Niger. Creatività al lavoro


Vi ricordate le start up di giovani nigerini di cui avevamo scritto nel marzo 2023? Avevamo incontrato alcuni protagonisti del progetto «Obiettivo lavoro», gestito da due Ong italiane. Le attività sono terminate e li abbiamo contattati per sapere come è andata.

Abbiamo parlato in video chiamata con il coordinatore del progetto Obiettivo lavoro, gestito dalla Ong Cisv in partenariato con Africa 70. Le attività, iniziate a fine 2020, consistevano nell’aiuto a start up di giovani imprenditori e a cooperative.

Moussa Arohalassi Halidou, dottorato in nutrizione, con oltre tredici anni di esperienza nel campo dello sviluppo, pare soddisfatto: «È un progetto fuori dal comune, rispetto a quelli che si trovano oggi in Niger. Gli iniziatori delle micro imprese e i membri delle cooperative sono stati responsabilizzati rispetto all’uso dei fondi, sia per gli investimenti iniziali che per le attività. Sono stati loro a studiare e proporre gli investimenti da fare. Noi, équipe di progetto, abbiamo verificato la fattibilità delle loro idee».

Responsabili della gestione finanziaria, dunque, ma anche della scelta dei fornitori e del rapporto con i clienti.

Soddisfazioni

Per quanto riguarda le micro imprese, l’équipe di progetto ha fatto una selezione delle 36 migliori idee di start up, su circa 500 domande ricevute. È stato quindi dato un appoggio formativo nelle materie della gestione d’impresa e dell’amministrazione. Ogni start up ha poi ottenuto un pacchetto di fondi (tra i 5 e i 6mila euro) per gli investimenti iniziali, ricevuti a rate dopo aver presentato un pano aziendale soggetto ad approvazione.

Quindi, l’équipe del progetto è rimasta al fianco di imprenditrici e imprenditori in una forma permanente di tutoraggio. «Noi siamo stati lì a verificare quello che le micro imprese facevano, per orientarle e dare consigli», continua Moussa, soddisfatto dei risultati. «Il progetto Obiettivo lavoro ha permesso a molte micro imprese di partire. Non esistevano, e il progetto le ha accompagnate a formalizzarsi, e poi a cominciare le loro attività».

Oggi però il progetto è terminato, e il tempo di accompagnamento è scaduto: «Avere a disposizione un periodo più lungo per accompagnare le start up aiuterebbe gli imprenditori a ridurre certe difficoltà che devono affrontare per portare le imprese a realizzare un maggiore volume di affari e quindi creare impiego.

Questo è uno degli obiettivi del progetto: creare lavoro per giovani e donne. Lo abbiamo raggiunto con le cooperative, ma non ancora con le micro imprese. Ogni start up dovrebbe creare dai due ai tre posti. Purtroppo, a fine progetto, non c’erano ancora questi numeri. È qualcosa che si vede sul medio lungo termine: quando una micro impresa decollerà, allora assumerà personale».

Micro impresa Niger Shine lady’s, serviette higiènique. La fondatrice Leila Pierre Barry, insieme al sarto. foto Idrissa Cherakau.

Difficoltà

Ma le difficoltà non sono mancate, come ricorda il coordinatore. A partire dal colpo di Stato del 26 luglio dello scorso anno (cfr MCnotizie. Niger. Colpo di stato: i militari padroni del Sahel), e dalle conseguenti sanzioni imposte dalla Cedeao (Comunità economica degli stati dell’Africa occidentale) che hanno bloccato il sistema finanziario nigerino. Ricorda Moussa: «Le sanzioni internazionali hanno reso più complesso l’arrivo dei fondi dall’Italia, ma anche i versamenti delle rate alle singole micro imprese, che poi dovevano realizzare, esse stesse, gli investimenti, ad esempio per l’acquisto di macchinari o di materiali. Tutto questo ha complicato il programma».

Inoltre, occorre ricordare che in tutta l’area del Sahel, imperversano diversi gruppi armati jihadisti, rendendo insicuri vasti territori. «Il Paese non è totalmente stabile e ci sono zone nelle quali sono frequenti gli attacchi da parte di gruppi armati. Le cooperative e le micro imprese nella regione di Tillaberi hanno avuto questo problema, mentre quelle nella capitale Niamey e a Zinder non sono state toccate».

Gli chiediamo come hanno proceduto: «Le nostre équipe non potevano visitare i partner, seguirli e dare loro consigli perché era troppo pericoloso. Per i momenti di formazione e le riunioni facevamo venire i responsabili a Niamey. Inoltre, in alcune zone, le strutture esistenti, come uffici e magazzini, sono state saccheggiate dai gruppi armati. Tutto questo ha penalizzato le start up di quell’area».

Niger Shine Lady’s

Dopo aver sentito Moussa, abbiamo contattato alcuni imprenditori che sono riusciti a partire.

Lei si chiama Leila Barry, e si definisce imprenditrice sociale. Ha 34 anni ed è laureata in comunicazione d’impresa all’Università di Niamey. Ha un buon lavoro nel settore amministrativo, ma non le bastava. «L’idea della creazione della micro impresa Niger shine lady’s mi è venuta perché facevo borse e scarpe in cuoio e desideravo formare alcune ragazze del mio quartiere a produrle perché diventassero autonome sul piano economico. Dopo alcuni anni, quando ero capo progetto per una Ong internazionale che si occupava della salute delle donne, ho notato che le ragazze più povere avevano difficoltà a procurarsi gli assorbenti. Allora mi è venuta l’idea di insegnare loro la confezione di assorbenti igienici riutilizzabili».

Leila ha iniziato con l’ideazione del prodotto, ha poi realizzato qualche piccolo investimento con i propri fondi: «Pensavo ai bisogni delle ragazze che stavo seguendo». In seguito, il progetto le ha permesso di acquisire le macchine da cucire elettriche e le competenze in gestione.

Leila continua appassionata: «Gli obiettivi della mia micro impresa inizialmente erano la confezione di assorbenti riutilizzabili ma anche la fornitura di servizi associati per le ragazze in difficoltà, in tutto il Paese. In secondo luogo, avevo l’idea di creare qualche posto di lavoro, indispensabile per il funzionamento dell’attività. Ovviamente con una gestione rigorosa, per raggiungere la sostenibilità economica nel tempo. Ma sempre con grande attenzione agli aspetti sociali e ambientali».

Leila racconta che ci sono state anche difficoltà di tipo culturale, in quanto il tema è ancora considerato tabù dalla maggior parte della gente in Niger. Oggi però l’impresa funziona e oltre lei vi lavorano la sua assistente, un sarto e un guardiano.

Micro impresa Terre d’Adam. Produzione di materiale da costruzione, compresi mattoni di terra compressa autobloccanti. Formazioni sulla posa dei mattoni. Fondatore Ismael Hassane Adamou. (Foto Idrissa Cherakau)

Terra di Adamo

Ismael Hassane Adamou è un ingegnere nigerino di 32 anni. È a capo di un laboratorio che fa test sui materiali dell’edilizia. Qualche tempo fa, ha avuto un’idea: «Si può avere un terreno a Niamey, ma costruire una casa è piuttosto complicato. Allora ho pensato a un’alternativa al mattone in cemento, economica e pure più adattata al nostro clima. Ho scoperto un tipo di mattone di terra compattata con una particolare forma a incastro, che mette insieme economicità e un maggior confort all’interno della casa».

Si tratta di mattoni fabbricati con speciali presse, che compattano ad alta pressione una miscela di terra lateritica (molto diffusa in Niger) con una percentuale di cemento.

Ismael: «Ho chiamato la mia impresa Terre d’Adam (Terra di Adamo). L’obiettivo principale è quello di diffondere la costruzione con la terra, in quanto i suoi vantaggi sono innegabili e, in seconda battuta, di aiutare a risolvere la crisi di alloggi che c’è a Niamey. Oggi, infatti, in questa città è molto complicato trovare una casa in affitto o in acquisto ben costruita.

Questi mattoni sono economici perché usano meno cemento di quelli normali, ma sono comunque molto solidi. Inoltre, la costruzione avviene più rapidamente grazie alla struttura a incastro. Anche questo fa diminuire i costi complessivi».

Ismael, preparato tecnicamente, ha allargato le sue conoscenze grazie al progetto Obiettivo lavoro: «Ho acquisito alcune competenze cruciali, soprattutto in contabilità e in gestione, che mi hanno permesso di strutturare la micro impresa e renderla redditizia».

La start up produce attualmente tra i 120 e i 200 mattoni al giorno, utilizzando una pressa manuale. «Ma con la pressa semi automatica che stiamo per installare, potremo moltiplicare questo numero per 20», riprende soddisfatto Ismael. «Inoltre – continua -, l’appoggio passo passo di Cisv fino dall’apertura dell’impresa è stato fondamentale, perché mi ha permesso di sentirmi aiutato e seguito in tutto il processo. È stato molto importante per me. Mi sono sentito come in famiglia».

Oggi, la start up, è pronta a mettersi sul mercato. Impiega un responsabile della produzione e tre operai.

Cerimonie e compost

«Mi chiamo Rahamatoulaye Alio Sanda Almou, detta Ramatou, ho 27 anni, sono nigerina e ho studiato farmacia all’Università di Niamey. Quando ero studentessa, mi è venuta l’idea di creare una micro impresa. Ho avuto la possibilità di seguire una formazione in gestione d’impresa, e questo mi ha spinto a creare la mia attività. Ho scelto il settore dei servizi igienico sanitari con l’idea di trasformare i rifiuti organici in concime».

L’idea era buona: «Ma non è stato facile. Volevo creare la mia micro impresa, mi sono subito scontrata con i primi problemi: come finanziarla e quindi realizzarla?». Ramatou ha partecipato ad alcuni concorsi per le idee di start up nazionali e regionali. Ne ha vinto uno, e con i fondi ricevuti ha comprato la prima «toilette mobile» che pensava di affittare agli enti locali, con l’obiettivo di migliorare le condizioni igieniche dei quartieri della capitale ma anche di ottenere concime organico.

«Mi sono scontrata con il problema delle abitudini e degli usi della popolazione. Come portare le persone a utilizzare le toilette?». Nel frattempo, è arrivata la pandemia e tutto si è fermato. «Mi sono detta: devo essere resiliente e riflettere su come rimodulare le attività della micro impresa. Ho quindi orientato l’attività al privato, che mi pareva più recettivo per utilizzare questo servizio. L’idea era quella di fornire servizi a chi organizza eventi privati e cerimonie, come i matrimoni, i battesimi, che coinvolgono molte persone». I servizi si sono ampliati all’affitto di sedie e tendoni per gli eventi, molto utilizzati nel paese.

«Devo dire che la pandemia è stata una difficoltà, ma anche un fattore determinante che mi ha fatto cambiare gli obiettivi della micro impresa. Inoltre mi ha spinta a cercare dei partenariati con progetti come Obiettivo lavoro».

Ramatou ha chiamato la sua start up «Sapta», che in haussa, la lingua più parlata in Niger, significa pulito o pulizia. Selezionata dal progetto di Cisv, ha potuto acquisire le attrezzature che le mancavano. Inoltre, lei e i suoi colleghi, hanno seguito formazioni di marketing, gestione aziendale e contabilità.

Oggi Sapta impiega quattro persone, di cui due permanenti e la altre a cottimo.

Micro impresa Complex Agro. Avicoltura, vendia di uova, uova fecondate, pulcini e incubatrici per uova. Riparazione di incubatrici e formazioni. Oumarou Moumouni Saley è il fondatore. Animali allevati nella micro impresa. Foto Idrissa Cherakau.

Polli che passione

Moumuni Saley ha 31 anni, è sposato e ha una figlia di due anni: «Il mio lavoro è gestire progetti in ambito sanitario, perché ho un master di secondo livello in gestione di progetti e programmi di salute pubblica. Però ho anche alcune certificazioni in fabbricazione di incubatrici per le uova, in orticoltura, in avicoltura moderna e biologica. Inoltre, ho competenze in gestione d’impresa.

La mia idea di micro impresa è nata perché avevo un sogno: creare una fattoria integrata, che comprendesse la piscicoltura, l’orticoltura e l’avicoltura. Era una passione che non avevo potuto seguire con gli studi».

La start up Complex Agro vende polli, pulcini e uova, produce e vende incubatrici, e fornisce assistenza dopo la vendita, consulenze e formazioni.

«Il progetto Obiettivo lavoro mi ha permesso di fare il salto di qualità. Prima facevo tutto questo a casa e in modo informale, in piccole quantità, non avevo i mezzi tecnici e finanziari. Adesso, dopo avere ricevuto tre formazioni sulla gestione d’impresa e una sull’avicoltura biologica, e dopo il finanziamento per le infrastrutture, tecnicamente sono più forte. È come se mi avesse fatto progredire di otto anni di lavoro in uno solo. Sono passato a un livello superiore per realizzare il mio sogno».

Marco Bello, con la collaborazione di Issa Yakouba

 




Privato non è bello


Beni comuni persi dalla comunità a favore dei singoli. Questo sono le privatizzazioni. Anche l’antica Roma distingueva tra ambito «pubblico» e ambito «privato», ma quest’ultimo prese il sopravvento quando, nel Settecento, gli inglesi permisero ai grandi proprietari di recintare le terre collettive.

Capita a molti politici di condannare certe scelte, quando sono all’opposizione, e di perseguirle, quando sono al governo. Uno degli ultimi casi riguarda la presidente del Consiglio Giorgia Meloni che, nel 2018, scriveva sui social: «Poste [italiane] è un gioiello che deve rimanere in mano pubblica». Passata dall’opposizione al governo, in un’intervista televisiva rilasciata nel gennaio 2024 la stessa Meloni cambiava opinione prevedendo la possibilità di procedere a privatizzazioni comprendenti anche Poste italiane. Scelta puntualmente ufficializzata il 26 gennaio 2024 dal Consiglio dei ministri.

«Privatus» versus «publicus»

Da qualche decennio le privatizzazioni sono diventate pratica corrente di tutti i governi, sia quelli di destra che di sinistra, forse perché i margini di differenza fra le due sponde ideologiche si stanno restringendo sempre di più. Nel contempo, però, va precisato che, dietro questa parola, si racchiudono vari concetti, assai diversi fra loro per meccanismi e portata politica.

Da un punto di vista etimologico, privatizzare deriva da privatus, parola che, nell’antica società romana, indicava la condizione dei singoli individui in contrapposizione allo Stato definito publicus. Ma è bene ricordare che, dalla stessa radice, proviene anche il verbo «privare» che significa togliere, sottrarre. E si scopre che, presso gli antichi, il soggetto di riferimento era lo Stato che considerava la «roba» dei singoli come qualcosa che era stato sottratto alla sua potestà.

Una concezione che ritroviamo ancora oggi nel verbo privatizzare che si riferisce ai beni comuni persi dalla comunità a favore di singoli. Un fenomeno che ebbe un grande impulso nell’Inghilterra del Seicento e del Settecento quando il Parlamento autorizzò i grandi proprietari terrieri a recintare le terre che, fino ad allora, avevano lo status di proprietà collettiva (enclosures acts). Un processo tutt’altro che terminato considerato che la collettività continua a essere depredata delle sue proprietà e delle sue attività in nome delle motivazioni più varie.

Lo Stato e le crisi

Per una comprensione più articolata dei processi di privatizzazione è bene tenere a mente che, nel corso del tempo, l’idea di Stato ha avuto profonde modificazioni, con cambiamenti anche nella tipologia dei beni posseduti e delle attività svolte. Per quanto riguarda le proprietà, una categoria di beni tradizionalmente posseduti dagli Stati sono sempre stati quelli naturali: mari, fiumi, laghi, coste. Però, con l’avanzare del modello capitalista, lo Stato si è ritrovato anche proprietario di attività industriali, non per scelta ma come rimedio ai processi di autodistruzione che spontaneamente il capitalismo tende a mettere in atto. Emblematica la grande crisi che investì il mondo industrializzato nel 1929 o quella del 2008 che coinvolse l’intera finanza internazionale. Benché molto diverse fra loro, entrambe hanno avuto in comune il crollo di valori finanziari che mettevano fortemente a rischio il sistema bancario, nei confronti del quale i governi si sono sempre sentiti in dovere di intervenire in caso di cattiva parata. Nel 1929 la crisi riguardò il valore dei titoli azionari, ossia dei titoli attestanti la proprietà delle aziende. Titoli che le banche possedevano a piene mani. Il problema è che, se i titoli crollano, anche le banche vacillano perché risultano impoverite e, nella paura di non poter riprendere ciò che hanno depositato, molti risparmiatori corrono in banca per riprendersi i propri soldi. Ma così facendo trasformano il rischio in realtà perché nessuna banca è in grado di restituire in poco tempo tutti i soldi ricevuti in deposito.

Per il capitalismo il sistema bancario rappresenta la spina dorsale e nessun governo può permettersi di assistere inerme al suo naufragio. Perciò, dopo la crisi del 1929, molti governi si organizzarono per salvare le proprie banche. Ciascuno con il proprio programma. Il governo di Mussolini optò per due strategie: nazionalizzare le banche più traballanti e acquistare i titoli deteriorati posseduti da tutte le altre. A questo scopo, nel 1933 venne creato l’Istituto di ricostruzione industriale (Iri) e lo Stato italiano si trovò maggiore azionista, se non azionista unico, di decine di complessi industriali attivi nei settori chiave del paese: armame-

nti, telecomunicazioni, siderurgia, meccanica. Nelle intenzioni, l’Iri doveva essere liquidato di lì a poco, ma sopravvisse e nel dopoguerra procedette a ulteriori salvataggi divenendo il maggiore gruppo italiano che comprendeva aziende chimiche e meccaniche, siderurgiche e alimentari.

Privato versus pubblico. Foto Wesley Tingey-Unsplash.

Il vento ideologico cambia

Nel trentennio successivo alla seconda guerra mondiale, in tutta Europa dominava un pensiero politico favorevole all’intervento dello Stato in economia. Non a caso in quel periodo, in Italia nacque l’Eni, di totale proprietà pubblica, per l’estrazione di gas e petrolio, mentre l’intero comparto dell’energia elettrica venne portato sotto controllo pubblico tramite l’Enel. Ma, a partire dagli anni Ottanta, il vento ideologico cambiò e anche in Italia ci furono pressioni per spogliare lo Stato delle sue attività produttive. L’annuncio al mondo della finanza venne dato in circostanze carbonare, niente po’ po’ di meno che a bordo di un panfilo di sua Maestà la Regina d’Inghilterra. Era il 2 giugno 1992, festa della Repubblica, quando nel porto di Civitavecchia attraccò lo yacht Britannia per fare salire a bordo vari dirigenti dello Stato italiano, fra cui Mario Draghi, direttore generale della Banca d’Italia. A bordo erano già presenti rappresentanti della finanza londinese pronti ad accogliere la delegazione italiana. Questa, durante una gita che aveva come meta l’isola del Giglio, avrebbe dovuto relazionare sulle prospettive di privatizzazione in Italia. L’evento venne confermato da Mario Draghi nel corso di un’audizione alla Commissione bilancio nel marzo 1993, ma venne descritto come un banale convegno.

Meno imprese pubbliche

Le prime privatizzazioni avvennero nel 1993 e riguardarono alcune imprese alimentari che videro Nestlé come principale acquirente. Più avanti fu la volta dell’attività telefonica, petrolifera, elettrica, automobilistica. Talvolta attraverso la cessione di tutte le quote, come è avvenuto nel caso di Cirio (Iri), talvolta attraverso la cessione di quote parziali come nel caso di Eni, Enel, Poste e varie altre.

L’ultimo rapporto Istat certifica che, nel 2020, le società a partecipazione pubblica sono 7.969, precisando che alcune ricadono in questa categoria perché possedute in tutto o in parte da ministeri, mentre altre vi ricadono perché partecipate da enti locali, o dalla Cassa depositi e prestiti (Cdp), una banca particolare controllata dal ministero dell’Economia. Considerato che, in Italia, le imprese sono 1,6 milioni, le società a partecipazione pubblica rappresentano solo lo 0,5% del totale. Con la prospettiva che continuino a calare, dal momento che, dal 2012 al 2020, hanno registrato una flessione del 25%.

Fino a ora abbiamo valutato le privatizzazioni usando come criterio quello della proprietà. Ma il concetto di privatizzazione ha significati più ampi e comprende anche le finalità dell’impresa. Prendiamo, ad esempio, Ferrovie dello Stato. Da un punto di vista della proprietà è una società pubblica perché posseduta interamente dal ministero dell’Economia. Ma, da un punto di vista delle finalità, è come una qualsiasi società privata perché il suo fine non è il servizio pubblico, ma il profitto. Quando si ha come obiettivo il servizio pubblico si accetta di avere anche dei bilanci in perdita, magari perché ciò serve a mantenere bassi i prezzi dei biglietti o perché serve a tenere aperte anche delle tratte poco frequentate. Se si ha per obiettivo il profitto, si fanno scelte che privilegiano i più facoltosi rinforzando il raccordo ad alta velocità di città importanti, mentre si mantengono in cattivo stato le tratte locali frequentate dai pendolari. Una politica che, purtroppo, non si riscontra solo nell’ambito dei trasporti, ma anche di servizi ancora più essenziali come l’acqua.

Il caso dell’acqua

Prima del 1990 gli acquedotti erano gestiti da aziende municipalizzate, strutture autonome da un punto di vista tecnico operativo, ma un tutt’uno con i Comuni da un punto di vista economico e politico. L’azienda municipalizzata faceva pagare un prezzo per i servizi che forniva, ma l’ammontare era deciso dal consiglio comunale in base a criteri sociali. E se l’incasso non bastava per fare fronte a tutte le spese o agli investimenti da effettuare, provvedeva il Comune  con integrazioni di altra natura. Semplicemente perché l’acqua non era considerata una merce, ma un diritto da tutelare. Nel 1990 questa impostazione cominciò a essere smantellata tramite norme che spostavano la gestione dalle aziende municipalizzate ad aziende pubbliche. Da un punto di vista linguistico la differenza è impercet-

tibile, ma da un punto di vista giuridico la differenza è abissale.

L’azienda pubblica, pur essendo di proprietà del Comune, diventa un corpo a sé stante, una sorta di figlio adulto che deve arrangiarsi da solo. D’ora in avanti non può più ricorrere a mamma Comune: deve coprire tutte le spese da sola con i proventi delle sue vendite. I prezzi li decide lei stessa non più secondo criteri di equità sociale, ma secondo logiche di contabilità di bilancio. Per di più è una Spa, una Società per azioni. Per legge il suo compito è garantire profitti agli azionisti. Un cambiamento totale di prospettiva: la municipalizzata guardava alla gente, la Spa guarda agli azionisti. Potremmo dire «all’azionista» visto che il capitale è del Comune. Ma la Spa ha la caratteristica che le quote si possono vendere, e altri soci possono aggiungersi.

Le leggi che seguirono aprirono l’ingresso ai privati e le multinazionali dell’acqua calarono come cavallette per entrare nelle società pubbliche costituite per gestire gli acquedotti. Tanto per citare i casi più clamorosi, Suez è penetrata in Acea, azienda del Comune di Roma, controllando un pacchetto azionario che oggi è al 23%. Veolia, invece, è stata a lungo in Acqualatina, azienda dei comuni della provincia di Latina, con una quota del 49%, ceduta a Italgas nel luglio 2023. Ma, ad argini rotti, è successo di tutto: la compagine degli azionisti delle società pubbliche si è allargata a banche e affaristi, alcune aziende pubbliche si sono fuse fra loro, altre si sono compenetrate in un groviglio che non permette di capire chi possiede e chi è posseduta. Alcune sono addirittura finite in borsa com’è il caso della romana Acea, dell’emiliana Hera, della lombarda A2A. Acea la ritroviamo addirittura in Honduras a gestire l’acquedotto di San Pedro Sula, come se fosse una multinazionale qualsiasi.

Prima gli azionisti

La motivazione addotta per vendere le società pubbliche ai privati, è stata la necessità di fare soldi per pagare il debito pubblico. I fatti hanno dimostrato che si è trattato di un’operazione inutile perché ha procurato solo gocce rispetto a un oceano. La motivazione addotta per chiudere le municipalizzate e fare gestire i servizi pubblici a società per azioni aperte ai privati è stata l’efficienza. Ma i fatti dimostrano che a guadagnarci sono stati gli azionisti, non i cittadini.

La verità è che i processi di privatizzazione sono figli di un progetto ideologico teso ad affermare la supremazia del mercato sulla logica dei beni comuni e sui diritti dei cittadini. Un processo fortemente promosso dall’Unione europea che ha posto il mercato e la concorrenza a fondamento del proprio ordinamento. Tant’è che condiziona ogni sua concessione all’attuazione di riforme tese a consolidare il processo di mercantilizzazione dell’economia e della società. Lo stesso Pnrr è stato un’occasione utilizzata in questa direzione. Prima o poi i cittadini europei si accorgeranno dell’inganno e pretenderanno un’altra Europa.

Francesco Gesualdi

Privato versus pubblico. Foto Call-me-Fred_Unsplash.




Lavoro, globalizzazione e un salario senza dignità


La competizione esasperata tra multinazionali costringe a ridurre i prezzi di merci e servizi. Per mantenere i profitti, i datori di lavoro diminuiscono i salari. Ecco perché i lavoratori sono sempre più vittime del sistema. In Italia, si stima che gli occupati poveri siano 5,2 milioni.

Da qualche tempo anche in Italia si parla della necessità di istituire il salario minimo legale, una soglia salariale fissata per legge al di sotto della quale nessun rapporto di lavoro può scendere (1). L’esigenza nasce dalla constatazione che ormai anche da noi i rapporti di lavoro sono diventati una giungla dove ognuno fa ciò che vuole. O meglio dove i forti, ossia i datori di lavoro, possono imporre le condizioni che vogliono.

La cronaca riporta casi limite di operai pagati anche due euro l’ora come è stato scoperto presso la Venus Ark, un’impresa di confezioni di Prato, i cui titolari sono stati arrestati per sfruttamento nel settembre 2021. Ma senza arrivare ai casi di totale illegalità, più vicini alla schiavitù che allo sfruttamento, si possono prendere come riferimento le paghe dei rider (2) che, secondo una ricerca della Banca d’Italia del 2018, si aggirano attorno ai 6 euro l’ora.

Sempre meno tutele

In Italia, come nel resto d’Europa, il numero di lavoratori con un alto tasso di tutele si sta assottigliando sempre di più. A cominciare dal tipo di assunzione. Negli anni Ottanta del secolo scorso, l’assunzione abituale era a tempo indeterminato senza possibilità di licenziamento in assenza di giusta causa determinata dalla legge. Tutto ha cominciato a sgretolarsi con la globalizzazione, quel processo avviato negli anni Novanta teso a trasformare il mondo intero in un unico grande mercato nel quale merci e capitali possono spostarsi da una nazione all’altra senza vincoli o limitazioni di sorta. Un traguardo fortemente voluto dalle multinazionali che, per le dimensioni raggiunte, non potevano più accontentarsi di rimanere confinate nelle loro nazioni di origine.

La prima grande vittoria l’hanno ottenuta nel 1995 con l’istituzione dell’Organizzazione mondiale del commercio, una sorta di super governo mondiale che regola i rapporti commerciali fra paesi tenendo conto dei soli interessi delle grandi imprese. Tuttavia, proprio quando la globalizzazione ha cominciato a diventare realtà, le multinazionali hanno scoperto che il grande mercato mondiale che sognavano non esiste. Semplicemente perché le persone capaci di comprare i loro prodotti non vanno oltre il 30-40% della popolazione mondiale. Tutti gli altri sono solo zavorra, persone che a causa della loro povertà non entrano mai in un supermercato.

Così, tante multinazionali (all’incirca un milione) si stanno contendendo un mercato, tutto sommato, limitato che non ha possibilità di espansione immediata. Ne è venuta fuori una concorrenza all’ultimo sangue giocata essenzialmente sulla diminuzione dei prezzi. Ma ogni volta che questi vengono ritoccati, bisogna trovare il modo di ridurre anche i costi di produzione, altrimenti i profitti soffrono. Ecco perché, nell’epoca della globalizzazione, il lavoro è finito sotto assedio. Finché le economie erano organizzate su base nazionale, la via classica di riduzione del costo del lavoro era l’automazione, ma, in un sistema totalmente aperto, le imprese hanno scoperto anche la via della delocalizzazione, il trasferimento delle attività produttive in paesi dove la povertà morde così tanto da rendere i lavoratori disponibili a svolgere le stesse mansioni dei loro colleghi europei o nordamericani per salari anche trenta volte più bassi.

Sono sempre di più i «working poor», i lavoratori senza un salario «vivibile». Foto John R.Perry – Pixabay.

Il lavoro secondo l’Ocse

Nessuno sa quanti posti di lavoro siano stati persi nei paesi di prima industrializzazione, a causa dei trasferimenti produttivi nei paesi a bassi salari. Ma è un fatto che molti settori continuano a perdere addetti. I recenti casi di Gkn e Whirpool in Italia lo testimoniano. Già nel 1994, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), il centro studi dei paesi industrializzati incaricato di elaborare strategie economiche, suonò il campanello d’allarme con la pubblicazione del Jobs study, un rapporto sullo stato dell’occupazione nei paesi industrializzati. Fin dalle prime righe non faceva mistero della gravità del problema: «La disoccupazione è il fenomeno del nostro tempo che mette più paura. Ci sono 35 milioni di disoccupati nei paesi aderenti all’Ocse, mentre altri 15 hanno smesso di cercare lavoro oppure hanno accettato, contro la loro volontà, un lavoro part time. Almeno un terzo dei giovani è senza lavoro». Ma lungi dal voler rimettere in discussione la globalizzazione, la ricetta dell’Ocse si chiamava riforma del lavoro. Il ragionamento era semplice. I paesi di nuova industrializzazione attirano le imprese perché offrono costi di produzione più bassi. Dunque, se vuole fare tornare le imprese in casa propria, il Nord deve creare condizioni altrettanto allettanti. È la legge della competitività, bellezza. Ed ecco i suggerimenti: ridurre le tasse sui profitti, ridurre il peso per oneri sociali, rendere il lavoro più flessibile, ossia più disponibile ad adattarsi alle esigenze della produzione.

Lavoratori vulnerabili

Ancora oggi tutti i governi, siano essi di destra o di sinistra, usano queste misure come stella polare. E per farle digerire ai cittadini, la mettono sempre sul piano del meno peggio: «Preferite essere disoccupati che non guadagnano niente o sottoccupati che almeno 500 euro al mese li prendono?». E ponendoci sempre di fronte al dilemma della sopravvivenza, alla fine ottengono non solo il consenso dei cittadini, ma anche i loro ringraziamenti.

Secondo i calcoli dell’Organizzazione mondiale del lavoro (Oil), i lavoratori «vulnerabili», ossia precari, malpagati e in situazioni a rischio, nel mondo sono quasi un miliardo e mezzo, il 42% di tutti gli occupati. La metà di loro sono definiti working poors, lavoratori poveri, perché percepiscono compensi al di sotto dei tre dollari al giorno, la soglia limite della povertà.

Lavoratori, ma poveri

La novità è che ora i working poors abitano anche fra noi. I loro tratti distintivi sono paghe basse, discontinuità lavorativa, scarse ore di lavoro. A seconda che si prenda in considerazione un solo criterio o la combinazione di più elementi, si ottengono risultati diversi sul numero dei working poors di casa nostra. Prendendo a riferimento la sola  paga oraria, l’Istat preferisce parlare di sperequazione retributiva piuttosto che di povertà. Posta la mediana nazionale a 11,21 euro l’ora, l’Istat definisce a bassa paga chiunque riceva meno di 7,47 euro l’ora, che corrispondono a due terzi della media nazionale. Il Cnel stima che i lavoratori a bassa paga siano oltre tre milioni, il 17,9% di tutti i lavoratori dipendenti, principalmente lavoratori domestici, dell’agricoltura, delle costruzioni. Ma anche della piccola industria considerato che in settori come l’abbigliamento si applicano contratti collettivi di comodo che, per le categorie più basse, prevedono salari orari al di sotto dei 7 euro.

Un caso è rappresentato dal contratto 2015-2018 firmato fra Fedimprese e Snapel per le aziende façon (operanti per conto terzi). Un settore a prevalente presenza femminile che conferma come l’ingiustizia retributiva colpisca soprattutto le donne.

Se moltiplichiamo la paga oraria per le ore lavorate, otteniamo i compensi mensili e annuali che ci danno un’idea più compiuta delle disponibilità monetarie dei lavoratori e quindi della loro condizione economica. Ed è proprio il reddito annuale il parametro utilizzato per stabilire chi sono i lavoratori poveri, ricorrendo ancora una volta al confronto, piuttosto che ai concetti assoluti. Il valore preso a riferimento è il reddito familiare mediano che, in Italia, corrisponde a 25mila euro. Per convenzione, si definisce lavoratore povero chiunque guadagni meno del 60% di tale importo, ossia meno di 15mila euro l’anno. Quanti siano con esattezza è difficile dirlo. Secondo il Cnel (anno 2018) sono 5 milioni e 247mila, il 31% di tutti gli occupati.

Costituzione italiana e dichiarazione

Ora, però, il gioco al ribasso si sta mostrando pericoloso per il sistema stesso, e la politica, da sempre al servizio dell’economia, sta cercando un exit strategy. Ed ecco il salario minimo come via d’uscita, che però è vera soluzione solo se rispetta certi criteri. Altrimenti si trasforma in farsa come succede in molti paesi dove è fissato addirittura sotto la soglia della povertà assoluta. Valgano come esempio Haiti o il Burkina Faso dove esso si trova a meno di 50 centesimi di euro l’ora. E non va certo meglio in alcuni paesi dell’Unione europea, come la Romania dove è fissato a 2,8 euro l’ora o la Bulgaria dove si trova a 2 euro l’ora. Per contro in Germania è fissato a 9,50 euro l’ora, mentre in Lussemburgo varia dai 9,50 euro per gli apprendisti ai 15,27 per gli specializzati. Il punto è che il salario minimo non è un elemento neutro: a seconda di dove viene posizionato avvantaggia i lavoratori o le imprese, riduce le disuguaglianze o le acuisce, colma le lacune sociali o le aggrava. E poiché anche nelle democrazie, il potere è detenuto dalle classi agiate piuttosto che da quelle umili, difficilmente il salario minimo è definito secondo criteri di dignità e rispetto. Piuttosto è concepito come strumento di contenimento dell’esasperazione sociale. Prova ne sia che anche nell’Unione europea l’orientamento dominante è di fissarlo al 60% del salario mediano nazionale che è la linea di confine del lavoro in povertà.

L’alternativa è prendere sul serio l’articolo 36 della Costituzione italiana che recita: «Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa». Affermazione che fa il paio con l’articolo 23 della Dichiarazione universale dei Diritti umani, secondo il quale il lavoratore «ha diritto ad una rimunerazione equa e soddisfacente che assicuri a lui stesso e alla sua famiglia una esistenza conforme alla dignità umana ed integrata, se necessario, da altri mezzi di protezione sociale».

Sono sempre di più i «working poor», i lavoratori senza un salario «vivibile». Foto Brian Odwar – Pixabay.

Il salario «vivibile»

È proprio a partire da questi principi che sta avanzando l’idea di un salario minimo inteso come salario vivibile. Un salario, cioè, che con 40 ore di lavoro settimanale permetta al singolo lavoratore e ai suoi familiari di far fronte ai bisogni di base individuati in cibo, alloggio, vestiario, sanità, energia, trasporti, istruzione. Un conteggio sicuramente non facile perché, oltre alla composizione del nucleo familiare, la vivibilità del salario dipende anche dal tipo di clima in cui si vive, dal livello degli affitti, dalla quantità di servizi gratuiti offerti dallo stato. Tuttavia, alcune organizzazioni, fra cui la Clean clothes campaign, rappresentata in Italia dalla «Campagna abiti puliti», stanno mettendo a punto dei metodi di calcolo di salario vivibile che, pur  nella loro parzialità, offrono buoni livelli di affidabilità.
Per l’Italia i calcoli sono ancora in corso, ma si profilano cifre ben al di sopra degli attuali minimi contrattuali, almeno in alcuni settori. Del resto i contratti non sono il frutto di ciò che è giusto, ma di ciò che è possibile in base alla forza di cui si dispone. E in un momento in cui la forza sindacale è in calo a causa di alti tassi di disoccupazione e di una legislazione accomodante per le imprese, sarebbe estremamente utile per i sindacati poter contare su un salario minimo legale fissato secondo criteri di vivibilità. Non tutti, però, la pensano così, e anzi c’è chi interpreta l’intervento del legislatore   come un’indebita intromissione in un ambito di esclusiva competenza sindacale. E forse hanno ragione, ma nella storia bisogna anche saper rivedere le proprie strategie in base al mutare dei rapporti di forza: dove non possono la morale e l’etica, sono i fallimenti a indicare la strada più giusta da intraprendere.

Francesco Gesualdi

(1) Questo articolo va ad aggiornare «Per un salario dignitoso (nell’era della disoccupazione)», pubblicato su MC a novembre 2019.

(2) Sui riders si legga «Il capitalismo delle piattaforme digitali», MC, luglio 2020.