Non c’è un domani senza biodiversità


Invasione e distruzione degli habitat

L’uomo sta occupando, distruggendoli o modificandoli, gli habitat di molte specie animali. Ciò mette a rischio sia la loro sopravvivenza che l’equilibrio ambientale, favorendo al tempo stesso la diffusione delle malattie di origine zoonotica.

La copertina del «Living planet report 2022» del WWF.

Negli ultimi cinquanta anni, il consumo di risorse legato alle attività umane ha portato a una drastica riduzione di esemplari nelle popolazioni di vertebrati, al punto che si sta ormai parlando di sesta estinzione di massa. Secondo il Living planet report 2022 del Wwf, siamo arrivati a un calo medio, rispetto al 1970, del 69% degli individui nelle popolazioni di specie di vertebrati (mammiferi, uccelli, anfibi, rettili e pesci) analizzate dal Living planet index, che studia quasi 32mila popolazioni di oltre 5mila specie diverse. Questo non significa che abbiamo perso il 69% dei vertebrati terrestri, ma che in media ciascuna specie di vertebrati si è ridotta di questo valore.

Habitat e Occupazione umana

Si stima che, nel 2018, solo un quarto della superficie terrestre disponibile fosse libera dall’impatto umano e che nel 2050 lo sarà soltanto il 10%. L’occupazione del suolo per le molteplici attività umane, dalla produzione di cibo e di energia alla costruzione di infrastrutture e di miniere, porta alla privazione per le specie animali di habitat che sono essenziali per la loro sopravvivenza.

I peggiori trend tra le popolazioni di vertebrati analizzate si ritrovano in America Latina e nella regione dei Caraibi, con un calo medio del 94% dal 1970. Seguono l’Africa con il 66% e la regione dell’Asia-Pacifico con il 55%. In Nord America si è registrato un calo del 20%, mentre in Europa e in Asia centrale del 18%, ma questi dati non sono più confortanti dei precedenti, perché, in queste tre regioni, gran parte della biodiversità era già andata persa nei decenni precedenti. Tra le specie analizzate, quelle di acqua dolce hanno subito la riduzione più drastica, con un declino medio dell’83%. Attualmente tra l’1 e il 2,5% delle specie di vertebrati si è già estinto, mentre le popolazioni rimanenti e la loro diversità genetica sono diminuite notevolmente. In particolare, il 46% degli anfibi, il 25% dei mammiferi e il 13% degli uccelli si stanno avvicinando all’estinzione.

Rettili e temperature

Per quanto riguarda i rettili, finora meno studiati di altre specie, un recente studio apparso su «Nature» e condotto da Neil Cox e Bruce Young (che hanno studiato la situazione conservazionistica di 10.196 specie di rettili) è giunto alla conclusione che un rettile su cinque è a rischio estinzione. Tra i rettili in pericolo maggiore troviamo le tartarughe, con il 58% di specie appartenenti a quest’ordine che rischiano di sparire nei prossimi vent’anni. Seguono coccodrilli e alligatori, di cui il 50% delle specie è a rischio. Tra gli squamati, cioè lucertole e serpenti, sono il 19% le specie a rischio, in particolare gli iguanidi. Le specie che rischiano maggiormente l’estinzione sono quelle che vivono nelle foreste, essendo il loro ecosistema più alterato sia dalla deforestazione che dall’espansione urbana. Questo studio ha anche messo in luce il nesso tra l’aumento della temperatura e il rischio estinzione per i rettili. In molte loro specie, infatti, il sesso è determinato dalla temperatura, per cui un costante rialzo termico rischia di alterare significativamente le proporzioni tra maschi e femmine.

Tuttavia, i resoconti sulle specie minacciate di estinzione non descrivono in modo esaustivo il quadro attuale. Secondo uno studio di Gerardo Ceballos, ecologo dell’Università nazionale autonoma del Messico, un terzo delle specie, che più di tutte si stanno assottigliando, non fa attualmente parte dell’elenco delle specie a rischio. Il 32% delle specie di vertebrati considerate nello studio ha avuto perdite notevoli sia nel numero, che nel range di distribuzione. In particolare tutte le specie di mammiferi studiate hanno subito una riduzione di oltre il 30% del loro habitat, ma più del 40% ne ha perso oltre l’80%. Tali perdite sono ascrivibili a varie cause: il continuo aumento della popolazione umana (con uno sfruttamento eccessivo delle risorse), la distruzione degli habitat naturali, la caccia e la pesca sconsiderate, l’inquinamento conseguente alle attività umane e l’invasione di specie aliene (non autoctone) favorita dall’uomo.

Ecosistemi, specie e specializzazione

Generalmente, quando parliamo di perdita della biodiversità, facciamo riferimento al numero delle specie a rischio in determinate aree. Tuttavia, è sbagliato considerare solo il numero delle specie a rischio perché, all’interno del proprio ecosistema, ogni specie svolge un ruolo dettato dalla sua specializzazione. Se la specie in questione va incontro all’estinzione, la sua specializzazione andrà persa per sempre a meno che tale specie non venga rimpiazzata da un’altra con analoga specializzazione e quindi con simili strategie di sopravvivenza. Poiché in un ecosistema non sempre questo avviene, c’è il rischio della perdita non solo della biodiversità, ma della diversità funzionale. In questo caso, la perdita di una specie non rimpiazzata lascia un vuoto, che può avere gravi ripercussioni su tutte le altre specie animali e vegetali dell’ecosistema, che sarà progressivamente compromesso. Le strategie di conservazione non possono essere, quindi, uguali in tutto il mondo. In altre parole, vi sono aree in cui l’estinzione di una specie non comporta necessariamente l’alterazione dell’ecosistema; al contrario, in altre aree la perdita di una specie insostituibile può portare a un crollo della diversità funzionale e al conseguente sbilanciamento dell’ecosistema. È perciò fondamentale conoscere il ruolo ecologico delle singole specie, in modo da concentrare gli interventi di protezione sulle specie che svolgono un ruolo cruciale nel loro ecosistema. Ad esempio, nella ecozona indo-malese – comprendente l’India, parte della Cina e del Pakistan e una serie di isole dell’Oceano Indiano tra cui Taiwan e le Filippine – ci sono specie di mammiferi e di uccelli la cui estinzione comporterebbe un calo di oltre il 20% della diversità funzionale. In Europa, invece, la diversità funzionale crollerebbe del 30% se si arrivasse all’estinzione di determinate specie di rettili, di anfibi e di pesci d’acqua dolce.

Un esemplare di camaleonte. Foto AQagraphy – Pixabay.

La situazione Italiana

In Italia sono piuttosto numerose le specie a rischio di estinzione o che lo sono state in passato. Tra queste abbiamo il lupo, la lince, l’orso bruno, lo stambecco, il cervo sardo, la foca monaca, la lontra, l’aquila reale, il gipeto, il grifone, il gallo cedrone e la starna. In seguito all’occupazione e allo sfruttamento del suolo, molto spesso gli habitat naturali vengono frammentati, cioè suddivisi in sottoaree tra loro parzialmente connesse o totalmente isolate. Questo può essere dovuto alla costruzione di barriere artificiali come strade, impianti sciistici, linee elettriche o ferroviarie, canali artificiali, ecc., che impediscono la libera circolazione degli animali nel loro areale di distribuzione. Vengono così a formarsi sottoaree a macchia di leopardo, con la suddivisione della popolazione di una specie in sottopopolazioni scarsamente in contatto tra loro. Queste ultime sono meno consistenti numericamente rispetto alla popolazione originale e più vulnerabili alle fluttuazioni climatiche, alle possibili epidemie, al deterioramento genetico dovuto a endogamia, cioè all’incrocio tra individui consanguinei, e ai fattori di disturbo antropico. Inoltre, in presenza di frammentazione, l’habitat di una specie è maggiormente a contatto con l’habitat di altre specie. Questo può comportare maggiori casi di predazione, competizione e parassitismo. In pratica le sottopopolazioni di una specie dislocate in aree distanziate tra loro e con scarsa o nulla possibilità di contatto sono maggiormente a rischio di estinzione, perché il distanziamento tra le diverse aree impedisce di fatto la ricolonizzazione laddove la popolazione si sia estinta per qualsivoglia motivo.

Se scompaiono  gli impollinatori

Quando pensiamo alle specie in via d’estinzione, siamo portati a pensare solitamente ad animali di grossa taglia, come il rinoceronte nero o l’elefante asiatico, ma ci sono specie di animali piccoli e piccolissimi, la cui forte diminuzione ci riguarda molto da vicino. Si tratta degli impollinatori, per lo più insetti, ma non solo, la cui attività è fondamentale per favorire l’impollinazione delle piante, da cui dipendono per buona parte la nostra alimentazione e la nostra economia. La riproduzione di almeno il 75% delle piante da fiore e dei raccolti di tutto il mondo dipende dagli impollinatori. Tra questi: api, vespe, farfalle, mammiferi come i pipistrelli e uccelli come i colibrì. Già nel 2010 gli scienziati erano giunti alla conclusione che oltre il 40% degli insetti di tutto il mondo era a rischio di estinzione e che il ritmo della loro moria è otto volte superiore a quello dei mammiferi e degli uccelli.

Sono tre le principali cause della progressiva riduzione degli impollinatori: l’uso dei pesticidi, il modo in cui sfruttiamo il suolo con la predilezione per le monocolture e soprattutto la distruzione dell’habitat. Anche l’aumento delle temperature globali ha un ruolo nella riduzione degli impollinatori, ma si trova solo al quarto posto. Per capire la portata del danno che deriverebbe dalla scomparsa degli impollinatori, basta pensare che, negli ultimi 50 anni, tra i cibi consumati, quelli la cui produzione dipende dagli impollinatori sono aumentati del 300% e fanno muovere un mercato globale del valore di 577 miliardi di dollari. Dobbiamo anche considerare che, finora, ci siamo resi conto della diminuzione solo delle specie di impollinatori che conosciamo, ma la quantità di specie, soprattutto di insetti, a noi ancora sconosciuta è altissima quindi la valutazione del numero delle specie di impollinatori a rischio di estinzione o già estinte è certamente sottostimata. Secondo un recente studio di Matt Devis e Jens Christian Svenning del «Center for biodiversity dynamics in a changing world» (Danimarca), gli esseri umani sterminano le specie animali e vegetali così rapidamente che l’evoluzione, come meccanismo di autodifesa della natura, non può porvi rimedio. Secondo questi ricercatori, nel corso degli ultimi 450 milioni di anni ci sono stati cinque grandi sconvolgimenti con alterazioni ambientali tali che buona parte delle specie animali e vegetali presenti sul nostro pianeta si è estinta. Dopo ciascuna estinzione di massa, l’evoluzione, con i suoi tempi, ha colmato le lacune con nuove specie, ma nel caso dei mammiferi, considerando i loro tempi di diversificazione, per riportare la biodiversità a ciò che era prima della comparsa dell’uomo moderno ci vorrebbero 5-7 milioni di anni e 3-5 milioni solo per riottenere l’attuale biodiversità, dato che è in corso la sesta estinzione di massa, questa volta causata dall’uomo.

Con la perdita delle specie, perdiamo non solo le loro funzioni ecologiche talvolta uniche, ma anche i milioni di anni di storia evolutiva che queste specie rappresentavano.

Habitat, pandemie E zoonosi

C’è un altro aspetto che dovremmo prendere in attenta considerazione. La distruzione degli ecosistemi da parte dell’uomo sta rivelando il suo effetto boomerang sotto forma di pandemie o comunque di diffusione di malattie di origine zoonotica, che sono all’origine di circa un miliardo di casi di malattia e di milioni di morti ogni anno a livello globale.

Le zoonosi attualmente conosciute sono oltre 200, tra cui: rabbia, leptospirosi, Hiv, Ebola, antrace, Sars, Mers (queste ultime due causate da Coronavirus), febbre gialla, dengue, malattia di Lyme, tifo esantematico, malaria e non dimentichiamoci della peste, che non è mai stata completamente debellata.

Fino a qualche tempo fa si riteneva erroneamente che gli ambienti naturali intatti fossero pericolosi serbatoi dei virus e degli altri agenti patogeni portatori di queste malattie, ma studi recenti hanno completamente smontato questa tesi dimostrando, al contrario, che è la distruzione degli habitat che crea le condizioni ottimali per la trasmissione all’uomo degli agenti eziologici.La riduzione delle specie predatrici a seguito delle attività umane può rivelarsi molto pericolosa per la nostra salute.

Rosanna Novara Topino

Un esemplare di zecca (sempre più diffusa). Foto Erik Karits – Pixabay.


Biodiversità e zoonosi

La diffusione della zecca

La malattia di Lyme o borrelliosi è una malattia diffusa in Nord America, Europa e Asia e trasmessa dalle punture delle zecche del genere Ixodes. Questa malattia presenta alcuni sintomi tipici come eritema migrante, febbre, mal di testa, debolezza e affaticamento ma, se non si interviene precocemente con una cura antibiotica, l’infezione può diffondersi andando a interessare articolazioni, cuore, muscoli, reni, fegato, cute, sistema nervoso centrale (causando in questo caso encefalite o mielite). Il suo agente eziologico è un batterio, la Borrelia burgdorferi, che ha come vettore la zecca, ma presenta diversi ospiti tra i vertebrati soprattutto mammiferi, alcuni dei quali risultano essere serbatoi altamente competenti, cioè capaci di ospitare e di trasmettere il batterio molto meglio di altri. Tra questi ultimi vi sono il peromisco dai piedi bianchi, una varietà di topo diffusa nel continente americano dal Canada fino al Nicaragua e il toporagno, specie assai diffusa anche da noi nelle aree verdi, soprattutto nei parchi e nei boschi. Le zecche non trasmettono l’infezione alla prole, ma si contaminano infestando un ospite infetto, mentre ne succhiano il sangue che serve loro per completare le tre fasi del loro ciclo vitale (larva, ninfa, adulto) e per riprodursi. Le zecche adulte passano l’inverno ben rigonfie di sangue e in primavera depongono le uova, da cui a metà estate nascono le larve. Poiché necessitano di pasti a base di sangue ma hanno scarsa mobilità, questi aracnidi devono mettersi in posizione ottimale, per esempio sulla cima di un filo d’erba, per attaccarsi a un ospite vertebrato di passaggio. Date le loro piccole dimensioni, peromischi e toporagni sono gli ospiti ottimali delle larve di zecca e, se sono infettati dalla Borrellia, passano loro agevolmente il batterio; le zecche lo trasmetteranno poi ad altri ospiti con le loro punture. Peraltro la varietà degli ospiti delle zecche è elevatissima, potendo comprendere animali di svariate dimensioni come scoiattoli, opossum, conigli selvatici, volpi, cervi, cinghiali e, occasionalmente, l’uomo. Non tutti questi però si rivelano dei serbatoi altamente competenti come i topi e i toporagni. L’essere umano, ad esempio, non lo è in alcun modo, quindi non trasmette la malattia ad altre persone.

Gli studiosi hanno osservato che la diffusione delle zecche è particolarmente alta dopo le annate ricche di ghiande delle querce, frutti di cui sono particolarmente ghiotti i peromischi e i toporagni, che hanno elevatissimi tassi di riproduzione e ciascuno dei quali può arrivare a ospitare fino a una settantina di larve di zecca, che allo stadio adulto infestano solitamente animali di grossa taglia, come i cervi, utilizzati come supporto per la riproduzione. Si è osservato che è più facile essere punti da una zecca in un parco o piccolo boschetto, dove la fauna è rappresentata da poche specie e quindi i peromischi e i toporagni hanno pochi predatori, piuttosto che in un grande bosco ricco di specie come scoiattoli, opossum, falchi, furetti e gufi, che ne limitano la presenza. Questo dimostra come la biodiversità sia indispensabile per il controllo delle zoonosi.

RNT

 




Cooperazione: I muri che uniscono


Oltre 20 anni fa un professore universitario capisce l’importanza del diritto alla casa. Da quel giorno mette le sue energie e la sua intelligenza al servizio dei baraccati. Inventa una tecnica costruttiva semplice ed efficace. Riproducibile da chiunque. Oggi, dopo la sua scomparsa, la sua famiglia e i suoi allievi continuano la sua opera. Perché tanto resta ancora da fare.

Gourcy, Nord del Burkina Faso. Dopo una giornata di lavoro e incontri arriviamo all’Auberge Cites. Una piccola oasi di buganville rosse, fucsia e arancioni nel secco e giallo panorama saheliano. Pur essendo fine novembre, quest’anno le temperature sono ancora elevate. Sarà a causa del cambiamento climatico, dicono i Burkinabè. Siamo sudati e coperti di polvere, situazione piuttosto tipica da queste parti. Scesi dall’auto vediamo subito due «nassara» («bianchi» in lingua moore), in maglietta e pantaloncini, piuttosto accaldati, seduti a un tavolino a sorseggiare una bevanda. Ci presentiamo. Sono la professoressa Gloria Pasero Mattone e suo figlio, Massimiliano Mattone. Vengono da Torino, sono a Gourcy per una missione nell’ambito della loro associazione, «Mattone su Mattone onlus». Sebbene avessimo già sentito parlare di loro, è la prima volta che li incontriamo. Subito la conversazione si fa interessante.

«L’attività che stiamo svolgendo qui rappresenta, in un certo senso, l’attività che mio marito Roberto Mattone, docente al Politecnico di Torino, scomparso sette anni fa, aveva iniziato proprio in Burkina Faso, a Nanorò, con la costruzione di un mercato coperto». Dopo una breve pausa, che tradisce una certa emozione nel parlare del compagno di una vita, la professoressa, ormai in pensione, prosegue: «Dopo la scomparsa del professore, questo sistema costruttivo che lui aveva messo a punto, facile, innovativo, sostenibile per quanto concerne l’uso dei materiali, facilmente appropriabile da chi non è muratore, è stato diffuso in altri paesi dell’Africa e dell’America Latina». Continua: «Recentemente è nata una proposta del comune di Grugliasco (To) per collaborare a questo progetto e con grande entusiasmo l’associazione ha aderito alla richiesta». Gloria Pasero, anch’essa alla facoltà di Architettura del Politecnico di Torino, oltre ad essere docente e moglie, è stata l’assistente del professor Roberto Mattone per molti anni.

Così, dopo il tramonto, nella penombra, con il placarsi del caldo torrido e il sopraggiungere delle zanzare, tra un blackout elettrico e l’altro, Gloria e Massimiliano ci raccontano l’incredibile storia del «blocco Mattone».

L’idea di Mattone

Il professor Roberto Mattone, architetto, da sempre è attratto dalle tecnologie per costruzione cosiddette «povere», che utilizzano i materiali locali. Ha lavorato, tra l’altro, con il gesso, le fibre di sisal, il ferrocemento. Negli anni ’80 a Torino c’era la scuola del professor Giorgio Ceragioli che aveva creato una grande sensibilità sull’habitat adattato ai paesi in via di sviluppo. «L’attività di Roberto era autonoma, ma certo si è inserita in questa corrente di pensiero e di lavoro» ricorda la professoressa. Roberto Mattone inizia a occuparsi di costruzioni in «terra cruda» all’inizio degli anni ’90. Si reca in Brasile e le condizioni di vita nelle favelas lo colpiscono particolarmente. Il professore ha ottenuto un finanziamento dal Cnr (Consiglio Nazionale della Ricerca) per una ricerca dal titolo: «Abitazioni a basso costo nei paesi in via di sviluppo». Lo studio si svolge in partenariato con il professor Normando Perazzo Barbosa dell’Universidade Federal da Paraíba a João Pessoa. «Una realtà, quella delle favelas – ricorda la professoressa – che dopo 25 anni in alcuni casi non è cambiata di molto, come ho potuto constatare personalmente».

Il primo passo è quello di individuare il materiale da utilizzare: «Il più diffuso era la terra. Gli abitanti erano però molto scettici, perché terra significa povertà. Loro volevano i blocchi di cemento». In Brasile, soprattutto nel Nord Est si utilizza terra e fango su intelaiature di bastoni per fare delle casupole molto precarie e malsane, tipiche degli strati sociali più poveri. Sistema costruttivo chiamato «Taipa».

Innovazione «povera»

Il professore, con la sua ricerca, inizia a produrre mattoni in terra cruda stabilizzati con l’aggiunta di cemento e compattati con presse manuali. Ma non basta. Modifica la forma del blocco parallelepipedo convenzionale, facendone una specie di grande Lego, il gioco di costruzioni. «Il blocco fu dotato di risalti e riscontri che servono a facilitare la posa dei mattoni per fare i muri solidi senza bisogno di particolari strumenti o competenze», spiega Massimiliano. I favelados della zona in cui Roberto Mattone lavora, sono tagliatori di canna da zucchero e nulla sanno di costruzioni: impossibile trasformarli in muratori, occorre un sistema costruttivo particolarmente semplice. «Il blocco opportunamente modificato si posa facilmente per erigere muri, senza l’uso della cazzuola o del filo a piombo. Inoltre c’è bisogno di pochissimo legante tra un blocco e l’altro (circa 3 mm), mentre per i blocchi di cemento ne vengono usati 2,5 centimetri. E questo, oltre a semplificare, riduce notevolmente i costi».

Roberto Mattone adotta una pressa manuale, che modifica opportunamente in laboratorio e convince la casa costruttrice, la Altech francese, a farne una produzione. Recentemente i professori del Politecnico di Torino Giuseppe Quaglia, Walter Franco e Carlo Ferraresi, in collaborazione con l’ingegner Matteo Asteggiano, hanno realizzato una nuova pressa, che è quella attualmente usata nei progetti dell’associazione.

I materiali, il tipo di terra e stabilizzazione, le forme dei blocchi sono testati e migliorati da Roberto Mattone in un laboratorio allestito in facoltà, che diventa un luogo di formazione di generazioni di studenti, alcuni dei quali seguiranno le orme del professore e sono oggi membri dell’associazione. «Roberto – continua Gloria Pasero – era riuscito a raggiungere un obiettivo ottimale: quello di coniugare la ricerca scientifica con la solidarietà». Nasce così il «blocco Mattone – Politecnico di Torino».

La casa auto costruita

Costruire la propria casa, sulla propria terra, con la terra stessa diventa un mezzo di riscatto e di dignità per i più poveri ed emarginati. Il primo luogo in cui viene sperimentato il blocco è la favela Cuba da Baixo a Sapé, nello stato di Paraiba, in Brasile. È il 1995. Per Roberto Mattone «non bastava mandare l’attrezzatura e un manuale d’istruzioni». Si tratta di gente demotivata, rassegnata. Avranno voglia, riusciranno? È il dubbio che lo assale.

«Allora insisteva sul fatto che bisogna andare sul posto, condividere il lavoro con loro, cogliere i loro dubbi, lavorare con loro. Dimostrare che le cose che si propongono sono valide e alla loro portata, lasciarlo verificare dalla gente, in una dinamica di “appropriazione” della tecnica da parte degli abitanti-costruttori stessi. Fu così che i poveri di Cuba da Baixo videro che i mattoni non si scioglievano in acqua e che i muri eretti erano resistenti come quelli in cemento».

Lavoro sul campo

Massimiliano e sua madre sono in Burkina Faso per questo. Ci invitano il giorno successivo a visitare il cantiere dove stanno insegnando a un gruppo di giovani burkinabè a fabbricare il blocco Mattone. Una decina di giovani sono ormai abili nella produzione di mattoni stabilizzati. Dopo aver preparato con cura l’impasto di terra ricavata non lontano, con    5-10% di cemento, la miscela viene messa nella pressa. Con un semplice movimento di una persona sulla leva il blocco in terra cruda è prodotto. Subito viene testato con una pressione manuale e se ha difetti costruttivi o di solidità viene scartato. In caso contrario è riposto con cura in fila su dei teli di plastica stesi a terra, a «maturare». Qui i blocchi sono innaffiati periodicamente e devono passare almeno quattro settimane prima che siano pronti all’uso. I ragazzi sono molto contenti e sfornano un mattone dopo l’altro. Moussa Konkobo è uno dei giovani coinvolti: «Sono muratore e durante questa formazione posso dire che abbiamo imparato a fabbricare questo tipo di blocco. Abbiamo mischiato terra e sabbia con cemento e poi ci hanno insegnato a utilizzare la pressa. Costruiremo una piccola casa di prova con questi blocchi».

Anche la scelta della terra è stata fatta in modo scientifico. «Abbiamo chiesto a increduli cooperanti e missionari in viaggio tra Burkina e Italia di mettere in valigia campioni di terra, in modo da poterli verificare prima di affrontare noi il viaggio». Racconta Massimiliano. «Abbiamo così potuto fare diversi test in laboratorio in Italia, per misurare se la terra era adatta. Solo dopo questa certezza si può andare avanti con il progetto formativo». È una procedura che l’associazione adotta sempre: in queste settimane sono sotto test a Torino alcuni campioni di terra di Capo Verde.

Solidarietà senza confini

«L’interesse nel migliorare le condizioni di vita della gente era dentro di lui da sempre. Il mattone è poi stato ideato grazie alla ricerca in Brasile». Ricorda ancora Gloria Pasero parlando del marito. «Portare avanti questa scelta ha voluto dire penalizzare la carriera. Questa si faceva puntando su temi high tech. Lui era motivato da altre considerazioni: la solidarietà, la spinta umanitaria».

Questa esperienza di auto costruzione di case a basso costo per migliorare le condizioni di vita dei più poveri ha una potenzialità dirompente nel mondo di oggi, proprio a causa della vastità dei bisogni in termini di habitat.

Dopo la prima esperienza in Brasile il professore non si ferma. Entra nel giro degli accademici che si occupano di terra cruda, in Brasile e non solo. Il blocco Mattone viene «esportato» in altri paesi e continenti. «Mio marito impostò un analogo progetto con l’Università Tecnologica Nazionale Argentina, a Santa Fé».

I coniugi Mattone sono proprio in Argentina per predisporre le attività, quando, nel 2008, il professore muore improvvisamente. È un fulmine a ciel sereno. Un dramma. Gloria Mattone capisce che il suo compito è quello di continuare la missione del marito. Si fa forza, esce dalle retrovie e diventa la protagonista. Sempre con molta umiltà. Il 23 marzo 2009, a sei mesi esatti dalla scomparsa di Roberto Mattone, nasce l’associazione «Mattone su Mattone onlus», creata da famigliari, amici e colleghi dell’architetto.

«Al Politecnico non c’era nessuno che aveva seguito queste cose», ci racconta la professoressa. «Il rettore di allora mi invitava ad andare avanti per continuare l’attività di Roberto».

Il blocco Mattone, grazie all’associazione, approda così in Senegal, Tanzania, Etiopia, Costa d’Avorio e poi in Burkina Faso. Oggi sono arrivate richieste da Messico e Repubblica Democratica del Congo, mentre Capo Verde è già in fase di studio.

Puntare all’autonomia

«L’obiettivo quando si inizia in un paese è la riproducibilità dell’esperienza – spiega Massimiliano – una volta fatta la formazione pratica e acquisita la pressa, un’associazione locale, una cornoperativa o una piccola impresa, può diventare produttrice di bocchi stabilizzati in totale autonomia e diffonderne le tecniche costruttrici».

È anche una possibilità di creazione di impiego per giovani in Africa. Proprio per questo, recentemente, la formazione e la pressa sono stati inseriti in un progetto della Regione Piemonte finanziato dal ministero dell’Interno italiano in Senegal.

Il progetto che visitiamo oggi in Burkina Faso fa parte di un altro programma di cooperazione più vasto che coinvolge oltre al comune di Gourcy, il comune di Grugliasco (To), il Coordinamento dei comuni per la pace della provincia di Torino (Cocopa) e l’Ong Cisv. In alternativa a progetti più strutturati l’associazione cerca i fondi per i propri interventi con i sistemi classici: il 5×1000, la promozione o la vendita di manufatti da parte di soci volontari. Se non ci sono finanziamenti esterni l’associazione prende in carico tutte le spese vive, e i volontari non hanno mai alcun compenso, ma offrono il loro lavoro gratuitamente.

Sono molte le sollecitazioni che arrivano, anche grazie all’uso di internet e dei social. «Ci contattano, chiedono, interagiscono. E talvolta stabiliamo così nuove collaborazioni», racconta Massimiliano. «C’è molto interesse». Lui, che di professione fa il restauratore, dedica molto del suo tempo all’associazione come volontario, con l’idea che, in qualche modo «sia un dovere ereditario». Anche le sorelle Manuela e Monica sono coinvolte così come altri membri dell’associazione.

Mentre scriviamo la professoressa Pasero e suo figlio Massimiliano sono tornati in Burkina, per insegnare ai giovani la posa del blocco Mattone per la costruzione di un’abitazione.

Averli incontrati ci ha ricordato che la solidarietà autentica è ancora possibile, e prende svariate forme, come quella di trasmettere una conoscenza per promuovere diritti e dignità.

Marco Bello