo più nell’America centrale, nei Caraibi e nel Medio Oriente, mentre la resistenza all’artemisina è stata osservata per la prima volta nel Sud Est asiatico nel 2008 e, da allora, si è diffusa in tutta la regione ed ha raggiunto l’India.

Oltre alla malaria, le zanzare sono responsabili anche della diffusione di altre gravissime infezioni come la febbre gialla, la chikungunya, la filariosi e la più recente zika. Da quanto abbiamo visto, risulta evidente che i molteplici agenti patogeni contrastati per decenni grazie alla scoperta e alla produzione di diverse classi di antimicrobici stanno riuscendo poco per volta ad aggirare l’ostacolo tornando a rappresentare un serio pericolo.

Rosanna Novara Topino




Se scomparissero (anche) le api

testo di Rosanna Novara Topino |


Le attività umane stanno determinando la sparizione o la riduzione di molte specie viventi (animali e vegetali). Questa perdita (silenziosa) della biodiversità ha conseguenze molto preoccupanti per la nostra vita e per quella del pianeta.

Il surriscaldamento del pianeta (global warming) è quasi ovunque oggetto di attenzione, nonché di iniziative tese a rallentarne l’aggravamento. Questo perché sono già ben visibili gli effetti in termini di alterazioni del clima, sotto forma di alluvioni, uragani, valanghe che lasciano spesso una scia di morte e devastazione. A questi fenomeni si aggiunge lo scioglimento del ghiaccio ai poli, con l’aumento del livello del mare che, in futuro, rappresenterà un serio problema per molte popolazioni costiere e la scomparsa di molti ghiacciai montani, con la conseguente perdita di grandi quantità di acqua dolce. Si parla invece un po’ meno della perdita della biodiversità, probabilmente perché avviene in modo più silenzioso e questo non ci aiuta a renderci conto di quali gravi conseguenze essa comporti per il genere umano. Sicuramente essa eguaglia e probabilmente supera per importanza e urgenza la crisi dovuta ai cambiamenti climatici. Peraltro, i due fenomeni sono strettamente connessi tra loro.

Antropocene e tassi d’estinzione

L’estinzione delle specie è un fenomeno sempre esistito, ma i tassi attuali sono di gran lunga superiori a quelli naturali. Si stima che, dalla comparsa dell’uomo sulla Terra, i tassi di estinzione di uccelli e di mammiferi siano da 100 a 1.000 volte superiori rispetto a prima. Il tasso di estinzione globale per tutte le specie animali e vegetali è circa 10mila volte superiore a quello naturale, e il numero di estinzioni è aumentato soprattutto negli ultimi due secoli nei quali le attività umane hanno causato in molti modi la scomparsa o la riduzione di diverse specie. Secondo gli scienziati, siamo di fronte alla sesta estinzione di massa nella storia della Terra, questa volta per cause antropiche e con proporzioni superiori persino a quella che causò la scomparsa dei dinosauri 65 milioni di anni fa.

Il peso delle attività umane sul pianeta è tale che si parla dell’era geologica attuale come di Antropocene, perché l’essere umano non solo si è adattato all’ambiente, come fanno tutte le specie viventi di successo, ma lo ha modificato a suo favore, a scapito spesso delle altre forme di vita.

Per capire cosa stiamo perdendo, è necessario soffermarsi un attimo su cosa sia la biodiversità. Questo concetto comprende ogni manifestazione della vita, a tutti i livelli di organizzazione biologica. Si va dal livello molecolare a quello del patrimonio genetico, dalle specie alle comunità biologiche, quindi la biodiversità è una componente essenziale dell’ambiente naturale nel quale è comparsa e si è evoluta anche la specie umana. Gli esseri umani hanno bisogno della biodiversità per la loro sopravvivenza e ne fanno parte. La biodiversità è l’insieme dei patrimoni genetici e delle conoscenze apprese dalle specie nei loro processi evolutivi che da milioni di anni permettono loro di sopravvivere e adattarsi a condizioni ambientali estremamente variabili.

L’attuale ecatombe di api nel mondo è una questione di enorme rilevanza. Foto Gaëtan Bussy – Pixabay.

I benefici della biodiversità

I vantaggi della salvaguardia della biodiversità sono molteplici. In primo luogo essa garantisce la qualità della vita delle future generazioni per il suo valore economico, attraverso lo sfruttamento delle risorse naturali. C’è poi il suo valore scientifico, che si traduce nella conoscenza e nella conservazione delle specie. Non meno importanti sono i valori estetico, ricreativo, culturale e spirituale. La biodiversità, infine, svolge un’azione regolatrice fondamentale dei cicli biogeochimici della terra, stabilizzando il clima, regolando i deflussi delle acque e rinnovando il suolo. In pratica, la biodiversità è per il pianeta quello che per noi è il sistema immunitario.

Se veniamo aggrediti da agenti patogeni, il nostro sistema immunitario, alla base del quale sta un’enorme variabilità legata al patrimonio genetico, è in grado di scegliere, tra infinite possibilità, il tipo di anticorpo più adatto a neutralizzare il patogeno di turno. La variabilità anticorpale, tra l’altro, risulta inferiore nei legami tra consanguinei, perché il patrimonio genetico dei loro figli è impoverito, cioè presenta meno diversità.

La stessa cosa avviene con la biodiversità. È la differenziazione tra le specie, che assicura ad un ecosistema equilibrio e capacità di rispondere ai parassiti. Le monocolture, ad esempio, sono quasi sempre tendenti ad essere aggredite da parassiti, e possono essere mantenute solo dall’intervento dell’uomo con l’uso di pesticidi, di erbicidi e di fitofarmaci.

In un ecosistema naturale esiste, invece, un equilibrio tra parassiti e predatori naturali, come uccelli, vespe, ragni, mosche e funghi, che con la loro azione antagonista riducono la vulnerabilità delle singole specie. Da questo si capisce che è indispensabile mantenere una grande variabilità genetica a livello di popolazione per conservare le specie e, più in generale, gli ecosistemi.

Una pluralità di cause

Quali sono le cause principali dell’estinzione delle specie e quindi della perdita della biodiversità? Sicuramente una delle principali cause è la sostituzione degli ecosistemi naturali con agroecosistemi o con ecosistemi urbani. Altre cause molto importanti sono il bracconaggio, la pesca intensiva, le pratiche agricole intensive con l’uso di pesticidi, erbicidi e fitofarmaci, l’introduzione di specie esotiche in contesti a loro estranei, con conseguente diffusione di agenti patogeni, la frammentazione degli habitat naturali, l’inquinamento del suolo, dell’acqua e dell’atmosfera. Molto spesso più fattori agiscono simultaneamente nella riduzione della biodiversità.

Talvolta le alterazioni ambientali prodotte localmente hanno conseguenze su scala continentale. Possiamo pensare alla plastica dispersa in acqua nei fiumi e nei mari di tutto il mondo, soprattutto laddove si trovano grandi insediamenti urbani. Essa si frammenta in microplastiche e viene ritrovata nelle acque artiche e antartiche, anche dove non esistono villaggi, oppure alle piogge acide, che inquinano i grandi laghi del Nord America e dell’Europa continentale e settentrionale e che prendono origine dalle emissioni atmosferiche prodotte a migliaia di chilometri di distanza.

A causa dell’acidificazione delle acque, è stato calcolato che sono scomparse più di 200mila popolazioni di pesci e un milione di popolazioni di invertebrati (dove per «popolazione» si intende l’insieme degli organismi di una data specie in un dato luogo).

Non solo api. Anche altri insetti impollinatori sono a rischio estinzione. Foto David Hablützel – Pixabay.

La deforestazione e l’Amazzonia

Per quanto riguarda la sottrazione di habitat, basta pensare che, secondo il Wwf, negli ultimi trent’anni sono stati deforestati 420 milioni di ettari di terreno, cioè una superficie equivalente a quella dell’Unione europea, la maggior parte dei quali in zone tropicali. Mediamente, ogni anno vanno persi almeno 10 milioni di ettari di foreste, che vengono convertiti in terreni agricoli. Nel solo 2018 sono andati persi 3,6 milioni di foresta pluviale primaria, una superficie grande quanto il Belgio. Le foreste pluviali primarie sono le più vecchie, mai modificate finora dall’attività antropica. Hanno un ruolo fondamentale sia nella preservazione della biodiversità, sia nella limitazione delle emissioni di gas climalteranti.

Le foreste tropicali rappresentano inoltre la più grande farmacia del pianeta. La deforestazione comporta quindi la perdita di specie sia vegetali, che animali, che potrebbero tornare molto utili per le sostanze in esse presenti, soprattutto in campo farmaceutico.

Solo in Amazzonia, che ha un’estensione di 6,7 milioni di chilometri quadrati, tra il 1988 e il 2017 sono stati persi ogni anno mediamente 12mila chilometri quadrati con dei picchi fino a 28mila. La tecnica maggiormente usata in questa regione per deforestare ed espandere le aree destinate a coltivazioni, allevamenti ed estrazioni minerarie è l’utilizzo del fuoco. Nel 2018 sono stati contati circa 73mila roghi.

Se non si interviene urgentemente, il terreno bruciato va incontro a dilavamento, erosione e desertificazione, amplificando i rischi prodotti dai cambiamenti climatici. Si calcola che, se si perdesse tutta l’Amazzonia, andrebbe perso il 10% di tutta la biodiversità mondiale, oltre all’habitat per 34 milioni di persone. Se poi consideriamo che le foreste assorbono globalmente 2,4 miliardi di tonnellate di carbonio all’anno e l’Amazzonia vi contribuisce per un quarto, è evidente che essa rappresenta uno dei pilastri fondamentali dell’equilibrio climatico terrestre.

Biodiversità e fame (il caso del grano)

La perdita di biodiversità significa anche aumento della fame nel mondo, insorgenza di intolleranze alimentari e perdita di molecole utilizzabili a scopo farmaceutico.

La biodiversità può aiutare a contrastare la fame nel mondo, perché la disponibilità di diverse specie utilizzabili a scopo alimentare è senz’altro più sicura dei prodotti delle monocolture e degli allevamenti intensivi, che più facilmente possono soccombere all’aggressione di agenti patogeni o alle avversità climatiche, essendo caratterizzate da una minore variabilità genetica, rispetto alle specie selvatiche.

Recenti studi hanno portato alla conclusione che l’aumento dell’intolleranza al glutine potrebbe derivare dall’uso diffuso, che si fa attualmente, di sole quattro varietà di grano per la panificazione e la produzione di pasta, con il quasi totale abbandono delle antiche varietà. Le varietà di grano usate fino alla metà del secolo scorso erano circa una cinquantina, ma con l’avvento dell’agricoltura meccanizzata e l’introduzione delle monocolture è stata data la preferenza alle specie selezionate successivamente agli anni Settanta, con un’altezza ottimale per l’uso della mietitrebbia e dalla maggiore resa. Questo ha però comportato una disassuefazione del nostro organismo alle diverse varietà di grano e quindi di glutine, con conseguente possibile insorgenza dell’intolleranza. Inoltre, i grani antichi presentano un tipo di glutine con una diversa struttura e più facilmente assimilabile, rispetto a quello delle cultivar moderne.

Formare una coscienza collettiva

Come fare quindi a difendere la biodiversità? Oltre alle azioni intraprese a livello internazionale dai vari governi, o a quelle di organizzazioni come il Wwf o Greenpeace, oltre alla realizzazione di strumenti di difesa della natura come i bioparchi e di conoscenza come gli ecomusei, è indispensabile una continua informazione ed educazione della popolazione, e dei giovani in particolare, attraverso la scuola e i media, per creare una coscienza collettiva capace di rendersi conto delle gravi conseguenze che la distruzione dell’ambiente ha sul genere umano.

Rosanna Novara Topino

Coltivazioni estensive e utilizzo dei pesticidi stanno distruggendo la biodiversità. Foto Erich Westendarp – Pixabay.

I numeri

A rischio estinzione

Secondo un rapporto congiunto del Wwf e della Zoological Society of London del 2016, tra il 1970 e il 2012, le popolazioni di animali selvatici al mondo si sono dimezzate. Secondo la «lista rossa» dello Iunc (Unione internazionale per la conservazione della natura) sono minacciati di estinzione:

  • ●︎ 1.199 specie di mammiferi (il 26% delle specie conosciute);
  • ● 1.957 di anfibi (41%);
  • ● 1.373 di uccelli (13%);
  • ● 993 di insetti (0,5%).

Sicuramente queste stime sono per difetto, perché la nostra conoscenza del numero reale delle specie viventi è alquanto approssimativa.
Basta pensare che, alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso, si sospettava che una percentuale compresa tra l’83 e il 98% di specie fosse ancora da scoprire. Questo significa che, con le nostre attività, portiamo all’estinzione specie di cui non siamo nemmeno a conoscenza, soprattutto per quanto riguarda le specie che vivono ai tropici (si stima che il loro numero sia compreso fra 3 e 30 milioni).
Attualmente in tutto il pianeta sono state descritte 1.371.500 specie animali, ma si pensa che il loro numero possa variare tra 2 e 11 milioni. I funghi conosciuti sono circa 100mila, ma il loro numero dovrebbe essere compreso tra 600mila e 10 milioni di specie. Le piante conosciute sono 307.700, ma il loro numero potrebbe essere di 450mila specie. Dei batteri probabilmente conosciamo solo l’1%. Ciò che sappiamo per certo è che ogni specie vivente rappresenta un tassello indispensabile dell’ecosistema in cui vive e la sua perdita porta senz’altro all’alterazione di un equilibrio tra esseri viventi.

RTN

Le cause della moria

I nemici delle api

Primavera © Gigi Anataloni

La moria delle api è un esempio di forte riduzione di popolazione all’interno di una specie. Essa è dovuta all’azione di varie concause, tra cui sicuramente l’uso di pesticidi, la presenza di agenti patogeni e l’introduzione di specie aliene. Il fenomeno preoccupa fortemente dagli anni 2000, quando si è iniziata a registrare una vera e propria sparizione di intere colonie. Il fatto però è antecedente a quegli anni, poiché in Usa tra il 1947 e il 2005 è andato perso il 59% delle colonie di api, mentre in Europa tra il 1985 e il 2005 il 25%. Ci sono ben 29 agenti patogeni che attaccano le api, il principale dei quali è il Varroa destructor, un acaro parassita dell’Apis mellifera e dell’Apis cerana, ma una grande responsabilità per la moria è dei pesticidi neonicotinoidi. Oltre a questo è stata introdotta in Europa e in Italia in particolare una specie aliena carnivora, che aggredisce le api durante il loro ritorno all’alveare, cibandosene. Si tratta della Vespa velutina, un calabrone di origine asiatica. Oltre alla riduzione delle api, si calcola che solo in Europa il 9,2% delle 1.965 specie di insetti impollinatori stia per estinguersi, mentre un ulteriore 2,5% potrebbe essere minacciato nel prossimo futuro. Considerando che l’80% delle piante esistenti dipende, per la riproduzione, dall’impollinazione per mezzo di insetti, possiamo capire quale sia la portata di questo fenomeno. È celebre, a tal proposito la frase di Einstein: «Se le api scomparissero dalla Terra, per l’uomo non resterebbero che quattro anni di vita».

RTN




Brasile: incontri ravvicinati


Impressioni scritte all’ombra dei grandi alberi della foresta (Mata) Atlantica del Brasile nei momenti di pausa dal lavoro di ricerca. Le «Riserve della foresta atlantica» sono un insieme di otto aree protette a cavallo degli stati brasiliani di Bahia ed Espírito Santo, che si sviluppano su un’area di circa 112.000 ettari.

Sembra il ronzio di un grosso calabrone. Mi vola attorno. Ora l’ho dietro le spalle. Mi giro con cautela per non spaventarlo. È lì, fermo, a mezz’aria, che mi guarda incuriosito, quasi a chiedersi come mai questa grossa scimmia visiti i fiori come lui. Le ali non si vedono, troppo veloci per l’occhio umano. Pare un modellino di seta sospeso nel vuoto, retto da fili invisibili. In un attimo, il colibrì scarta a destra e poi in basso, veloce come un ufo, poi di nuovo a sinistra e in alto, nervoso, frenetico, elettrico. Sembra grigio, ma i raggi tangenti del sole riflettono colori iridescenti, metallici, stupendi. Ora pare verde, poi blu, poi rosso scarlatto per ritornare grigio in penombra. Rizza le penne del collo che sembrano una ghirlanda. Una visione troppo fugace, il tempo di visitare un paio di fiori con la sua lingua lunga e sottile come un filo di sarta e poi, sempre di scatto, svanisce rumorosamente nel nulla tra le liane, le orchidee, le bromelie (foto 1).

Puma concolor (Foto Richard)
2. Puma concolor (Foto Richard)

Ieri sera finalmente è piovuto. Un bel temporale durato un paio di ore. Si sono mostrati rospi e rane, ma lo spettacolo più bello l’hanno offerto le scimmie urlatrici. Non si vedono che raramente, e quest’anno non si erano ancora fatte sentire col loro ruggito possente. Alle prime gocce di pioggia hanno iniziato all’unisono. Tutta la foresta echeggiava dei loro versi impressionanti, udibili a chilometri di distanza, ad esteare tutta la loro felicità. Pareva di essere circondati da un esercito di giaguari. Indimenticabile. Ieri è arrivato nella stazione un altro ricercatore, si chiama Richard, gestisce trappole fotografiche. Ne avevo viste un paio disseminate in foresta. Gli ho chiesto di vedere le foto scattate. Sono il frutto di otto trappole che hanno funzionato per tre mesi circa. Scattano la foto quando i loro sensori intercettano gli animali. Tra questi naturalmente figuro anch’io, ma ciò che mi impressiona è che prima o dopo il mio passaggio la camera registra tapiri, jaguarundi, ocelot e diversi puma. Anche in pieno giorno! E pensare che ero convinto di essere il solo in giro in quel pezzo di foresta dove non pareva esserci traccia di grandi mammiferi. Evidentemente mi osservavano passare ogni giorno, nascosti tra i cespugli, a pochi passi dal sentirnero.

Richard, gentilissimo, mi ha lasciato le foto più belle. C’erano anche tanti uccelli, specialmente peici e tacchini, ma non ho osato chiedere troppo
(foto 2, il passaggio del puma).

carcarà (Foto Curletti)
3. carcarà (Foto Curletti)

Doveva succedere. Un disastro nella nostra modesta cucina: uova rotte e mangiate, macchinetta del caffè rovesciata, pane sbocconcellato, zucchero sparso ovunque, frutta parzialmente distrutta, piatti e bicchieri rotti a terra… Neppure il sacchetto dei rifiuti è stato risparmiato. È bastato dimenticare la finestra aperta perché quel furbone di carcarà ne approfittasse per saccheggiare le nostre scorte. Mezzo falco e mezzo avvoltornio, si atteggiava a gallina e con aria innocente si aggirava nel cortile proprio come un pollo domestico. Sembrava un amico confidente e invece ci teneva d’occhio studiando i nostri movimenti e la buona occasione per farci fessi. Ora l’ha appena trovata. Eppure avrei dovuto capirlo che il suo atteggiamento soione ci riservava qualche brutta sorpresa. Con quel cappuccio nero sopra il capo color caffellatte ha proprio l’aspetto di un mafioso con tanto di coppola in testa. Anche la sua andatura impettita è da guappo. Ora è sul tetto che ci guarda soddisfatto, pancia piena alla faccia nostra, parrebbe quasi che col suo sguardo acuto e tagliente come una lama voglia prenderci in giro. Che fare? Vedendo il disastro i miei colleghi brasiliani, col loro 3. carattere gioviale, l’hanno presa a ridere: ma che bravo il nostro ladro! E non ci è restato che pulire e mettere ordine…

È passata più di una settimana dal fattaccio e mentre prima era onnipresente, il carcarà non si è più visto. Potrà sembrare strano, ma mi sa che si è reso conto d’averla combinata grossa e si tiene alla larga per paura di rappresaglie. Mica stupido il nostro «giocondor»… (foto 3).

tegù (Foto Curletti)
4. tegù (Foto Curletti)

Mi passa davanti con aria indifferente e quasi indolente, ma so che mi controlla ed è pronto alla fuga al minimo cenno di reazione. Con l’andatura da star di musica rap, muove il corpo come una sciantosa, oscilla a destra e a sinistra alzando le zampe alternativamente, la lunga coda inerme ad anelli chiari e scuri, la piatta lingua biforcuta in eterno movimento alla ricerca di odori e di sapori. Ma chi ha detto che i dinosauri sono estinti? Eccolo qui, un bellissimo esemplare di tegù, il più grande dei sauri terrestri brasiliani. Ormai mi conosce, abbiamo un tacito appuntamento giornaliero, io alla ricerca di un po’ d’ombra nella calura del tardo mattino, lui alla ricerca di sole che lo riscaldi. Puntualissimo esce dal suo buco nelle giornate calde, controlla il terreno circostante ed attende paziente l’uscita della compagna. Lei è più piccola e diffidente, lui invece sa di potersi fidare e mi passa a mezzo metro di distanza, quasi con aria di sfida. Sfida che raccolgo con il mio obiettivo fotografico. Il suo ritratto mi riempirà il cuore di nostalgia al ritorno nel freddo inverno europeo (foto 4).

anuro in bromelia (Foto Curletti)
5. anuro in bromelia (Foto Curletti)

Il buio arriva presto in foresta e lei lo saluta, puntuale. Un trillo lungo, intenso, cristallino. Pochi istanti e poi torna nel silenzio della sua solitudine. L’ho cercata per tre notti di seguito e infine l’ho trovata. La bromelia è aggrappata al tronco di un grosso albero e il suo fiore rosso ricorda il pennacchio del cappello di un carabiniere in uniforme. Lei se ne sta nascosta nel suo interno, nell’occhio formato dalla corona circolare delle foglie caose che conserva l’umidità della pioggia. Mi fissa con i suoi grandi occhi rossi inespressivi, rannicchiata e immobile, sperando di non essere vista. Colore verde pallido, ventre più pallido ancora, piccolissima, con tondi pallini prensili sulle lunghe dita. La raganella se ne sta lì nel profondo pozzo della sua bromelia, al sicuro. Vorrebbe vedere la luna ma per paura si accontenta di vederla passare per pochi momenti dalla rotonda finestra aperta verso il cielo del suo rifugio. Poi rimane al buio, solitaria, nell’attesa che il suo richiamo venga inteso da un compagno (foto 5).

 

Per lui la morte ha le ali violette in continuo vibrato movimento. No, non ha la falce ma una sottile siringa paralizzante. Antenne gialle, corpo nero allungato stretto in un vitino da vespa, agile e nervoso. Ormai paralizzato, si lascia trascinare impotente. Lo sfecide l’ha appena ghermito e lui, la migale, grosso ragno con zanne terrificanti, terrore dei piccoli vertebrati, è ormai rassegnato ad essere dato in pasto alla prole, divorato poco alla volta ma pur sempre vivo, per conservare più a lungo possibile i succhi biologici di cui i neonati del predatore hanno bisogno. È lì, impotente, in balia del suo aggressore nonostante il potenziale offensivo, col veleno in grado di uccidere uccelli e piccoli mammiferi. Non posso frenare un moto di compassione. Chissà se è cosciente che lo attende una morte terribile, lunga, forse dolorosa, ma sicuramente da incubo nel vedere ogni giorno le larve del suo carnefice avvicinarsi per mangiarlo poco alla volta.

Sfecide
sfecide con la preda (Foto Curletti)

Insetti che predano ragni, non solo il contrario. Qual è il significato? Quale stato d’animo regna tra gli abitanti della foresta? L’amore? No, quello lo lascio ai film disneyani. Pur essendo un sentimento fondamentale, importantissimo per la sopravvivenza della specie, l’amore ha durata limitata e prima o poi finisce. Quello invece che accompagna dalla nascita alla morte è la paura. Paura. Quella non abbandona mai, è la compagna che permette la salvezza dell’individuo. Paura di essere parassitato, assalito, divorato, sbranato. Coinvolge tutti, dal giaguaro al tapiro, dal tamanduà all’agutì, dalla scimmia al bradipo, dalla formica alla vespa, dal lombrico alla lumaca. Non esiste il predatore assoluto, ogni specie, uomo compreso, ha i suoi nemici. Quanta verità in una frase di Tennyson che riassume perfettamente il pensiero: «Nature, red in tooth and claw», natura, denti e artigli insanguinati. È questa la legge, piaccia oppure no. Appare troppo evidente a chi sa interpretare il grande libro della giungla. E che Kipling mi perdoni… (foto 6).

 piroforo (Foto Curletti)
7. piroforo (Foto Curletti)

Dopo la pioggia ecco i vagalumen. Così i brasiliani chiamano i pirofori, grossi coleotteri elateridi che si attivano al calar delle tenebre. Producono luce come le nostre lucciole, ma al contrario di queste hanno luce costante e più potente: si narra che i vecchi esploratori li mettessero in gabbiette per poter leggere e scrivere la notte. Bastavano una ventina di esemplari. Hanno due punti luminosi ai lati del pronoto, dietro il capo. Alcune specie ne hanno un terzo più piccolo sulla parte inferiore dell’addome, tipo fanalino di coda. Sono esseri timidi e frugali: di giorno si vedono raramente, si accontentano della linfa che sgorga dalle ferite di qualche albero. Sono neri o bruni, poco vistosi, ma quando cala la notte mostrano tutto il loro luminoso splendore. Al buio sono uno spettacolo. I rami brillano della loro luce, giganteschi alberi di natale accompagnati dai canti dei grilli e delle cicale invece che da jingle bells. Foresta magica, non sempre terribilmente inospitale (foto 7).

Eciton formiche legionarie (Foto Curletti)
8. Eciton formiche legionarie (Foto Curletti)

Sono due colonne lunghe centinaia di metri di cui non riesco a vedere gli estremi, che si perdono nell’intrico della foresta. Due semplici colonne di formiche ma quanta differenza. Le prime frenetiche, febbrili, velocissime, aggressive, voraci; i soldati dalle enormi mandibole e dal colore avorio che si mescolano alle nere operaie indaffarate a predare le larve e le pupe di un altro formicaio per fae degli schiavi. Questi, per imprinting, lavoreranno inconsapevolmente per gli assassini della loro tribù, magari aiutandoli a depredare altri formicai fratelli. Sono dei nomadi, non hanno nido, si accampano randagi attorno alla loro regina. Milioni di agguerriti individui caivori, terrore della foresta. Provo a fermare un’operaia per verificare il bottino, una pupa in metamorfosi. Con una velocità impressionante sono subito aggredito da tre soldati. Sono stati fulminei, ben più della velocità della mia mano. Evidentemente mi tenevano d’occhio. La puntura è molto dolorosa e devo desistere. Le chiamano formiche legionarie, per gli entomologi Eciton, probabilmente proprio per la loro febbrile attività. Non le ferma nessuno, tutti gli animali della foresta indietreggiano al loro arrivo, guadano fiumi formando ponti di individui, attraversano laghi con zattere viventi formate da stornici volontari pronti ad annegare per la loro regina e per la colonia.

Atta formiche tagliatrici di foglie (Foto Curletti)
9. Atta formiche tagliatrici di foglie (Foto Curletti)

La seconda colonna è ben più lenta, compassata. Le operaie con sforzi immani portano tenacemente pezzi di foglia che altre sorelle hanno tagliato con le possenti mandibole, andando controvento e facendosi a volte sollevare per effetto vela, ma senza mollare il bottino. I soldati controllano e vigilano immobili ai lati della lunga fila, pronti a sacrificarsi per difenderle. Sono vegetariane le Atta, fatto inconsueto per il mondo delle formiche. La cosa curiosa è che oltre ad essere vegetariane sono anche degli agricoltori. Le foglie infatti non sono mangiate, ma ammassate all’interno del formicaio per fae concime su cui crescerà un fungo particolare che è il loro esclusivo alimento. Alle prime piogge le future regine sciameranno a migliaia, sono enormi, molto più dei loro sudditi. Verranno quasi tutte divorate dai predatori, uomo compreso, che ne apprezzano le cai grasse succulente. Feroci le prime, più tranquille e perseguitate le seconde. Che sia un caso? (foto 8 di Eciton e 9 di Atta).

Gianfranco Curletti*

* L’autore è l’entomologo del Museo di Storia Naturale di Carmagnola (To). Ha al suo attivo numerose spedizioni scientifiche nei vari continenti, anche se le sue ricerche lo hanno portato principalmente nell’Africa subsahariana. Autore di oltre un centinaio di pubblicazioni specialistiche, non disdegna la divulgazione. Suo il libro «Matto per gli Insetti», edito da Blu ed. di Torino. Collabora da anni con il Museo della Consolata di Torino, e con i missionari in Tanzania, Mozambico e Kenya ha condiviso conoscenze, studi, sudori e cibo.