A spasso su strade d’acqua


L’Amazzonia, quasi un mito lontano, con la sua foresta, gli immensi fiumi. Ma anche territorio conteso, al centro dell’attualità, tra incendi e cambiamenti climatici. In questo ecosistema ci sono tante storie umane, semplici e complesse.

Il 23 agosto del 2019, io e la mia amica Marika siamo partite per Belém (Pará, Brasile), dove avevo il contatto di una coppia. Appena arrivate ci siamo tuffate nell’accogliente umidità della città, dal sapore aspro dell’açai. L’açai è una bacca di colore blu, alimento base delle popolazioni indigene. Da essa si ricava una bevanda violacea ricca di antiossidanti.

Da Belém siamo partite per la Ilha do Marajò, l’isola fluviale più grande al mondo. In seguito, abbiamo preso un barcone fluviale, un mezzo di trasporto locale che poteva ospitare fino a 300 amache e qualche cabina, per raggiungere l’ecovillaggio di Macaco, vicino alla Ilha do Amor (Isola dell’amore), e raggiungere infine Manaus. In totale, cinque giorni e 105 ore di navigazione sull’immenso Rio delle Amazzoni.

A Manaus ci aspettava la meravigliosa famiglia di Vau ed Enoque, di cui conoscevamo solo i nomi. Marika aveva ottenuto il loro contatto da una commessa di un negozio di Forlì, dopo averle chiesto il prezzo di un paio di jeans. La vita funziona sempre in maniera inaspettata.

Da questa base sicura, siamo partite nuovamente per conoscere gli angoli meno conosciuti di Manaus e dintorni.

Voglia di raccontare

Da quel viaggio sarebbe nato poi l’impulso di narrare questa parte straordinaria del mondo, ma soprattutto la vita delle persone incontrate. E ne sarebbe nato «Strade d’acqua», una raccolta di racconti. Il libro ripercorre le tappe più significative del viaggio. In ognuna di esse c’è un personaggio reale che racconta la sua esperienza e, tramite essa, mostra la realtà ecologica, politica, sociale ed economica di un pezzettino di Amazzonia.

Il primo intento del libro è quello di raccontare in modo semplice e diretto alcune nozioni scientifico-naturalistiche che riguardano la ricchezza e le peculiarità di quell’ecosistema fragilissimo.

Ciò che immediatamente ci ha colpite, infatti, è stata la dimensione della natura, fuori dalla nostra immaginazione. Per fare un esempio, l’esemplare più alto di angelim vermelho (Dinizia excelsa), chiamato anche gigante dell’Amazzonia, misura 80 metri.

Una natura esuberante e pericolosa e pure piena di leggende: le trasformazioni notturne del delfino rosa (o boto vermelho), le radici della marapuama (Ptychopetalum olacoides), con cui oggi viene preparato il «viagra dell’Amazzonia» (anche se dagli indigeni è utilizzato per curare le paralisi), le «formiche proiettile», che entrano velocemente a fare parte della quotidianità e del linguaggio del viaggiatore.

Foresta esuberante e fragile

Prima ancora di mettere piede in Brasile, sull’aereo, scopro con stupore e una vaga tristezza per la perdita di quelle poche nozioni che credevo di aver imparato a scuola, che la foresta amazzonica non è il grande polmone del mondo. Tra un pisolino e l’altro, Juan, un agronomo peruviano incontrato per caso, mi ha spiegato che sono le diatomee (microalghe unicellulari, ndr) a produrre gran parte dell’ossigeno mondiale, attraverso un ciclo che dai deserti africani raggiunge e coinvolge anche
l’Amazzonia. Di fatto, la foresta amazzonica utilizza quasi tutto l’ossigeno che produce per alimentare i tessuti dei suoi alberi e tutti i batteri e funghi che degradano gli scarti degli alberi caduti al suolo. Questo ricco strato di materia organica assicura alle piante la loro stessa sopravvivenza. L’esuberanza della flora amazzonica nasconde la sua fragilità e la poca fertilità del suo suolo, fatta di strati di sabbia e argilla. Se si taglia un albero e se ne tolgono le radici, lì, non cresce più nulla. La foresta si trasforma in un deserto.

Gli studi di archeobotanica dimostrano come l’Amazzonia sia una sorta di «giardino addomesticato» dall’uomo. Già prima del 1492, milioni di indigeni abitavano quelle foreste considerate vergini.

L’agricoltura preispanica prevedeva l’arricchimento continuo del suolo amazzonico infecondo, e la sua riutilizzazione, piuttosto che l’ampliamento delle arre coltivabili tramite incendi controllati. Gli indigeni hanno saputo interagire con la foresta senza comprometterne l’ecosistema come fanno le multinazionali agricole oggi.

Incontro con i riberinhos

Un’altra realtà che abbiamo incontrato è quella delle comunità fluviali, i cosiddetti riberinhos, che vivono lungo le sponde del fiume più lungo del mondo, il Rio Amazonas. Un flusso d’acqua, fango e detriti imponente, che espandendosi «nella sua grandiosità, raggiunge il fondo dell’orizzonte, tentando, invano, di allargare anche il cielo».

Gli abitanti dei grossi centri urbani considerano i riberinhos persone felicemente autosufficienti, senza però conoscere le loro difficoltà. Queste comunità sono isolate, spesso non hanno la possibilità di accedere ai servizi di base, anche se hanno sempre pesce a disposizione, faticano a reperire acqua potabile. Inoltre devono lottare contro le invasioni dei taglialegna illegali nei loro territori.

Durante la navigazione, dall’alto del nostro barcone vedevamo dei bambini dalla terraferma saltare sulle piroghe per dirigersi verso la nostra imbarcazione, sfidando le onde create dal nostro scafo. Si avvicinavano per recuperare i sacchetti chiusi, riempiti di vestiti e cibo, che i nostri compagni di viaggio lanciavano loro. La povertà di queste comunità spesso spinge le ragazzine a prostituirsi a marinai, commercianti o proprietari delle imbarcazioni.

Arrivo a Manaus

Siamo poi arrivate a Manaus, la capitale bollente dell’Amazzonia. Una città costruita a fine Ottocento durante il florido commercio della gomma che mise in piedi un vero e proprio sistema schiavista, dove torture e minacce nei confronti degli indigeni erano all’ordine del giorno.

La ricchezza sociale di questa città è straordinaria: dal centro alle sue periferie ribollono iniziative di riscatto sociale come il percorso per disabili (la strada per bambini speciali) nella baraccopoli di Petropolis. Ci sono slanci di creatività come quella di Rò, un giovane che stampa le foglie degli alberi sulle magliette per ricordare a tutti la loro somiglianza e parentela con la natura. Le lavoratrici sfruttate dalle multinazionali nella zona franca di Manaus sviluppano riflessioni sul senso della vita.

Queste sfumature umane si intersecano con le traiettorie sociali dei rifugiati venezuelani che vendono acqua alle macchine ferme ai semafori, spremono arance agli angoli delle strade, dimenticandosi i propri titoli di studio e vivendo nelle aiuole accampati su materassi di cartone o in stanze sovraffollate. Si incrociano anche con le proteste delle comunità indigene che hanno dovuto lasciare la foresta e sono relegate ai margini della città e che lottano per il riscatto della propria storia e dei propri diritti.

Nel libro riporto anche alcune testimonianze raccolte a Torino di ritorno dal viaggio: quella dell’indigena Célia Xakriabá, 30 anni, professoressa, attivista e una delle coordinatrici del Articulação dos Povos Indígenas (Apib), arrivata in Italia con una delegazione di indigeni brasiliani per denunciare gli abusi del presidente Jair Bolsonaro contro le comunità. Quella di padre Josiah K’Okal, missionario della Consolata che ha vissuto per anni a contatto col popolo indigeno Warao del Venezuela, e quella di Carlo Zacquini, uno straordinario fratello della Consolata che ha dedicato la sua vita agli indigeni Yanomami e di conseguenza alla protezione della foresta.

Amarilli Varesio


Manaus, Colonia Antonio Aleixo

Un quartiere complesso

Il quartiere Colonia Antonio Aleixo nasce nel 1930 per i cosiddetti «soldati della gomma» che estraevano la sostanza (borracha) dagli alberi della gomma, seringueiras. In seguito, negli anni Quaranta, cominciò a essere utilizzato come lebbrosario per allontanare tutti i malati da Manaus, e, verso la fine degli anni Settanta, fu aperto alle loro famiglie, circa duemila anime. Fino a una ventina d’anni fa, gli autobus che collegavano il quartiere alla capitale erano differenziati per evitare contaminazioni, ma ancora oggi questo continua a essere un luogo di emarginazione per i suoi abitanti.

Nel 2017, al suo interno, grazie alla passione di Tommaso Lombardi ed Elaine Elamid, fondatori del ramo amazzonico dell’associazione O pequeno nazareno (il piccolo nazareno), nasce il Projeto gente grande (Pgg). Il Pgg è una scuola per la prevenzione della criminalità, del lavoro infantile e della mendicità. È gestita da educatori sociali. Gli studenti, per otto mesi, seguono quattro cicli: sviluppo pedagogico, nel quale si insegna portoghese e matematica e si iscrive il minore alla scuola pubblica, se non lo è ancora; sviluppo personale, dove si lavora sui valori e sull’etica e sulla personalità; sviluppo professionale, dove si impara a scrivere il curriculum e a lavorare in gruppo; infine, sviluppo tecnologico, dove si insegnano i principi base per usare il computer.

«L’obiettivo finale è inserirli nel mercato del lavoro come apprendisti. Ma è necessario partire da valori fondamentali quali il rispetto, l’onestà, la responsabilità, l’amore per il prossimo; dimensioni che spesso i ragazzi di strada perdono nel tentativo di far fronte agli strappi affettivi e alle necessità economiche che devono affrontare. C’è molto rispetto per il nostro lavoro da parte degli abitanti del quartiere, e anche da parte dei trafficanti di droga. Negli adulti c’è un desiderio profondo di vedere i propri figli fare una vita diversa dalla loro. Noi non diciamo ai ragazzi che trafficare droga non va bene, ma, dando loro delle opportunità concrete, li aiutiamo a non diventare manodopera infantile del commercio illecito», racconta Tommaso.

A.V.


Manaus, Tarumã

Il parco delle tribù

La comunità indigena Parque das Tribos risiede nel quartiere  Tarumã di Manaus ed è formata da più di 400 famiglie di 38 etnie diverse. La migrazione indigena verso l’area urbana è cominciata negli anni Settanta con l’inaugurazione della zona franca e negli anni a venire non si è più fermata. Sulle strade del quartiere, l’asfalto è stato posato per la prima volta nel 2018, assieme all’impianto d’illuminazione pubblica a led e ai servizi di acqua corrente.

Nel Parque das Tribos si lotta per la conservazione delle tradizioni native, ma anche per l’accesso all’educazione superiore e universitaria delle nuove generazioni. In questo contesto multilingue, Claudia Martins Tomas, di etnia Baré, ha deciso di aprire una scuola indigena. Dopo essersi laureata in Pedagogia e Interculturalità e aver ricevuto alcuni finanziamenti, Claudia ha realizzato un progetto di conservazione e trasmissione della lingua autoctona. I bambini e i ragazzi che frequentano la sua scuola sono delle etnie più disparate: Ticuna, Desana, Tukano, Mura, Kokama, e altre ancora. Per insegnare, utilizza la sua lingua materna, il Nheengatu o Lingua Geral Amazonica. Una lingua franca utilizzata nel processo di colonizzazione che i gesuiti standardizzarono, partendo dalla lingua Tupinambà, e adattarono alla grammatica portoghese. Era l’idioma più parlato sulla costa atlantica; fu imposto come mezzo di comunicazione principale e insegnato agli indigeni che fungevano da forza lavoro nelle missioni.

Claudia non parla la sua lingua originaria, il baré, perché non esiste più.

Durante le sue lezioni, la donna narra leggende, insegna i segreti dell’artigianato e delle decorazioni. Lo fa principalmente in Nheengatu, ma anche nelle altre lingue indigene, per rinforzarle. La scuola è un container e nella stagione secca si scalda come un forno. Claudia vende collane di semi e vestiti pitturati con colori naturali e motivi indigeni per finanziare la scuola.

A.V.


Manaus, centro storico

Medicina indigena

João Paulo Lima Barreto è un indigeno di etnia tukano, antropologo, ideatore e coordinatore del Centro di Medicina Indigena Bahserikowi’i, collocato nel centro storico di Manaus. Ha i capelli neri e una pacatezza perenne nello sguardo. Il Centro è stato aperto nel giugno 2017. Nel primo mese ha ricevuto più di 1.200 persone per i trattamenti con i Kumuã (o anche conosciuti come pajés, specialisti). Gli specialisti presenti al Centro sono di etnia tukano, desano e tuyuka. I loro trattamenti sono rivolti a curare dolori emozionali, muscolari, ferite, mal di testa, gastriti, calcoli nei reni; vengono somministrati attraverso i bahsese (benedizioni) e sono affiancati da rimedi prodotti dagli indigeni di etnia apurinã e da rigide raccomandazioni, come astenersi dal mangiare certi alimenti o da attività sessuali.

«All’inizio, la maggior parte delle persone si aspettavano di vedere il guaritore in una capanna, con le piume in testa e le collane di semi al collo; si aspettavano che guarisse tutto e subito, come per magia. Arrivavano con l’immaginario creato dai media, dal folclore e dalla ricerca. Quando scoprivano che il pajé indossava bermuda e camicia e riceveva in una casa storica, uguale alle altre della via, rimanevano delusi e smettevano di venire», racconta João. La sua intenzione è che le persone possano conoscere altre forme di trattamento a partire dai saperi dei popoli originari, visto che fino ad adesso le terapie indigene sono sempre state considerate pratiche religiose o forme di stregoneria. Invece, secondo il pensiero tukano, ogni problema psicologico corrisponde a un disordine nelle aree vitali di una persona: il lavoro, la vita familiare, la salute, la vita comunitaria. È necessario sostenere queste aree con le benedizioni degli specialisti. «A differenza della medicina occidentale, quella indigena serve più come prevenzione che come trattamento. Io suggerisco di imparare ad anticipare la malattia, ascoltando e conoscendo meglio il proprio corpo».

A.V.

 




RD Congo: Pigmei. Sempre nomadi, ma fino a quando?

Testo di Marco Bello | foto Archivio fotografico MC


I pigmei bambuti sono il popolo originario delle foreste nell’Est del Congo. All’arrivo di altre popolazioni si sono inoltrati sempre più nella selva. Ma da alcuni anni i cercatori d’oro invadono il loro territorio, portando molte problematiche. Intanto anche lo sfruttamento del legname e la deforestazione stanno distruggendo il loro habitat. Ai missionari la grande sfida di come salvare la loro cultura.

«I pigmei non sono guerrieri, ecco perché all’arrivo di altre popolazioni nella loro terra, hanno adottato la politica di ritirarsi nella foresta più folta. Purtroppo oggi assistiamo a un’invasione della selva, operata dai cercatori d’oro alla ricerca di nuovi siti». Chi parla è padre Flavio Pante, missionario della Consolata con una ventennale esperienza di lavoro tra le popolazioni pigmee del Congo, oltre che con esperienze in Costa d’Avorio e Italia.

Parla del Nord Est della Repubblica democratica del Congo (Rdc), del distretto dell’Alto Uele, diocesi di Wamba: «I pigmei sono stati i primi abitanti di questa zona, tutti gli altri, quelli che chiamiamo genericamente bantu, sono arrivati in un secondo tempo». I missionari della Consolata lavorano da venti anni nell’area di Bayenga, dove c’è un’alta concentrazione di pigmei, in particolare la popolazione dei Bambuti. «La parrocchia lavora sulla realtà pigmea, e sulla realtà dei bantu e delle altre popolazioni».

Il «nuovo» flagello

La foresta è ricca di oro e altri minerali preziosi, che si trovano, in particolare, lungo i fiumi, un po’ ovunque. Così il popolo dei cercatori d’oro si inoltra sempre più nella foresta e costruisce vere e proprie città provvisorie di baracche nei pressi dei siti auriferi più promettenti. Dato che questi siti cambiano in continuazione, i villaggi di oggi potrebbero scomparire una volta esaurita la vena mineraria. Il risultato è una penetrazione della foresta sempre maggiore.

«Qualcuno paga la licenza di estrazione – racconta padre Flavio – e manda i più disperati a cercare l’oro. Questi sono i cercatori artigianali, lavorano manualmente e nessuno assicura loro il minimo di sicurezza. Si può dire che stanno peggio dei pigmei. Quello che trovano lo vendono per pochi soldi all’intermediario, che poi lo porterà al comptoir (ufficio di esportatori, ndr) in città dove sarà acquistato a un prezzo nettamente superiore.

Tutto quello che i cercatori d’oro consumano, come il cibo, gli attrezzi, viene da lontano, dalle città, e arriva con grossi camion. Per questo è molto costoso. In questi agglomerati di baracche circolano soldi, prostituzione, malattie, violenza. Tutti gli affari, in quest’area, seguono i siti di estrazione dell’oro».

Un fenomeno, che, pure se esisteva già 30 anni fa, come conferma padre Flavio che era in missione in Congo (all’epoca Zaire) nel 1978, negli ultimi dieci anni ha assunto una dimensione enorme, e tutto questo a scapito del territorio dei pigmei.

Legname pregiato

«Un altro fatto che sta contribuendo alla distruzione dell’habitat del pigmeo è il taglio degli alberi per il legname. I camion che portano mercanzie di ogni genere per i cercatori d’oro, ripartono carichi di tronchi. Spesso i pigmei stessi sono assoldati per trasportare gli alberi sezionati fuori dalla foresta, nei luoghi raggiungibili dai camion. I mezzi poi partono per l’Uganda, dove il legname sarà venduto e lavorato». Una foresta invasa dalle motoseghe, vuol dire non solo eliminare gli alberi, ma anche far fuggire la selvaggina, il principale sostentamento del pigmeo.

Si tratta anche di una invasione culturale, oltre che fisica: «Il pigmeo è entrato in contatto con un’altra realtà. Ha visto il mercato del villaggio bantu, ascoltato la radio, sperimentato gli alcolici. Ormai non riesce più a staccarsi da queste cose penetrando di più nel folto della foresta. Si avvicina alla popolazione di origine bantu e si accampa. Però è rimasto per indole raccoglitore e cacciatore, per cui può capitare che vada in un campo e raccolga del cibo: ma in questo modo, per la società bantu, diventa un ladro. Un comportamento dell’altro, non puoi criticarlo se non lo conosci. Devi cercare di metterti nei suoi panni. Il pigmeo ha rubato, o piuttosto, ha preso per fame?».

Il pigmeo che con la sua famiglia è uscito dalla foresta profonda e si è accampato nei pressi delle città, ha perso il suo habitat ed è a un passo dal perdere la sua identità.

«Una questione fondamentale – continua padre Flavio – è che le persone di altre etnie considerano i pigmei esseri inferiori. A causa di questo preconcetto si è creata una dipendenza perversa. Il bantu dice al pigmeo: “Io ti prendo come protetto. Tu coltiva il tuo campo e poi vieni a lavorare nel mio come mio servo”. Si crea una dipendenza servile che spesso è suggellata dal patto della circoncisione: “Io circoincido mio figlio con il tuo, per questo siamo quasi parenti”».

Ma nella mentalità del pigmeo coltivare è assurdo. Da cacciatore, lui si procura da mangiare nella giornata, abbastanza per quel giorno. Seminare, innaffiare e pensare di avere cibo dopo settimane o mesi è impensabile per la sua concezione. Occorre un cambiamento di mentalità, ma ci vuole tempo.

La scuola «inculturata»

Un aspetto che ha interrogato molto i missionari è stato quello dell’educazione. «Il contatto con le altre popolazioni impone che i pigmei imparino a leggere e scrivere – sostiene padre Flavio -. Dobbiamo però tenere sempre presente che vogliamo valorizzare quello che loro danno per scontato, ma che stanno per perdere, ovvero la loro cultura. Per questo occorre prepararli in modo che siano in grado di conservare le loro tradizioni».

I bantu si sono adeguati allo stile e ai costumi europei. Questo anche a livello di scuola, che è strutturata come quella dei paesi colonialisti. Ma se, ad esempio, per i belgi ci sono quattro stagioni, per i pigmei ce ne sono solo due, ovvero la stagione secca e quella delle piogge. Inoltre per loro non ci sono i mesi, ma le lune. Per la scuola del bambino pigmeo bisogna tenere in conto di tutto questo. Se da settembre a novembre può venire a lezione, da gennaio in poi è stagione secca, deve andare in foresta a cacciare e raccogliere il miele. Quindi partirà con i suoi genitori, tornando magari dopo tre mesi. Inoltre, quando frequenta, il bambino pigmeo non riesce a stare fermo tutta la mattina. La scuola deve essere diversa anche come tempistiche. Ecco perché i missionari della Consolata si sono inventati la «scuola itinerante».

Così la descrive padre Flavio: «È una scuola che si adatta ai periodi dell’anno e alla periodicità dei giorni. L’insegnante passa nell’accampamento dei pigmei e inizia a dare nozioni di base. Poi si integra con un cosiddetto “esperto” dell’accampamento, ovvero un adulto che tiene lezioni su elementi specifici, come la caccia, la tessitura, e tutti gli altri aspetti della vita pigmea».

Un’altra difficoltà nell’insegnare ai pigmei è il fatto che sono molto concreti e hanno difficoltà con l’astrazione. «È piuttosto complesso ad esempio insegnare i numeri. Per spiegare il numero 8, ad esempio, prendo otto pietre, otto unità. Ma non c’è il concetto di una entità che si chiama “8”. Quindi il calcolo resta molto difficile per loro. Così come per insegnare l’alfabeto occorre associare un suono a ogni lettera. Sono categorie che devono acquisire, non sono spontanee.

Noi ci prepariamo le lezioni in lingua kibutu, che è una lingua bantu parlata anche dai pigmei, simile al kiswahili. A volte proiettiamo qualcosa su un panno bianco. Abbiamo visto anche molto interesse da parte degli adulti, che lasciano le loro occupazioni per venire a vedere cosa stiamo facendo».

Il villaggio mobile

Il pigmeo non ha un villaggio stabile. La sua capanna si può costruire in un giorno e, normalmente, è un incarico delle donne. I gruppi sono composti da una trentina di persone, senza contare i bambini, e sono entità che si spostano.

Inoltre, tradizionalmente, fino a pochi anni fa, non c’era un capo. C’erano dei referenti, responsabili di alcuni ambiti della vita della comunità: chi per la caccia, chi per far nascere i bambini, chi per la tessitura, ecc. Adesso, che hanno contatti con i bantu, è nata l’esigenza di avere un capo, perché occorre un referente unico per il gruppo.

Un altro effetto della contaminazione è quello legato alla monogamia. «I pigmei sono tradizionalmente monogami, perché in foresta non puoi permetterti due mogli e tanti figli. Oggi, con il contatto con i bantu, stanno assumendo altre usanze. Anche per la dote. Il matrimonio veniva fatto tra due gruppi con scambio di ragazze. Se si porta carne è per la festa comune, ma una ragazza vale una ragazza. Per i bantu, invece, se tua figlia si sposa devi chiedere dei beni all’altra famiglia. Diventa quasi una vendita.

Tra i pigmei al servizio dei bantu iniziano a entrare le abitudini dei bantu».

Anche dare uno stipendio a un pigmeo è difficile: «Si pagano tutte le settimane, perché una volta al mese non riescono a tenere i soldi. Un funzionario si trova ad avere un salario, ma non sa gestirlo. Spesso beve. Oppure paga anche per gli altri, condivide, come se nel  giorno di paga avesse cacciato un grosso animale. Ci sono stati maestri elementari pigmei, ma sono stati un fallimento. È una perdita di identità al 100%: dicono di non essere più pigmei, però si accorgono di non essere nemmeno bantu, perché vengono discriminati. Rifiutano i loro fratelli e sono rifiutati da quelli con cui si identificano».

Il lavoro dei missionari

«Ci sono villaggi bantu nei pressi dei quali sorgono due, tre accampamenti pigmei. Noi andiamo al villaggio, lasciamo la moto e poi entriamo in foresta a piedi, fino all’accampamento.

Tre anni fa, si era creato un accampamento grosso, fusione di due gruppi. Lì mi avevano fatto una capanna e io vivevo con loro tre giorni alla settimana.

Per preservare la loro cultura cerchiamo di raccogliere e conservare tutto quello che è il loro mondo, sia a livello di medicina tradizionale, sia di narrazioni. Ma è un lavoro agli inizi. Quello che manca, guardando altri casi simili, come il popolo Yanomami in Amazzonia, è la mancanza di una sensibilità al riguardo. Penso sia frutto di un lavoro, ma forse anche di una sensibilità latinoamericana diversa. I pigmei non dicono “la nostra tradizione, i nostri costumi”. Devi essere tu che indichi loro: “I vostri costumi”. A volte il pigmeo ha vergogna dei suoi costumi. Questo perché quando sei considerato inferiore, dopo un po’ ti convinci di esserlo».

Padre Flavio Pante sostiene che occorre anche lavorare sulla popolazione bantu per un cambiamento di mentalità nei confronti dei pigmei. Ma si tratta di un lavoro molto difficile, «perché i bantu si sentono i padroni della gente». Inoltre il missionario è sempre uno straniero, e i bantu hanno troppi interessi da difendere. Noi cerchiamo di fare un discorso con i cristiani: non possiamo accettare questa logica.

«Per i sacramenti e la preghiera, cerchiamo di celebrare con la comunità unita, ovvero insieme bantu e pigmei. I pigmei vengono a messa. La partecipazione nel canto e nella danza è più difficile: i bantu ridono dei pigmei che danzano. Inoltre la musica pigmea non ha parole, ha suoni anche con la bocca».

E conclude: «C’è in noi la volontà di continuare ad occuparci delle popolazioni pigmee. Ma gli africani, in genere, non sono molto attirati a lavorare con loro».

Marco Bello


Archivio MC


Dalle elezioni alla formazione di un nuovo governo

Alternanza? Sì, no, forse

Le elezioni del dicembre 2018 hanno dato al Congo un nuovo presidente, dal cognome famoso, ma senza maggioranza parlamentare. Da allora sono passati otto mesi alla ricerca di un difficile consenso tra gruppi politici, per governare uno dei paesi più ricchi di materie prime del continente.

Forse ci siamo. La Repubblica democratica del Congo avrà, infine, il suo nuovo governo. La lista dei suoi 65 membri è stata resa pubblica il 26 agosto. Da ormai sette mesi, dal suo insediamento, il 25 gennaio scorso (in seguito a elezioni presidenziali, legislative e amministrative), il nuovo presidente della repubblica Félix Tshisekedi, tenta di costituire il governo (l’Rdc è una repubblica presidenziale). Tshisekedi è il figlio di Etienne, l’eterno oppositore che non è mai riuscito a conquistare il potere, se non per alcune brevi esperienze di governo come primo ministro. Etienne dopo aver perso l’ultima sfida nel 2011 contro Kabila, è morto il primo febbraio del 2017.

Félix ha vinto a sorpresa le elezioni presidenziali, molto contestate in realtà, alla testa del partito fondato da suo padre, l’Unione per la Democrazia e il Progresso Sociale (Udps), facente parte del più vasto gruppo politico Cap pour le changement (Cach). Nel frattempo il Fronte comune per il Congo (Fcc), la coalizione dell’ormai ex presidente Joseph Kabila, ha vinto massicciamente le legislative e le amministrative, assicurandosi una maggioranza confortevole all’Assemblea nazionale e al Senato (le due camere del parlamento congolese).

Tshisekedi ha dunque dovuto intavolare un negoziato con gli ex padroni del paese per tentare di creare un governo.

«Il contesto politico è cambiato in Rdc – scrive il Gruppo di studio sul Congo dell’Università di New York -. Joseph Kabila anche se è ancora potente, con una maggioranza parlamentare schiacciante, non è più l’uomo forte di Kinshasa. L’ex presidente non ha più l’ultima parola su tutto».

Joseph Kabila era salito al potere il 26 gennaio del 2001, alla morte di suo padre Laurent-Désiré Kabila, ucciso da una sua guardia del corpo in circostanze ancora da chiarire. Era in corso la cosiddetta Seconda guerra del Congo (1998-2003). Laurent-Désiré aveva guidato una ribellione appoggiata da Burundi, Rwanda e Uganda, che aveva portato a rovesciare il presidente-padrone del paese Mobutu Sese Seko nel maggio del 1997, durante la Prima guerra del Congo (1996-1997). In questa occasione Kabila padre aveva cambiato il nome dello Zaire nell’attuale Repubblica democratica del Congo.

Joseph ha quindi mantenuto il potere, conquistato con la forza, confermandolo con due elezioni successive (2006 e 2011). Il suo ultimo mandato, non rinnovabile, sarebbe scaduto nel dicembre del 2016, ma lui ha rinviato progressivamente le elezioni, eliminando anche i potenziali oppositori, come Moise Katumbi, costretto all’esilio in Belgio, e limitando la libertà di stampa.

Una deriva anticostituzionale che ha causato reazioni della società civile che, a più riprese, ha chiesto al leader di lasciare il potere. In particolare la chiesa cattolica si è posta inizialmente come mediatrice, tra il presidente e l’opposizione, ottenendo la promessa di Kabila di organizzare elezioni a fine 2017. In seguito, visto che l’impegno non veniva mantenuto, la chiesa ha organizzato manifestazioni pacifiche a cui hanno aderito molti cristiani e i leader dell’opposizione, per chiedere il rispetto degli accordi.

Il 31 dicembre 2017 una di queste manifestazioni è stata prima ostacolata e poi repressa dalle forze dell’ordine. Si sono registrati 6 morti, 57 feriti e 111 arrestati, secondo la Monusco (Missione della Nazioni Unite in Congo). Il confronto tra il potere di Kinshasa e la chiesa cattolica congolese si era fatto duro.

Finalmente, con molte difficoltà, anche logistiche, in un paese di 2,5 milioni di km2 scarsamente collegato e con 45 milioni di elettori, le consultazioni si sono svolte nel dicembre del 2018. Le urne, come detto, hanno restituito una situazione complessa e le due coalizioni hanno faticato a trovare un accordo. Nel maggio scorso il presidente ha nominato Sylvestre Ilunga Ilunkamba primo ministro, e questi ha lavorato per produrre una lista di ministri gradita a entrambi i gruppi politici. Su 65 posti ministeriali (ministri e sottosegretari), 23 vanno alla coalizione di Tshisekedi, Cach, e 42 a quella di Kabila, Fcc. Alla prima vanno i dicasteri dell’Interno e Affari esteri, alla seconda Giustizia, Difesa e Finanze. Intanto la società civile denunica un incremento di casi di appropriazione indebita di fondi a livello dei ministeri, negli ultimi otto mesi.

Ma.Bel.

Felix Tshisekedi, nuovo presidente del RD Congo / Photo by ANDREW CABALLERO-REYNOLDS / AFP




Incontro con i Kukama nella capitale amazzonica peruviana


Non è più tempo di nascondersi o di subire passivamente. Come tanti altri popoli, anche i Kukama hanno scelto di uscire allo scoperto per difendere con orgoglio il loro essere indigeni con le proprie consuetudini di vita e credenze. Come testimonia la storia di Rusbell Casternoque, apu (cacique) di una piccola comunità kukama nei pressi di Iquitos che ha lottato lungamente per ottenere il riconoscimento giuridico da parte dello stato peruviano.

Iquitos. Nell’angusto ufficio del Caaap – Centro Amazónico de Antropología y Aplicación Práctica – non ci sono finestre e fa un caldo soffocante. Dobbiamo accendere il ventilatore anche se il rumore delle pale disturba la conversazione.

L’interlocutore è l’apu (cacique) di Tarapacá, piccola comunità kukama sul fiume Amazonas, vicino a Iquitos. Si chiama Rusbell Casternoque Torres e ha un volto segnato dal sole, folti capelli neri, baffetti appena accennati e un bel sorriso.

Si presenta: «Appartengo a un popolo che risiede in tutta l’Amazzonia di Loreto. Un popolo al quale piace vivere in tranquillità. Avere cibo tutti i giorni. Cerchiamo di essere in armonia con gli esseri spirituali che vivono vicino a noi, nell’acqua e nel bosco. Parliamo con loro attraverso i nostri sabios e curanderos ogni volta che ce ne sia la necessità. Per esempio, quando si tratta di curare una persona».
Rusbell non parla esplicitamente di sumak kawasy, il «buon vivere» indigeno, ma il concetto è quello.

I Kukama sono tra i popoli indigeni più numerosi della regione di Loreto. Si parla di almeno 20mila persone. Abitano principalmente lungo il fiume Marañón. A parte qualche eccezione come quella rappresentata dalla comunità guidata da Rusbell.

La lotta per il riconoscimento

La storia di quest’uomo di 61 anni è a suo modo esemplare. Rusbell e gli abitanti di Tarapacá – 60 in tutto – hanno lottato a lungo perché volevano essere riconosciuti come indigeni e come kukama, un popolo cacciato – alla pari di tantissimi altri – dalle proprie terre ancestrali, per fare spazio alle compagnie petrolifere, del legno o turistiche. Dopo secoli di sottomissione o anonimato, da alcuni decenni i Kukama hanno riscoperto la propria identità e l’orgoglio dell’appartenza.

Oggi Tarapacá è riconosciuta dalla legge peruviana come Comunidad nativa kukama-kukamiria, ma è stato un processo lungo e pieno di ostacoli. «Ci dicevano che siamo troppo vicini a Iquitos, che non parliamo la lingua indigena, che siamo meticci».

La Convenzione 169 dell’Organizzazione internazionale del lavoro, ratificata anche dal Perù, nel secondo comma dell’articolo 1 prevede che un criterio fondamentale per essere riconosciuti come indigeni sia il «sentimento di appartenenza», vale a dire l’autoriconoscimento. Nonostante questo fondamento giuridico, Rusbell e la sua comunità – affiancati dagli esperti del Caap – hanno dovuto affrontare vari gradi di giudizio prima di vedere accolta la propria istanza.

Il riconoscimento legale – che spetta al ministero peruviano dell’Agricoltura – ha una conseguenza pratica rilevante: l’ottenimento della «personalità giuridica» da parte della comunità indigena. A partire da questa è possibile chiedere allo stato molte cose: la costruzione di una scuola o di un centro di salute, la fornitura di acqua adatta al consumo e, soprattutto, la titolazione delle terre ancestrali come previsto dall’articolo 89 della Costituzione peruviana.

La proprietà delle loro terre è imprescrittibile, afferma la norma. La realtà mostra però situazioni diverse. L’esempio più clamoroso viene dalla Riserva nazionale Pacaya Samiria (dal nome dei due fiumi che la attraversano).

Sulla loro terra

Inaugurata nel 1982, Pacaya Samiria ha un’estensione di quasi 21.000 chilometri quadrati (come la metà della Svizzera). Situata alla confluenza dei fiumi Huallaga, Marañón e Ucayali, all’interno della cosiddetta depressione Ucamara (Ucayali-Marañón), la riserva è un gioiello di biodiversità. La gran parte dei turisti che la visitano – sono circa 12.000 all’anno, di cui la metà stranieri – non sa però che la riserva si fonda su una serie di ingiustizie. Essa infatti è situata sul territorio ancestrale dei Kukama, ma questi – a parte alcune comunità che hanno resistito – non lo abitano più da quando ne furono espulsi. «Hanno presentato la riserva mostrando gli animali, ma dimenticando gli uomini», commenta Rusbell con una triste sintesi.

All’ingiustizia perpetrata ai danni degli indigeni lo stato peruviano ha aggiunto anche la beffa di permettere l’estrazione petrolifera all’interno della riserva (dal lotto 8X, che dispone di vari pozzi). E, come ampiamente prevedibile, l’attività ha prodotto inquinamento. Come accaduto, fuori dalla riserva, con il lotto petrolifero 192 (gestito dalla canadese Frontera Energy, che ha sostituito l’argentina Pluspetrol Norte) e con l’oleodotto Nor Peruano di Petroperú.

Nell’affrontare l’argomento Rusbell si scalda. Parla con passione. Nelle parole e nei gesti.

«Tutto ciò che viene chiamato investimento in terra indigena è impattante – spiega -. Imprese del legno, imprese turistiche, compagnie petrolifere. Queste ultime sono entrate da più di 40 anni e che hanno fatto? Dicevano che avrebbero portato sviluppo, ma non c’è stato. Anzi, cosa c’è ora nei luoghi dove esse hanno operato? Ecco, qui sta la disgrazia, la disgrazia (lo ripete due volte, ndr). Lo dico chiaramente, con rabbia e collera. Hanno lasciato terre e acque inquinate. Dove andrà la gente a seminare e a pescare?».

I Kukama sono uno dei popoli indigeni che mangia più pesce. L’inquinamento delle acque dei fiumi è per loro un colpo mortale.

«Ci sono – spiega l’apu – molte persone con metalli pesanti nel sangue che stanno morendo lentamente. Per non dire quelli infettati dal virus dell’epatite B. C’è qualcuno del governo che prende posizione per noi? Siamo dei dimenticati».

Rusbell ricorda che la stessa mancanza di consulta previa (consultazione preventiva) con le comunità indigene – prevista dall’articolo 6 della Convenzione 169 (e dalla legge peruviana n. 29785 del 2011) – stava per accadere per il megaprogetto cinoperuviano noto come Hidrovía Amazónica, che mira a realizzare una via navigabile di oltre 2.500 chilometri usando i corsi dei fiumi Marañón, Huallaga, Ucayali e Amazonas. Questa volta non è andata così: la consultazione è avvenuta. Tanto che, a luglio 2017, il governo peruviano ha annunciato di aver sottoscritto 70 accordi con 14 popoli indigeni. Occorrerà però aspettare per dare un giudizio definitivo perché le organizzazioni indigene sono tante e spesso in contrasto tra loro.

E?poi non c’è soltanto questo. Come per altre tematiche, anche per la Hidrovía Amazónica non è soltanto una questione di impatto ambientale e pareri preventivi, ma anche di cosmovisione o, per dirla meglio, di cosmologia amazzonica.

«Ridono di noi»

Quando si entra nel campo della cosmologia amazzonica, non è facile seguire i discorsi di Rusbell. Che abbia una mentalità laica o religiosa, nell’ascoltatore non indigeno prevalgono pensieri dettati dalla razionalità e dalla logica. Tuttavia, la conoscenza della cosmovisione è indispensabile per avvicinarsi alla comprensione del mondo indigeno.

Per i Kukama esistono vari mondi (di norma 5: terra, acqua, sotto l’acqua, cielo, sopra il cielo), abitati da esseri che influenzano – nel bene e nel male – la vita delle persone. Così c’è il mondo in cui viviamo, abitato da gente, animali, piante, spiriti buoni e spiriti cattivi. E c’è il mondo che sta sotto l’acqua, dove vivono sirene, yakurunas (gente dell’acqua) e la yakumama (la madre delle acque rappresentata da un enorme serpente). Così, ad esempio, quando le persone muoiono affogate e non se ne ritrovano i corpi, si dice che sono andate a vivere nel mondo sotto l’acqua. E le famiglie coltivano la speranza di rimanere in contatto con loro tramite gli sciamani. Per tutto questo i Kukama hanno un forte vincolo e un grande rispetto per i fiumi e per l’acqua.

«Altro tema è la nostra credenza: noi crediamo che dentro l’acqua ci siano esseri viventi. Hanno mandato scienziati con apparecchiature sofisticate per cercarli, ma hanno visto soltanto terra. È che vivono in maniera sotterranea: lì stanno. Escono quando i nostri curanderos ne hanno bisogno. Per aiutare a curare. Quanti bambini kukama sono stati rubati dalle sirene e, dopo anni, sono tornati per dire: “Mamita, sono vivo. Non preoccuparti. Là dove vivo mi sono fatto una famiglia”. Siamo orgogliosi di poter dire che noi abbiamo nostre famiglie che vivono sotto l’acqua. Questa è una realtà. Nella mia comunità c’è un vecchietto di 75 anni. Egli parla direttamente con la sirena. Questa esce dall’acqua e conversa con lui in persona. Noi ci crediamo, ma, se lo diciamo ad altri, questi ridono e dicono che siamo matti».

Rusbell parla con convinzione davanti a un interlocutore non sufficientemente preparato in materia. Riesco solamente a domandare se Tarapacá abbia uno sciamano. «Sì, abbiamo uno sciamano che è anche curandero». Poi, per riportare la discussione su livelli più comprensibili alla mentalità occidentale, chiedo a Rusbell come sia diventato apu.

«Si chiama la comunità all’assemblea. Si propongono i candidati. E poi si discute finché ne rimane soltanto uno. Così sono stato eletto anch’io. Sono apu dal 2011. Nel 2019 si riconvocherà l’assemblea che può rieleggermi o cambiare. L’apu è il rappresentante della comunità, la sua massima autorità. Egli però agisce secondo le direttive dettate dalla collettività. Sono aiutato da una giunta comunitaria composta da quattro persone».

La lingua perduta

L’identità culturale di un popolo passa anche attraverso la propria lingua. Chiedo a Rusbell quale sia la sua.

«Parlo kukama e castigliano. Quest’ultima è la lingua più parlata perché il nostro popolo è stato quello più sottoposto alla “castiglianizzazione” da parte dei meticci. La verità è che stavamo perdendo la nostra lingua, ma ora stiamo recuperandola. Stiamo imparandola di nuovo. Per fortuna, sono rimasti alcuni vecchietti che parlano il kukama, ma non lo usavano più per vergogna. E poi ci sono alcuni insegnanti bilingue che stanno insegnando ai nostri bambini».

Lo metto in difficoltà quando gli domando una conclusione in lingua kukama. Ride. «No, no, non sono in grado. Sto ancora imparando».

Rusbell Casternoque, apu di Tarapacá, non parla (per ora) la lingua madre, ma non per questo è un meticcio. È un kukama e lo rivendica con orgoglio.

Paolo Moiola


La responsabile del Caaap di Loreto

Dimenticati e inquinati

Dimenticati dallo stato, i popoli indigeni si trovano ad affrontare le conseguenze
dell’inquinamento di fiumi e territori. Anche per questo molti di loro emigrano verso le città dove però trovano discriminazione e altre difficoltà. Conversazione con l’avvocata Nancy Veronica Shibuya, che con il Caaap combatte al loro fianco.

Iquitos. Nel 1974 nove vescovi cattolici dell’Amazzonia peruviana crearono il «Centro amazzonico di antropologia e di applicazione pratica» (Centro Amazónico de Antropología y Aplicación Práctica, Caaap), un’associazione civile che aveva l’obiettivo di servire le popolazioni emarginate, in particolare i popoli indigeni.

Nancy Veronica Shibuya è una giovane avvocata di 36 anni che dal 2012 lavora con il Caaap come responsabile della regione di Loreto. Quando la incontro nell’ufficio di Iquitos mostra un atteggiamento molto professionale, ma già dalle sue prime risposte traspare la passione per quello che fa, per i diritti che ogni giorno cerca di difendere o conquistare.

Veronica, quali sono i problemi principali dei popoli indigeni?

«Sono tanti. A iniziare da quelli che debbono affrontare nei loro territori a causa di  attività estrattive, deforestazione, inquinamento da petrolio. Quest’ultimo è tremendo perché colpisce in maniera diretta attraverso l’acqua, la terra, l’aria.

Oltre ai problemi ambientali che sono quelli più urgenti, ci sono quelli dovuti al mancato rispetto dei diritti alla salute e all’educazione come per tutti gli esseri umani. E ancora quelli sociali: alcolismo, prostituzione, tratta di persone».

Tratta di persone?

«Certo. Ci sono giovani donne indigene che sono state rapite e portate in altre zone del paese o fuori del paese. La regione di Loreto è nota anche per questo».

Si dice che un indigeno abbia verso la natura una sensibilità molto superiore a quella di un non indigeno. È una realtà o un mito?

«È così: esiste una differenza di sensibilità molto marcata. Un cittadino vede il taglio degli alberi come una necessità per avere legno. Al contrario, un indigeno ha molte difficoltà a tagliare un albero perché questo può avere un significato particolare o naturalistico o spirituale. Lo stesso vale quando s’inquina una laguna dato che per gli indigeni l’acqua significa vita, alimento, continuità. Il cittadino comune lo vede semplicemente come un reato e nulla più.

È difficile riuscire a comprendere la mentalità indigena che vede gli essere umani connessi con l’ambiente, le piante e gli animali. Nel momento in cui riusciremo a comprendere questo, riusciremo a comprendere anche il rapporto tra gli indigeni e l’Amazzonia».

L’Amazzonia è veramente in pericolo?

«Chiaro che è in pericolo. Un pericolo costante dovuto alla depredazione e alle minacce derivanti da megaprogetti, attività estrattive, indifferenza dello Stato. E parlo non soltanto dell’Amazzonia peruviana, ma dell’intera Amazzonia. Non sappiamo se, da qui a qualche anno, un ambiente come questo esisterà ancora».

 Quando non vince l’indifferenza, prevalgono frustrazione e impotenza. Che si può fare?

«Finché non sensibilizziamo ogni persona a rispettare l’ambiente circostante, poco o nulla possiamo fare. Certo, non dipende soltanto dal singolo individuo, ma dalla collettività nel suo insieme. E poi è necessario che lo stato assuma il suo ruolo a difesa dell’Amazzonia, delle risorse, dei popoli che vi vivono, esseri umani che meritano lo stesso rispetto che noi esigiamo».

Che tipo di lavoro svolge il Caaap?

«Il nostro lavoro con le comunità indigene è multidisciplinare. Significa che esse ricevano non solo un’assistenza tecnica e legale, ma anche formativa».

Esempi concreti di assistenza quali possono essere?

«L’assistenza legale può riguardare i rapporti giuridici con le istituzioni dello stato, ad esempio sulle questioni legate alla terra. Quella tecnica per spiegare come funziona qualcosa, ad esempio – per rimanere sull’attualità – il progetto di idrovia amazzonica. La formazione, infine, avviene con incontri e assemblee sulle tematiche più varie».

Come scegliete le comunità presso cui operare?

«Passando attraverso le organizzazioni indigene. Come Acodecospat (Asociación cocama de desarrollo y conservación san Pablo de Tipishca) di cui fanno parte 63 comunità kukama. O come Acimuna (Asociación civil de mujeres de Nauta) che raggruppa donne kukama discriminate o maltrattate. O ancora come Oepiap (Organización de estudiantes de pueblos indígenas de la amazonía peruana) in cui confluiscono studenti indigeni di varie etnie. Recentemente abbiamo iniziato a lavorare affiancando il Vicariato San José del Amazonas con le popolazioni indigene della conca del Putumayo. Ci sono Ocaina, Kichwa del Napo, Yaguas e Huitoto».

Veronica, non esiste un pericolo di neocolonialismo?

«Io credo che sia un problema sempre latente. Finché tutti i popoli indigeni non saranno consapevoli dei loro diritti esisterà questo pericolo».

Come Caaap lavorate molto con i Kukama.

«Sì, perché qui è l’etnia più diffusa. Negli anni hanno perso la propria lingua, rimasta viva soltanto negli anziani. Oggi però lottiamo al loro fianco per un’educazione bilingue. Il Kukama vive in stretta connessione con il fiume. Il suo alimento principale è il pesce. Oggi però il Marañón, il fiume lungo il quale vive la maggior parte dei Kukama, è così inquinato che le autorità statali hanno dichiarato che la sua acqua non è adatta al consumo umano e di conseguenza i pesci che in essa vivono.

Dato che il Kukama è un grande consumatore di pesce, le conseguenze dell’inquinamento sono molto pesanti. Tra l’altro, in quanto uomini di pesca, le loro attività agricole sono sempre state limitate. Hanno piccoli appezzamenti di terreno coltivati a riso, juca e platano».

Da tempo si assiste a una migrazione dalle comunità indigene sparse nella foresta amazzonica verso le città come Iquitos. Come lo spiega?

«La migrazione dei popoli indigeni verso la città è dovuta all’abbandono da parte dello stato. Ci sono carenze molto gravi. Pensiamo al diritto alla salute. Le comunità indigene non hanno centri di salute. Non ci sono opportunità di lavoro per gli adulti e d’istruzione per i figli. Le persone emigrano per cercare di soddisfare necessità fondamentali».

Chi emigra in città trova un’esistenza diversa e soprattutto altri problemi.

«Chiaro che c’è differenza tra gli indigeni che vivono nelle comunità e quelli che sono venuti a vivere in città. Nelle comunità c’è una totale di libertà di espressione, in città non è così. Nelle comunità un indigeno sta in contatto permanente con la natura e le sue risorse. È circondato dalla famiglia e ci sono vincoli stretti tra gli uni e gli altri. Venendo in città, la maggior parte degli indigeni si lascia influenzare dalla cultura occidentale. Si ritrova in balia di situazioni che spingono gli indigeni a negare la propria identità culturale. La negano per l’obiettivo di essere accettati in determinati ambiti sociali. La realtà racconta però che la maggioranza degli abitanti è indigena. Se poi glielo chiedi, ti risponderanno: “No, io sono della città”, “No, io vivo a Iquitos”, “No, io sono di Iquitos”».

Mi ha detto che voi lavorate anche con un’organizzazione di studenti indigeni. Per quale motivo?

«Nelle comunità i giovani indigeni non hanno la possibilità di avere un’educazione superiore. Quando alcuni di loro vengono in città ed entrano in un istituto superiore, per essere accettati, negano da dove vengono o chi sono. Anche se l’aspetto fisico o il nome dicono molto, loro continuano a negare.

È una lotta costante contro la discriminazione. Noi come associazione li sosteniamo per rafforzare il loro lato identitario, perché non perdano il senso della loro provenienza e il loro essere. Un esempio. Al contrario dei Kukama, gli Awajún (o Aguaruna della famiglia linguistica jíbaro, ndr) continuano a sviluppare la propria lingua. Eppure, in ambito scolastico o lavorativo anch’essi in generale negano la loro identità».

Voi siete un’istituzione della Chiesa cattolica. In più occasioni papa Francesco ha chiesto perdono per gli errori commessi nei confronti dei popoli indigeni.

«Storicamente, nel processo di evangelizzazione la Chiesa ha commesso molti errori. Ha avuto un atteggiamento impositivo che ha causato molti danni. È stato chiesto perdono. Oggi il volto della Chiesa è cambiato: è una chiesa itinerante, più vicina ai popoli e ai deboli. E il Caaap ne è un esempio concreto».

Paolo Moiola




Il volto indio di Iquitos. Nella capitale amazzonica peruviana

Testo e foto di Paolo Moiola |


Si ipotizza che l’80 per cento degli abitanti di Iquitos, la più grande città dell’Amazzonia peruviana, siano indigeni urbani: Huitoto, Kukama, Kichwa. Non esistono numeri certi perché la maggior parte di loro preferisce tacere sulla propria origine. Quando non è l’aspetto fisico a tradirne la provenienza, lo è quello culturale. Vivono nelle periferie di Iquitos, dove manca di tutto e vivere dignitosamente è un’impresa. Accompagnati da due amici missionari abbiamo visitato il barrio di Masusa e quello delle Malvinas.

Iquitos. Accanto alla pulsantiera dell’ascensore c’è, ben visibile, un adesivo: «No allo sfruttamento sessuale di bambini, bambine e adolescenti. Il nostro hotel protegge il futuro di Loreto». A Iquitos, capitale del dipartimento peruviano di Loreto, la gran parte dei visitatori arriva per le meraviglie della natura (la riserva di Pacaya Samiria, quella di Allpahuayo Mishana, la laguna di Quistococha) e – non si può tacerlo – per il turismo de la pobreza, il turismo della povertà, tale è infatti la visita alla comunità di Belén (definita, con rozzo cinismo, la «Venezia amazzonica»). Altri ancora giungono a Iquitos per provare l’esperienza dell’ayahuasca, la bevanda indigena dagli effetti allucinogeni. Ci sono, infine, i visitatori che arrivano fin qui allo scopo di adescare minori.

La pedofilia non è che uno dei tanti problemi che affliggono la capitale dell’Amazzonia peruviana. È proprio per vedere e capire la città reale che prendo contatto con due vecchi amici missionari: padre Miguel Ángel Cadenas e padre Manolo Berjón, da tre anni tornati nel capoluogo loretano dopo aver vissuto per venti tra le comunità dei Kukama lungo il rio Marañón.

Masusa e gli indigeni urbani

Con un mototaxi – il tipico mezzo di trasporto di Iquitos (le auto sono una rarità, i bus sono pochissimi e scalcinati) – mi reco alla parrocchia della Immacolata Concezione dove i due missionari spagnoli prestano servizio. La loro parrocchia serve il vasto territorio di Punchana, uno dei quattro distretti municipali di Iquitos.

La chiesa della Inmaculada si nota subito, non tanto per i suoi due tozzi campanili, quanto per il suo colore blu elettrico. Miguel Angel e Manolo sono già in strada. Un abbraccio e, su due mototaxi, partiamo subito alla volta del barrio di Masusa. Questo è il quartiere cresciuto attorno al principale porto fluviale di Iquitos, quello sul rio Amazonas.

Scesi dai veicoli, a piedi ci addentriamo nel barrio e nei suoi vari asentamientos humanos (insediamenti umani). Man mano che proseguiamo il contesto urbano si degrada e con esso peggiora a vista d’occhio la situazione di chi vi abita. Dopo qualche minuto di cammino arriviamo in una specie di piazzetta il cui pavimento è fango mischiato con detriti legnosi (scopriremo più in là il motivo). Tutt’attorno abitazioni su palafitte costruite con legno di recupero e dalla struttura visibilmente precaria.

In un angolo sorge la cappella Sagrado Corazón de Jesús, dove una ventina di fedeli e una decina di bambini attendono i padri per la messa domenicale. Dopo la celebrazione, padre Miguel Ángel sollecita le persone presenti a prendere il microfono e a raccontarsi davanti alla telecamera. Si alternano in molti, donne e uomini, probabilmente attratti da quella piccola ma inaspettata opportunità di uscire dall’anonimato, di far sentire la propria voce. Con grande dignità raccontano da dove vengono, cosa fanno, dei problemi quotidiani. Che sono tanti, dalla mancanza di un lavoro a una situazione abitativa subumana.

«Nessuno ha confessato di essere indigeno per timore della discriminazione – commenta poco dopo padre Miguel -. Ma è importante sapere che questa gente proviene da comunità native. Si tratta di indigeni urbani. Secondo noi, arrivano all’80 per cento della popolazione, in particolare qui, nelle periferie. Ci sono persone con tratti somatici indigeni, in altre si notano meno. Però i tratti culturali sono evidenti, soprattutto con riferimento alla cosmologia (la visione del mondo) e allo sciamanesimo». Gli chiedo di farmi qualche esempio. «Una città come Iquitos è piena di “piante che proteggono contro gli spiriti maligni”. Non ci sono cifre precise, ma sappiamo che il numero di sciamani è altissimo. Quando muore qualcuno si cerca un colpevole, anche se il referto medico parla di cancro. Ci sono persone che dicono di “fotografare gli spiriti” con il cellulare. Si lascia che i bambini prendano le proprie decisioni fin da piccoli, frutto di una concezione indigena della persona».

Accanto alla cappella c’è una piccola e tristissima struttura che funge da asilo e i missionari scrollano la testa sconsolati. Pochi passi più in là, un signore attorniato da un nugolo di bambini sta caricando su un motocarro delle taniche di acqua. «Siamo a 300 metri dal rio Amazonas, ma qui non c’è acqua da bere, per lavarsi, per cucinare o per lavare. Non c’è acqua per nulla. Come, d’altro canto, in gran parte della città di Iquitos».

Le «madereras»

Dall’asentamiento humano Alejandro Toledo ci incamminiamo verso quello chiamato Santa Rosa del Amazonas.

Le stradine sterrate su cui camminiamo sono piene di trucioli e segatura di legno.

«Il municipio – spiega padre Miguel – invece di riempire con terra ha permesso alle segherie di usare i loro scarti di lavorazione per rialzare il terreno. Quando arriva la creciente (termine che indica i periodi – normalmente da marzo a maggio – di massima portata del rio Amazonas e dei suoi affluenti, quando le acque esondano, ndr), l’acqua continua a inondare le case, anche se si nota meno perché non compaiono ponteggi e passerelle. Sotto le case a palafitta sono però rimasti grandi vuoti dove si accumulano acqua putrida e rifiuti. Senza dimenticare che gli scarti del legno hanno fatto aumentare la popolazione di topi e di zanzare. Ancora una volta ha vinto l’opportunismo di politici e affaristi a scapito dei diritti dei cittadini». Eccole, le madereras, le segherie, le imprese del legname. Sono state costruite in questa zona per la vicinanza con il porto di Masusa. Il problema è che oggi sono circondate da insediamenti umani densamente abitati. Questo significa che la gente vive in mezzo ai residui della lavorazione del legno, tra cui particelle minuscole che vengono respirate. Allo stesso tempo molti abitanti traggono vantaggio dalla vicinanza delle madereras per recuperare materiale per le loro abitazioni o per costruire esteras (stuoie di legno) da vendere al mercato.

Le segherie hanno barriere d’alluminio che impediscono di vedere all’interno e torrette di guardia agli angoli. Ma per una cinquantina di metri lungo il perimetro c’è ancora una semplice staccionata (probabilmente in attesa di essere sostituita), che consente la visione. Al di là, cumuli di pezzi di tronchi dal diametro enorme. Un bulldozer sta spostando materiale di ogni dimensione.

Attività legale o illegale?, chiedo a padre Manolo. «Sicuro che è illegale – risponde il missionario -. O meglio: può essere che formalmente siano imprese legali, ma quasi sempre estraggono il legno illegalmente. Mi spiego: hanno una concessione per una data zona, ma poi lavorano in un’altra». In cerca di legno prezioso?, insisto io. «Dipende. La verità è che adesso di legno prezioso ne è rimasto veramente poco».

Mentre faccio foto e filmati noto che ci stanno osservando da una baracca che funge da ufficio. Probabilmente la loro è soltanto curiosità.

In ogni caso, a pochi metri di distanza, sull’angolo, un container color verde pallido è stato adibito a stazione di polizia. Lo hanno messo su ruote, in modo che sia a mezzo metro dal terreno sconnesso. Ci hanno ricavato alcune finestrelle e una porta. Dipinto due stemmi: quello del governo di Loreto e quello della polizia. E una scritta rassicurante: Juntos por la Seguridad Ciudadana! (Uniti per la sicurezza cittadina!).

La porta è aperta e così ne approfitto per entrare.

C’è una piccola scrivania, due sedie, un vecchio televisore e due brandine a castello. E soprattutto ci sono due giovanissimi poliziotti che stanno ascoltando musica dal cellulare. Appena mi vedono, abbassano il volume e si mettono in testa il cappellino d’ordinanza. I due mi accolgono calorosamente, nonostante abbia una telecamera in mano.

Mi dicono che sono aperti 24 ore e che intervengono principalmente per casi di violenza familiare e furti. Chiedo della droga di cui tutta l’Amazzonia peruviana è grande produttrice. «Sì – confermano i poliziotti -, c’è spaccio di pasta basica di cocaina. Sono coinvolti molti minori. Una dose costa un sol (25 centesimi di euro, ndr)».

Li ringrazio e raggiungo di nuovo le mie guide. Uno dei due poliziotti ci raggiunge però dopo pochi secondi per chiederci se vogliamo essere accompagnati nel nostro percorso. «No, grazie. Non c’è bisogno», rispondono i missionari. Questa non è una zona frequentata da stranieri, ma i due padri sono conosciuti anche perché qui c’è una delle quattro cappelle della loro parrocchia.

L’insediamento di Santa Rosa è triste e squallido come il precedente con la differenza che è tagliato in due da una via sterrata, usata da qualche veicolo delle segherie. La strada prosegue per qualche centinaio di metri fino a raggiungere il punto dove il rio Itaya sbocca nell’Amazonas. Sulla spiaggia che guarda i due fiumi da una parte c’è una catasta di enormi tronchi d’albero, dall’altra una montagna illegale di rifiuti e davanti a questa, tra l’acqua e la terraferma, un cimitero di vecchi battelli arrugginiti. Giriamo a destra seguendo l’Amazonas e, dopo poche decine di metri, giungiamo al porto di Masusa, conosciuto anche con il nome di puerto Silfo Alvan del Castillo.

I battelli amazzonici

I cancelli sono aperti e non c’è alcun controllo. Sulla riva sono ormeggiati una serie di battelli di medie dimensioni (50-100 tonnellate), all’apparenza tutti piuttosto scalcinati, ma che raggiungono quasi ogni angolo dell’Amazzonia peruviana. Il porto di Masusa funziona per merci e passeggeri.

Oggi c’è poca gente perché è domenica. Tuttavia, ci sono alcuni camion che caricano o scaricano mercanzia.

«Arriva soprattutto frutta e viene imbarcato soprattutto riso per le comunità dell’interno. E naturalmente arriva la droga. Da qui partono anche le persone vittime di tratta per andare verso Lima o la costa dove saranno impiegate nella prostituzione o in lavori illegali. Ci sono sia maschi che femmine e moltissimi di loro sono minorenni. È facile cadere nella tratta di persone. Se sei un ragazzo che vive in una famiglia povera e ti offrono un lavoro in un altro posto, alla fine decidi di partire».

Lasciamo il porto per entrare nell’adiacente mercato di Masusa. È una struttura riparata da una tettornia dove si vendono prodotti alimentari. Sui tavolacci in legno è rimasto poco o nulla perché l’ora è tarda. Su uno ci sono mucchi di zampe di gallina, su un altro razzolano alcuni pulcini.

Usciamo da una porta laterale del mercato per trovarci in un vicolo di sassi e rifiuti. I due missionari debbono fare visita a un’anziana malata. Abita sotto una palafitta, una sorta di pianoterra aperto, senza pareti circostanti, senza porte e finestre. Un tugurio con un pavimento di nuda terra e un soffitto di assi la cui altezza non permette a una persona di stare in piedi. Su un lato di questa stanza improbabile c’è un gruppetto di bambini con gli occhi fissi su un piccolo televisore, dall’altra una signora sdraiata su un vecchio letto circondato da indumenti e medicine. Alla vista dei missionari lei si mette seduta e scambia qualche parola. È anziana e malata, ma il suo viso conserva i segni di un’antica bellezza. Marta, questo il nome, non ha famiglia e sopravvive con l’aiuto dei vicini di casa. Prima dei saluti, chiede a padre Miguel Ángel di ricevere la comunione. Una visita, quella alla signora Marta, che ti prende lo stomaco e che ti lascia senza parole.

Abitare alle Malvinas

Con i consueti mototaxi lasciamo il quartiere del porto. La prossima destinazione è il barrio delle Malvinas. Anche qui, come a Masusa, le condizioni abitative peggiorano man mano che ci addentriamo, in particolare verso l’asentamiento Iván Vásquez.

Percorriamo una calle pavimentata con cemento, tanto stretta che a stento ci passa un mototaxi. Poi la viuzza termina e il luogo si allarga in maniera inaspettata, ma anche poco piacevole. La stradina nascondeva la rete fognaria (acantarillado), che ora invece esce allo scoperto in forma di un fiumiciattolo di acque putride e puzzolenti (desagüe).

È riduttivo definirla una fogna a cielo aperto perché è larga alcuni metri. L’acqua ha un colore grigio, impenetrabile dallo sguardo. È stagnante tanto che i sacchetti di rifiuti gettati sul fondo non si muovono e sono oggetto di attenzione da parte di vari gallinazos – grandi uccelli dalla testa nera appartenenti alla famiglia degli avvoltorni – che vi cercano cibo.

Sulle due sponde della fogna è cresciuta una ininterrotta serie di abitazioni con le persone che all’aperto cucinano, lavano i panni o vendono mercanzie (dal pesce alle banane agli spiedini).

Non è strano che la gente accetti tutto questo?, chiedo alle mie guide. «No, non è strano. Sono venuti da fuori per cercare migliori condizioni di vita ma hanno trovato questo».

Camminiamo lungo il canale finché arriviamo a una curva, dove una conduttura in cemento sbuca dal greto della cloaca. «Ecco questo è il punto più incredibile. Qui fuoriescono i rifiuti dell’ospedale Essalud, che sta a cento metri di distanza», mi spiega padre Miguel Ángel. Vista la situazione, non stupisce che, oltre alla malaria e al dengue, diffuse in tutta Iquitos, qui siano endemiche anche le infezioni respiratorie acute e le malattie diarroiche acute.

Dopo la curva, il fiume-fogna torna diritto proseguendo per alcuni chilometri fino a terminare nel rio Nanay, molto vicino alla confluenza di questo con l’Amazonas. Sulle due sponde sono state poste barriere in legno e sacchi di sabbia per frenare l’acqua nei periodi della creciente, la piena dei fiumi. Per passare da una sponda all’altra gli abitanti hanno costruito passerelle di assi. Ne attraversiamo una per andare a camminare sul lato esterno.

L’insediamento è molto esteso. Tutte le abitazioni sono su palafitte e costruite con assi di legno e tetti in lamiera. I bambini sono ovunque e, come in ogni parte del mondo, trovano il modo di giocare e divertirsi. C’è anche un ampio spazio libero dove in molti stanno seguendo una partita di calcio. Più avanti, nello spazio tra alcune abitazioni, un gruppo di giovani sta giocando a pallavolo.

Dato che non esiste alcun sistema di distribuzione idrica, incrociamo varie persone che, a mano, trasportano secchi d’acqua. «A dispetto di tutto questo – chiosa padre Miguel Ángel -, da qui non vogliono andarsene. Il barrio è vicino al porto. E Masusa è il solo luogo dove molti di loro possono trovare un lavoro: o come scaricatori o come rivenditori dei prodotti più vari. Questa città non offre altro».

Tra invisibilità e indifferenza

Ormai è quasi buio. È ora di tornare indietro. Oggi abbiamo conosciuto due barrios di Iquitos, dove la gente – quasi sempre indigena – vive in condizioni di povertà o di estrema povertà. La maggior parte degli abitanti della più importante città dell’Amazzonia peruviana vive così. Ma rimane invisibile agli occhi dei più. O indifferente, che forse è anche peggio.

Paolo Moiola

 




Colombia-Perù. La forma della felicità

Testo e foto di Paolo Moiola |


Non ci sono né acquedotto né acqua potabile. Non ci sono fognature e strade. L’elettricità arriva per quattro ore al giorno. La malaria è la norma. Eppure, a Soplín Vargas, piccolo villaggio di 700 persone (tra indigeni e meticci) sulla riva peruviana del rio Putumayo, si può essere felici. È il sumak kawsay, la forma indigena della felicità. Confermata dai missionari.

Verso Soplín Vargas. Ci imbarchiamo al porticciolo di Puerto Leguízamo. Qui non esiste un servizio di trasporto pubblico. I passaggi sul rio Putumayo dipendono dall’intraprendenza dei singoli. Come fa la signora Teresa, una donna imprenditrice che ha coinvolto nell’attività anche i propri figli. Due volte a settimana la sua vecchia lancia in legno percorre il tragitto tra Puerto Leguízamo e Soplín Vargas, in terra peruviana. Ci accomodiamo tra sacchi di cemento marca San Marcos, scatole e borse della spesa. È stato imbarcato pure un mobile di medie dimensioni. I passeggeri – uomini e donne con bambini – sono tutti peruviani che vengono a fare acquisti sul lato colombiano del fiume, dove i prodotti si trovano più facilmente e più a buon mercato. «Teresa, come va il business?», chiedo mentre lei è ancora sul molo in attesa di altre persone. «Più o meno», risponde lei con una risata. Non esistono orari. L’unica regola è evitare di muoversi con il buio. Raggiunti i 14 passeggeri, Teresa molla la cima e Angelo, uno dei suoi figli, accende il motore. «Ci vorranno poco più di due ore», spiega padre Fernando Flórez, che a Soplín Vargas ha la sua missione.

A pochi minuti dalla partenza passiamo davanti alla base della «Forza navale del Sud» dell’Armada colombiana, che qui ha una presenza di rilievo vista la zona di confine (con Perú ed Ecuador) e la situazione di conflitto armato con le Farc che vigeva fino agli accordi di pace del novembre 2016.

La navigazione procede tranquilla. L’acqua del fiume ha un colore opaco, tra il verde e il marrone, come si notava dall’aereo. Sulle rive la vegetazione è continua ma quasi non ci sono alberi ad alto fusto. Ogni tanto, seminascosta dalla boscaglia, s’intravvede qualche abitazione su palafitte. Le rare imbarcazioni che s’incontrano sono soprattutto peke-peke (il nome deriva dal tipico rumore del motore) appartenenti a pescatori o a famiglie che si spostano lungo il fiume.

Dopo un paio di ore di viaggio, sulla riva peruviana compare un grande cartellone della Marina da guerra del Perú – sul Putumayo ha alcune guarnigioni stabili (come la controparte colombiana) – che annuncia l’arrivo a Soplín Vargas. «Sia Puerto Leguizamo che Soplín Vargas debbono i loro nomi a soldati caduti durante la guerra tra Colombia e Perú che ebbe luogo tra il 1932 e il 1933», mi spiega padre Fernando.

La lancia di Teresa riduce la velocità e si dirige verso un piccolo molo sul quale sono indaffarate parecchie persone. Man mano che ci avviciniamo capisco il motivo di tanto trambusto. Qualcuno sta squartando una vacca e vari dei presenti se ne portano via un pezzo, chi più grande, chi più piccolo. La maggior parte di loro se lo carica sulle spalle per fare più comodamente la ripida scalinata in legno che dal fiume conduce al promontorio dove sta Soplín Vargas. Per questa sua posizione il villaggio è considerato in «altura», che significa non inondabile dal Putumayo.

Noi scendiamo poco più avanti in un posto più scomodo e sconnesso. Gli stivali sono indispensabili per muoversi su un terreno reso fangoso e viscido dalle piogge.

Dopo una camminata in leggera salita su sentieri in terra battuta, arriviamo alla missione. Ad accoglierci è il volto sornione di padre Moonjoung Kim, missionario della Consolata coreano che con padre Fernando opera a Soplín Vargas.

La missione è una piccola casa in muratura posta su un unico piano.

L’entrata dà su un salone dove si svolgono tutte le attività (incontri, messe, feste, celebrazioni). Al fondo dello stesso ci sono quattro porte corrispondenti alle stanze da letto dei due padri, al cucinino e al piccolo bagno.

«Sumak kawsay»

Padre Fernando e padre Kim operano su tutto il distretto denominato Teniente Manuel Clavero, che si estende su un territorio amazzonico molto vasto (circa 9.107 km2). C’è Soplín Vargas, il capoluogo con circa 700 abitanti e una comunità mista di meticci e indigeni. Ci sono due altre comunità meticce e poi 28 comunità indigene: Kichwa soprattutto (21), ma anche Secoya (6) e Huitoto (1). La più piccola, Peneyta, conta soltanto 36 abitanti.

Vista l’ampiezza del territorio, i due missionari sono sempre in viaggio, muovendosi in barca e a piedi. Però, a dispetto di fatica e difficoltà, sembrano in totale armonia con l’ambiente naturale, umano e culturale in cui sono immersi. «La chiesa cattolica – spiega padre Fernando – dovrebbe evangelizzare e il vangelo – anche dal punto di vista etimologico – significa “buona notizia”. In questo pezzetto di Amazzonia noi dovremmo portare buone notizie. Ciò si traduce nel sumak kawsay, tradotto come buen vivir. Tutto ciò che sta a favore della vita è Vangelo, tutto ciò che sta contro la vita va denunciato. Anche per questo io e padre Kim stiamo percorrendo il Putumayo in lungo e in largo: per formare líderes e líderesas che possano essere gestori del buen vivir».

Il sumak kawsay-buen vivir è un concetto affascinante: vivere privilegiando la comunità in un contesto di rispetto dell’ambiente naturale. Affascinante ma difficile, soprattutto per un bianco che, per capirlo ed eventualmente attuarlo, deve spogliarsi di molti preconcetti, di strutture mentali sedimentate, di comodità date per acquisite. Ad esempio, vivere nella foresta amazzonica è un’esistenza unica in ogni aspetto della quotidianità.

«Di acqua ne abbiamo molta – racconta padre Fernando -. Il problema è che spesso non è potabile. È un paradosso, lo so. Siamo sulle sponde del fiume Putumayo, ma il fiume è inquinato. In primis, dall’immondizia: tutto ciò che le comunità producono come immondizia, viene buttato nel fiume. Va detto che l’indigeno è passato in poco tempo da uno scarto naturale (gusci, cortecce, legno) alla plastica. Con la differenza che il primo non inquina, il secondo sì. A Soplín Vargas parte dell’immondizia si raccoglie, ma si butta in un terreno senza alcun trattamento. Non esiste il concetto di riciclaggio. E poi ci sono i reflui umani che anch’essi vanno a finire nel fiume. Qui in pochissimi hanno un gabinetto con una fossa biologica».

Dunque, come ci si procura l’acqua?, chiedo da straniero abituato alle comodità dei bianchi. «Normalmente la gente raccoglie l’acqua piovana in un contenitore, ma altrettanta prende l’acqua da bere direttamente dal fiume. Noi portiamo l’acqua (trattata) in bottiglioni dalla Colombia e, quando la gente sulla barca ci vede, ride di noi. “Fernando, l’acqua del Putumayo non si prosciuga, perché vai a comprarla?”».

Domando della vita quotidiana. «Se non lavorano nella municipalità – spiega padre Fernando -, le persone al mattino vanno a collocare le loro reti nel rio Putumayo per pescare. Durante la notte possono andare a caccia per procurarsi la carne, che poi salano dato che qui non c’è possibilità di congelare i prodotti». Dunque, pesca, caccia, ma anche un’agricoltura di tipo familiare.

«Nelle chagras (o chacras, piccoli appezzamenti di terra) si coltivano – spiega padre Kim – riso, frutta amazzonica e yuca. Quest’ultima è molto usata dagli indigeni, anche per produrre bevande tipiche come la chicha e il masato». Chiedo della coca. «E tristemente si coltiva anche coca – conferma il missionario -. Però, la si coltiverebbe meno, se in altre parti del mondo non si consumasse. Senza dimenticare che gli indigeni la utilizzano anche in alcuni loro rituali tradizionali».

Dopo la cena, nel salone multiuso rimontiamo la tenda sotto la quale dormirò. Occorre approfittare della luce: a Soplín Vargas la corrente elettrica viene erogata per 4 ore giornaliere, dalle 18,00 alle 22,00. La missione non ha un generatore autonomo. Non c’è televisione né collegamento internet. «Però – dicono quasi all’unisono i due missionari – abbiamo vegetazione, tranquillità, persone con le quali si può parlare faccia a faccia senza un telefono che suoni».

Amazzonia, cuore del mondo

Ogni mattino mi alzo anchilosato, ma senza punture. Anche la scorsa notte le zanzare (zancudos o mosquitos) non sono passate dalla mia tenda. Esco subito per approfittare della temperatura sopportabile. Percorro il sentiero – sono poche centinaia di metri – che porta verso il centro del villaggio. Passo davanti alla scuola primaria e secondaria e a un piccolo campo da gioco in cemento. Ancora pochi passi e sono sulla Plaza de Armas di Soplín Vargas. È uno spazio erboso circondato da una stradina pavimentata con lastroni di cemento. Tutt’attorno ci sono il posto di polizia (una baracca in legno di colore verde pallido), il municipio e anche un ufficio del Banco de la Nación.

Incrocio il direttore del collegio. La scuola di Soplín Vargas – chiamata Teniente Luis García Ruiz – conta 108 alunni in primaria e 78 in secondaria. Secondo il direttore, i problemi principali sono quelli della mobilità (degli insegnanti e degli studenti) e i bassi salari. «Non stiamo tanto bene, però stiamo migliorando», conclude. In piazza incontro anche il medico, il dottor Francisco José Rosas Pro, che mi invita a casa sua. Sposato con Rina, infermiera, hanno una bambina. Sono qui dal 2012, ma in attesa di trasferimento.

«Manca molto – racconta il medico – l’appoggio dello stato, soprattutto per quanto concerne i medicinali. Non danno neppure quelli di base come amoxicillina e paracetamolo. Non rispondono alle nostre richieste. Oppure inviano medicinali non richiesti in quantità quando vedono che stanno per scadere».

Gli chiedo delle patologie più diffuse. «A parte la diarrea e problemi respiratori tipici, c’è la malaria, sempre presente. Ogni giorno ci sono pazienti. Spesso scelgo di dare loro i medicamenti anche se l’analisi del sangue è negativa, perché vengono da molto lontano. Qui a Soplín Vargas si tratta principalmente di malaria vivax, ma nei caserios (i villaggi più piccoli) c’è una prevalenza del falciparum» (sulla malaria vedi MC ottobre 2018 pag. 62).

Siamo interrotti per un’emergenza. Lo seguo al puesto de salud (consultorio medico) che dista un centinaio di metri. È una struttura in muratura relativamente grande ma triste e spoglia. Pare abbandonata. Le stanze non mancano, ma sono quasi tutte chiuse e vuote. L’unica aperta e attrezzata è quella sulla cui porta c’è il cartello «Tópico de emergencia». All’interno un paziente, sdraiato sul lettino, lamenta forti dolori al basso ventre. Francisco lo visita. Esce poco dopo. «Probabili calcoli renali. Ho dato dei medicinali e ordinato (all’unica addetta, ndr) una fleboclisi».

Al puesto de salud di Soplín Vargas l’umidità percorre muri e scalini, ma non c’è l’acqua per gli usi normali. «Una delle tante ragioni per cui ho chiesto di essere trasferito», chiosa il medico.

Alla sera racconto della mia visita all’ambulatorio. «Sì, è vero. Qui ci sono molte necessità – ammette padre Fernando -. I governi non si preoccupano della gente di questi territori. Sono interessati soltanto ad accaparrarsi le ricchezze della regione: per queste persone l’Amazzonia è sinonimo di denaro. Per me invece è il cuore del mondo».

Paolo Moiola


Nella comunità kichwa di Nueva Angusilla

«Sì, io sono il cacique»

Sul fiume Putumayo, come su tanti altri fiumi amazzonici, vivono varie comunità indigene. Spesso dimenticate dallo stato centrale.

Verso Nueva Angusilla. Da Soplín Vargas navighiamo lungo il rio Putumayo verso Sud per 140 chilometri. Quando il fiume incontra il rio Angusilla, suo affluente, siamo arrivati alla comunità kichwa di Nueva Angusilla.

L’avamposto militare – qualche casupola dipinta di verde e un’insegna posta sul terreno antistante – sta su un promontorio senza alberi. Ma la posizione è perfetta: all’intersezione tra i due fiumi. Poco più avanti, sul pontile un gruppo di adulti e bambini sono in attesa della nostra lancia. I cartelli di benvenuto tenuti dai piccoli sono per mons. José Javier Travieso Martín: è un’occasione unica perché il vescovo risiede a San Antonio del Estrecho, molto lontano da Nueva Angusilla.

Il villaggio è stato costruito con una struttura rettangolare: il lato libero guarda verso il fiume, sugli altri tre sono sorte le abitazioni. Le case – fatte di assi di legno e tetto di lamiera o di frasche – sono rialzate dal terreno di circa mezzo metro. Al centro, sproporzionata rispetto al resto, c’è la costruzione più moderna, chiamata Centro de Servicio de Apoyo al Hábitat Rural, ma da tutti conosciuta come «tambo». È un progetto del governo peruviano per ospitare – nei luoghi più disagiati – i principali servizi pubblici: registro civile, credito e appoggio tecnico ai contadini, consultorio medico, asilo nido per bambini, consulenza giuridica e altro ancora. Però, a Nueva Angusilla come altrove, c’è solo il contenitore fisico, mentre i servizi mancano o sono molto carenti.

«Qui ci sono circa 120 abitanti. Si vive di agricoltura e pesca. E poi lavoriamo con il legno con cui facciamo assi vendute in Colombia», mi dice gentile ma forse un po’ a disagio Eliseo, un abitante che si sta dirigendo verso il locale comunale – una struttura in legno aperta e con un tetto di frasche – dove il vescovo impartirà battesimi e comunioni.

Cerco il capo, il responsabile della comunità: il cacique, ma meglio sarebbe dire apu o curaca. Eccolo. Statura piccola e volto da giovanissimo, risponde volentieri alle domande anche se con visibile timidezza. «Sì, sono il cacique. Mi chiamo Jackson Kenide Mashacuri Andi e ho 24 anni. La popolazione mi ha eletto come autorità di qui. Mi piace molto stare con la gente per aiutarla a organizzarsi». E con orgoglio aggiunge: «Ho fatto il quinto grado della scuola secondaria e dunque sono capace di difendermi». Precisa che gli abitanti sono 117 che vivono coltivando yuca e platano (banane da cuocere, ndr) e pescando per il proprio consumo. Spiega che, come cacique, fa parte di una organizzazione chiamata Fikapir – Federación Indígena Kichwa Alto Putumayo Inti Runa -, la quale funge da intermediario con le autorità statali.

Chiedo dei problemi che ci sono. «Per la salute non c’è quasi appoggio. Per l’educazione stiamo cercando di avere professori bilingue. Adesso abbiamo soltanto insegnanti meticci che non parlano la nostra lingua. Qui la popolazione parla kichwa». Anche i giovani?, chiedo. «Sì, anche loro. Lo parlano in casa ma non a scuola».

Ci sono problemi di malaria? Fa una smorfia prima di rispondere: «Eh, sì. Soltanto un mese fa c’erano 20-25 persone contemporaneamente con la malaria. Malaria vivax». E c’è la posta medica?, intervengo. «Sì, ma non abbiamo il tecnico».

Oggi è una giornata di festa. Bisogna andare a mangiare. Pollo, riso, platano fritto. Prima di risalire sulla lancia, Jackson mi presenta la sua famiglia per un’ultima foto.

Paolo Moiola


Indigeni e bianchi

Una ciotola di «masato» (per un ipocondriaco)

Tra un indigeno e un bianco le diversità sono evidenti. Soprattutto quelle culturali. L’importante è accettarle, magari con un arricchimento reciproco. Racconto di un piccolo episodio di vita quotidiana.

Nueva Angusilla. Una semplicissima casa in legno rialzata da terra di circa un metro. Nessun mobile, un paio di secchielli (di plastica) con dell’acqua, qualche indumento appeso a fili volanti. Una famiglia numerosa e allargata (genitori, figli, nipoti) accoglie padre Fernando. In quanto amico del missionario, io sono un ospite da onorare come meglio si possa. E il meglio per una famiglia kichwa è offrire una ciotola colma di masato. È – lo confesso – un momento che temevo e che inevitabilmente si presenta. Tremo all’idea di dover ingerire quella bevanda tanto gradita dagli indigeni quanto indigesta per i non-indigeni, soprattutto se occidentali. Bere è un atto dovuto, segno di rispetto, riconoscenza, amicizia. Bere è però anche un rischio certo di avere conseguenze fisiche immediate e sicuramente poco piacevoli. Anni di esperienze negative mi vengono immediatamente alla memoria. Non c’è speranza di farla franca. È quasi matematico.

Il masato (aswa, in kichwa) è il nome di una bevanda molto comune in tutto il bacino amazzonico. È ottenuta a partire dalla yuca dolce (o manioca), una pianta con una radice a forma di tubero, commestibile e ricca di amidi. La sua preparazione è compito delle donne indigene. I tuberi vengono prima pestati e poi bolliti. La pasta ottenuta è quindi masticata dalle donne per provocarne la fermentazione. Da ultimo si diluisce la massa in acqua (quasi sempre di dubbia potabilità) e il masato è pronto per essere bevuto.

Prendo la ciotola di… plastica tra le mani. Appoggio le mie labbra incerte sul bordo. È come se quella bevanda biancastra e veramente poco attraente quasi mi guardasse e mi dicesse: «Bevimi!».

La decisione è repentina ed improvvisa. In un decimo di secondo passo la ciotola nelle mani compassionevoli di padre Fernando. Labbra appena inumidite, ma no, non ce l’ho fatta a bere. Però almeno sono arrivato lì, lì a pochissimo dalla temuta meta.

Cerco nella mia testa due paroline in lingua kichwa: «Yapa alli» (muy bueno, molto buono), dico con un sorriso tanto largo quanto bugiardo a tutti i presenti che sono lì davanti, con gli sguardi fissi su di me. E subito cerco di sviare l’attenzione. Una foto, una foto di tutti con padre Fernando. Sì, mi vergogno, ma il mio stomaco e probabilmente la mia salute sono salvi. Spero sia salva anche la mia reputazione presso quella famiglia kichwa di Nueva Angusilla. Sentendomi come colpevole di un reato, prometto loro che farò arrivare le foto cartacee di quella visita. Temo però che il masato tornerà ancora a materializzarsi davanti a me. Negli incubi notturni o nella realtà.

Paolo Moiola




Ecuador: Meglio i turisti che il petrolio


Sani Isla è il nome di una comunità indigena quichua di un migliaio di persone che vive sulle rive del fiume Napo, davanti al parco nazionale Yasuní. In questi anni la comunità ha dovuto affrontare le mire espansionistiche delle società petrolifere, prima della statunitense Occidental Petroleum (Oxy), poi della ecuadoriana Petroamazonas. La prima se n’è andata, la seconda ha iniziato a operare anche all’interno del vicino Yasuní, scrigno mondiale della biodiversità e casa di alcune etnie isolate. Nel frattempo, dopo varie esitazioni, la comunità di Sani Isla ha scelto la strada del turismo ecosostenibile, dell’artigianato e della silvicoltura. Allontanando le sirene delle imprese petrolifere. Almeno per il momento.

Francisco de Orellana. Il Rio Napo è uno dei maggiori affluenti del Rio delle Amazzoni. È un fiume importante perché attraversa la foresta amazzonica ecuadoriana, costeggiando tra l’altro il Parco Nazionale Yasuní, uno scrigno inestimabile di biodiversità (nonché casa di alcune etnie indigene isolate)1. La nostra lancia a motore, partita dal piccolo molo di Francisco de Orellana (anche conosciuta come Coca), schizza veloce sul pelo dell’acqua. Ogni tanto decelera o vira con agilità per evitare tronchi di alberi che affiorano dall’acqua.

Il fiume, largo e abbastanza profondo, è percorso soprattutto da canoe e da piccole imbarcazioni a motore. Ma ogni tanto s’incrociano anche chiatte che trasportano camion legati all’industria petrolifera. È proprio il petrolio che sta mettendo a repentaglio i fragili equilibri dell’Amazzonia ecuadoriana. Lo si capisce anche da una banale osservazione dell’ambiente circostante. Non molto dopo la partenza dal porticciolo di Coca, sulla riva sinistra del Napo notiamo alcune torri petrolifere sormontate dalla tipica fiamma che brucia il gas in eccesso2. Senza dire degli sbancamenti di cui sono fatti oggetto alcuni tratti della sponda sinistra del fiume.

Avvistamenti di questo tipo per fortuna non si ripetono nelle due ore successive di navigazione: sulle due rive del Napo è pura vegetazione. A un certo punto, mentre sulla riva opposta è già territorio del Parco Yasuní, la lancia inizia a rallentare e si avvicina alla sponda sinistra dove c’è un ormeggio e una passerella. «Bienvenidos a Sani Isla», recita il cartello.

Le donne di Sani Isla

Ci accolgono quattro giovani donne, indigene dell’etnia quichua3 che abita questo spicchio d’Amazzonia ecuadoriana. Indossano semplici ma eleganti camicette colorate e gonne a falde. Una tabella di legno conficcata nel terreno spiega che a Sani Isla, con il supporto di due organizzazioni, la statunitense Rainforest Partnership e la ecuadoriana Conservación y Desarrollo, si porta avanti un progetto lavorativo per le donne della comunità.

Una signora con i capelli neri raccolti in una treccia ci spiega che qui lavorano 34 donne divise in 5 gruppi che si alternano settimanalmente. Dal 2010 le donne producono oggetti d’artigianato – collane, braccialetti, orecchini, borse di stoffa -, fatti con semi e fibre vegetali, raccolte nella foresta o appositamente coltivate. I prodotti vengono poi venduti ai turisti che arrivano dai vicini lodge (Sacha, Sani, Napo Wildlife Center) della foresta e che visitano Sani Isla.

Quello dei lodge è un turismo con un impatto ambientale contenuto sia per i numeri esigui di turisti che muove (è costoso) sia per le sue modalità ecosostenibili. In ogni caso, nessuna attività umana produce un impatto comparabile con la devastazione insita in qualsiasi attività petrolifera (esplorazione, perforazione, estrazione, trasporto, ecc.). La comunità di Sani Isla lo sa benissimo perché in passato, sul rapporto con le imprese petrolifere, si è divisa al proprio interno.

Nel 1998 i leader della comunità firmarono un accordo con l’impresa statunitense Occidental Petroleum (Oxy), per consentire l’esplorazione petrolifera sul loro territorio che si estende per 20.567 ettari legali (e altri 42.000 reclamati)4. Come compensazione ottennero la costruzione di una struttura ecoturistica, il Sani Lodge. Questo opera dall’anno 2000 ed è interamente gestito dalla comunità, che ne ricava un reddito importante. Per fortuna, la Occidental non trovò il petrolio e se ne andò. Venne però sostituita dalla ecuadoriana Petroamazonas (del gruppo Petroecuador), che già operava in zona e con la quale venne sottoscritto un nuovo accordo. Ma tra molti abitanti di Sani Isla, divenuti nel frattempo più consapevoli dei pericoli dell’attività petrolifera, iniziò a crescere il malcontento. Fu così che, nel dicembre del 2012, l’assemblea comunitaria rigettò quell’accordo, aprendo un contenzioso legale e politico tuttora in corso.

Una donna del gruppo, Mariska, ci accompagna per illustrarci il luogo e le piante che crescono qui attorno. È molto giovane e un po’ timida, ma risponde con gentilezza alle domande, anche a quelle che preferirebbe evitare. «Un tempo – spiega – la comunità lavorava con le compagnie petrolifere, adesso soltanto con il turismo, che è meglio perché non inquina».

A Sani Isla non ci sono abitazioni dato che le singole famiglie vivono lungo il Rio Napo. Qui ci sono soltanto le strutture comunitarie, alcune costruite in maniera tradizionale (con legno e tetti di frasche), altre in muratura. In mezzo un campetto da calcio, una serra, un’antenna radio. Ai lati alcuni piccoli appezzamenti coltivati con prodotti della foresta, soprattutto cacao.

Le strutture più grandi sono due semplici costruzioni in muratura dalla forma rettangolare, un solo piano, grandi finestre e tetto piatto. In una ci sono una lavagna e banchi scolastici su cui poggiano alcuni libri. L’altra, distante pochi metri, ospita un’ampia sala con sedie di plastica dove si tengono le assemblee. Sul bancone, un libro: Pachacamacpac Quillcashca Shimi, recita la copertina. Lo apriamo per capire di che tratti. È una Bibbia bilingue (spagnolo e quechua), segno che la sala è utilizzata anche per le funzioni religiose.

Nessuna compensazione vale l’inquinamento

Sulla porta di una casetta notiamo una giovane donna con un neonato in braccio. Ci avviciniamo e vediamo che la porta è quella dell’ambulatorio medico.

All’interno ci sono due persone giovani – una donna e un uomo – seduti attorno a un tavolo sul quale ci sono un misuratore di pressione, alcune boccette di disinfettante, un barattolo con batuffoli di cotone, alcuni quaderni. I due si presentano come Elizabeth Orbe e Charles Belzu, medici.

«Io sono medico comunitario – spiega Elizabeth -. Lavoro per Petroamazonas. Prestiamo servizio a tutte le comunità che stanno nella sua zona d’influenza. È un lavoro svolto in accordo con il ministero della Salute».

«Io lavoro per il ministero di Salute pubblica e sono specialista in medicina familiare – racconta Charles, boliviano e laureato a Cuba -. Veniamo di norma la domenica perché in questo giorno ci sono le riunioni della comunità. Facciamo anche delle visite alle case quando ci sono anziani o donne in gravidanza che non possono muoversi o che non hanno la possibilità economica per muoversi».

«Le patologie più comuni – spiega Elisabeth – sono problemi della pelle, respiratori e gastrointestinali. Di solito la loro causa sono le scarse condizioni igieniche».

Senza voler mettere in imbarazzo i due giovani medici chiediamo delle patologie conseguenti a inquinamento. «Per quanto ci riguarda – risponde Charles – non abbiamo riscontrato problemi dovuti a inquinamento. Il governo permette l’estrazione petrolifera, ma pretende attenzione per l’ambiente».

All’esterno, su un muro dal vivace colore arancione, una piccola targa recita: «Quest’opera fu costruita da Occidental Petroleum (Oxy) in accordo con la comunità nell’anno 2002».

«Quella adesso non c’è più. Ora c’è Petroecuador», ci dice un giovane dagli occhi arrossati seduto su una panca posta davanti all’entrata.

Parla lentamente, quasi scandendo le parole, forse perché lo spagnolo non è la sua lingua madre. «Mi chiamo Cirilo e sono un agente di salute della comunità di Sani Isla», spiega.

L’agente di salute è una sorta d’infermiere generico. «Le persone che vengono da me – racconta – hanno spesso problemi di pelle a causa di mosquitos e zancudos. E poi c’è la questione dell’acqua: qui non c’è acqua potabile. Dobbiamo purificarla o comprarla a Coca. Quanto ai medici vengono soltanto la domenica».

Chiediamo a Cirilo di questo rapporto ambiguo con le compagnie petrolifere. Lui non ha dubbi ribadendo più volte e senza tentennare: «Vengono qui e inquinano. Noi dobbiamo essere molto duri nei loro riguardi».

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Le acque del Rio Napo

In una capanna senza pareti alcune donne stanno preparando il cibo su una grande griglia scaldata da un fuoco di legna. Sopra cuociono platano (banana da cottura, ndr), tuberi di yucca e alcune varietà di semi.

In un angolo, accanto alle amache in cui sono adagiati due neonati, un’altra donna indigena, accovacciata a terra, sta pulendo pesce del Rio Napo. Il fiume però non è più pescoso come un tempo. Difficile dire se a causa del super sfruttamento o per l’inquinamento delle sue acque causato da sversamenti di petrolio (derrame de crudo). L’ultima emergenza resa pubblica risale al giugno del 2013 quando le acque inquinate del Napo arrivarono fino alla provincia di Maynas, foresta amazzonica del Perù.

Paolo Moiola

 Note

(1) Il Rio Napo nasce alle falde del vulcano Cotopaxi. Confluisce nel Rio delle Amazzoni dopo circa 1.130 chilometri, gli ultimi 667 in territorio peruviano.
(2) La pratica è nota come «gas flaring».
(3) La scrittura: Quichua o Kichwa per l’etnia, Quechua per la lingua.
(4) Fonte: Rainforest Partnership, The Sani Warmi Project, 2013.


Amazzonia

Tra sfruttamento e preservazione

Più l’ambiente è delicato, più la presenza umana produce un impatto rilevante. Come fare per impedire lo sfruttamento delle risorse dell’Amazzonia? Come fare se l’interesse particolare di un paese (Ecuador, Brasile, Perù e altri paesi amazzonici) è in conflitto con quello generale della comunità internazionale? E che dire dei diritti dei popoli indigeni che l’Amazzonia la abitano?

Nel 2007 Rafael Correa, all’epoca presidente dell’Ecuador, lanciò una proposta rivoluzionaria nota come «Iniciativa Yasuní-Itt». Le ingenti riserve petrolifere del Parco Yasuní sarebbero rimaste nel sottosuolo se la comunità internazionale avesse contribuito a dare all’Ecuador almeno la metà delle entrate che il paese avrebbe ricavato sfruttando quei giacimenti. In questo modo si sarebbe salvaguardata una delle maggiori riserve mondiali di biodiversità, evitando nel contempo di immettere nell’atmosfera altre quantità di anidride carbonica.

I fondi raccolti furono però molto esigui rispetto a quanto previsto dal governo ecuadoriano. Pertanto, nell’agosto del 2013, Correa, ancora presidente, annunciò la fine del progetto e l’inizio dello sfruttamento del petrolio dello Yasuní, pur limitato – spiegò – all’1 per cento della superficie del parco nazionale.

L’idea – sicuramente rivoluzionaria – non ebbe successo un po’ per demerito del governo ecuadoriano, molto per lo scarsissimo contributo della comunità internazionale. Oggi lo sfruttamento del petrolio del Yasuní è iniziato e le prospettive non sono rosee, perché i danni – pur occultati – già iniziano a vedersi.

Il disastro brasiliano – In Brasile, paese che possiede la maggior parte dell’Amazzonia (circa il 64% dell’estensione totale), la situazione è ancora più drammatica, come certificano gli studi dell’istituto Imazon (Instituto do Homem e Meio Ambiente da Amazônia) e i dati satellitari dell’Inpe (Instituto Nacional de Pesquisas Espaciais). Il disboscamento (desmatamento) annuale è diminuito dal 2004 (quando raggiunse la cifra record di 27.800 Kmq, con un aumento del 100% rispetto al 1997) al 2012 (4.700 Kmq), ma successivamente ha ripreso ad aumentare in maniera preoccupante. Stando ai dati ufficiali, nel 2016 il disboscamento è stato di circa 8.000 chilometri quadrati (un’area vasta come la regione Friuli Venezia Giulia). Le ricerche attestano che la causa principale del disboscamento è l’allevamento bovino, seguito dalle piantagioni di soia.

Particolare versus generale – I paesi amazzonici dichiarano che la loro sovranità è un diritto intangibile anche quando si parla di Amazzonia. In base a questa considerazione affermano di avere il diritto di decidere cosa fare dell’ambiente amazzonico e delle sue ricchezze. Dimenticando però che quello stesso diritto dovrebbe essere riconosciuto ai popoli indigeni, abitanti originari di quei territori.

Conoscere per difendere – La preservazione dell’Amazzonia è un obbligo indiscutibile, a maggior ragione in tempi di drammatico cambiamento climatico. Trovare e mettere in essere una difesa efficace senza privare i paesi amazzonici di opportunità di crescita è un problema aperto e di non facile soluzione. Il mercato internazionale delle emissioni (per esempio, quello del programma Redd, Reducing Emissions from Deforestation and Forest Degradation) è ancora embrionale e presenta aspetti ambigui. L’ecoturismo, pur non esente da impatti ambientali, può essere un’attività economica accettabile se adeguatamente regolamentata. Anzi, può diventare uno strumento utile per far conoscere la bellezza del mondo amazzonico. E quindi per aiutare a difenderlo dalle innumerevoli minacce esterne, in primis dallo sfruttamento indiscriminato delle sue ricchezze.

Paolo Moiola

 

Archivio MC

Tra gli articoli più recenti sull’Ecuador segnaliamo:

  • I dieci anni di Rafael Correa, maggio 2016;
  • L’alunno e il professore, giugno 2016;
  • La maledizione del petrolio, luglio 2016;
  • Una storia troppo sporca, agosto-settembre 2016.

Tutti gli articoli sono firmati da Paolo Moiola.

Siti web

  • yasunidos.org -è la Ong ecuadoriana che difende il Parco Yasuní.
  • rainforestpartnership.org – è la Ong statunitense che si occupa di salvaguardia delle foreste pluviali e che sostiene anche il progetto Sani Isla.

Videoreportage

Un videoreportage sul Río Napo e su Sani Isla è visibile su YouTube sul canale di Paolo Moiola: www.youtube.com/user/pamovideo




Pigmei piccolo uomo fratello mio


Negli ultimi mesi c’è stata una recrudescenza dei massacri nell’Est del Congo. Qui gli interessi di potenze straniere e del governo centrale creano una situazione esplosiva. In questo contesto un missionario italiano lotta per la difesa dell’etnia più oppressa: i pigmei.

«Il mio pensiero va agli abitanti del Nord Kivu recentemente colpiti da nuovi massacri che da tempo vengono perpetuati nel silenzio vergognoso, senza attirare neanche la nostra attenzione. Fanno parte purtroppo dei tanti innocenti che non hanno peso sulla opinione mondiale».

Questo l’emblematico, coraggioso e condivisibile messaggio lanciato lo scorso mese di agosto da papa Francesco durante l’Angelus per la festa dell’Assunta, a seguito del massacro di civili avvenuto nella Repubblica democratica del Congo, per opera di un commando armato. Le vittime degli eccidi, nella zona Butembo-Beni (Nord Kivu), non sono quantificabili in modo esatto, ma fonti locali parlano addirittura di 500 morti, tra questi anche donne e bambini.

Un’annosa questione

Nell’Est Congo Rd la situazione è complessa. È in atto una guerra che ha le sue radici nella conquista del potere da parte di Paul Kagame in Rwanda, nel 1994. Da allora decine di milizie si combattono nel Sud e nel Nord Kivu, spesso appoggiate dai governi di Uganda, Rwanda e Burundi, talvolta in contrapposizione. I tre stati confinanti, da oltre 20 anni approfittano della guerra per sfruttare le ricchezze minerarie e forestali del Congo (vedi MC giugno 2016). Le milizie, molto sanguinarie, alcune composte da poche centinaia di uomini armati, si scontrano tra loro, talvolta contro le Forze armate congolesi (Fardc), ma sempre commettendo atrocità nei confronti dei civili.

«Nel Nord Kivu – afferma padre Antonio Mazzucato, classe 1938, sacerdote fidei donum della diocesi di Bolzano, e missionario nella diocesi di Butembo-Beni – sono in atto cruenti attacchi a danno della popolazione da parte di diversi gruppi armati. In particolare Forze democratiche per la liberazione del Rwanda (costituita da hutu contro il regime tutsi di Kigali, ndr) e le Forze democratice alleate (ugandesi di fede islamica contro il governo di Uganda e Rdc, ndr).  In questo scenario la Monusco, la missione Onu per la stabilizzazione della Rdc, non riesce a proteggere la popolazione. I soldati Onu non fanno nulla per bloccare i massacri, intervengono troppo in ritardo. Si limitano a operazioni umanitarie. Inoltre, non contrastano, né denunciano, il traffico di minerali, come diamanti e coltan. Ed è proprio il quest’ultimo uno dei fattori che alimenta l’instabilità politica e i massacri» .

A causa del saccheggio delle risorse naturali, nel Nord Kivu continuano i massacri, nella più totale impunità. Secondo padre Gaston Mumbere, della congregazione degli Agostiniani dell’assunzione, soltanto in questa regione della Rdc si conterebbero 8 milioni di vittime negli ultimi vent’anni (si veda il rapporto Rapport du Projet Mapping, dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani). Un genocidio denunciato da padre Mumbere tramite una lettera appello, indirizzata lo scorso maggio a Joseph Kabila, in cui si legge: «A questo ritmo, voi potreste essere ricordato come il presidente dei morti, dei cimiteri, delle fosse comuni».

La missione Etabe

Padre Antonio opera in Nord Kivu dal 1989. Una regione difficile e al contempo straordinaria dal punto di vista naturalistico e culturale. Padre Antonio ha deciso di aiutare gli ultimi tra gli ultimi, i pigmei, con la creazione di un progetto concreto a loro favore. Chiamato inizialmente «Progetto pigmei Teturi», questo programma fu sottoscritto e sostenuto dall’allora vescovo di Butembo-Beni, monsignor Emmanuel Kataliko. Il progetto, nell’arco di pochi anni, pur con limitati mezzi a disposizione, si è radicato, tanto da coinvolgere diversi clan (o famiglie allargate) di pigmei nella partecipazione al suo sviluppo. Intanto, il nome è stato modificato in «Progetto pigmei Etabe». Etabe deriva dall’appellativo dell’originaria missione istituita nella prima metà del ´900 dai Piccoli fratelli di Charles De Foucauld, i quali stavano cercando di emancipare i pigmei. Anche per questo motivo, nel 1964, alcuni preti di questa comunità missionaria vennero uccisi dai ribelli Simba istigati, secondo padre Antonio, dal gruppo dei Babila. Questi ultimi erano e rimangono i principali oppositori di chiunque tenti di aiutare il popolo della foresta.

L’obiettivo del progetto è quello di offrire ai pigmei gli strumenti per sottrarsi al dominio-sfruttamento da parte  degli altri congolesi, e degli stranieri. L’emancipazione avviene a più livelli. Sul piano economico, con l’acquisizione di conoscenze legate all’agricoltura, come forma di integrazione delle fonti di sussistenza tradizionali quali caccia, pesca e raccolta. A ciò si aggiungono l’apprendimento di competenze legate all’artigianato del legno, alla meccanica, alla sartoria.

Sul piano politico, sostenendo una forma di autonomia giuridica e amministrativa delle popolazioni pigmee, all’interno dell’ordinamento dello stato. Sul piano culturale, appoggiando l’istruzione dei pigmei attraverso scuole gestite da loro stessi, per proteggere e valorizzare le varie forme espressive e artistiche originali. Sul piano religioso, l’annuncio evangelico viene inserito rispettando la religiosità dei pigmei.

Padre Antonio, appoggiato dal fratello Benito, insegnante in pensione, da Alexandre Muhongya, già collaboratore dei Piccoli fratelli di De Foucauld, e da padre Piero Lombardo (poi spostatosi verso Sud, oltre Byakato), ha continuato a consolidare il progetto Etabe. A ciò hanno contribuito alcuni gruppi pigmei, i quali hanno aiutato a costruire le capanne in legno e fango, ricevendo in cambio assistenza sanitaria e beni di prima necessità, come cibo e vestiario.

I diritti dei pigmei

Il progetto Etabe si è sviluppato a partire dal 1994, quando venne edificata la missione a Mikelo-Kadodo, poi chiamata semplicemente Kadodo. Sempre con l’aiuto dei pigmei, sono state realizzate diverse opere, tra cui una cappella in legno, bambù e lamiere ondulate; un laboratorio di falegnameria; un magazzino; un ufficio; un piccolo refettorio; una cucina con l’alloggio per il personale della cucina; un piccolo dispensario con camera da letto per le infermiere; un laboratorio di sartoria.

Nell’arco di quasi 30 anni molto è stato fatto, sia per proteggere la cultura e le attività tradizionali dei Pigmei, sia per fornire loro conoscenze teorico-pratiche al fine di alfabetizzarli e insegnare utili saperi artigianali.

«Con il progetto aiutiamo i pigmei a convivere con la modeità, e allo stesso tempo manteniamo viva la loro cultura e la loro civiltà. Per esempio, quando inizia il periodo dedicato alla caccia tradizionale, i bambini al mattino non frequentano la scuola, ma sono liberi di andare in foresta coi genitori per imparare a cacciare. Gli scolari sono accompagnati anche dai maestri che insegnano loro le caratteristiche e i nomi delle piante e degli animali. È una conoscenza diretta della natura che li circonda e da cui traggono sostentamento. I maestri, dopo l’esperienza sul campo, danno loro dei compiti da svolgere».

Continua il missionario: «Questo metodo è importante per valorizzare la loro cultura, per permettere ai pigmei di capirla a fondo, documentarla. In questo modo non rischia di andare perduta. Vivendola e praticandola viene conservata. Ma l’economia di caccia non è più sufficiente per permettere loro di sopravvivere. Decenni fa, nella foresta, vivevano poche centinaia di persone, e i clan di pigmei si suddividevano le zone. Con l’arrivo degli stranieri, delle multinazionali del legno, dei cacciatori e dei bracconieri, la selvaggina e le altre risorse naturali sono sempre più scarse. In passato i pigmei cacciavano secondo i bisogni quotidiani, rispettando il ciclo ecologico. Ma ormai anche questa attività non sempre da risultati.

Inoltre è sempre più pericoloso andare a caccia o raccogliere erbe e frutti, a causa della presenza di mine antiuomo.

Ecco che insegnando non solo a leggere e a scrivere, ma anche conoscenze di meccanica e di falegnameria, i pigmei imparano un mestiere. Da qui la decisione di creare gli atelier artigianali. Quando hanno appreso bene le tecniche, foiamo ai pigmei l’attrezzatura per lavorare. Così vanno al villaggio più vicino e riparano le bici o le motociclette».

Un progetto scomodo

Proprio perché difende i diritti di questo popolo, padre Antonio ha subito minacce. Più volte la missione e la sede del progetto Etabe sono state prese di mira da ribelli e da chi è contrario a una possibile emancipazione dei pigmei. «Nel 2003 – ci racconta padre Antonio – i soldati governativi hanno distrutto e saccheggiato la missione che avevamo a Etabe. Hanno portato via attrezzi di meccanica, falegnameria e strumenti elettrici. Nel fango e in mezzo all’erba hanno lasciato brandelli di abiti, quadei e libri della scuola». Secondo padre Antonio quel saccheggio nascondeva la volontà di attuare un genocidio programmato contro la popolazione dei pigmei. Questi si sono salvati miracolosamente grazie alla pronta fuga e poi all’intervento degli osservatori Onu, all’epoca guidati dal generale italiano Roberto Martinelli.

Ci spiega padre Antonio: «Per farmi paura i soldati governativi hanno persino divelto materassi e sollevato i mattoni del pavimento di casa, perché pensavano avessi nascosto qualcosa di prezioso. Mi hanno distrutto tutto alla missione. Per ben due volte ho ricominciato da zero.

Nel 2015 sono dovuto fuggire con mio fratello, perché i gruppi ribelli erano arrivati vicino a casa nostra. Nella missione a Etabe, in piena foresta, non possiamo più andare perché è circondata da milizie. A Mangina (località a 65 km dalla missione, ndr) sono state saccheggiate numerose case. Il parroco locale ci aveva esortato ad andarcene. Anche lui è stato costretto a scappare. A Beni vengono ammazzate in media due persone al giorno. L’Onu è un semplice osservatore. I caschi blu distribuisce la carità. Non intervengono. Si spostano protetti nei loro fuoristrada».

Voglia di continuare

Tante amici in Italia hanno implorato padre Antonio di abbandonare il progetto, di non rischiare più andando in una zona così pericolosa. Ma lui non si perde d’animo, nonostante sia stato minacciato più volte dal capo locale dei Babila: «Questo gruppo è contrario al progetto per varie ragioni», ci dice padre Antonio. «La più importante è razziale. I pigmei non sono considerati uomini e la loro etnia non viene riconosciuta a livello ufficiale. Questo accade da sempre, sin da prima del colonialismo. Poi con Mobuto la situazione è peggiorata. I pigmei durante il mobutismo venivano costretti a sposarsi e a mescolarsi con le altre etnie, per far sì che, progressivamente, la loro scomparisse. Ma la discriminazione verso i pigmei la si può vedere anche in coloro che apparentemente fanno del bene. Per esempio, chi va in Africa con l’idea che si debba “civilizzare” gli africani è spinto da un principio razzista, a scopo di bene, certo, ma è comunque mosso da atteggiamenti patealistici e di superiorità. Tante volte, quando faccio notare questa subdola forma di razzismo, mi si obietta: “Ma come? Tu non civilizzi quella gente”? E io immancabilmente rispondo che “No, io mi sono fatto civilizzare dai pigmei, perché ho imparato il rispetto delle culture proprio stando con loro”».

A padre Antonio e a suo fratello le autorità non hanno concesso una scorta per la protezione nei loro spostamenti. «Noi abbiamo richiesto la scorta a Beni – ricorda padre Antonio – e ci hanno risposto che dovevamo rivolgerci agli uffici della sicurezza di Kinshasa. I funzionari a Kinshasa ci hanno detto che dovevamo munirci di determinati documenti. E così è iniziato il girone infinito della burocrazia congolese. Rimane il fatto che non abbiamo ancora la scorta. Negli ultimi anni, anche da parte dell’Onu non ho trovato appoggi. Solo alcuni amici locali ci aiutano».

Nonostante la mancanza di sicurezza, padre Antonio, in Italia per vacanza “forzata”, sta già pianificando il ritorno nel Nord Kivu. «È da tempo che non riesco a raggiungere la mia missione a causa dei massacri. Sono stato costretto più volte a fermarmi a Mangina, perché la strada era taglieggiata dai soldati e dai banditi. Anche se cammino col bastone devo tornare. I pigmei mi aspettano, hanno bisogno che continui la mia opera».

Silvia C. Turrin


Archivio MC

Abbiamo parlato di pigmei in: Marco Bello, Echi dalla foresta, ottobre 2012.




Brasile: incontri ravvicinati


Impressioni scritte all’ombra dei grandi alberi della foresta (Mata) Atlantica del Brasile nei momenti di pausa dal lavoro di ricerca. Le «Riserve della foresta atlantica» sono un insieme di otto aree protette a cavallo degli stati brasiliani di Bahia ed Espírito Santo, che si sviluppano su un’area di circa 112.000 ettari.

Sembra il ronzio di un grosso calabrone. Mi vola attorno. Ora l’ho dietro le spalle. Mi giro con cautela per non spaventarlo. È lì, fermo, a mezz’aria, che mi guarda incuriosito, quasi a chiedersi come mai questa grossa scimmia visiti i fiori come lui. Le ali non si vedono, troppo veloci per l’occhio umano. Pare un modellino di seta sospeso nel vuoto, retto da fili invisibili. In un attimo, il colibrì scarta a destra e poi in basso, veloce come un ufo, poi di nuovo a sinistra e in alto, nervoso, frenetico, elettrico. Sembra grigio, ma i raggi tangenti del sole riflettono colori iridescenti, metallici, stupendi. Ora pare verde, poi blu, poi rosso scarlatto per ritornare grigio in penombra. Rizza le penne del collo che sembrano una ghirlanda. Una visione troppo fugace, il tempo di visitare un paio di fiori con la sua lingua lunga e sottile come un filo di sarta e poi, sempre di scatto, svanisce rumorosamente nel nulla tra le liane, le orchidee, le bromelie (foto 1).

Puma concolor (Foto Richard)
2. Puma concolor (Foto Richard)

Ieri sera finalmente è piovuto. Un bel temporale durato un paio di ore. Si sono mostrati rospi e rane, ma lo spettacolo più bello l’hanno offerto le scimmie urlatrici. Non si vedono che raramente, e quest’anno non si erano ancora fatte sentire col loro ruggito possente. Alle prime gocce di pioggia hanno iniziato all’unisono. Tutta la foresta echeggiava dei loro versi impressionanti, udibili a chilometri di distanza, ad esteare tutta la loro felicità. Pareva di essere circondati da un esercito di giaguari. Indimenticabile. Ieri è arrivato nella stazione un altro ricercatore, si chiama Richard, gestisce trappole fotografiche. Ne avevo viste un paio disseminate in foresta. Gli ho chiesto di vedere le foto scattate. Sono il frutto di otto trappole che hanno funzionato per tre mesi circa. Scattano la foto quando i loro sensori intercettano gli animali. Tra questi naturalmente figuro anch’io, ma ciò che mi impressiona è che prima o dopo il mio passaggio la camera registra tapiri, jaguarundi, ocelot e diversi puma. Anche in pieno giorno! E pensare che ero convinto di essere il solo in giro in quel pezzo di foresta dove non pareva esserci traccia di grandi mammiferi. Evidentemente mi osservavano passare ogni giorno, nascosti tra i cespugli, a pochi passi dal sentirnero.

Richard, gentilissimo, mi ha lasciato le foto più belle. C’erano anche tanti uccelli, specialmente peici e tacchini, ma non ho osato chiedere troppo
(foto 2, il passaggio del puma).

carcarà (Foto Curletti)
3. carcarà (Foto Curletti)

Doveva succedere. Un disastro nella nostra modesta cucina: uova rotte e mangiate, macchinetta del caffè rovesciata, pane sbocconcellato, zucchero sparso ovunque, frutta parzialmente distrutta, piatti e bicchieri rotti a terra… Neppure il sacchetto dei rifiuti è stato risparmiato. È bastato dimenticare la finestra aperta perché quel furbone di carcarà ne approfittasse per saccheggiare le nostre scorte. Mezzo falco e mezzo avvoltornio, si atteggiava a gallina e con aria innocente si aggirava nel cortile proprio come un pollo domestico. Sembrava un amico confidente e invece ci teneva d’occhio studiando i nostri movimenti e la buona occasione per farci fessi. Ora l’ha appena trovata. Eppure avrei dovuto capirlo che il suo atteggiamento soione ci riservava qualche brutta sorpresa. Con quel cappuccio nero sopra il capo color caffellatte ha proprio l’aspetto di un mafioso con tanto di coppola in testa. Anche la sua andatura impettita è da guappo. Ora è sul tetto che ci guarda soddisfatto, pancia piena alla faccia nostra, parrebbe quasi che col suo sguardo acuto e tagliente come una lama voglia prenderci in giro. Che fare? Vedendo il disastro i miei colleghi brasiliani, col loro 3. carattere gioviale, l’hanno presa a ridere: ma che bravo il nostro ladro! E non ci è restato che pulire e mettere ordine…

È passata più di una settimana dal fattaccio e mentre prima era onnipresente, il carcarà non si è più visto. Potrà sembrare strano, ma mi sa che si è reso conto d’averla combinata grossa e si tiene alla larga per paura di rappresaglie. Mica stupido il nostro «giocondor»… (foto 3).

tegù (Foto Curletti)
4. tegù (Foto Curletti)

Mi passa davanti con aria indifferente e quasi indolente, ma so che mi controlla ed è pronto alla fuga al minimo cenno di reazione. Con l’andatura da star di musica rap, muove il corpo come una sciantosa, oscilla a destra e a sinistra alzando le zampe alternativamente, la lunga coda inerme ad anelli chiari e scuri, la piatta lingua biforcuta in eterno movimento alla ricerca di odori e di sapori. Ma chi ha detto che i dinosauri sono estinti? Eccolo qui, un bellissimo esemplare di tegù, il più grande dei sauri terrestri brasiliani. Ormai mi conosce, abbiamo un tacito appuntamento giornaliero, io alla ricerca di un po’ d’ombra nella calura del tardo mattino, lui alla ricerca di sole che lo riscaldi. Puntualissimo esce dal suo buco nelle giornate calde, controlla il terreno circostante ed attende paziente l’uscita della compagna. Lei è più piccola e diffidente, lui invece sa di potersi fidare e mi passa a mezzo metro di distanza, quasi con aria di sfida. Sfida che raccolgo con il mio obiettivo fotografico. Il suo ritratto mi riempirà il cuore di nostalgia al ritorno nel freddo inverno europeo (foto 4).

anuro in bromelia (Foto Curletti)
5. anuro in bromelia (Foto Curletti)

Il buio arriva presto in foresta e lei lo saluta, puntuale. Un trillo lungo, intenso, cristallino. Pochi istanti e poi torna nel silenzio della sua solitudine. L’ho cercata per tre notti di seguito e infine l’ho trovata. La bromelia è aggrappata al tronco di un grosso albero e il suo fiore rosso ricorda il pennacchio del cappello di un carabiniere in uniforme. Lei se ne sta nascosta nel suo interno, nell’occhio formato dalla corona circolare delle foglie caose che conserva l’umidità della pioggia. Mi fissa con i suoi grandi occhi rossi inespressivi, rannicchiata e immobile, sperando di non essere vista. Colore verde pallido, ventre più pallido ancora, piccolissima, con tondi pallini prensili sulle lunghe dita. La raganella se ne sta lì nel profondo pozzo della sua bromelia, al sicuro. Vorrebbe vedere la luna ma per paura si accontenta di vederla passare per pochi momenti dalla rotonda finestra aperta verso il cielo del suo rifugio. Poi rimane al buio, solitaria, nell’attesa che il suo richiamo venga inteso da un compagno (foto 5).

 

Per lui la morte ha le ali violette in continuo vibrato movimento. No, non ha la falce ma una sottile siringa paralizzante. Antenne gialle, corpo nero allungato stretto in un vitino da vespa, agile e nervoso. Ormai paralizzato, si lascia trascinare impotente. Lo sfecide l’ha appena ghermito e lui, la migale, grosso ragno con zanne terrificanti, terrore dei piccoli vertebrati, è ormai rassegnato ad essere dato in pasto alla prole, divorato poco alla volta ma pur sempre vivo, per conservare più a lungo possibile i succhi biologici di cui i neonati del predatore hanno bisogno. È lì, impotente, in balia del suo aggressore nonostante il potenziale offensivo, col veleno in grado di uccidere uccelli e piccoli mammiferi. Non posso frenare un moto di compassione. Chissà se è cosciente che lo attende una morte terribile, lunga, forse dolorosa, ma sicuramente da incubo nel vedere ogni giorno le larve del suo carnefice avvicinarsi per mangiarlo poco alla volta.

Sfecide
sfecide con la preda (Foto Curletti)

Insetti che predano ragni, non solo il contrario. Qual è il significato? Quale stato d’animo regna tra gli abitanti della foresta? L’amore? No, quello lo lascio ai film disneyani. Pur essendo un sentimento fondamentale, importantissimo per la sopravvivenza della specie, l’amore ha durata limitata e prima o poi finisce. Quello invece che accompagna dalla nascita alla morte è la paura. Paura. Quella non abbandona mai, è la compagna che permette la salvezza dell’individuo. Paura di essere parassitato, assalito, divorato, sbranato. Coinvolge tutti, dal giaguaro al tapiro, dal tamanduà all’agutì, dalla scimmia al bradipo, dalla formica alla vespa, dal lombrico alla lumaca. Non esiste il predatore assoluto, ogni specie, uomo compreso, ha i suoi nemici. Quanta verità in una frase di Tennyson che riassume perfettamente il pensiero: «Nature, red in tooth and claw», natura, denti e artigli insanguinati. È questa la legge, piaccia oppure no. Appare troppo evidente a chi sa interpretare il grande libro della giungla. E che Kipling mi perdoni… (foto 6).

 piroforo (Foto Curletti)
7. piroforo (Foto Curletti)

Dopo la pioggia ecco i vagalumen. Così i brasiliani chiamano i pirofori, grossi coleotteri elateridi che si attivano al calar delle tenebre. Producono luce come le nostre lucciole, ma al contrario di queste hanno luce costante e più potente: si narra che i vecchi esploratori li mettessero in gabbiette per poter leggere e scrivere la notte. Bastavano una ventina di esemplari. Hanno due punti luminosi ai lati del pronoto, dietro il capo. Alcune specie ne hanno un terzo più piccolo sulla parte inferiore dell’addome, tipo fanalino di coda. Sono esseri timidi e frugali: di giorno si vedono raramente, si accontentano della linfa che sgorga dalle ferite di qualche albero. Sono neri o bruni, poco vistosi, ma quando cala la notte mostrano tutto il loro luminoso splendore. Al buio sono uno spettacolo. I rami brillano della loro luce, giganteschi alberi di natale accompagnati dai canti dei grilli e delle cicale invece che da jingle bells. Foresta magica, non sempre terribilmente inospitale (foto 7).

Eciton formiche legionarie (Foto Curletti)
8. Eciton formiche legionarie (Foto Curletti)

Sono due colonne lunghe centinaia di metri di cui non riesco a vedere gli estremi, che si perdono nell’intrico della foresta. Due semplici colonne di formiche ma quanta differenza. Le prime frenetiche, febbrili, velocissime, aggressive, voraci; i soldati dalle enormi mandibole e dal colore avorio che si mescolano alle nere operaie indaffarate a predare le larve e le pupe di un altro formicaio per fae degli schiavi. Questi, per imprinting, lavoreranno inconsapevolmente per gli assassini della loro tribù, magari aiutandoli a depredare altri formicai fratelli. Sono dei nomadi, non hanno nido, si accampano randagi attorno alla loro regina. Milioni di agguerriti individui caivori, terrore della foresta. Provo a fermare un’operaia per verificare il bottino, una pupa in metamorfosi. Con una velocità impressionante sono subito aggredito da tre soldati. Sono stati fulminei, ben più della velocità della mia mano. Evidentemente mi tenevano d’occhio. La puntura è molto dolorosa e devo desistere. Le chiamano formiche legionarie, per gli entomologi Eciton, probabilmente proprio per la loro febbrile attività. Non le ferma nessuno, tutti gli animali della foresta indietreggiano al loro arrivo, guadano fiumi formando ponti di individui, attraversano laghi con zattere viventi formate da stornici volontari pronti ad annegare per la loro regina e per la colonia.

Atta formiche tagliatrici di foglie (Foto Curletti)
9. Atta formiche tagliatrici di foglie (Foto Curletti)

La seconda colonna è ben più lenta, compassata. Le operaie con sforzi immani portano tenacemente pezzi di foglia che altre sorelle hanno tagliato con le possenti mandibole, andando controvento e facendosi a volte sollevare per effetto vela, ma senza mollare il bottino. I soldati controllano e vigilano immobili ai lati della lunga fila, pronti a sacrificarsi per difenderle. Sono vegetariane le Atta, fatto inconsueto per il mondo delle formiche. La cosa curiosa è che oltre ad essere vegetariane sono anche degli agricoltori. Le foglie infatti non sono mangiate, ma ammassate all’interno del formicaio per fae concime su cui crescerà un fungo particolare che è il loro esclusivo alimento. Alle prime piogge le future regine sciameranno a migliaia, sono enormi, molto più dei loro sudditi. Verranno quasi tutte divorate dai predatori, uomo compreso, che ne apprezzano le cai grasse succulente. Feroci le prime, più tranquille e perseguitate le seconde. Che sia un caso? (foto 8 di Eciton e 9 di Atta).

Gianfranco Curletti*

* L’autore è l’entomologo del Museo di Storia Naturale di Carmagnola (To). Ha al suo attivo numerose spedizioni scientifiche nei vari continenti, anche se le sue ricerche lo hanno portato principalmente nell’Africa subsahariana. Autore di oltre un centinaio di pubblicazioni specialistiche, non disdegna la divulgazione. Suo il libro «Matto per gli Insetti», edito da Blu ed. di Torino. Collabora da anni con il Museo della Consolata di Torino, e con i missionari in Tanzania, Mozambico e Kenya ha condiviso conoscenze, studi, sudori e cibo.