Moldavia: Il riscatto passa per il ballo

Testo e foto di LUCA SALVATORE PISTONE |


La Moldavia, ex repubblica dell’Unione Sovietica, è considerata il paese più povero d’Europa. Con 3,5 milioni di abitanti su una superficie pari a quella di due regioni italiane, si sta svuotando: molti sono coloro che migrano all’estero e il paese vive di rimesse. Qui la danza è un’eccellenza, e molti giovani cercano di diventare ballerini e ballerine professionisti.

Il Collegio nazionale di coreografia di Chişinău, la capitale, è uno dei grandi motivi di orgoglio della Moldavia, il paese più povero d’Europa. Da questo istituto sono usciti ballerini che hanno calcato i più prestigiosi palcoscenici mondiali.
Le famiglie degli studenti fanno enormi sacrifici per coprire parte delle spese dei corsi. Puntano molto sui propri ragazzi, nella speranza che questi abbiano successo all’estero e che possano contribuire economicamente al loro sostentamento.

«La nostra scuola – spiega Eugen Gîrnet, da oltre vent’anni il direttore artistico del Collegio – ha un’antica tradizione, simile a quella delle altre ex repubbliche sovietiche. Siamo nati nel 1952 e da allora abbiamo formato più di 300 ballerini professionisti di danza classica e danza tradizionale moldava. Molti di loro, oltre ad aver partecipato ad autorevoli concorsi internazionali, sono stati primi ballerini in famose compagnie. Vienna, Berlino, Praga, Mosca e San Pietroburgo, solo per fare qualche esempio».

Un ballerino in casa

Il Collegio nazionale di coreografia si trova nella trafficata via Mihai Eminescu, nel pieno centro della capitale Chişinău. Un edificio spartano, in perfetto stile sovietico, in buone condizioni. L’istituto dipende direttamente dal ministero della Cultura, che provvede al pagamento delle rette degli allievi. Il percorso di studi ha di norma una durata di otto anni e copre la fascia di età dieci-diciotto anni. Una decina di studenti, tra ragazzi e ragazze, vengono ammessi annualmente al Collegio tramite audizione.

«Svetlana! Alza di più quella gamba. Quante volte te lo devo ripetere? Allora non hai imparato proprio nulla?». L’insegnante Veronika è severissima. Nessuna delle aspiranti ballerine professioniste osa fiatare durante la lezione. Sono tutte molto attente alle sue parole e sfuggono le sue occhiatacce. Si guardano al grande specchio di fronte a loro per vedere se stanno facendo i giusti movimenti alla sbarra.

In un angolo della palestra c’è un vecchio pianoforte con il quale un’anziana musicista russa, elegantissima col suo chignon alto, accompagna ogni passo di danza. Oggi il repertorio prevede Vivaldi, Mozart e Beethoven. Anna, questo il suo nome, sbuffa sommessamente quando Veronika le fa cenno di interrompere la musica per rimproverare le sue allieve. E, ancora di più, quando l’insegnante fa provare dei passi di danza moderna inserendo nello stereo un cd della cantante Beyoncé.

Eugen, il direttore, non distoglie mai lo sguardo dalla sbarra. Con una mano davanti alla bocca, parla a bassissima voce per non disturbare la lezione: «I moldavi amano molto il balletto. Anche se lo stato continua a tagliarci i fondi, lavoriamo sempre duramente e con dedizione perché svolgiamo la professione più nobile che c’è. Una volta avere in famiglia una ballerina o un ballerino era un grande onore, oltre che un modo per uscire dalla miseria. Per alcuni genitori è ancora così, ma per molti altri no. Per i propri figli preferiscono carriere più sicure come quella del medico, dell’ingegnere o dell’avvocato. Professioni che è meglio esercitare all’estero».

Fanalino di coda

Con un Pil pro capite nominale inferiore ai 2mila euro all’anno, la Moldavia si afferma come il paese più povero d’Europa. Ancora lontana dall’ingresso nell’Unione europea, questa ex repubblica dell’Unione Sovietica di appena 3,5 milioni di abitanti si sta svuotando: poco meno della metà della sua popolazione risiede infatti all’estero. In Europa occidentale, professioni umili come muratore, bracciante agricolo e, in particolar modo, badante, rendono molto di più di professioni qualificate in patria.

Sono l’Italia, la Spagna e il Portogallo le principali mete dei migranti moldavi. Tutti paesi che fino a dieci anni fa si potevano raggiungere solo se muniti di visto. Poi, con l’ingresso della Romania nell’Ue, i numerosi moldavi con origini rumene hanno cominciato a chiedere la doppia cittadinanza per usufruire dei vantaggi di un passaporto comunitario.

I mezzi di trasporto, invece, rimangono sempre gli stessi: pullmini malconci da dodici posti, spesso senza finestrini, che in due o tre di giorni no stop arrivano a destinazione. Molto contenuto il prezzo del biglietto: intorno ai 40 euro la sola andata per Milano; 55 euro per Madrid; 80 euro per Lisbona.

Un’economia di rimesse

«È del tutto comprensibile che la gente se ne vada dalla Moldavia», aggiunge Eugen. «Qui lo stipendio mensile di un funzionario pubblico con la laurea è di circa 150 euro. Un pensionato, quando gli va bene, riceve mediamente poco più di 50 euro.

Il problema grosso è che il costo della vita è quasi pari a quello dell’Europa dell’Ovest. Gli elettrodomestici, gli affitti, fare la spesa, la benzina. Tutto è carissimo. Fuori dalla Moldavia se lavori in nero o in regola puoi guadagnare dagli 800 ai 1.500 euro al mese. Buona parte di quello che intaschi lo mandi a casa per mantenere la tua famiglia. Senza le rimesse degli emigrati la Moldavia morirebbe di fame. Più di quanto già non accada».

Ricerca di nuovi talenti

Eugen, ex ballerino che in gioventù si è esibito in mezza Europa (anche in Italia, a Catania e Firenze), si vanta di avere un grande fiuto nello scovare talenti. Ogni estate, prima che le audizioni per accedere al Collegio nazionale di coreografia abbiano inizio, gira per tutto il paese a caccia di nuove promesse. Sei anni fa, nel villaggio di Trusheni, a 20 chilometri da Chişinău, incontrò Mihaela Buruiana, che all’epoca aveva dieci anni. Slanciata, gambe lunghe e caviglie fini. Il fisico di una ballerina. Le lasciò l’indirizzo della scuola. Perché non tentare un’audizione?

«Ricordo quel giorno come se fosse ieri. Un signore gentile, dalla faccia buona, lasciò dei volantini all’ingresso della mia scuola. Era il direttore Eugen». Mihaela si esprime con un’eleganza pari a quella mostrata alla sbarra. «Non avevo mai mosso un passo di danza prima né la cosa mi aveva mai interessato più di tanto. Però poi mi immaginai con ai piedi le scarpette da ballerina e la sola idea mi rese felice. Tornai a casa e ne parlai con mia madre. Mi vide molto entusiasta e accettò di portarmi qui al Collegio per un provino. L’insegnante testò la mia muscolatura e disse che avevo le giuste caratteristiche per studiare danza classica e, chissà, diventare un giorno una ballerina professionista. All’inizio fu molto dura perché ero indietro rispetto alle mie compagne di corso, ma in breve tempo riuscii a recuperare e a mettermi al loro livello».

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La famiglia di Mihaela

Un’ora per andare e una per tornare. È quanto impiega Mihaela per raggiungere il Collegio dal suo villaggio e per ritornare a bordo di un autobus sempre affollato. A Trusheni, poche vie male asfaltate, la ragazza vive con la madre Elena e con il padre Anatoly in una modesta villetta su un solo piano. Anatoly è da poco tornato in patria dopo aver fatto per ventidue anni l’operaio in una fabbrica di ferro in Russia. Elena, casalinga, coltiva nell’orticello di casa poche verdure che tenta di vendere ogni mattina nella piazzetta di Trusheni. Il fratello maggiore di Mihaela fa il muratore in Portogallo e, quando può, manda qualche soldo ai genitori.

L’ospitalità della famiglia Buruiana è a dir poco squisita. Anatoly fa diverse capatine in cantina dalla quale rispunta con ogni genere di alimento sotto aceto preparato con le sue mani. Dai classici cetrioli, alle acciughe, passando per le pesche e l’anguria. E vino e brandy, sempre di sua produzione. Mostra pure un paio di cincillà, di cui ha un piccolo allevamento nel retro della casa. «Con queste bestiole ci ha confezionato una bella e calda pelliccia per me. La prossima è per Mihaela», interviene la moglie.

«A Mosca – racconta Anatoly – avevo un buon lavoro. Ma per i gravi problemi di salute di mia suocera ho dovuto fare ritorno in Moldavia. Ora lavoro in una piccola fabbrica di mattoni: faccio un turno di 24 ore consecutive e poi riposo per tre giorni. La paga è bassissima ma non ho trovato di meglio. Approfitto del tempo libero per prendermi cura delle altre bestie. Sapete, ho anche diversi polli ruspanti… Almeno un giorno a settimana vado a Chişinău a vedere la mia bambina che si allena. La osservo da una finestra perché non voglio che si distragga e ogni volta mi commuovo. È bravissima».

I fondi che non ci sono

Anatoly ed Elena sono molto orgogliosi della loro figlia. La ragazza ha già vinto un’importante competizione in Romania ed è stata la sola moldava a partecipare a un rinomato concorso a San Pietroburgo alcuni mesi fa. «Il Collegio – chiarisce Elena – è gratuito ma se uno studente vuole prendere parte a questi appuntamenti deve pagarseli da solo. Quasi tutti i nostri risparmi sono destinati ai viaggi di Mihaela, crediamo molto in lei. Purtroppo recentemente mia madre è mancata e abbiamo dovuto anche chiedere un prestito in banca per il funerale. Adesso non abbiamo soldi a sufficienza per coprire le spese di un’altra gara che si terrà tra non molto in Spagna».

Dalla sua stanza da letto, mentre fa i compiti, Mihaela sente tutto ciò che dicono Elena e Anatoly. Confida di essere molto grata ai genitori per i sacrifici che ogni giorno fanno per lei e che non perderà mai la speranza di diventare una ballerina di fama mondiale. «Per me il balletto è un’opportunità per vivere una vita migliore. Grazie al duro lavoro ho imparato ad avere molta più fiducia in me stessa. Col balletto sono cresciuta, ora capisco che la vita è piena di sfide da affrontare. Arriverà il mio momento, ne sono certa. E potrò ricambiare quanto la mia famiglia fa per me».

Luca Salvatore Pistone


ARCHIVIO MC

MC ha pubblicato un servizio approfondito sulla Moldavia nell’ottobre 2014: Danilo Elia, I sogni europei di Chişinău,
e un altro sulla Transnistria, la regione separatista, nel luglio 2014: Danilo Elia, Lenin abita a Tiraspol.




Sinodo dei giovani: Esperienze di giovani in «Missione»


Da ormai parecchi anni molte realtà in Italia propongono ai giovani di trascorrere un periodo in missione per un’esperienza concreta di incontro con il mondo. È una proposta che – anno dopo anno sta crescendo non solo nei numeri ma anche nella qualità: non è semplicemente una «vacanza alternativa», ma una proposta che mira a lasciare il segno nello sguardo con cui un giovane affronta la propria vita, anche qui in Italia.

Proprio per questo, in occasione del Sinodo che si tiene in questo mese di ottobre e ha per tema «I giovani, la fede e il discernimento vocazionale», le riviste missionarie riunite nella Fesmi, insieme a Missio Giovani e al Segretariato Unitario di Animazione Missionaria (Suam) hanno pensato di promuovere un’indagine nazionale su questo tipo di esperienze e divulgarne i risultati preliminari in occasione del Sinodo.

Giovani a Makambako, in Tanzania, agosto 2018

Per conoscere la realtà dei giovani partiti sono stati predisposti due questionari,

  • uno rivolto alle realtà che promuovono questi percorsi,
  • l’altro proposto direttamente ai giovani partecipanti,

che sono stati inviati a tutti i Centri missionari diocesani, agli istituti missionari e alle associazioni cattoliche di volontariato che in Italia promuovono esperienze, estive e non, in missione.

I primi risultati di questo censimento sono una sintesi delle risposte che 39 realtà – tra centri missionari diocesani, istituti religiosi e associazioni – hanno offerto al questionario loro rivolto.

Viene raccolta anche la voce di 106 giovani partecipanti, che hanno offerto il proprio feed-back su quanto ha lasciato loro in eredità il periodo trascorso in missione.

Va precisato che si tratta di un campione parziale senza alcuna pretesa di esaustività: sappiamo bene essere molti di più i centri missionari e gli istituti che organizzano questo tipo di proposte. Inoltre esperienze del genere sono organizzate anche da singole parrocchie in collaborazione con missionari o missionarie della propria comunità. Quanto presentato di seguito, dunque, vuole essere semplicemente un primo sguardo, nella speranza di riuscire in futuro a offrire una fotografia più completa; e non potrebbe essere anche un frutto del Sinodo su giovani e discernimento vocazionale?


Nota: va ricordato che l’Agesci invia ogni anno circa 450 giovani a fare esperienze di servizio in Africa, America Latina e altri paesi dell’Asia Minore e dell’Europa.

Agorà degli Scout a Villa Buri – Verona


Giovani in Missione: Dati significativi

Con questa premessa, presentiamo alcuni dati significativi emersi dall’indagine:

Quanti giovani in missione?

  • Nelle realtà censite il numero complessivo di ragazzi e ragazze coinvolti nelle esperienze estive promosse in missione nell’estate 2018 si aggira intorno ai 1000 giovani;
  • per molte realtà si tratta di una proposta consolidata: più della metà degli enti che hanno risposto al questionario racconta di offrire questo tipo di esperienza da almeno 10 anni
  • una stima complessiva del numero di giovani coinvolti dall’avvio delle proposte parla ormai di almeno 20.000 giovani italiani inviati in missione da queste 39 realtà.

Chi sono e dove vanno questi giovani?

  • L’età media è molto giovane: il 39% dei ragazzi coinvolti ha meno di 25 anni, solo il 26% ha superato i 30 anni
  • tra i partecipanti vi sono lavoratori (54%), studenti (37%) e giovani in cerca di un’occupazione (9%)
  • Le risposte pervenute direttamente dai giovani sono per il 71% da donne
  • per la metà dei giovani si tratta di un’esperienza unica nell’arco della propria vita. E sono comunque meno del 30% i giovani partecipanti alle esperienze del 2018 che raccontano di essere stati in missione più di due volte
  • le destinazioni abbracciano tutti i continenti con una prevalenza significativa dell’Africa (38%)
  • la durata varia a seconda delle proposte: per molti l’esperienza dura solo tre o quattro settimane, ma c’è anche chi vive in missione per alcuni mesi.

Come arrivano?

  • Pochi partono da soli: a seconda della proposta si arriva in missione in gruppo (58%) oppure insieme a una o altre due persone (34%); la dimensione comunitaria, dunque, è un fattore importante;
  • l’esperienza non arriva all’improvviso ma è solitamente preparata con cura. L’82% dei giovani parte dopo aver frequentato un cammino di preparazione; e almeno la metà dei giovani che partono lo fa al termine di un cammino che è andato avanti durante tutto l’anno precedente all’esperienza in missione
  • nel 40% dei casi, poi, anche al ritorno è previsto un nuovo percorso che continua durante tutto l’anno successivo; per far sì che l’esperienza vissuta in missione non sia qualcosa di estemporaneo, ma un tempo forte della propria vita.

Come incide l’esperienza vissuta in missione sulla loro vita?

  • A molti lascia in eredità un forte senso di responsabilità: il 69% dei giovani racconta – una volta tornato a casa – di aver scelto di assumersi un impegno in parrocchia o nella propria diocesi o in un’associazione di volontariato. Molti di questi impegni sono legati all’ambito dell’animazione missionaria in Italia. Un altro sbocco interessante per alcuni è l’impegno nel campo dell’assistenza ai migranti in Italia, nel segno della continuità nell’apertura al mondo. Più in generale c’è chi racconta di aver cambiato almeno un po’ il proprio stile di vita in Italia, di essere più attento a questioni come il consumo dell’acqua, di aver cambiato il modo di vedere tante cose
  • non mancano difficoltà di ambientamento in missione: il clima, le condizioni di vita, a volte anche lo stesso dover accettare di non essere lì per fare qualcosa ma semplicemente per condividere. Ma anche questa fatica alla fine viene riconosciuta come un dono dell’esperienza vissuta in missione.
  • emerge però chiara un’altra fatica che ha a che fare con il ritorno a casa: una volta tornati in parrocchia si fa fatica a trovare un ambiente aperto ad accogliere davvero la ricchezza vissuta in missione da questi ragazzi e ragazze. L’impressione che emerge è quella che abbiano vissuto un’esperienza che riconoscono essere stata molto ricca da un punto di vista personale, ma che fatica a far crescere intorno a sé la consapevolezza e l’apertura al mondo anche in chi è rimasto a casa. Il che – evidentemente – pone a tutti i livelli una sfida pastorale su come valorizzare meglio queste esperienze ormai così diffuse.

Nicaragua, Achuapa, agosto 1986

I FRUTTI RACCOLTI “IN MISSIONE”

Di seguito alcune frasi scritte di chi ha fatto l’esperienza “missionaria”:

«Ho imparato un modo nuovo di vedere le cose: anche casa mia, da quando sono tornato, mi sembra un mondo nuovo e diverso»

«Ho imparato che cosa vuol dire sentirsi stranieri, cosa vuol dire non essere accettati, ho conosciuto correnti di pensiero completamente diverse dalle nostre. Mi ha arricchito mostrandomi un mondo che non avevo mai visto».

«Ogni incontro, ogni realtà, ogni storia, ogni ferita… tutto è stato un dono prezioso. L’esperienza ha cambiato il mio sguardo, mi ha messa in discussione, mi ha lasciato tanto e ha fatto tanto spazio. Ha cambiato la mia vita in un modo che non mi sarei mai aspettata»

«Mi ha cambiato la percezione del tempo, delle attività da svolgere nella giornata, l’attenzione a me stessa, la preghiera quotidiana per accettare quello che non capisco. Mi ha dato una “direzione”, mi ha fatto capire quanto sia bello vivere servendo».

«Mi ha fatto comprendere l’importanza del ruolo del missionario: non è colui che fa qualcosa per l’altro, ma colui che è qualcosa per l’altro e l’altra. Mi ha aperto gli occhi di fronte al mio bisogno di amare ed essere amata e mi ha permesso di rendermi conto di come, quando non organizziamo tutto e non abbiamo la pretesa che tutto sia sotto il nostro controllo, c’è qualcuno che si sta guidando. Infine mi ha fatto conoscere una realtà molto povera, ma che ha molto da insegnare a noi oggi nel tornare a relazioni più vere e di apertura verso l’altro».

«Poter toccare con mano come si vive in questi luoghi, quali povertà e ricchezze offrono, vedere, sentire e vivere con la gente ogni giorno ti arricchisce, ti cambia, è un’esperienza che entra a far parte di te e che non puoi fare a meno di condividere con gli altri».

Kenya, agosto 2007, giovanie meno giorvani al luogo dove èstato ucciso padre Kaiser, vicino al lago Nakuru

RIFLESSIONI CONCLUSIVE

  • Questi dati indicano una cosa molto chiara: queste esperienze sono una ricchezza non solo per il mondo missionario, ma anche per tutta la Chiesa e la società italiana. In questo momento storico, segnato dalla paura della diversità e dalla tentazione della chiusura, questi ragazzi e ragazze tornano dalla missione con uno sguardo nuovo sul mondo e desiderano spenderlo anche nella forma di un impegno concreto qui in Italia.
  • La Chiesa italiana si è accorta di loro? Ed è disposta a investire su questo patrimonio?
  • Anche al mondo missionario questi dati chiedono però un passo in più: l’indagine, pur con i suoi limiti, rappresenta il primo tentativo di mettere in rete questo tipo di esperienze nate e portate avanti autonomamente da ciascuna realtà. Proprio l’importanza che i giovani danno a questo tipo di esperienze non dovrebbe incoraggiare una maggiore collaborazione tra le realtà che propongono questo tipo di esperienze? Pur senza perdere nulla della specificità di ciascun ente, si potrebbero elaborare percorsi e strumenti condivisi, utili per strutturare meglio i percorsi di preparazione e i momenti proposti al rientro in Italia.
  • Le parrocchie e comunità locali non potrebbero valorizzare meglio la presenza di questi e queste giovani, con il loro vissuto?
  • Possono queste esperienze maturare in un serio processo di discernimento e diventare occasione per donare al mondo non solo qualche settimana ma tutta la propria vita? In quali forme? Sono domande che il Sinodo ci rilancia…

Fesmi, Missio Giovani, Suam
3 ottobre 2018


Questa rivista – Missioni Consolata – è parte della Fesmi, Federazione Stampa Missionaria Italiana

Testo pubblicato anche da ComboniFem

 

 

 




Giovani, missione e cooperazione: l’occasione del Sinodo

 


Dal 3 al 28 di ottobre si svolgerà la XV Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei Vescovi, quest’anno dedicato ai giovani. Vediamo come questo evento può essere un’occasione di riflessione sul rapporto fra giovani, missione e cooperazione.

«Il Sinodo ha un nome lungo – I giovani, la fede e il discernimento vocazionale – ma diciamo: il Sinodo dei giovani. Si capisce meglio». Così Papa Francesco, con il linguaggio diretto che lo contraddistingue, ha indicato quello che sarà il tema su cui i vescovi riuniti a Roma si concentreranno dal 3 al 28 ottobre. «È un Sinodo», ha aggiunto il Santo Padre, «dal quale nessun giovane deve sentirsi escluso, perché è di tutti i giovani». Anche i giovani agnostici, quelli che hanno una fede tiepida, quelli che si sono allontanati dalla chiesa e i giovani atei. A tutti va prestato ascolto. Perché «ogni giovane ha qualcosa da dire agli altri, agli adulti, ai preti, alle suore, ai vescovi e al Papa»@.

Colombia

Il ribaltamento di prospettiva è evidente: per anni la Chiesa si è chiesta come parlare ai giovani, andare verso di loro, raggiungerli, coinvolgerli, in tempi in cui il loro allontanamento si è fatto sempre più evidente. «Se agli inizi degli anni 2000 il 70-80 % dei giovani si dichiarava cattolico», riporta Sara Falco sul sito di Azione Cattolica, «negli ultimi anni la percentuale è scesa al 50%. Osservando gli anni più recenti, si può notare che oggi circa il 50% di adolescenti e giovani si dicono cattolici, circa il 25% è ateo o agnostico e il restante 25% si dichiara cristiano senza altra specificazione»@.

Papa Francesco, invece, ha messo l’accento sull’ascolto, un approccio che propone sempre con forza e su tutti i temi di cui la Chiesa intende occuparsi. Anche nel documento preparatorio del sinodo del prossimo anno sull’Amazzonia, infatti, il pontefice ha sottolineato l’importanza cruciale dell’ascoltare i popoli amazzonici.

Le iniziative ideate per realizzare questo ascolto sono state diverse, a cominciare dall’incontro presinodale dello scorso marzo che ha visto riuniti a Roma 300 giovani da tutto il mondo e che ha analizzato i contributi di circa 15 mila giovani arrivati attraverso la pagina Facebook appositamente creata@.

Tanzania

Al sondaggio preparatorio avevano partecipato 221mila giovani, di cui 100.500 avevano completato il questionario. Fra questi ultimi, «il 73,9% si dichiarano cattolici che considerano importante la religione, mentre i restanti sono cattolici che non considerano importante la religione (8,8%), non cattolici che considerano importante la religione (6,1%) e non cattolici che non considerano importante la religione (11,1%)@».

Altro strumento è stato #Velodicoio@, un progetto del Servizio nazionale per la Pastorale giovanile della Cei che si è proposto di «fornire uno strumento che possa essere messo a disposizione di tutti per favorire un confronto di gruppo con i più giovani su dieci tematiche specifiche: ricerca, fare casa, incontri, complessità, legami, cura, gratuità, credibilità, direzione e progetti».

Una tappa importante verso il sinodo è stato l’incontro che il Papa ha avuto con 70mila giovani da 195 diocesi lo scorso 11 agosto al Circo Massimo, a Roma@.

Durante l’incontro Francesco ha risposto alle domande di alcuni giovani, esortando tutti i presenti a non lasciarsi rubare i sogni e a non stare alla larga dai luoghi di sofferenza, di sconfitta, di morte@.

«Non accontentatevi del passo prudente di chi si accoda in fondo alla fila», ha detto il Santo Padre. «Ci vuole il coraggio di rischiare un salto in avanti, un balzo audace e temerario per sognare e realizzare come Gesù il Regno di Dio, e impegnarvi per un’umanità più fraterna. Abbiamo bisogno di fraternità: rischiate, andate avanti!».

Costa D’Avorio

Giovani e missione, quello che c’è

Il Sinodo dei giovani avrà fin da subito uno stretto legame con la missione. Non a caso, il messaggio del Papa per la giornata missionaria mondiale 2018, anch’essa in ottobre, si intitola Insieme ai giovani, portiamo il Vangelo a tutti e comincia proprio con «Cari giovani». Il messaggio sottolinea sin dalle prime battute che «ogni uomo e donna è una missione, e questa è la ragione per cui si trova a vivere sulla terra». Essere attratti ed essere inviati «sono i due movimenti che il nostro cuore, soprattutto quando è giovane in età, sente come forze interiori dell’amore che promettono futuro e spingono in avanti la nostra esistenza». «Le Pontificie opere missionarie», si legge ancora nel testo, «sono nate proprio da cuori giovani», e tanti ragazzi «trovano, nel volontariato missionario, una forma per servire i “più piccoli”».

Molte congregazioni e istituti missionari hanno saputo accogliere, negli ultimi decenni, questa spinta dei giovani a mettersi al servizio, in Italia come all’estero.

Padre Giorgio Licini racconta come il Pime ha prima osservato e poi organizzato questo istinto di solidarietà: «Era la fine degli anni Ottanta, quasi trent’anni fa, quando al Centro Missionario Pime di Milano ci rendemmo conto che un flusso spontaneo di giovani si era incamminato da anni dall’Italia verso le missioni del Pime nel mondo. Si trattava soprattutto di compaesani, amici e parenti dei nostri missionari mossi dalla curiosità e dall’affetto verso coloro che non aspettavano più al ritorno in patria, ma andavano ad incontrare là dove avevano scelto di spendere la vita». Questa presa di coscienza fu presto organizzata e strutturata da un altro padre, Davide Sciocco: «Non più partenze all’arrembaggio e fai da te, ma preparazione, contenuti, motivazioni, obiettivi. Qualcosa che lasciasse un segno indelebile e positivo nella futura vita dell’adulto». Il risultato è stato l’invio in missione di oltre duemila ragazzi in 25 anni e il racconto di queste esperienze è diventato un libro, pubblicato nel 2015 da PIMEdit@.

Inviare giovani in missione per fare esperienza diretta in campi di lavoro in Africa e America Latina era una proposta comune a tutti gli istituti missionari ed era già iniziata negli anni Sessanta con Mani tese, fondata nel 1964 proprio con il contributo di missionari di vari istituti. Campi erano organizzati dagli universitari animati da don Tullio Contiero@ da Bologna, quelli di Africa Oggi a Milano@ e tantissimi altri. I missionari della Consolata dagli anni Settanta hanno inviato alcune migliaia di giovani per questi campi dai loro centri di animazione missionaria e probabilmente altrettanti «turisti» a visitare le loro missioni, prima con Amitour e poi con i viaggi organizzati per anni da padre Adolfo De Col.

Santiago di Compostela – Spagna

Laicato missionario

Vi è poi l’esperienza del laicato missionario, grazie al quale giovani (e anche meno giovani) hanno la possibilità di intraprendere un percorso di fede nel quale la solidarietà e, di fatto, l’impegno nella cooperazione hanno un ruolo centrale.

Fra i laici missionari della Consolata un’esperienza esemplificativa è quella di due laici spagnoli che hanno vissuto per sei anni della loro vita – dai trenta ai trentasei – in missione in Roraima, Brasile. Tutti e tre i loro bambini sono nati in missione. «Sì», raccontava Luis nel settembre 2008, «vedere il nostro progetto di famiglia crescere insieme a questa esperienza in Brasile e ai missionari della Consolata è una delle più grandi soddisfazioni che gli anni di missione ci hanno dato. Essere laici e vivere da missionari tra i missionari ci ha arricchito immensamente»@.

Tante sono anche le esperienze ispirate da un sacerdote con una sensibilità missionaria che hanno preso la forma di organizzazione strutturata e laica. La Lvia, Ong di Cuneo, nasce alla fine degli anni Sessanta dall’intuizione di don Aldo Benevelli.

«Adoperava termini strani (cooperazione, solidarietà, giustizia, comunità)» racconta di lui Riccardo Botta, uno dei primi giovani volontari che si fece coinvolgere da don Aldo. «Ebbe l’intuizione di parlare chiaro in difesa dei poveri e del mondo degli ultimi, di portare all’attenzione del mondo occidentale il cosiddetto terzo mondo». Don Aldo, scriveva lo scorso febbraio Luciano Scalettari su Famiglia Cristiana, «è prima di tutto, uno dei “padri” della cooperazione italiana, quando ancora la parola cooperazione non era nel vocabolario»@. I giovani che lo seguirono abbandonarono lavoro, famiglia e carriera per dedicarsi a una lunga formazione professionale e comunitaria per poi partire alla volta di Kenya, Burundi, Senegal, Burkina Faso, Etiopia. La prima volontaria Lvia, Rosanna Cayre, arrivò a Meru nel 1967, ospitata dai missionari della Consolata, mentre è del 1972 l’arrivo del primo volontario in Etiopia, che lavorerà come insegnante nella scuola tecnica degli stessi missionari a Meki@.

A raccogliere l’eredità di queste intuizioni e a federarle è stata la Focsiv, Federazione degli organismi oristiani servizio internazionale volontario, che ha appena compiuto 46 anni e conta oggi un’ottantina di organizzazioni aderenti. Dalla sua nascita, si legge sul sito, «Focsiv e i suoi soci hanno impiegato 27.000 volontari internazionali e giovani in servizio civile».

Siamo alla rocca di Cornuda con il campo mobile dei ragazzi di prima superiore

Giovani e missione: quello che ancora manca

Le realtà di cooperazione di ispirazione missionaria hanno indubbiamente contribuito a fare da ponte fra il mondo missionario e i giovani: i ragazzi che partono, infatti, non sono necessariamente credenti ma, attraverso un percorso professionale, vengono a contatto con la missione e con i suoi valori.

Questo reciproco conoscersi, come l’impegnarsi su problemi condivisi e confrontarsi lavorando nello stesso contesto permette tanto ai giovani che partono quanto ai missionari che li accolgono di superare i cliché e di trovare un linguaggio comune. «Ho lavorato con un missionario che era proprio “avanti”, non sembrava neanche un prete!», è la frase che chi scrive ha sentito pronunciare in diverse occasioni da ragazzi che, partiti con mille pregiudizi, si sono trovati a condividere mesi di lavoro con missionari capaci di leggere il loro tempo e di reagirvi con efficacia. E di ascoltare i dubbi, le proposte, le ingenuità e le intuizioni di un giovane che voleva confrontarsi con loro.

Questo ascolto e questo confronto li ho vissuti in prima persona: «Capisco la tua rabbia di fronte a un’ingiustizia come quella di una baraccopoli», mi disse una volta un missionario della Consolata oggi scomparso, «ma non hai capito niente se pensi che centinaia di migliaia di abitanti delle bidonville dovrebbero mettersi tutti insieme e marciare armati fino al Parlamento per chiedere case decenti e strade asfaltate. Otterrebbero solo scontri e il dispiegamento dell’esercito. Quello che fanno, invece, è organizzarsi in comitati, associazioni e gruppi e lottare giorno per giorno perché un chilometro in più sia asfaltato, un quartiere in più della baraccopoli sia riqualificato, una scuola e un dispensario in più siano costruiti. E noi siamo qui – e in tutto il mondo, anche a casa – proprio per non lasciare solo in questa lotta chi chiede giustizia».

Con quel «non sembra neanche un prete» i giovani intendono indicare probabilmente qualcosa di molto simile a quello che Papa Francesco ha stigmatizzato senza mezzi termini proprio davanti ai 70mila del Circo Massimo quando ha detto: «Penso tante volte a Gesù che bussa alla porta, ma da dentro, perché lo lasciamo uscire, perché noi tante volte, senza testimonianza, lo teniamo prigioniero delle nostre formalità, delle nostre chiusure, dei nostri egoismi, del nostro modo di vivere clericale. E il clericalismo, che non è solo dei chierici, è un atteggiamento che tocca tutti noi: il clericalismo è una perversione della Chiesa».

Chissà che non sia proprio la missione la chiave di volta per reggere la costruzione di un nuovo rapporto fra i giovani e la Chiesa.

Chiara Giovetti

Argentina

 




Giovane: riconosci, comprendi, scegli…


Sei fuggito da un conflitto che ti pareva insanabile, e ti vedeva colpevole. Sei fuggito per salvare la tua vita da chi ti cercava e da te. E nella fuga hai ricevuto il sigillo della tua identità: uomo solo al quale il Dio di Abramo e di Isacco promette discendenza, terra e protezione. Uomo ferito per il quale si ritroveranno benedette tutte le nazioni della terra. Uomo colpevole, visitato in sogno da Dio, ai piedi di una scala che unisce terra e cielo.

Perché fosse la fiducia in Lui a generare la certezza di Lui, e non il contrario, ti ha incontrato nel sonno: «Certo, il Signore è in questo luogo e io non lo sapevo» (Gen 28,16). E ti ha fatto rabbrividire il pensiero di quanto Dio fosse vicino, proprio a te e alla tua vita ingannata.

Sei di ritorno ora, dopo anni di fuga. Sei vicino alla terra che ti ha visto ladro e fuggiasco, e hai timore per la tua vita e per quella di chi ti è caro. Dio, che nel sogno ti aveva detto: «Io sono con te e ti accompagnerò dovunque tu andrai», ha mantenuto la promessa. E, certo, ti accompagna anche adesso, all’incontro con le conseguenze dell’antico inganno. Ti manca solo una cosa: la sua benedizione.

Sei di nuovo solo, è notte e il Signore si fa avanti. Non in sogno questa volta, ma in un corpo di uomo che lotta contro di te (Gen 32,25). Ti ferisce all’articolazione del femore, fa emergere la tua ferita profonda dalle gambe che hanno sorretto la tua fuga. Ma tu non cedi. Sai che quella lotta non prevede sconfitti, sai che incontrare l’altro e rimanere vivo è possibile. La ferita non estingue il desiderio di essere benedetto. Essa, anzi, è parte di quel desiderio, ne è conseguenza, e causa. E, alla fine, vinci. Non ti sei fatto sconfiggere dalla tua ferita, l’hai riconosciuta, lasciandola riconoscere da Dio, lasciandoti riconoscere da Dio con essa. Torni integro, finalmente. E il Signore ti benedice per ciò che sei, benedicendo per te tutte le nazioni della terra. Ora la promessa è compiuta e spunta l’alba. Rivelato a te stesso da Dio, puoi finalmente pronunciare il tuo nome, Giacobbe, e ricevere un nome nuovo, Israele, «colui che lotta con Dio» (e vive).

In questo ottobre missionario, mese del sinodo dei giovani, amico ti augura di riconoscerti, con la tua storia irripetibile, di comprendere la tua vita alla luce di una promessa che ti riguarda, di scegliere di essere, già oggi, tramite di benedizione per tutte le nazioni della terra.

Luca Lorusso

foto in CC da BostonCatholic / flickr.com




Ricordi personalissimi di 25 anni in Corea del Sud

La testimonianza di padre Paolo Lamberto dalla Corea


Padre Paolo Lamberto è partito per l’Estremo Oriente che era ancora sacerdote di primo pelo. Si è trovato in un mondo affascinante ed enigmatico che gli ha conquistato il cuore ma ha anche preso il meglio delle sue energie. Là ha imparato ad affidarsi all’unica forza che non si esaurisce mai.

Avete presente le case con i tetti ondulati e i paesaggi di quei quadri orientali in bianco e nero dove le nuvole danno il senso della profondità e tutto emana un senso di equilibrio e di pace? Ecco, questo era più o meno quello che mi aspettavo di vedere quando sono atterrato a Seul il 23 settembre del 1992. E invece, a perdita d’occhio, palazzi, palazzi e palazzi. Una foresta di cemento e traffico da far paura.

Apprendista missionario in Corea

Ad aspettarmi all’aeroporto insieme ai miei due confratelli c’era Monica. È stata la prima persona coreana che ho incontrato. Poi ho conosciuto altre due Monica e, siccome facevo fatica a ricordarne i nomi coreani, le chiamavo con nome del luogo in cui abitavano: Monica di Yokkok, di Pupyong, di Mansok. Tutte ci hanno aiutato moltissimo. E poi ricordo Jacinta, la prima presidente del gruppo dei nostri amici, piena di vita. E come dimenticare Rufina, sempre fedele ai nostri incontri ma anche per i servizi più umili? Ha avuto una vita difficile, ma anche adesso nei suoi ottant’anni, è sempre allegra e pronta ad aiutare.

Monica di Mansok è già in paradiso. Viveva a Mansok Dong, un quartiere povero della città di Inchon. I padri Diego (Cazzolato, italiano) e Luiz (Emer, brasiliano) vivevano là e lei, pur essendo un po’ disabile, li aiutava a trovare i più poveri del quartiere o i cristiani non praticanti.

Anche io ho vissuto là in tempi diversi. Qualche volta, in inverno, quando stavamo via per qualche giorno, Monica accendeva per noi il rudimentale riscaldamento a carbone della nostra casetta. Mi ricordo di quando venivano i topi in cucina e al mattino trovavamo i segni dei loro incisivi nel sapone. La cappella era un sottotetto dove si poteva stare solo seduti.
I bambini del quartiere ci visitavano spesso e c’era una bella cooperazione con i volontari di un doposcuola per i bambini svantaggiati del quartiere.

Tra le vecchiette che visitavamo ce n’era una che ci raccontava sempre di quando era scappata dalla Corea del Nord poco prima che scoppiasse la guerra.

Ricordo anche con molto affetto e gratitudine gli insegnanti di coreano che hanno faticato a insegnarmi la loro lingua per quasi due anni. Dopo un anno, appena sono stato in grado di leggere il testo della messa da solo, ho cominciato ad andare in parrocchia tutti i fine settimana. Il mio primo parroco, un sacerdote coreano, si chiamava Kim Venanzio. Mi ha insegnato molte cose sulla cultura coreana, ma mi ha anche fatto mangiare i cibi più strani che abbia incontrato nella vita: dal cane alle ginocchia di bue, da una razza, che eufemisticamente potremmo dire che sa di acido urico, a tutto ciò che si trova nel mare, a parte gli scogli.

Nella sua parrocchia ho cominciato a confessare in coreano. Un’anziana signora veniva e mi diceva: «Padre, ho saltato una messa». Ma io che non sapevo distinguere bene le sfumature della pronuncia capivo: «Padre, durante la messa mi sono mangiata una grossa pera». E un’altra: «Padre, mi sono mangiata l’orecchio» (cioè, ci sento poco). Tra me e me rimuginavo sulle strane abitudini alimentari delle nonnette coreane.

Il bello della vita comune

Padre Rafael Del Blanco, argentino, è stato uno tra i primi otto missionari arrivati qui. Intelligente e di gran cuore, era molto impulsivo, e spesso, testa e cuore non viaggiavano sullo stesso binario. Una volta ha comperato 200.000 won (circa 200 €) di pesce da un venditore ambulante. Gli abbiamo detto: «Ma Rafael, tu non mangi pesce, e qui ce n’è per 6 mesi». E lui: «Ma era un’occasione».

Con padre Benjamin (Martinez Solano, colombiano) ho vissuto per qualche anno. Una volta sono andato a trovarlo quando il nostro centro di dialogo interreligioso era ancora a Okkiltong, e con lui c’era un monaco buddista nostro amico. E lui mi ha detto: «Dai, andiamo al karaoke». E così ci siamo andati, io in clergyman e il monaco col suo abito grigio. E la gente guardava stupita lo spettacolo di un prete cattolico e di un monaco buddista che cantavano insieme in coreano. Quante discussioni teologiche ho avuto con padre Luiz Emer, ma stranamente sulle cose pratiche eravamo sempre d’accordo.

Padre Paco (Francisco López, spagnolo) veniva invece da un altro pianeta. Ci siamo aiutati molto e anche voluti molto bene. Ma una volta mi sono arrabbiato davvero con lui. Era di nuovo in ritardo per un incontro che dovevamo fare insieme. Non erano due volte, non dieci, ma sempre, e ogni volta erano almeno 30 minuti. Quanti rosari mi ha fatto dire quell’uomo. Così quel giorno non sono andato all’incontro e ho tagliato ogni comunicazione con lui. «Non ne posso più», mi sono detto, ma pregando in cappella dopo cena, ho letto queste parole: «Non lasciate che nessuna radice cattiva cresca in mezzo a voi» (Eb 12,15). Mi sono reso conto che quelle parole erano proprio per me, così quella notte l’ho chiamato al telefono, vivevamo in due comunità diverse, l’ho svegliato e ci siamo riconciliati.

Un aspetto simpatico della nostra comunità sono le vacanze estive che quasi tutti gli anni facciamo insieme. Per me le più memorabili sono state le prime, pochi giorni dopo essere arrivato in Corea. Andammo al Soraksan National Park. Io mi aspettavo qualcosa come le Alpi, dove tu cammini fino ai 3.000 metri e poi  sei solo a contemplare la natura. Ma no. Prima di salire in montagna abbiamo fatto la coda per comprare il biglietto, poi la salita e poi gente dappertutto, un bar, venditori di magliette e cibi vari. Addirittura, sulla cima dell’Ulsanbawi (una punta rocciosa alta circa 800 metri) un signore vendeva medaglie ricordo per chi era riuscito a fare tutti gli 888 scalini fino in cima. Ma la cosa più simpatica è stata che, il giorno prima di partire, siccome andavamo in montagna, padre Paco aveva raccomandato a padre Antonio (Domenech del Rio, spagnolo) e a me, appena arrivati, di portarci vestiti pesanti. Così noi due abbiamo riempito gli zaini con maglioni e giacconi come se dovessimo scalare l’Himalaya. Ma quello era il Soraksan a fine settembre e faceva un caldo boia. Un altro anno siamo andati sulle montagne del Jirisan (nel Sud della Corea tra i 1.600 e 1.900 metri di altezza). Avevamo comprato una succosa anguria da 9 kg e qualcuno aveva suggerito di andare a mangiarla in cima a qualche montagnola. Indovinate chi è stato il fortunato prescelto dalla sorte per portare l’anguria fino su? Arrivati in cima, però, nessuno aveva voglia di anguria, ed è toccato ancora a me riportarla giù.

Anche le ultime vacanze insieme sono state speciali. Avevamo preparato giochi, birra e stuzzichini per animare la prima sera, ma senza neanche accorgercene abbiamo cominciato a parlare tra noi spontaneamente e liberamente come vecchi amici che si ritrovano dopo anni, ed è stato solo verso le 2 del mattino che ci siamo allegramente resi conto che era ora di andare a nanna.

Corea, tra gioie e fatiche

Alla fine della scuola di lingua, il Signore aveva preparato per me una sorpresa e un’altra chiamata. Avevo messo tutte le mie energie nello studio del coreano ma dopo un anno e mezzo mi ritrovavo senza forze e non riuscivo più a concentrarmi. Mi ci è voluto un bel po’ a riprendermi, ma ogni due mesi rimanevo vuoto di energie per una settimana.

Dal 2000 sono stato incaricato della formazione dei nostri seminaristi coreani. Anche quello è stato un tempo bello, aiutando ognuno a crescere nella fede e nel nostro carisma missionario secondo la sua personalità. E ora i miei cinque seminaristi sono diventati sacerdoti e annunciano il Vangelo in tre continenti: Pietro Han Kyoung Ho in Corea, Martino Han Gyeong Ho in Mozambico, Giuseppe Kim Moonjung in Rd Congo, Benigno Lee Dong Uk in Kenya e Giuseppe Kim Myeong Ho in Colombia.

Alla fine del 2004 ero mentalmente esaurito. Sono dovuto tornare in Italia per un po’ per rimettermi in forma. Sono tornato nel 2005 e da allora non sono più riuscito a fare molte attività. A volte mi sentivo inutile. A volte mi pareva che non ci fosse futuro per me. Ho detto allora a Gesù: «Ero pronto a darti tutto, anche le cose più dure e difficili, ma questo è umiliante. Così non servo a niente! Ma se lo vuoi Tu allora lo voglio anch’io». Così, ciò che da un punto di vista materiale sembrava un tempo di non produttività, dal punto di vista spirituale mi ha aiutato a fare grandi progressi. Ora vedo che se offro immediatamente a Dio non solo le cose buone, ma anche quello che mi fa male, per amore suo ovviamente, tutto diventa sopportabile e ne seguono pace, serenità e gioia.

Ho imparato a cucinare per servire i confratelli della mia piccola comunità, di solito siamo in 2 o 3, e cerco di tenere allegro tutto il nostro gruppo della Corea.

Poi, l’anno scorso, sono andato a Taiwan a predicare gli esercizi spirituali ai nostri quattro confratelli che lavorano lì. Pensavo che mi sarei esaurito nel giro di tre giorni. E invece è andato tutto bene e per sette mesi il Signore mi ha concesso energia come da più di vent’anni non ne avevo avuta. Il Signore mi ha aperto una finestra di speranza per un lavoro missionario più fruttuoso, e gliene sono veramente grato. Ma adesso so che la cosa più importante è quello che Lui vuole, e voglio continuare a seguirlo con allegria, capiti quel che capiti.

Mentre ero in Corea ho perso entrambi i miei genitori. Prima mio papà nel ’93 e poi mia mamma nel 2005. Perlomeno sono riuscito a vedere mia mamma prima che morisse, anche se già non poteva né parlare né capire. Nella camera mortuaria, mentre aspettavamo che fosse messa nella cassa, eravamo alcuni familiari, e con lei lì presente tutti abbiamo sperimentato una grande pace e unità. E non solo, sentivamo come una pioggia di grazie su tutta la famiglia, e in me una grande gioia del tutto innaturale e inspiegabile. La cosa è durata tre mesi e mi sono ritrovato a dirle: «Grazie mamma ma adesso basta grazie».

Pastorale della pastasciutta

Nel 2012, per un progetto di urbanizzazione del governo siamo stati costretti a muovere la nostra comunità di dialogo interreligioso da Okkiltong a Tejon, una città 160 km a Sud. Padre Diego Cazzolato (il veterano del nostro gruppo) e io abbiamo vissuto per vari mesi in un appartamentino di 45 m2 mentre seguivamo la costruzione della nuova casa. Ma a fine anno, dopo neanche tre mesi di vita nella nuova casa, sono stato trasferito a Tongduchon con padre Tamrat (Defar, etiope). La cosa in realtà si è poi rivelata molto provvidenziale. Ci siamo molto aiutati e sostenuti a vicenda nella pastorale dei lavoratori stranieri. Ci sono stati momenti in cui dicevamo: «Beh, noi non siamo poi così speciali, ma il Signore sta radunando intorno a noi tanta brava gente che fa tanto buon lavoro. Il Signore ci sta usando come catalizzatori per la missione». Durante quei 3 anni insieme abbiamo sviluppato la «pastorale della pastasciutta». Con la scusa della cucina italiana abbiamo invitato a casa ogni tipo di persone, e in un ambiente caldo e familiare abbiamo parlato di problemi pastorali, di religione e di ogni altra cosa con preti, suore, cattolici, protestanti, non cristiani, nigeriani, filippini, latinos e coreani. E poi qualche sabato pomeriggio, Tamrat e io camminavamo insieme per un’ora fino a una montagna vicina, prendevamo una frittata e una brocca di vino di riso, e poi tornavamo a piedi, parlando di tutto.

E adesso bisogna proprio che vi parli della messa. Ci sono stati dei momenti in cui mi sono detto: «Ma cosa faccio qui? Vale la pena stare qui o fare questa vita? Sono utile a qualcosa?», oppure: «Dai, impacchetta tutto e torna a casa». Solo la messa mi ha aiutato, giorno per giorno, a trovare forza e soprattutto significato per andare avanti in questa missione.

Ecco, questi sono alcuni ricordi «a caso» dei miei primi 25 anni in Corea, ma il ricordo più importante è: «Se il Signore non fosse stato con noi, tutto quello che siamo e facciamo ora, sarebbe stato impossibile».

Giovanni Paolo Lamberto


I giovani coreani

Di quali giovani parlare? Qui le cose cambiano rapidamente: chissà che tipo di giovani avremo fra 10 anni? Chi ha più di 50 anni quando era giovane ha dato tutto per il «miracolo economico» della Corea. I 40enni sono gli eroi della lotta contro la dittatura militare. I 30enni hanno avuto la vita più facile: la nazione era diventata ricca e le famiglie molto piccole. I 20enni hanno avuto la vita ancora più comoda ma adesso fanno fatica a trovare un lavoro e spesso rimandano matrimonio e figli perché l’economia non tira più come prima. Chi ha meno di 20 anni è sicuramente cresciuto con un telefonino in tasca e il computer davanti al naso.

Però c’è un’esperienza che li accomuna tutti, e per quanto ne so, lo stesso capita per i paesi di cultura confuciana (Cina, Giappone, Taiwan, Singapore, Hong Kong): la scuola.

In Corea, fino all’asilo i bambini possono fare quello che vogliono, nessuno li rimprovera. Ma dalla 1ª elementare vengono «intruppati» nel sistema e da quel momento è solo studiare, studiare e studiare. E fare tutto il possibile per essere ai primi posti. Qui l’educazione è intesa come: «L’allievo è un contenitore vuoto che deve essere riempito dal maestro». E la scuola normale non basta. Appena finito si va alle cosidette Accademie per approfondire inglese, matematica, piano, tae kwon do (taekwondo, un’arte marziale) ecc. È normale per uno studente coreano uscire di casa al mattino alle 7 e ritornare alla sera alle 10 o alle 11.

Molti anni fa, durante le mie prime esperienze di confessione in coreano, ho capito che quando mi parlavano in modo comprensibile erano peccati normali, quando invece parlavano difficile, con molti vocaboli di origine cinese, erano cose grosse. Un giorno è venuta una ragazza e mi ha detto: «Io sono ko sam». Per stare sul sicuro le ho raccomandato: «Quella roba non farla mai più». Che cantonata. Anche il più sprovveduto dei coreani sa benissimo che ko sam vuol semplicemente dire: «Sto frequentando il terzo anno delle superiori e mi preparo all’esame di entrata all’università per cui non esco di casa, non vado con gli amici, non vado a messa, e dal mattino alla sera è solo studio». Dal mattino alla sera è un eufemismo: sulle pareti di molte scuole c’è questa scritta: «Più di 4 e non ce la fai». Cioè: «Se dormi più di 4 ore per notte quando prepari questo esame non ce la farai a passarlo».

Questo esame determina tutta la tua vita futura, chi sarai, quanto guadagnerai, che amici avrai. Accedere a una università di prestigio è come entrare in un club esclusivo, e, indipendentemente dai risultati e dalle materie scelte, i membri della stessa università si aiutano tra loro, ti assumono nella loro ditta, ti aiutano a far carriera.

Pressione e competitività, a cui si è aggiunto di recente il fenomeno del bullismo, sono spesso causa di un grande numero di suicidi tra i giovani. Senza dimenticare che i giovani che escono da queste scuole saranno poi i dirigenti della Samsung, Lg, Kia, Hyundai, ecc. E che questi giovani, così legati alla loro terra e cultura, diventeranno quegli imprenditori che non esiteranno un attimo a trapiantare la loro piccola azienda, se qui non sarà più competitiva, in Cina, Indonesia o America Latina.

Vincenzo, missionario oblato di Maria Immacolata, italiano che lavora molto nel sociale, mi ha parlato dell’emergenza nascosta di almeno 200.000 ragazzi scappati di casa e mi ha descritto i cambiamenti avvenuti col tempo. All’inizio c’è stata la generazione del «doposcuola»: ragazzi poveri che avevano bisogno di essere aiutati con lo studio per uscire dalla povertà. Quando la società si è arricchita è arrivata la generazione del «rifugio»: ragazzini che magari scappavano di casa per conflitti familiari, ma ancora capaci di ascoltare l’autorità e di farsi aiutare. Solo cercavano un rifugio (shelter in inglese) dove poter stare.

Adesso c’è la generazione del «telefonino»: per loro è importante solo il momento presente. Perché studiare o sforzarsi di migliorare? Vivo adesso e il mio orizzonte è quello che posso godere in questo momento. Sì, questa è l’emergenza, ma non è lontanissima dal sentire del giovane medio.

Sone periferiche e povere di Seul

I giovani coreani amano lo sport: il baseball, lo sport più popolare, riempie gli stadi. Vanno alla grande le bands di teenagers che cantano e ballano, per non parlare delle telenovelas e dei film locali. Questi cantanti e attori sono popolarissimi anche nel resto dell’Asia, tanto che è stata coniata una nuova parola: Hallyu, cioè l’onda culturale coreana che si spande per l’Asia. E non dimentichiamo il karaoke (qui si chiama norepang), uno dei divertimenti più popolari in Corea. In questo momento quello che corrisponde alle nostre pizzerie sono i ristorantini di pollo fritto e birra, sempre pieni di giovani universitari.

In Italia tutti sono orgogliosi di sfoggiare la tintarella. Le ragazze coreane invece no. La sfida è essere più bianche delle altre. E allora quando splende il sole tutte in giro con l’ombrellino o un cappello a larghissime tese. E poi creme sbiancanti e creme antisolari. La bellezza qua è un valore importante, quindi le vedrete sempre truccate in modo impeccabile. Dal resto dell’Asia vengono in Corea per comperare i cosmetici locali che sono molto rinomati. E non parliamo della chirurgia plastica: molte volte il regalo dei 18 anni o per aver passato l’esame di ammissione all’università è proprio un ritocchino al naso, al mento o agli occhi.

E in Chiesa? Purtroppo, adesso sembra di essere in Europa: i giovani sono molto rari. Fino al 2000 non era così. Ma poi la denatalità (che è più alta di quella italiana: 9 nati ogni mille abitanti in Italia; solo 8 in Corea), il benessere, o forse «la notte della cultura occidentale» sono arrivate anche qui. Sta di fatto che dal 2000 le vocazioni religiose, una volta abbondanti, sono crollate drammaticamente, e anche quelle per il sacerdozio diocesano stanno mostrando segni di crisi. Ma mai disperare, i coreani possono essere tutto e il contrario di tutto, questo popolo ha fatto stupire il mondo in più di una circostanza, e sono sicuro che i nostri giovani ci stupiranno nuovamente.

G.P.L.


Corea del Sud su MC:

Crogiuolo di religioni, 11/2010
A Seul si dorme poco, 10/2010
Consolazione di frontiera, 11/2012
Una storia affascinante! 25 anni di presenza per gli IMC, 1-2/2013
Venerando Dio in te… buongiorno!, 4/2013
Speriamo non arrestino il batterista, 3/2014
Isaac e Cristina oggi sposi, 3/2014
La Consolata si è fatta coreana, 10/2015
Good morning Korea, 1-2/2017
L’ospite d’onore, 11/2017.




Giovani, speranze da non tradire

Testo su Giovani e Giornata della Gioventù di Chiara Giovetti | Foto AfMC |


Il 12 agosto è la Giornata internazionale della gioventù, data fissata dalle Nazioni Unite nel 1999 per promuovere e valorizzare il ruolo dei 15-24enni. Nel 2017 il tema è stato «Giovani che costruiscono la pace», mentre quest’anno sarà «Spazi sicuri per i giovani». Al di là delle celebrazioni, qual è la situazione di questa fascia cruciale della popolazione mondiale?

I giovani sono, nella definizione delle Nazioni Unite, le persone di età compresa fra i 15 e i 24 anni. Sono un miliardo e duecento milioni, circa il 16% della popolazione mondiale. Il World Youth Report@, una pubblicazione delle Nazioni Unite che esce con cadenza biennale, aiuta a farsi un’idea complessiva della loro situazione. Il rapporto più recente (2016, su dati 2015) apre con un’analisi della situazione dei giovani che sottolinea il problema della disoccupazione, «un motivo di preoccupazione quasi ovunque e che interessava, nel 2014, 73 milioni di persone». I giovani che entrano nel mercato del lavoro oggi, si legge nel rapporto, hanno meno probabilità di assicurarsi un lavoro dignitoso rispetto a chi vi ha fatto il proprio ingresso nel 1995.

Se in alcuni paesi sviluppati i tassi di disoccupazione giovanile hanno avuto punte del 50%, in quelli in via di sviluppo – dove vivono quasi nove su dieci dei giovani del pianeta – il problema principale è che i giovani sono sotto impiegati, lavorano nel settore informale, spesso combinando più lavori part time o temporanei, in condizioni lavorative precarie e per un salario basso.

Le statistiche 2013 stimavano che 169 milioni di giovani occupati vivevano con meno di due dollari al giorno, numero che aumentava a 286 milioni per la soglia di 4 dollari al giorno. Le ragazze sono le più esposte ai rischi della precarietà e dello sfruttamento e hanno, fra l’altro, meno probabilità di diventare imprenditrici rispetto ai loro coetanei maschi.

Citando uno studio 2015 dell’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo)@, il World Youth Report avverte che sarebbe necessario creare 600 milioni di posti di lavoro nelle prossime due decadi per assorbire l’attuale numero di giovani disoccupati e gli ulteriori 40 milioni di nuovi lavoratori che entrano annualmente nel mercato del lavoro.

Ovviamente il dato globale maschera differenze anche molto pronunciate nelle tendenze regionali. Il rapporto sottolinea come fra il 2012 e il 2014 il tasso di disoccupazione risultava aumentato ad esempio in Medio Oriente (dal 27,6 al 28,2%) e Nordafrica (dal 29,7 al 30,5%) mentre era diminuito in Africa subsahariana (dal 12,1 all’11,6%) e rimasto quasi uguale in America Latina e Caraibi (dal 13.5 al 13.4%).

Il rapporto menziona anche la condizione dei Neet (acronimo dell’inglese Not in employment, education or training), cioè i giovani che non sono occupati né stanno seguendo un percorso di formazione e istruzione. Il fenomeno interessa a livello globale circa un giovane su cinque e anche in questo caso le donne sono le più esposte. I maschi Neet sono più numerosi nei paesi sviluppati (11,3%); seguono i paesi emergenti (9,6%) e i paesi in via di sviluppo (8%), dove in assenza di meccanismi di protezione sociale i giovani non possono permettersi di non lavorare e sono costretti ad accettare impieghi precari e sottopagati.

Rispetto ai Neet della Ue, un documento del parlamento europeo@ riporta che nel 2015 nell’Unione a essere in questa condizione era il 12% dei giovani di età compresa tra i 15 e i 24 anni (6,6 milioni di persone), cifra che aumenta a 14 milioni (14,8%) includendo le persone fino a 29 anni. Si tratta di un gruppo sociale molto diversificato, che comprende disoccupati a breve e lungo termine, ragazzi in transizione dalla scuola al lavoro, giovani con responsabilità familiari, persone con disabilità o problemi di salute. La probabilità di essere Neet è inoltre maggiore se si ha un livello di istruzione basso e varia notevolmente da uno stato membro all’altro. Gli ultimi dati della Commissione europea – riferiti però alla fascia di età 24-30 – segnalano Italia e Grecia in cima alla classifica con, rispettivamente, il 30,7% e il 30,5% e Lussemburgo, Svezia e Paesi bassi con i tassi più bassi, intorno al 10%.

Altro dato indicativo è quello sulla partecipazione dei giovani alle consultazioni elettorali: secondo uno studio effettuato in 33 paesi dalla rete World Values Survey, che riunisce studiosi di scienze sociali di tutto il mondo, se il 60% dei cittadini nel loro complesso dichiara di votare a ogni elezione, il dato si contrae al 44% considerando solo le persone fra i 18 e i 29 anni.

Quanto ai dati sull’istruzione, l’aggiornamento più recente sugli Obiettivi di sviluppo sostenibile@ segnala che nel 2014 circa 263 milioni di bambini, adolescenti e giovani in età scolare non erano a scuola. Di questi, 61 milioni erano bambini della scuola primaria, 60 milioni adolescenti della scuola secondaria inferiore e 142 milioni erano giovani della secondaria superiore. Il 70% di questi bambini e ragazzi viveva in Africa subsahariana e Asia meridionale.

Infine, un dato sul rapporto fra giovani e migrazione: nel 2013 (ultimo dato disponibile) sui 232 milioni di migranti a livello globale circa 28 milioni, cioè un po’ più di uno su dieci, erano giovani fra i 15 e i 24 anni e, nello specifico, 11 milioni fra i 15 e i 19 anni e 17 milioni fra i 20 e i 24@.

I progetti di Mco per i giovani

Nel 2018, il lavoro di Mco si concentra proprio sulla promozione e valorizzazione dei giovani, specialmente dal punto di vista della loro condizione lavorativa. I microprogetti che quest’anno i nostri missionari stanno realizzando riguardano l’avvio di attività generatrici di reddito, l’inserimento lavorativo e la formazione professionale.

Uno dei progetti si svolge in Venezuela, paese ancora oppresso da una pesante crisi economica e da un tasso di inflazione che, riportava Reuters lo scorso maggio citando fonti dell’Assemblea nazionale venezuelana, era arrivato a poco meno del 14mila per cento. Il presidente Nicholas Maduro è stato rieletto lo scorso maggio col 67,7% dei voti, ma l’affluenza è stata moto bassa, intorno al 46%, e numerose sono state le contestazioni della regolarità del voto. Oltre un milione di venezuelani ha lasciato il paese negli ultimi due anni, migrando principalmente in Colombia e in Brasile.

«Il salario minimo», scrive padre Zachariah Kariuki, missionario della Consolata che opera in Venezuela, «è salito fino a un milione e trecentomila bolívar, ma non è sufficiente nemmeno a comprare cibo per una settimana» (cfr. MC giugno 2018, p. 27).

Pescatori e artigiani

I missionari della Consolata hanno una presenza a Tucupita, nello stato di Delta Amacuro, dove lavorano con la comunità indigena Warao. Il progetto che padre Zachariah e i suoi confratelli stanno realizzando mira a sostenere cinquanta giovani pescatori fornendo loro strumenti per la pesca – reti e altri accessori – e contribuendo alla fabbricazione di canoe. Questo supporto dovrebbe permettere ai giovani di fare della pesca non solo uno strumento di sussistenza ma anche un mezzo per generare un piccolo reddito che consenta loro di far fronte alle spese della famiglia, ad esempio quelle sanitarie o quelle collegate alla scolarizzazione dei bambini. I casi di abbandono scolastico, infatti, sono ora molto numerosi perché le famiglie non hanno le risorse per acquistare libri, uniformi e per pagare i costi dei mezzi di trasporto necessari ai figli per raggiungere la scuola.

Un altro intervento sarà coordinato da padre Juan Carlos Greco e coinvolgerà altri 90 giovani, sempre di Tucupita, nella produzione di manufatti artigianali. Il popolo Warao ha un artigianato tradizionale di alta qualità specializzato nella produzione di oggetti come cesti, amache, borse in fibra di moriche (palma) che vengono venduti o scambiati sul mercato locale. Questo progetto prevede anche una contestuale formazione alle modalità di estrazione sostenibile delle risorse naturali, la promozione di forme di aggregazione cooperativa fra i giovani e il rafforzamento delle relazioni e degli accordi con i commercianti locali per permettere ai manufatti di raggiungere in modo più sistematico un mercato più ampio.

Costa d’Avorio, crescita con scosse

A giudicare dai dati della Banca mondiale, la crescita economica in Costa d’Avorio nell’ultimo quinquennio è stata una delle più solide del continente. Tuttavia ha conosciuto un rallentamento (dal 10% del 2012 al 7,6% dell’anno scorso) dovuto soprattutto al crollo del prezzo del cacao, uno dei prodotti su cui si basa l’economia ivoriana, a cui si sono aggiunti l’ammutinamento dell’esercito e a una serie di scioperi nel settore pubblico che hanno creato nel 2017 una situazione temporanea di insicurezza e di stallo.

Se nell’inverno fra i 2016 e il 2017 400mila tonnellate di cacao erano bloccate nei porti ivoriani a causa della caduta dei prezzi, due mesi fa è stato l’anacardio a creare non pochi grattacapi agli operatori economici del paese. Il prezzo al chilo stabilito a febbraio dal Consiglio cotone-anacardio, organo che regola la filiera, variava dai 500 franchi Cfa a bordo campo ai 584 di prezzo al porto (cioè fra i 76 e gli 89 centesimi di euro). Ma, riportava a maggio il segretario della Federazione nazionale compratori e cooperative dell’anacardio, Abdoulaye Sanogo, «a causa del crollo del prezzo, oggi si negozia entro una forbice che va dai 250 ai 400 franchi». Risultato: oltre 300 camion bloccati con il loro carico nei principali porti ivoriani perché gli esportatori rifiutavano di comprare a un prezzo che giudicavano troppo alto@.

Eventi come questo a livello di chi trasforma le statistiche in grafici sono rappresentati come nulla più che un breve segmento in discesa e possono, nel corso dell’anno, ritornare a valori positivi. Ma, al livello delle economie dei piccoli produttori, creano effetti devastanti in grado di mettere in ginocchio intere famiglie, le quali di solito ricevono per il raccolto venduto solo un acconto e aspettano per mesi un saldo che può anche non arrivare mai.

Un negozio per i giovani

Grand Zattry è un villaggio della Costa d’Avorio sudoccidentale nella regione del Basso Sassandra, di cui la città portuale di San Pedro è il capoluogo. Qui padre James Gichane sta realizzando un progetto che si rivolge ai giovani disoccupati di venticinque villaggi che fanno riferimento alla parrocchia.

Come in gran parte delle zone rurali della Costa d’Avorio, molti ragazzi terminano a fatica la scuola primaria e non proseguono il percorso scolastico. I genitori, infatti, non li sostengono negli studi, in parte perché le famiglie non riescono a coprire i costi per la scuola e in parte perché preferiscono impiegare il prima possibile i ragazzi nelle piccole piantagioni familiari. «Ma in questo modo», spiega padre James, «i giovani si trovano a dipendere totalmente dalla famiglia e a dover condividere il magro reddito che viene dal raccolto invece di acquisire le competenze necessarie a migliorare e ampliare l’attività agricola familiare o ad avviare un’attività propria». In tanti lasciano il villaggio per i centri urbani medi e grandi, finendo per ingrossare le fila dei lavoratori non qualificati, precari e mal pagati.

Il progetto che padre James sta portando avanti prevede l’avvio di un negozio di pagnes (il telo che in gran parte dell’Africa le donne usano come gonna, come porte-enfant, come copertura per i banchetti al mercato e per numerosi altri usi), magliette e polo. Il negozio, che con il progetto si provvederà a costruire ed equipaggiare, permetterà ai giovani coinvolti di avere un reddito e, a poco a poco, dei risparmi con i quali cominciare a loro volta un’attività. Alcuni giovani hanno proposto di utilizzare i guadagni per avviare dei vivai di alberi della gomma e di piante di cacao, le due specie maggiormente coltivate nella zona.

Spagna, da minori stranieri a lavoratori

Un altro progetto che i nostri missionari intendono realizzare è quello del supporto a dieci ragazzi migranti, fra i 18 e i 25 anni, arrivati in Spagna quando non avevano ancora raggiunto la maggiore età. Questi giovani, che escono dal Sistema di protezione dei minori, si trovano ora ad affrontare l’entrata nel mercato del lavoro spagnolo e, in particolare, quello della città di Malaga.

Il progetto prevede di formare i ragazzi come aiuto cuochi e seguirli nel percorso di inserimento lavorativo. Completeranno la formazione anche laboratori grazie ai quali i giovani acquisiranno conoscenze sul settore delle imprese ricettive a Malaga e sulle tecniche per affrontare un colloquio, compilare un curriculum e promuovere la propria candidatura a fronte di un’offerta di lavoro.

Chiara Giovetti




COMIGI 2018, i giovani: “vogliamo una Chiesa libera, meno gerarchica”

Messaggio finale del COMIGI 2018 |


Terminato il Convegno Missionario Giovanile (Comigi), dal 28 aprile al 1 maggio a Sacrofano, i trecento partecipanti ritornano a casa col sogno di una Chiesa libera.

I giovani lo hanno scritto di proprio pugno nelle conclusioni: «Alla vigilia di un Sinodo che papa Francesco non vuole sia sui giovani ma dei giovani, vorremmo dire che se il mondo continuerà a tacere noi grideremo! E cominceremo a farlo nella Chiesa, che vorremmo più povera, più vicina alla gente, inclusiva, meno paternalistica, più misericordiosa e responsabilizzante».

Giovanni Rocca, 23 anni, Segretario nazionale di Missio Giovani, ha consegnato ai suoi coetanei un mandato: «porto via con me un sogno immenso: che da questo convegno possiamo uscire con le maniche rimboccate. Non più da spettatori ma da protagonisti. Ragazzi, abbiamo idee grandi, forti, ben chiare e definite, nulla ci impedisce di realizzarle. Spetta a noi ora!».

I ragazzi delle diocesi italiane che hanno seguito i quattro giorni di relazioni, laboratori, animazione missionaria, hanno scritto che sognano «una Chiesa coinvolgente, flessibile, dinamica, nomade e meno gerarchica».

Sono stati giorni intensi questi, fatti di lectio e relazioni anche da parte dei vescovi (mons. Arturo Aiello, vescovo di Avellino e mons. Francesco Beschi, vescovo di Bergamo, hanno trasmesso il loro messaggio incoraggiante), ma soprattutto sono stati giorni di incontri, scambio, musica, balli, preghiere.

I ragazzi hanno ascoltato il gruppo rock dei Medison, hanno parlato pubblicamente delle proprie esperienze di vita: sul palco sono saliti Clementa della Guinea Bissau, Barth dalla Repubblica Democratica del Congo, Emma e Sara da Treviso ed altri che hanno raccontato storie di amore condiviso; hanno preso aperitivi con i missionari (padre Claudio Marano ad esempio, ha raccontato cos’è stata la sua vita a Bujumbura, in Burundi).

Sui fogli si leggono desideri come questo: «che la Chiesa sia più umile, che non rinneghi se stessa e annunci al mondo la verità, che sappia sporcarsi le mani agendo concretamente. Che si lasci guidare dallo spirito santo, che ci garantisca di vivere come figli di Dio» e questi desideri verranno recapitati in qualche modo al sinodo.

Il Comigi – evento della fondazione Missio che si tiene ogni tre anni – è stato «la riconferma che siamo qui, ci siamo per davvero- ha detto Rocca-

Siamo pronti a dimostralo coi fatti, con la nostra presenza. La frustrazione e la rabbia resteranno sepolte sotto le macerie del muro del timore che abbiamo abbattuto mettendoci in gioco. Offrendo tutto noi stessi all’altro».

Giovanni Rocca ha parlato dei suoi progetti per «la costruzione di un futuro migliore. Progetti dei quali credevo capaci solo persone lontane da me come Maria e Giuseppe,  ma ho scoperto in questi giorni, che entrambi avevano timore di fronte all’incertezza dell’avvenire».




Crateús, dove Dio è donna

Testi di Stefania Garini, foto cortesia CISV (Raffaele Giammaria, Viviana Pittalis e Marta Versaci) |


Nel Ceará, uno degli stati più poveri del Brasile e tra i più violenti al mondo, suor Erbenia de Sousa, responsabile della Caritas diocesana di Crateús, combatte da sempre a fianco degli ultimi: le donne vittime di abusi, i giovani, i contadini senza terra e le pescatrici senza acqua. Animata da una fede incrollabile nel Vangelo e nella capacità umana di riscattarsi.

suor Francisca Erbenia de Sousa a Crateús

«Ho deciso di farmi suora a 9 anni, il giorno in cui ho assistito allo stupro di una ragazza per strada. Sono corsa in cerca d’aiuto ma nessuno è intervenuto perché dicevano che era una prostituta. Quella ragazza è stata violentata e uccisa, ma non importava a nessuno. Per me è stato terribile, mi sentivo impotente, ho iniziato a pensare che consacrandomi avrei potuto aiutare le donne, le tante vittime di violenza che nel mio paese restavano “invisibili”». Racconta così la sua vocazione suor Francisca Erbenia de Sousa, nata 53 anni fa a Quixeramobim nello stato del Ceará, Nord Est brasiliano, e dal 2006 responsabile della Caritas diocesana di Crateús.

All’epoca, il papà fa il camionista trasportando il cotone delle piantagioni, mentre la mamma si occupa dei sette figli. «I miei genitori non erano religiosi. Mio padre era legato agli ambienti politici di destra, ultraconservatori, e ostacolava la mia scelta, così a 17 anni me ne sono andata di casa per farmi suora». Da allora questa religiosa dall’apparenza dimessa, ma tenace e combattiva, non ha mai smesso di battersi per i diritti degli ultimi, a cominciare proprio dalle donne: le prostitute e le vittime di abusi, le catadores che campano raccogliendo rifiuti, le abitanti delle favelas, le contadine senza mezzi e senza terre, le pescatrici prive di prospettive economiche e riconoscimenti professionali.

Abbiamo incontrato suor Erbenia durante il suo primo viaggio in Italia lo scorso novembre (2017), in compagnia di Antonio Adriano Leitão, responsabile dei progetti sociali della Caritas di Crateús, in visita a due associazioni con cui la Caritas brasiliana collabora, Cisv di Torino e WeWorld di Milano.

Teologia incarnata

Formatesi alla scuola del pedagogista Paulo Freire e della teologia della liberazione, Erbenia e la Caritas di Crateús promuovono una lettura critica delle disuguaglianze sociali, viste non come volontà di Dio cui ci si deve piegare ma al contrario come una violenza nella creazione divina. «L’esistenza di Dio si traspone nelle nostre esistenze e ci spinge a interrogarci sulla realtà che ci circonda: com’è possibile che molti di noi debbano vivere senz’acqua da bere, senza terra da lavorare, senza prospettive per i giovani? Il volto di Dio è quello che si mostra nell’Esodo: “Ho osservato la miseria del mio popolo […] conosco le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo […] verso un paese nel quale scorre latte e miele” (Esodo 3,7-10). È un Dio capace di vedere e ascoltare gli affanni, le speranze, le perdite ma anche le potenzialità delle vite umane». Si tratta di una teologia incarnata, in cui la dimensione spirituale resta inseparabile dall’azione concreta: «La preghiera è per noi un’esigenza quotidiana, in chiave contemplativa: pregare significa contemplare la vita di ogni giorno, cercando di leggerla alla luce del Vangelo», spiega suor Erbenia. «Il nostro modo di considerarci figli e figlie di Dio ci porta spesso a unirci alla popolazione nell’occupazione delle terre rurali e urbane lasciate in abbandono, o prese indebitamente da imprese minerarie e fazendeiros» (cfr. MC novembre 2017). Iniziative che spesso sono costate aggressioni e intimidazioni. «Abbiamo subìto una forte repressione militare tra gli anni Sessanta e Ottanta, molti di noi sono stati vittime di violenze, persecuzioni, prigionia, abbiamo imparato a correre al buio per scappare. E oggi le occupazioni di terre continuano ad attirarci le “attenzioni” di fazenderos e polizia», racconta la suora senza tradire emozioni.

Pur essendo la nona potenza economica al mondo, negli ultimi due anni la situazione del Brasile è molto peggiorata, e oggi la Chiesa brasiliana si sta schierando sempre più apertamente contro il governo di Michel Temer. «Il nostro paese è un palcoscenico di corruzione, si è tornati a colpire le popolazioni indigene e gli afro discendenti, soprattutto i giovani. I diritti conquistati a fatica in 50 anni sono adesso andati perduti: pensate che i programmi d’intervento popolare sono stati tagliati del 92%», dice Erbenia, ricordando come il governo Lula avesse garantito case popolari, assegni familiari in base al numero di figli e la possibilità per i giovani poveri di accedere all’università. «Oggi, per la prima volta nella storia del Brasile, in parlamento c’è una presenza fortissima delle chiese pentecostali, che sono fautrici di una politica ultraconservatrice. E ciò favorisce un clima repressivo, violazioni dei diritti e violenza diffusa». Il Brasile è il quinto paese al mondo per femminicidi, e si calcola che più del 50% delle donne tra i 14 e i 50 anni abbiano sofferto una qualche forma di violenza. Il primo passo per cambiare questo stato di cose è «investire nella formazione, come insegnava Paulo Freire: l’oppresso ha bisogno di riconoscersi come tale per riuscire a liberarsi», spiega Adriano Leitão, responsabile dei progetti sociali della Caritas di Crateús, che come suor Erbenia fa parte della fraternità mista in cui vivono insieme suore, preti e laici. «Per affrancare le donne dalla violenza occorre renderle libere su un piano pratico, autonome dal punto di vista professionale ed economico». Ed è quanto fa la Caritas nel Nord Est brasiliano insieme ad altre associazioni, come Cisv e WeWorld.

Puntare sui giovani

La Caritas, che secondo le parole di papa Francesco è «la carezza della Chiesa ai poveri», nello stato del Ceará è organizzata in 800 comunità ecclesiali di base che condividono la lettura critica della realtà volta a emancipare la persona, attraverso un’educazione contestualizzata, cioè adattata al contesto in cui vive. «Nel nostro territorio i figli e le figlie delle famiglie contadine sono tradizionalmente i più esclusi dall’istruzione. Perciò una quindicina d’anni fa abbiamo occupato un terreno per fondarvi una scuola, così da poter offrire loro una formazione di qualità sulle tecniche agroecologiche, alla luce delle specificità ambientali e sociali del territorio semiarido brasiliano», spiega suor Erbenia. La scuola accoglie ogni anno oltre 100 ragazzi e ragazze che, secondo la pedagogia dell’alternanza, per 15 giorni al mese seguono le lezioni teoriche e pratiche (sull’agricoltura, sul commercio solidale ma anche sulla gestione dei conflitti), mentre negli altri 15 giorni vanno a casa ad applicare negli orti familiari ciò che hanno appreso. I giovani che escono dalla scuola di agroecologia sono poi aiutati a trovare un primo impiego e in seguito, sempre in una logica di alternanza, spinti a frequentare l’università.

Negli anni la Caritas di Crateús, che conta oggi circa 70 membri, ha creato 126 scuole e formato 17.000 studenti, che hanno potuto «imparare il rispetto della terra e la produzione di cibi sani, senza fare ricorso ai pesticidi o a pratiche tradizionali di incendio dei terreni, e impiegando tecnologie idonee per l’immagazzinamento dell’acqua. Tutto questo nella prospettiva del Bem viver (vedi sotto) e grazie all’opera gratuita di oltre 1.500 insegnanti, uomini e donne impegnati a titolo volontario». Erbenia non usa molto la parola provvidenza, ma ogni suo discorso trasmette piena fiducia e positività per il futuro.

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Il business della siccità

La maggior parte dei giovani che oggi beneficiano della formazione Caritas provengono da 2.600 famiglie di pescatori o pescatrici d’acqua dolce, che nel Ceará rappresentano i più poveri tra i poveri, isolati e ignorati dalle istituzioni. «La Caritas di Crateús, insieme al Cpp, Consiglio pastorale della pesca, e all’Ong Cisv, grazie a un progetto cofinanziato dall’Unione europea, lavora con queste famiglie alle prese con un’aridità cronica, aggravata dal fatto che qui non piove ormai da 6-7 anni».

Il problema non è solo ambientale ma politico, come ci spiega Adriano: «Il semiarido brasiliano è quello, tra tutti i semiaridi, in cui piove di più al mondo, quindi il problema non è solo la siccità ma la privatizzazione dell’acqua e l’assenza di politiche pubbliche». La siccità anzi per molti è un business: «Le imprese legate al governo producono cisterne per l’acqua in plastica, che costano attorno ai 5.000 reais (circa 1.300 euro), mentre noi le costruiamo in cemento, materiale più ecologico ed economico, che riduce i costi di un terzo».

La mancanza cronica di acqua e di pesci attenta alle risorse vitali delle numerose famiglie rurali, che vivono tradizionalmente di pesca. «Noi cerchiamo di creare opportunità alternative di reddito e spingere il governo a farsi carico del problema, perché la legge vieta, di fatto, a pescatori e pescatrici di integrare le loro entrate con altre attività produttive», spiega suor Erbenia. Anche qui, «le più discriminate sono le donne: a loro non è riconosciuto lo status professionale di pescatrici, perché vengono considerate semplici “accompagnatrici” dei mariti e “aiutanti” dei pescatori, quindi escluse dagli scarsi sussidi previsti per le aree depresse». Il Ceará è uno degli stati brasiliani dove è più radicata la cultura machista, «un modo di pensare che non è peculiare del maschio, ma impregna anche le donne, minando alla radice la loro autostima e la fiducia nelle proprie possibilità». Resta allora fondamentale intervenire con la (in)formazione, che permette di de-costruire i modi di essere dominanti e costruirne di nuovi. «Ma soprattutto all’inizio è stata dura mettere queste donne intorno a un tavolo per ragionare insieme sulla loro condizione e sulle alternative possibili. Gli uomini non volevano che partecipassero agli incontri e li sabotavano. Una donna ci ha raccontato che, quando il marito usciva di casa, la legava per i capelli al soffitto per impedirle di allontanarsi. Adesso, grazie al nostro lavoro di sensibilizzazione, alcuni uomini hanno iniziato ad aprirsi e spingono le mogli, che non si sentono all’altezza, a frequentare il centro».

Pescatori su un laghetto nei dintorni di Crateús

La salvezza è donna

Come ci spiega Erbenia, il lavoro di empowerment delle donne si ricollega a una lettura della Bibbia in chiave «femminista» (vedi box) ispirata alle posizioni del Centro Ecumenico di Studi Biblici, in particolare alla teologia del Pés no chão, piedi per terra, che trae spunto dai lavori di Leonardo Boff e Ivone Gebara. Attraverso alcune figure chiave dell’Antico e del Nuovo Testamento – le ostetriche che disubbidiscono all’ordine di uccidere i neonati maschi; la sorella di Mosè che guida il passaggio dalla schiavitù d’Egitto alla terra promessa; Elisabetta che genera vita anche in tarda età; Maria che spinge Gesù al primo miracolo di Canaan – emerge il ruolo fondamentale della donna nella storia della salvezza. «L’atteggiamento di Gesù è sempre stato quello di domandare, piuttosto che insegnare. Sono state le donne da lui incontrate che, in vari modi, gli hanno mostrato come approcciarsi alla realtà, mettendo al centro la persona e il valore della vita». Una prospettiva non banale, in una cultura come quella brasiliana permeata di maschilismo e misoginia.

La teologia della liberazione e le pratiche sociali a essa connesse non sempre hanno incontrato i favori del Vaticano. Gli stessi vescovi brasiliani in passato si sono spesso schierati contro di essa. Ma oggi le cose stanno cambiando e nuove speranze per l’umanità, ci dice Erbenia, provengono dall’attuale pontefice che ha rappresentato una svolta rispetto al conservatorismo dei suoi predecessori: «Al di là delle dichiarazioni e degli scritti, è soprattutto il suo atteggiamento umano che stimola al cambiamento reale, nel segno di una Chiesa aperta dove il Verbo si fa carne». E del resto, conclude la suora con un sorriso, «non è un caso se papa Francesco ha vissuto molto tempo in America Latina».

Stefania Garini

suor Francisca Erbenia de Sousa su uno dei laghetti attorno a Crateús


La filosofia del Bem Viver

Anche oggi si può essere felici

Prendersi cura di chi si prende cura, occupandosi della terra e proteggendo la biodiversità. Non è possibile stare bene senza una dimensione comunitaria, senza un legame con l’ambiente.

«In Brasile siamo figli e figlie di un ventre violato, siamo discendenti di indigeni, africani, europei; un incrocio di popoli nato dalla violenza della colonizzazione». A questa violenza originaria, dice suor Francisca Erbenia de Sousa, responsabile della Caritas diocesana di Crateús, risale la dicotomia che permea la storia recente del Brasile, tra avere ed essere: «Abbiamo ereditato una malattia dello spirito, pensando di poterci realizzare solo se “abbiamo”. Siamo impregnati di consumismo e siamo schiavi di questo modello, schiavi dei cellulari, dei vestiti, pronti a tutto per ottenerli: a indebitarci, a rubare, a compiere violenze finendo ai margini della società. “Abbiamo”, ma siamo infelici, il nostro è tra i paesi con il più alto tasso di suicidi al mondo, soprattutto di giovani». Per superare questo modello distruttivo, molte iniziative della Caritas di Crateús si ispirano al concetto del Bem viver.

Sviluppato da Euclides André Mances, fondatore dell’Istituto di Filosofia della liberazione, il Bem viver «consiste nell’esercizio umano di disporre dei mezzi materiali, politici, educativi e informativi per soddisfare eticamente le necessità biologiche e culturali di ciascuno, ma anche per garantire eticamente la realizzazione di tutto quanto possa essere concepito e desiderato per la libertà personale senza negare la libertà pubblica». In opposizione all’appropriazione di conoscenze, ricchezze e accumulo – con lo scopo più o meno consapevole di dominare (l’altro, il tempo, la natura…) – il Bem viver si prende cura della Madre Terra e dei suoi ritmi: «Proteggo, coltivo e mi prendo cura di un ambiente dove la vita ha le proprie leggi e il proprio tempo», nota Erbenia. In questa prospettiva una dimensione importante è quella del cuidade curanderos, il «prendersi cura di chi si prende cura», ad esempio avendo riguardo per la terra, rispettandone la biodiversità, evitando di avvelenarla con pesticidi, prendendo da essa il necessario per vivere e non di più. Questo atteggiamento di curatori e protettori del Creato ci rende a immagine e somiglianza di Dio, ed è il percorso – indicato anche da papa Francesco nell’enciclica Laudato Si’ – che ci permette di superare il cancro del consumismo».

Esiste un forte legame tra il Bem viver di ciascuno e quello di tutti, in una prospettiva di promozione della libertà che si muove su un piano insieme concreto e utopico, e si riconnette alle parole di Gesù: «Sono venuto perché abbiano la vita, e l’abbiano in abbondanza» (Gv 10, 1-21). Come spiega suor Erbenia, «stare bene non può essere un fatto solo personale: non è possibile stare bene senza la dimensione comunitaria e senza un legame con la terra, senza che stiano bene la natura e chi la abita. È qualcosa che a Crateùs cerchiamo di realizzare anche simbolicamente attraverso la ciranda, una danza che si fa tutti assieme, in cerchio, cercando ognuno di rispettare i passi dell’altro e lasciando il giusto spazio per ciascuno. Il nostro sogno è espandere questo girotondo, per allargare il cerchio delle possibilità a sempre più persone e costruire una diversa realtà».

S.G.


La lettura femminista della Bibbia

Chi decide la storia

Le figure femminili nell’Antico e nel Nuovo Testamento hanno spesso un ruolo pedagogico e salvifico. Queste figure sono fondamentali per la vita.

Il Centro ecumenico di studi biblici segue una corrente della teologia della liberazione che valorizza il ruolo spirituale e salvifico della donna. Come spiega suor Francisca Erbenia de Sousa, si possono leggere in tal senso alcune figure femminili della Bibbia che «pur restando spesso senza nome, hanno avuto un ruolo pedagogico rispetto ai protagonisti maschili della storia della salvezza». Come le ostetriche egizie del libro dell’Esodo che, rifiutandosi di ubbidire al re e uccidere i neonati maschi ebrei, riescono a salvarli evitando uno scontro diretto contro il potere e ricorrendo a un abile stratagemma, dichiarando di non esser arrivate in tempo perché le madri avevano partorito troppo in fretta: «Le donne ebree non sono come le egiziane, sono piene di vitalità. Prima che giunga da loro la levatrice, hanno già partorito» (Es 1, 8-22). O come Miriam, la sorella di Mosè, che ha un ruolo significativo e guida le donne israelite nella danza e nei canti per festeggiare la liberazione dalla schiavitù quando le acque del Mar Rosso si chiudono sulle truppe egiziane (Es 15, 20-21). «Episodi come questi mostrano che chi decide la storia sono le figure femminili, che aiutano la vita: a nascere, a crescere, a sfuggire ai pericoli».

Emblematico è poi l’incontro tra Maria ed Elisabetta, che segna il passaggio dall’Antico al Nuovo Testamento (Lc 1, 39-45). «Elisabetta esprime la saggezza della donna che genera vita pur essendo avanti con gli anni, e accoglie una donna più giovane di lei in cui inizia ad affacciarsi la vita. È Maria qui a essere “accolta”, perché è in fuga dopo la scoperta di essere rimasta incinta. Le due donne rappresentano un Dio che si rivela tanto nella gioventù come nella vecchiaia». Analogamente, Giovanni Battista e Gesù rappresentano due modelli di umanità: il primo ha una relazione forte con la natura, vive nel e del deserto, per disintossicarsi dalle convenzioni sociali; Gesù invece ha una particolare sensibilità verso gli esseri umani, è più «prossimo» alle persone, più accogliente.

Nel Nuovo Testamento la Madonna spinge il figlio, ancora riluttante, a compiere il suo primo miracolo, insegnandogli che «bisogna agire quando è necessario» (Gv 2, 1-11). Mentre l’emorroissa che si fa strada tra la folla per toccargli un lembo del mantello gli insegna che la legge dev’essere al servizio della vita, e non viceversa (Lc 8, 40-48). «L’emorroissa è una donna impura per le perdite di sangue, non può avere contatti fisici con le altre persone, e il fatto di farsi strada in mezzo a molta gente la pone a rischio della sua stessa vita; ma il dolore e le discriminazioni le hanno insegnato ad alzare la testa, e Gesù non rimane insensibile a queste sofferenze».

Infine l’episodio dell’adultera che, in base alle leggi vigenti, deve essere lapidata (Gv 8, 1-11). «L’aspetto interessante qui è il gesto di Gesù che si china per terra, come a condividere con il suo corpo il movimento verso il basso, assumendo la sofferenza della donna e dando la propria vita in sua difesa. In questo modo è lasciata agli accusatori la responsabilità della decisione, mentre all’adultera – e a Gesù – non resta che riprendere in mano la propria vita».

S.G.

suor Francisca Erbenia de Sousa a Crateús




È notte fuori

Amico | Testo di Luca Lorusso |


È notte fuori e tu non riesci a riposare. Ti senti inquieto. C’è qualcosa che spinge dentro di te, che ti turba, e non sai cos’è. Vorresti contenerlo, come hai sempre fatto, controllarlo. Questa notte non ce la fai. Vorresti parlarne con i tuoi cari, con i tuoi maestri, ma ti vergogni della tua confusione, e poi ora dormono tutti.

È notte fuori, ma è notte anche in te.

Cerchi, allora, una risposta nella legge, prendi la Scrittura, ma sei distratto. Niente frena il galoppo del tuo cuore e dei tuoi pensieri. Poi ti si presenta alla memoria un salmo: «Lungo i fiumi di Babilonia, là sedevamo e piangevamo ricordandoci di Sion. Ai salici di quella terra appendemmo le nostre cetre» (Sal 136). E il fiume in piena di una nostalgia che non conoscevi rompe gli argini: anche tu hai appeso le tue cetre, i tuoi canti di gioia ai salici di un paese straniero. E ti ricordi di quell’uomo che oggi hai visto compiere segni nel tempio.

Non sai perché pensi a lui, ma sai che devi uscire a cercarlo.

Lo trovi grazie alle informazioni che durante il giorno hai raccolto dai suoi discepoli. Quando entri da lui hai l’impressione che ti stesse aspettando. Ha, infatti, in mano le chiavi della tua inquietudine: per due volte parla del Regno. Quella condizione di cui hai nostalgia. Abitare libero e autentico la tua vita, e suonare la cetra dei tuoi desideri profondi, messi in te, come semi, da Dio. «Se uno non nasce dall’alto, non può vedere il regno di Dio» (Gv 3, 1-21).
Il nodo che stringe le tue viscere si allenta. Le parole che quell’uomo pronuncia rispondono alle domande del tuo cuore pur senza rispondere a quelle della tua bocca.

E se uno potesse rinascere davvero? Rinascere da vecchio? Venire di nuovo sollevato, come da bimbo, alla guancia di Dio?

Tu sei maestro a Gerusalemme, Nicodemo, sei stimato per le cose che sai, per le tue risposte sagge alle domande più difficili. Tu sai qual è il tuo compito. E anche lui lo sa. Eppure ti chiede di ridiventare bambino, di ritrovare la meraviglia della domanda tralasciando la sicurezza della risposta, di aprirti a un Dio inatteso, diverso da come lo attendevi.

Quando ti parla del Figlio dell’uomo che deve essere innalzato come il serpente di Mosè nel deserto «perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna», rimani interdetto. Non capisci. Ti sembra che la luce intravista poco fa si smorzi in una nuova confusione. Ma non è più come quella di prima. Questa è una confusione carica dell’attesa di un mistero. La prospettiva della fede e della vita eterna in una vita rinnovata ti ha rapito. Anche se non sapresti spiegarla a nessuno.

Esci di nuovo nella notte quando inizia a fare luce. Ti senti come ritornato nel grembo di tua mamma.

Quando vedrai il Figlio dell’uomo
innalzato, rinascerai.

Buon cammino verso la luce, da amico.

Luca Lorusso

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Cantare la bellezza dell’amore del Padre


L’incontro con l’Africa, i suoi ritmi e le sue musiche; amici con esperienze di volontariato missionario; giovani missionari italiani, latinoamericani e africani; un cuore aperto al mondo; l’amore del Padre di tutti; la passione per la musica: questi gli ingredienti che hanno dato origine al coro TataNzambe, al suo decimo anniversario.

«Dio ci ha chiamati per andare nel mondo, siamo partiti con un cuore profondo, colmo di amore per la missione, siamo tornati più ricchi con una nuova canzone, e per non rendere vano questo grande tesoro, un gruppo di amici è diventato un coro…». In questa strofa dell’inno del coro TataNzambe si racchiude l’inizio della nostra breve storia nelle case dei missionari della Consolata di Vittorio Veneto e Nervesa della Battaglia (Tv). Dieci anni fa alcuni di noi, di ritorno da un campo di conoscenza nella missione di Loyangalani in Kenya, si sono chiesti: come possiamo annunciare la bellezza dell’essere una missione su questa terra?

Comunicare con la musica

L’esperienza nel Nord del Kenya è stata determinante. Con baba (padre, in kiswahili) Godfrey Msumange, tanzaniano allora impegnato come animatore missionario nella nostra zona, abbiamo vissuto per quasi tre settimane a Loyangalani, in riva al lago Turkana, mettendoci a disposizione delle necessità della missione: abbiamo imbiancato la chiesa, fatto alcune giornate di animazione stile «grest» con i moltissimi bambini e i giovani, distribuito il cibo ai poveri, visitato gli ammalati, incontrato le varie comunità disperse su quel vasto territorio semidesertico.

In un’area con diversi gruppi etnici, Turkana, Samburu, El Molo e anche Gabbra, ciascuno con la sua lingua e non sempre fluenti in kiswahili e tantomeno in inglese, non era semplice comunicare. Abbiamo allora scoperto che con il violino di Elena e la chitarra di Marco le distanze si accorciavano. I bambini hanno imparato subito l’«Alleluia delle lampadine», tradotto in kiswahili dal nostro «baba», e quando ci vedevano in giro con il fuoristrada (da quelle parti i Suv non sono certo un lusso, ma una dura necessità), subito portavano le mani alle spalle e cantavano.

Volevamo mettere a disposizione i talenti che Dio ci aveva donato, però la «lingua» ce lo impediva: la musica e il canto sono stati la risposta. La musica arriva al cuore delle persone; la melodia, il ritmo, i colori, ci portano in un istante in altri mondi: le percussioni ci trasportano nei villaggi dell’Africa, le melodie in minore nelle grandi periferie dell’America Latina, i suoni meditativi all’Asia.

La nostra idea quindi è stata di portare anche in Italia, nella zona in cui viviamo, la bellezza e la gioia del Vangelo con lo strumento della musica e del canto, usando melodie e testi religiosi provenienti da diverse culture. Abbiamo costituito un coro, al quale però occorreva dare un nome. «Tata Nzambe» vuol dire Dio (Nzambe) Padre (Tata) in lingua lingala. Due parole ricorrenti nel ritornello di una delle prime canzoni che abbiamo imparato: perché non chiamare così il nostro coro?

Il mondo in musica

La maggior parte dei coristi, chi prima, chi poi, è stata in qualche missione della Consolata per un campo di lavoro e conoscenza e ha portato a casa il fuoco della missione e le musiche sentite, partecipate e danzate laggiù. Proprio quelle musiche sono il repertorio che ci caratterizza.

Come tutto ciò che diventa un po’ nostro, prendendo le nostre sembianze, anche i canti hanno avuto un’inculturazione europea. L’aggiunta di strumenti nuovi (violino e arpa) alle musiche di altri paesi e culture ha permesso di esplorare nuove potenzialità racchiuse in quelle melodie.

Al coro, in questi 10 anni hanno partecipato tante persone: chi è ancora presente dalla fondazione, chi ha lasciato per impegni familiari, chi ha lasciato perché cercava altro, chi (come i missionari) per obbedienza. Altri si sono aggiunti. Siamo felici di aver fatto un pezzo di strada con ciascuno. Dopotutto, come dice un nostro caro amico, la missione è condividere la vita, là dove ci si trova. L’amicizia, e ciò che è stato costruito insieme, rimane nel cuore.

Il nostro esordio come coro è stato nel Natale del 2006, nella chiesetta della Consolata a Vittorio Veneto. Nessuno ancora ci conosceva e allora abbiamo giocato in casa. Quella sera, Mwokozi Bwana (lett. «Salvatore Signore», un canto in kiswahili che si adatta al Natale – amezaliwa = è nato – o alla Pasqua – amefufuka = è risorto -), Junto a ti Maria e Los peces en el Rio («Unito a te, Maria» e «I pesci nel fiume», due canti tipici del Natale latinoamericano) furono alcuni dei brani che cantammo e che tuttora fanno parte dei nostri concerti natalizi.

Alcuni anni dopo, è nato anche l’inno del coro TataNzambe: musiche e testo dei nostri bravissimi musicisti e parolieri. È stato un lavoro a più mani in cui, chi aveva le competenze, ha dato il suo prezioso apporto, e così ora, nei nostri concerti, il primo brano è sempre l’inno, che racconta chi siamo. Anche se non siamo un coro di professionisti, cerchiamo di fare del nostro meglio, perché come l’Allamano ci insegna, bisogna «fare bene il bene».

Eventi, eventi, eventi

Diversi eventi importanti hanno segnato il nostro percorso. Abbiamo partecipato a due Consolata Festival, uno in Veneto e l’altro nel Salento. I Consolata Festival sono stati appuntamenti, o meglio «campi» estivi canori e musicali con concerti serali nelle piazze. Che gioia incontrare gli altri cori della Consolata in Italia, e cantare tutti insieme.

Ci siamo arricchiti di musica, ma specialmente di relazioni, che tuttora manteniamo con tutti gli amici coristi e musicisti di Torino e Martina Franca, senza dimenticare i tanti missionari che sono stati con noi, e i seminaristi del seminario di Bravetta che ci hanno accompagnati e sono stati parte integrante degli spettacoli che andavamo a fare.

Il TataNzambe poi è stato anche in televisione, invitato da Tv2000. È stato un bel momento di coesione, ed è stato significativo soprattutto il fatto che nonostante fossimo in una trasmissione che selezionava i cori per un concorso («La canzone di noi»), abbiamo mantenuto la nostra specificità parlando di missione con la musica. E l’ultimo evento particolare è stato il capodanno del 2016, quando con una parte del coro, siamo stati in Portogallo, e abbiamo condiviso una serata in musica con i Laici Missionari della Consolata a Lisbona e poi, il 31 dicembre, a Fatima, abbiamo fatto un concerto e animato la messa all’interno dell’Hotel Consolata.

Nel corso di questo decennio abbiamo incontrato, durante le animazioni delle messe e dopo i concerti, moltissime persone, e tutti sono stati concordi nel dirci che il nostro coro trasmette gioia. La gioia, la felicità che al mondo d’oggi è ricercata dappertutto, la troviamo nel messaggio evangelico, come ci suggerisce l’Evangelii Gaudium.

Avanti in Domino

Nonostante il nostro impegno ad attingere dal Vangelo l’acqua viva che rende piena la nostra gioia, il nostro cammino non è stato esente da difficoltà ed è segnato da luci e ombre. Non è sempre facile essere presenti alle prove e ai concerti; sono sempre dolorosi i distacchi di chi se ne va; si fa fatica a non giudicare l’impegno degli altri; alcune volte il fuoco della missione si spegne… Cosa fare quindi? Rimboccarci le maniche e ripartire sempre con la speranza che nel cammino qualcosa ci sconvolga positivamente e ci faccia vedere nuovi orizzonti.

Per il futuro stiamo cercando di mettere in cantiere uno spettacolo – concerto ispirato all’Evangelii Gaudium, e poi magari… cantare a una messa con il Papa. Chissà. Intanto «Avanti in Domino», avanti nel Signore, come diceva il beato Allamano.

Roberta Biz*
* Partecipante al primo campo a Loyangalani, tra i fondatori del coro e direttrice dello stesso.

www.tatanzambe.com
Canale Youtube: thetatanzambe

Note in cammino

Inno di TataNzambe

Dio ci ha chiamati
Per andare nel mondo
Siamo partiti
Con un cuore profondo
Colmo di amore
Per la missione
Siamo tornati più ricchi
Con una nuova canzone
E per non rendere vano
Questo grande tesoro
Un gruppo di amici
È diventato un coro

Rit: Siamo note in cammino
Verso nostro Signore
Abbiamo il cuore nel mondo
Ed il mondo nel cuor,
Siamo note in viaggio
Verso una nuova missione
Che è portare un messaggio
Nei cuori delle persone

Mano con mano
Preghiamo cantando
Parliamo di Cristo
Al prossimo e al mondo
Senza timore
Di lingue o confini
Perché musica e note
Ci fanno vicini
Serviamo il signore
Con la testimonianza
E se vi tocchiamo nel cuore
Unitevi alla danza (Rit.)