Cari Missionari

100 anni meravigliosi!

Ordinazioni sacerdotali e pellegrinaggio internazionale a Tosamaganga, 1ª missione IMC in Tanzania

Carissimi,

quest’anno abbiamo celebrato il centenario della missione del nostro istituto in Tanzania. Abbiamo molte ragioni per ingraziare.

Ordinazioni

Anzitutto ringraziamo il Signore per il dono dell’ordinazione sacerdotale di quattro confratelli tanzaniani proprio
durante questo anno giubilare.

Prima l’ordinazione dei diaconi Tito Kimario e Emanuel Temu della diocesi di Moshi, e poi quella di altri due, i diaconi Isack Mdindile e Richard Lusaluwa della diocesi di Iringa (foto sotto). Sono i frutti nati dall’albero della fede seminato nelle varie parrocchie dai missionari in questi 100 anni di evangelizzazione in Tanzania, in particolare nella diocesi di Iringa.

Ringraziamo il Signore non solo per questi nostri confratelli, ma per tutti i figli e le figlie consacrati a Dio di questa diocesi e delle altre diocesi in Tanzania.

Nella messa di ordinazione, durante l’omelia, il vescovo di Iringa, mons. Tarcisius Ngalelekomtwa, ha insistito sul fatto che i nuovi ordinati debbano vivere la loro vocazione con coerenza e impegno, affinché questorealizzi la salvezza loro e di tutte le pecore che verranno loro affidate. Bisogna vivere la vita sacerdotale seguendo l’esempio di Gesù Cristo, il sacerdote per eccellenza. Il vescovo ha anche sottolineato che d’ora in poi tutti dobbiamo chiamare i nuovi sacerdoti «padri», perché dovranno prendersi cura della famiglia formata dai figli di Dio.

Pellegrinaggio da Mshindo a Tosamaganga con sette tappe intermedie, giovani dall’Europo insieme alal gente locale in occasione del centenario IMC in Tanzania

Il pellegrinaggio

Il giorno seguente, il 23 agosto, tutti i gruppi dei giovani provenienti dai vari centri Imc dell’Europa si sono radunati al centro Faraja (Consolazione) situato a Mgongo, dove vengono accolti bambini orfani o provenienti da famiglie in difficoltà. Là c’è stata una conferenza sulla vita e storia dei missionari della Consolata in Tanzania e sul centenario. Padre Cyprian Mvanda e il superiore regionale, padre Erasto Mgalama, hanno raccontato nel dettaglio i primi passi compiuti dai primi missionari agli albori della missione in Tanzania. I giovani europei hanno avuto l’opportunità di conoscere i bambini, giocare, ballare e cantare con loro, trascorrendo una serata meravigliosa, terminata con la cena alla quale ha partecipato anche la comunità della Faraja.

È stato fondamentale incontrarci per sentire le grandi meraviglie che Dio ha operato tramite i missionari nella regione di Iringa per essere pronti all’evento del giorno seguente: il pellegrinaggio a Tosamaganga, la primissima casa dei missionari della Consolata in Tanzania.

In strada

La mattina del 24 agosto (foto sopra), i fedeli e giovani locali insieme ai giovani dall’Europa si sono radunati presso la chiesa di Mshindo per partire in pellegrinaggio verso Tosamaganga.

Ai pellegrini si sono uniti tanti giovani e adulti delle parrocchie della Consolata in Tanzania per formare un lungo e variopinto corteo di persone che si è snodato lungo strade polverose.

È stato un pellegrinaggio colmo di gioia, preghiera, canti, musica, balli e riflessioni, con diverse tappe prima di arrivare a Tosamaganga.

Significativa è stata la penultima tappa all’orfanatrofio gestito dalle suore Teresine, una congregazione fondata da un missionario della Consolata, mons. Cagliero. Ci siamo inoltre recati al cimitero di Tosamaganga, dove riposano in pace tanti missionari che hanno speso tutta la vita per l’evangelizzazione e l’amore delle popolazioni.

A Tosamaganga

Arrivati alla parrocchia del Sacro Cuore di Gesù di Tosamaganga, siamo stati accolti calorosamente dal vicario del vescovo che ha salutato i pellegrini in tre lingue: inglese, swahili e italiano e ringraziato Dio per il lavoro fatto dai missionari dopo aver preso il posto dei Benedettini 100 anni fa.

Dopo varie celebrazioni, alla sera ci siamo trovati per un momento di presentazione dei vari gruppi che hanno anche condiviso le esperienze avute nelle parrocchie prima del pellegrinaggio e anche alcuni aspetti della propria cultura di provenienza con canti, balli e musica. Il 25 agosto nella messa presieduta da padre Erasto Mgalama abbiamo nuovamente ringraziato il Signore per il cammino fatto insieme e per le meraviglie che Dio ha compiuto tramite i missionari. Ha poi sottolineato che una missione riuscita è quella che coinvolge tutti, è quella fatta «con e per gli altri». Celebriamo i 100 anni perché i nostri primi missionari hanno saputo fare e vivere missione insieme. Il successo non è dovuto a un solo missionario, ma a tutti coloro che hanno lavorato durante questi 100 anni in Tanzania.

Ora preghiamo che questo Spirito di fare missione insieme cresca in noi, perché l’essere missionari e il fare missione siano il compito di tutti. «Umisionari ni wajibu wetu, wajibu wetu ni umisionari» (la missione è il nostro dovere/compito/impegno), così dice il motto del giubileo in Tanzania.

Il pellegrinaggio continua

Padre Erasto ringraziando i giovani dall’Europa per la loro partecipazione alle feste del giubileo, ha ricordato che il culmine delle celebrazioni è il 14 ottobre (festa nazionale in Tanzania).

Ha chiesto poi di portare i ringraziamenti alle famiglie e di raccontare l’esperienza vissuta sulle orme di tanti missionari che hanno evangelizzato il Tanzania, invitando a continuare il pellegrinaggio in Europa, diventando missionari nelle proprie comunità parrocchiali, contro l’anonimato delle nostre città e dei nostri paesi, visitando le solitudini delle case, uscendo per cercare e consolare gli smarriti e gli esclusi, accogliendo chi emigra ed è discriminato.

In questo senso, il pellegrinaggio continua, perché la missione non è finita né in Tanzania né in Europa.

padre Thomas Mushi, da Iringa, Tanzania


Ricordando con nostalgia

Caro direttore,
sono l’autore della foto di copertina di dicembre 2017. Come membro del gruppo Gomni (di cui avete scritto a luglio 2018) sono stato in Tanzania sette volte tra il 1992 e il 2008. Esperienze indimenticabili per me. Vorrei condividere questa breve storia allo scopo di far conoscere in questi tempi che le diversità tanto discusse e vituperate possono essere motivo di confronto e magari di ricupero di certi valori che noi abbiamo perso o dimenticato, come l’accoglienza, la condivisione e la fraternità.

Visita ai villaggi con suor Ponziana

Un mattino, dopo la messa, suor Ponziana mi invita ad andare a trovare i vecchi e gli ammalati. Raccolte poche cose dalla mia stanza, messi gli scarponi e preso un bastone, partiamo. È una bella giornata calda. Ci mettiamo in viaggio passando da una specie di emporio per prendere due bottiglie d’acqua per bere, una per uno.

Il percorso è un po’accidentato, con diverse colline da superare. Siamo sugli altipiani della regione di Njombe a un’altezza media di 1.800 m. I villaggi della parrocchia sono numerosi e piuttosto lontani uno dall’altro.

Partiamo spediti. Appena fuori del villaggio della parrocchia, sento una voce in lontananza che grida: «Karibu, Armando (benvenuto Armando)». Il saluto è forte, ma non vedo nessuno. In queste zone e a questa altitudine, senza i rumori tipici del mondo occidentale, il suono si propaga facilmente. Proseguendo il cammino incontriamo un gruppo di donne che vanno al lavoro nei campi trasportando gli attrezzi sulla testa. Il saluto è d’obbligo: «Kamwene, habari, mnaenda wapi?» (buon giorno – in kihehe, hai notizie? dove vai? – in kiswahili). La stretta di mano tripla dà calore all’incontro e all’immancabile scambio di informazioni, senza fretta.

Al primo gruppo di capanne ci fermiamo per salutare, anche se qui non ci sono ammalati ne vecchi. Ci offrono una gallina e io cerco di rifiutarla perché so che questa gente mangia una sola volta al giorno. Suor Ponziana mi prende per un braccio e sottovoce mi sussurra che non si può rifiutare, sarebbe un’offesa per loro.

Riprendiamo il cammino e dopo un’ora arriviamo in un villaggio con molte capanne. Sul sentiero che attraversa il villaggio un giovane sui venti anni si muove trascinando il corpo con le mani. Ha le gambe rattrappite probabilmente dalla nascita. «Weuli (buon pomeriggio – ancora in kihehe). Habari?». «Nzuri (bene)». È la risposta caratteristica della gente. Anche se la situazione non è buona, la risposta è sempre positiva.

«Vado a trovare la nonna», dice il ragazzo. Lo accompagniamo lentamente alla capanna che si trova poco lontano.

«Hodi? (permesso?)». «Karibu (benvenuto)», risponde una voce da dentro. Entriamo attraverso un’apertura in un muro di fango secco. Attraverso il denso fumo di un fuocherello vediamo una donna molto anziana seduta su un gabellino di legno a pochi centimetri da terra. Ci da la mano  dalla pelle molto sciupata e rinsecchita e ci invita a sederci. La vecchia è seduta accanto ad un fuoco formato da tre pietre disposte a triangolo. Non c’è il camino e il fuoco poco vivo crea una coltre di fumo che ristagna nel piccolo ambiente rendendo difficile il respiro.

Dopo i convenevoli, la signora ci racconta la sua storia di persona rimasta sola, con nessun parente e la difficoltà di muoversi a causa delle gambe molto ammalate. Ormai la sua vita è accanto al fuoco che, a queste altitudini, è sempre acceso giorno e notte. La sua esistenza è condizionata dall’aiuto dei vicini che non manca mai e dalla presenza del nipote handicappato che le tiene compagnia durante la giornata. Ma la cosa sorprendente è che trasmette il suo racconto con un sorriso sulle labbra, senza recriminazioni, né lamentele, come se fosse una cosa normalissima, naturale.

Io le offro delle caramelle e la suora le dà una maglietta per ripararsi dal freddo. Concludiamo la visita pregando insieme.

Riprendiamo il cammino in silenzio ripensando alla condizione di quella nonna che affronta la sua situazione difficile con serenità senza drammatizzare, con dignità e l’orgoglio di esistere.

La lebbrosa

Dopo un paio di colline e mezzora di cammino arriviamo a un piccolo insediamento, con cinque o sei capanne e poca attività, nessun movimento. La suora va diritta verso una capanna. Si ferma prima di entrare e girandosi verso di me dice: «Tu stai qui, non entrare, aspettami». Dopo un quarto d’ora, suor Ponziana esce e mi dice: «Twende (andiamo)».

La osservo mentre si pulisce le mani con l’erba alta bagnata di rugiada. Incuriosito, le chiedo perché non mi ha lasciato entrare in quella capanna. Con la testa abbassata mi risponde sommessamente: «In quella capanna c’è una persona molto ammalata, ha la lebbra».

Rimprovero suor Ponziana per quella pericolosa mancanza di igiene e le consiglio di munirsi di un disinfettante comune mentre le offro una  bottiglietta di Amuchina che abitualmente mi porto nello zainetto.

«Turudi (torniamo)», mi dice. Ci mettiamo sulla strada del ritorno, silenziosamente. Poco dopo incontriamo un gruppo di giovani donne che rientrano al villaggio. L’incontro vivacizza l’atmosfera con i saluti e le notizie che ci scambiamo. Io ne approfitto per familiarizzare con loro. Arriviamo alla missione abbastanza stanchi ed accaldati. Mi accorgo che la bottiglia dell’acqua della suora è ancora piena. «La bevo con le mie consorelle», mi dice suor Ponziana. Questa cosa mi fa ricordare l’importanza dell’acqua per questa gente. Nella parrocchia non esiste ancora un impianto di acqua potabile e utilizziamo l’acqua piovana e quella bollita per le nostre esigenze. Se è così in missione, nel villaggio è molto peggio.

«Tutaonana kesko (ci vediamo domani)», mi saluta la suora. A domani.

Armando Favaro
23/09/2019 Balangero (To)

 




Kirghizistan e Kazakistan: Una Chiesa «in germoglio»

Testo di suor Dalmazia Colombo – foto Missionarie della Consolata |


Il 2020 sarà un anno di grazia per le missionarie della Consolata perché si apriranno per loro gli immensi orizzonti dell’Asia centrale. Ben otto missionarie dall’Africa, dall’America e dall’Europa andranno a testimoniare il Vangelo in due paesi a maggioranza musulmana, il Kazakistan e il Kirghizistan, dove gli Ortodossi sono circa il 20% della popolazione e i Cattolici un’esigua minoranza.

Per quanto sembri scontato, il punto sta qui: noi siamo «per i non cristiani». Questo è il nostro carisma, il nostro dono specifico a tutta la Chiesa.

Quando il nostro Istituto fu fondato dal beato Giuseppe Allamano nel 1910, fu ai non cristiani africani che egli inviò le sue prime missionarie. Il gruppo, formato da tredici sorelle, partì per il Kenya nel 1913.

Al Kenya, nel corso degli anni si aggiunsero Tanzania, Etiopia, Somalia, Mozambico, Togo, Liberia, Guinea Bissau, Libia e Gibuti (dove siamo ancora oggi, eccetto Somalia e Togo).

Dopo la Seconda guerra mondiale l’Istituto si aprì all’America inviando missionarie in Brasile, Colombia, Argentina, Usa, Venezuela, Bolivia, paesi dove si continua a mantenere viva l’attenzione verso i non cristiani, presenti specialmente nelle periferie e fra le minoranze etniche, in zone povere e isolate.

In tutti questi paesi, le missionarie della Consolata, con le loro molteplici attività, hanno contribuito alla fondazione e/o al consolidamento delle Chiese locali, fino a sentire, in alcuni casi, esaurita la loro opera di prima evangelizzazione. Allora, è diventata prassi lasciare le parrocchie e le opere ben avviate ad altre forze apostoliche e spingersi verso nuovi orizzonti, finché, negli anni ‘90 lo sguardo ha cominciato a posarsi sull’Asia, il continente con la minore percentuale cristiana di tutto il mondo. Tale sguardo si è fermato allora sulla Mongolia.

La Mongolia

Il progetto di vita missionaria nella piccola porzione di Chiesa già presente in Mongolia (114 battezzati nel 2002, ndr) è stato elaborato in sintonia con gli elementi che i due istituti, i missionari e le missionarie della Consolata, hanno al centro del loro carisma: essere testimoni della presenza di Dio in mezzo ai poveri, divenire pellegrini che camminano con la gente, apprezzandone i valori, e dialogare con gli appartenenti alle grandi religioni.

I missionari e le missionarie della Consolata hanno raggiunto la Mongolia il 27 luglio 2003, stabilendosi nella capitale Ulaanbaatar, per imparare la lingua e penetrare nel tessuto sociale culturale e religioso del popolo, per conoscere la realtà e i bisogni della gente mediante la vicinanza, il dialogo e l’amicizia.

Il 19 settembre 2006 è stata aperta una nuova missione ad Arvaiheer, distante 420 chilometri dalla capitale. «Qui i missionari – racconta con emozione suor Gertrudes Vitorino, mozambicana, che faceva parte del gruppo – provarono l’emozione e la gioia di pronunciare il nome di Gesù e di annunciarlo in mezzo a un popolo, di religione buddista, che non aveva mai sentito parlare di Lui».

Oggi in Mongolia i cristiani sono quasi un migliaio e ad Arvaiheer si è formata una piccola comunità con 30 battezzati.

Se dai frutti si conosce la bontà dell’albero, viene spontaneo comparare lo stile di missione scelto in Mongolia a un albero buono, che ha dato frutti buoni: semplicità di vita e accoglienza, intensa preghiera, realizzazione di piccoli, ma significativi, progetti, come le docce calde pubbliche, la scuola materna informale, il doposcuola e il cammino di cura per alcolisti.

Nuove presenze in Asia

Nel 2011 la decima assemblea capitolare delle missionarie della Consolata – suprema autorità collegiale dell’Istituto -, che aveva come motto «Sospinte dallo Spirito consolatore», invitò tutte le missionarie a «lasciarsi sfidare da nuovi orizzonti missionari con lo zelo e la disponibilità delle prime sorelle». Dopo riflessioni e approfondimenti si arrivò alla decisione di studiare la possibilità di aprire nuove presenze in Asia tenendo conto di alcuni criteri:

  • L’Asia è il futuro della missione (Redemptoris Missio, N. 91).
  • Noi siamo per i non cristiani (Costituzioni MdC, art. 3).
  • La necessità di sostenere e rafforzare le poche presenze religiose in Asia.

Perché in Kirghizistan e in Kazakistan?

In fedeltà alla metodologia del fondatore, che inviò i suoi in Kenya dopo una lunga e accurata ricerca sulla possibilità di realizzare il fine dell’Istituto di «annunciare il Vangelo ai non cristiani», iniziò il cammino di raccolta di informazioni per capire dove si sarebbe potuta avviare una nostra nuova presenza in Asia.

Nelle ricerche vennero coinvolti mons. Savio Hon Thai Fai, segretario della Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli, e membri di altri istituti missionari già presenti in Asia.

Su consiglio di questi esperti, furono fatte ricerche in Cina, Indonesia, Bangladesh, Thailandia, Kazakistan, Kirghizistan. Nel corso del cammino, alla luce dei criteri che erano stati posti alla base della ricerca, la rosa dei paesi candidati andò assottigliandosi lasciando sul campo il Kazakistan e il Kirghizistan.

I viaggi di esplorazione

Due consigliere generali, suor Cecilia Pedroza e suor Lucia Bortolomasi, quest’ultima già missionaria in Mongolia, visitarono diverse volte le due ex repubbliche sovietiche dell’Asia centrale. Lì presero contatti con le autorità religiose e con alcuni gruppi di persone vicine alla piccola realtà di cattolici presenti in quei paesi, e valutarono che sarebbe stato possibile avviare nuove presenze secondo i criteri proposti dal Capitolo generale del 2011 e confermati nel Capitolo generale del 2017.

Filmati, power point, foto, relazioni sulle ricerche fatte furono presentati più volte a tutto l’Istituto rafforzando e confermando, da parte di tutte le missionarie, la bontà della scelta di avviare, entro il 2020, nuove presenze consolatine in Asia centrale.

Dove andremo?

Il 2 febbraio 2019 la direzione generale ha comunicato i nomi delle sorelle che partiranno nel 2020: quattro per il Kazakistan e quattro per il Kirghizistan. Sono le veterane Adriana Medina e Claudia Graciela dalla Colombia, Ivana Cavallo da Boves, Cuneo, Judith Kitoti dal Tanzania, Luisa Felipe Munguambe dal Mozambico, e le «esordienti» Adanech Mitiku Shawo dall’Etiopia, Hellen Njoki Waithera e Zippoorah Wanjiku Mwaniki dal Kenya.

L’11 marzo 2019, pochi giorni dopo l’incontro a Roma con mons. Josè Luis Mumbiela Sierra, vescovo di Almaty (Kazakistan), e padre Anthony Corcoran, gesuita e amministratore apostolico del Kirghizistan, in visita ad limina dal papa insieme ad altri otto vescovi e amministratori apostolici dell’Asia centrale, la direzione generale ha comunicato i luoghi nei quali si avvieranno le due comunità.

  • In Kazakistan, nella diocesi di Almaty, a Janashar, un paese a circa 40 chilometri dalla città più popolosa del paese, dove esiste una piccola comunità cristiana e la diocesi ha costruito la casa dove le missionarie potranno abitare, con l’aggiunta di alcuni locali per attività ancora da definire.
  • In Kirghizistan, nell’unica amministrazione apostolica, la comunità sarà a Dzalal Abad, una cittadina nella zona Sudoccidentale del paese, a 600 chilometri dalla capitale Biškek, ma relativamente vicina a Janashar.

Il 1° ottobre 2019, due delle sorelle partenti, Adriana Medina e Judith Kitoti, hanno ricevuto il mandato missionario da papa Francesco nella semplice cerimonia che ha segnato l’inizio del mese missionario speciale.

Si parte presto

Le nuove aperture sono ormai alle porte. La direzione generale, nella lettera che comunicava le ultime decisioni riguardo le aperture in Asia centrale, così concludeva: «Grazie a tutte voi sorelle, per le molteplici espressioni di appoggio e di condivisione per le nuove aperture.

Sappiamo che la costituzione delle due nuove comunità ha significato dei sacrifici e dei tagli nei paesi da cui le sorelle scelte provengono, ma sappiamo anche quanta vitalità e benedizione questa scelta verso “i non cristiani” dona al corpo dell’istituto nel cammino di rinascita.

Continuiamo ad accompagnare il processo con la preghiera, l’interesse, l’appoggio e l’affetto, perché veramente è un evento di famiglia che ci coinvolge tutte. La Consolata ci precede là e attende il nostro arrivo.

Senza il coinvolgimento di tutte e la solidarietà di tanti amici e sostenitori delle nostre missioni, le nuove aperture in Asia rimarrebbero per le missionarie della Consolata solo un sogno!

Insieme, in cordata, cercheremo di aiutare la crescita di questa chiesa che papa Francesco, nel discorso ai vescovi dell’Asia centrale ha definito “una Chiesa in germoglio”».

Suor Dalmazia Colombo


Repubblica del Kazakistan

Il Kazakistan si trova nell’Asia centrale. Per estensione è il 9° paese del mondo. Gran parte del suo territorio è pianeggiante e collinare desertico o semidesertico. Una vasta area attorno al Mar Caspio è sotto il livello del mare (-132 m). Ai confini con Kirghizistan e Cina, nel punto di incontro delle tre nazioni si innalza la maggior vetta kazaka, il Khan Tengri (6.995 m) nella catena del Tian Shan che significa Montagne Celesti.

Popolazione

Prima dell’indipendenza, nel periodo dell’Unione sovietica, la componente di popolazione kazaka era inferiore al 50% per l’entrata nel paese di molti russi, ucraini, polacchi e di altre nazionalità. In seguito al ritorno ai paesi di origine degli immigrati, la situazione è decisamente cambiata con i Kazaki che costituiscono ora il 63% della popolazione. La città più popolosa è Almaty, con 1.801.713 abitanti, capitale dello stato fino al 1997.

Tradizioni

La cultura affonda le sue radici nella natura nomade della gente e nell’Islam, che è la religione maggioritaria. Le steppe semiaride e gelide d’inverno, in primavera si trasformano in prati sconfinati ideali per la pastorizia, risorsa essenziale per il popolo kazako che ha sviluppato un’antichissima tradizione di tolleranza e di accoglienza.

La vita nomade del popolo ha sempre avuto come alleati e simbolo i cavalli, attorno ai quali si sono sviluppati usi e costumi, compresa l’abilità a cavalcare. Si dice che i kazaki siano stati gli inventori delle staffe. Sono abilissimi a scagliare le frecce mentre il cavallo galoppa. Famose le esibizioni di tali abilità nelle feste e manifestazioni anche oggi.

Chiesa cattolica

La Chiesa cattolica in Kazakistan, si è formata a partire dagli anni ‘30 del secolo scorso ad opera di alcuni sacerdoti deportati dal regime sovietico che si rivolgevano soprattutto ai non kazaki. Per decenni visse nella clandestinità affidata alla trasmissione della fede a livello familiare, specialmente da nonni ai nipoti. Nel settembre del 2001, papa Giovanni Paolo II visitò la piccola comunità cattolica che con l’indipendenza aveva acquisito nuovo vigore. L’attuale organizzazione territoriale comprende tre diocesi, e una amministrazione apostolica: arcidiocesi di Astana, diocesi di Almaty e di Karaganda, amministrazione apostolica di Atyau. A queste si aggiunge l’amministrazione apostolica per i fedeli cattolici di rito bizantino in Kazakistan e nell’Asia centrale.

Grazie alla presenza missionaria nel paese, vi è una crescita di kazaki che si convertono al cattolicesimo, soprattutto nella capitale Nur-Sultan (che fino a marzo 2019 si chiamava Astana).

Da.Co.

  • Lingue ufficiali   Kazako, Russo (entrambe ufficiali)
  • Capitale            Nur-Sultan (già Astana – 1 milione di ab.)
  • Forma di governo          Repubblica semipresidenziale
  • Indipendenza da Urrs    21 dicembre 1991
  • Superficie 2.724.900 km² (9 volte l’Italia)
  • Popolazione      17.572.000 ab. (stime 2019)
  • Nome abitanti Kazaki
  • Religione          Musulmani 70%, Cristiani ortodossi 26%, Cattolici 1,14%, altre religioni o senza 3%
  • Confini Cina, Russia, Kirghizistan, Uzbekistan, Turkmenistan
  • Valuta  Tenge kazako


Repubblica del Kirghizistan

Il Kirghizistan è un aspro paese dell’Asia centrale che sorge lungo la Via della Seta, l’antica carovaniera tra la Cina e il Mediterraneo a metà strada tra Medio ed Estremo Oriente. È un paese che vanta la presenza di una popolazione molto cordiale, ospitale e disponibile.

Il nome Kirghizistan deriva da una parola che significa «siamo 40». Si tratta di un riferimento ai 40 clan che in origine formavano la nazione e che si riflette sulla bandiera composta da un sole giallo con 40 raggi distanziati in modo uniforme dal centro. Oggi la popolazione è formata in gran parte da Kirghisi (65%) e Uzbeki (13%). Il resto sono Russi, Polacchi, Tedeschi e altre nazionalità, nella maggior parte figli e nipoti delle deportazioni sovietiche.

Geografia

Il territorio aspro e difficile del Kirghizistan, nel cuore dell’Asia, è un groviglio di fiumi e montagne che superano i 7.000 metri e offre una delle più belle architetture naturali del mondo con la catena montuosa del Tien Shan e l’altopiano del Pamir: il primo lo separano da Cina e Kazakistan, il secondo lo uniscono al Tagikistan. La maggior parte della popolazione vive nelle zone di pianura che occupano appena un settimo della superficie totale.

Poche sono le città, pochi i comfort, pochi i servizi sociali. I trasporti si contano su una mano. Chi sceglie di vivere in questo paese, vive esperienze fuori del tempo ed è colpito dalle usanze della vita nomade, tipica del popolo kirghiso, gente temprata per sopravvivere alla natura e per questo molto ospitale con il prossimo.

La tradizione

La popolazione dei villaggi, dedita alla pastorizia, vive nelle bellissime iurte, le classiche tende dei pastori che hanno la caratteristica di essere fresche d’estate e calde d’inverno. Sono il simbolo più antico dei villaggi e della popolazione itinerante. Il viaggiatore viene accolto nelle iurte al suono del komuzy, il tradizionale strumento a corde. Sempre nelle tende, le famiglie si riuniscono per prendere le decisioni più importanti e condividere i pasti. Pasti semplici e gustosi nei quali le pietanze principali sono il plot, composto di un misto di riso e carne, e lo shorpo, una zuppa di carne e verdure.

Chiesa cattolica in Kirghizistan

La Chiesa cattolica ha una storia recente in quanto solo nel 1997, dopo l’indipendenza, Giovanni Paolo II vi fondò una missio sui iuris. Nel 2006, Benedetto XVI elevò la circoscrizione al rango di amministrazione apostolica che comprende l’intero territorio. Dalla fondazione a oggi i cattolici sono passati da 200 a circa 500: lo 0,01% della popolazione. In Kirghizistan vi sono tre parrocchie con cinque religiosi e cinque religiose che diverranno nove con l’arrivo a Dzalal Abad delle missionarie della Consolata.

Da.Co.

  • Lingue ufficiali   Kirghisa, Russo (entrambe ufficiali)
  • Capitale            Bishkek
  • Forma di governo Repubblica parlamentare
  • Indipendenza da Urrs    31 agosto 1991
  • Superficie 199.957 km²
  • Popolazione      5.959.121 (stima 2019)
  • Nome abitanti   Kirghisi
  • Religione          Musulmani 75%, Cristiani ortodossi 20%, Cattolici 0,01%, altre religioni o senza 5%
  • Confini Cina, Kazakistan, Tagikistan, Uzbekistan
  • Valuta  Som kirghiso




In uscita con Filippo

Teasto di Angelo Fracchia |


Si è detto per lungo tempo, e qualcuno ripete ancora oggi, che il vero fondatore del cristianesimo non sia stato Gesù di Nazaret, ma Saulo di Tarso. Il grande e imprevedibile snodo della prima generazione cristiana è stata la scelta di non chiudere le porte della propria comunità a chi non era ebreo, e il grande teorizzatore di questa scelta è stato, appunto, Saulo/Paolo.

Probabilmente erano insinuazioni diffuse già nel primo secolo d.C., se è vero che Luca, quando scrive la storia della prima comunità cristiana, si concentra principalmente su Paolo, sforzandosi però nel contempo di dimostrare che non è stato lui l’artefice dell’apertura del battesimo ai gentili (ossia agli appartenenti alle genti, vale a dire tutti coloro che non facevano parte dell’unico vero popolo, quello ebraico).

Abbiamo già visto come e con quale intensità Luca si sforzi di indicare ai suoi lettori il responsabile ultimo che ha guidato la Chiesa ad aprirsi a tutti: lo Spirito Santo.

È in questo contesto, e con questo scopo, che va letto il capitolo 8 degli Atti degli Apostoli, probabilmente meno noto di altri brani, ma non meno significativo.

Al di là dell’ortodossia religiosa

Filippo è uno dei sette diaconi, destinati, ci dice Luca, alla distribuzione dei viveri tra le vedove ellenistiche (cfr. Atti 6,1-6 e anche MC 8-9, pag. 33). «Ci dice Luca» è un inciso obbligatorio, perché in realtà di quei sette, cinque non lasciano altre tracce nello scritto lucano.

Il primo, quindi il più importante, Stefano, muore linciato per aver predicato contro il tempio (cfr. Atti 7). Il secondo che viene citato è Filippo: anche lui non viene mai presentato nell’atto di gestire le mense, il che vuol dire che i diaconi come minimo facevano anche altro. In verità, quando Stefano viene ucciso e una persecuzione disperde i fratelli in giro per il Vicino Oriente (Atti 8,4), anche Filippo parte da Gerusalemme, ma per andare a predicare.

E se lo stupore non fosse già abbastanza («Ma non doveva occuparsi del sostegno alle vedove ellenistiche»?), ci sorprende il luogo in cui si reca a predicare: va infatti in Samaria (Atti 8,5). Noi lettori moderni, quando sentiamo parlare della Samaria, rischiamo di essere fuorviati dalla parabola del «buon samaritano» (cfr. Lc 10,30-35) e da qualche altro accenno benevolo di Gesù nei loro confronti (cfr. Lc 17,11-18; Gv 4), pensandoli come brave persone e basta. In realtà la tensione tra giudei e samaritani ai tempi di Gesù è altissima da almeno due secoli. Non è un caso che persino nei vangeli ce ne siano echi:

  • in Mt 10,5 Gesù manda i discepoli a predicare, ma dice loro di non entrare nelle città dei samaritani,
  • in Lc 9,52-55 un villaggio samaritano non lascia passare Gesù che è diretto verso Gerusalemme (e Giacomo e Giovanni invocano su quel villaggio un «fuoco dal cielo»),
  • addirittura Gesù viene accusato di essere un samaritano (o un indemoniato: evidentemente si pensava che i due termini fossero in qualche modo sinonimi – cfr. Gv 8,48). Secondo la tradizione ebraica, i samaritani non sono ebrei, e possono essere disprezzati più dei pagani.

Filippo in Samaria

Eppure Filippo si incammina verso la vicina comunità eretica, dove peraltro la sua predicazione incontra un (insperato?) successo. La dinamica di questi capitoli è significativa. A volte (come nell’episodio di Pietro e Cornelio: Atti 10) le aperture che si verificano sembrano essere frutto di iniziative nettamente nelle mani dello Spirito Santo. Altre volte invece, come qui, si direbbe che a venire per prima sia la decisione umana, la quale dà vita a un frutto che evidentemente dipende dallo Spirito.

In questo capitolo di Atti, a Gerusalemme vengono a sapere che qualcosa è successo in Samaria e mandano Pietro e Giovanni a controllare (e a sgridare Filippo?): loro guardano che cosa accade, vedono che sono visibili i frutti dello Spirito, e ritornano a Gerusalemme lodando Dio per ciò che ha compiuto (Atti 8,14-17).

Anche con questi particolari, apparentemente secondari, Luca insegna che dire: «Dio e l’uomo collaborano nella costruzione del regno di Dio» non è solo un’affermazione scontata, ma è davvero un agire insieme, in una cooperazione tanto piena che non si può neppure prevedere, di volta in volta, chi compia il primo passo e chi si adegui. Sempre, comunque, Dio e l’uomo si dimostreranno corresponsabili della diffusione del Vangelo. Metterli in contrapposizione («Non faccio niente perché lascio fare a Dio»; oppure «Dio agisce esclusivamente attraverso le mie mani») non è cristiano.

Al di là dei vantaggi economici

Segue un episodio che ci può sembrare banalmente buffo e secondario, anche se in realtà è probabile che Luca lo inserisca con piena intenzione. Semplicemente, noi non siamo lettori antichi e alcuni sottintesi non risuonano in noi come risuonavano duemila anni fa.

Per noi, attentissimi al denaro al punto da calcolare con quello anche la forza d’attrazione di professioni e passatempi (una professione vale tanto quanto è pagata), i soldi devono tenersi lontani dalle scelte ideali. Ci viene persino difficile ammettere che chi si dedica a una missione venga anche nutrito dai frutti di quella missione. Per la religione, questo vale in modo ancora più pressante.

L’antichità si comportava in modo diverso: la ricchezza di un tempio era segno dell’affidabilità della sua divinità, che attirava sacrifici e donazioni anche da molto lontano. Quella ricchezza che arrivava a un tempio veniva utilizzata per retribuire i sacerdoti, per riparare le strutture sacre e per fare la carità ai mendicanti i quali, vivendo alle spalle del tempio, dimostravano che la divinità era buona, generosa e capace di aiutare. Ricevere denaro era segno che chi lo offriva riconosceva il valore e l’affidabilità di quella divinità.

Noi oggi tendiamo a vergognarci di santuari o ordini religiosi troppo ricchi, mentre nel primo secolo d.C. era un motivo di vanto, quasi una conferma che la divinità onorata e servita da quel tempio era davvero importante e influente.

Simone di Samaria

Su questo sfondo acquisisce un significato notevole l’episodio di Simone di Samaria (Atti 8,9-13.18-24). Questi era un uomo che faceva prodigi, un po’ come Gesù, e di certo era ritenuto persona importante e affidabile in campo spirituale. Lui, a sorpresa, non si contrappone all’opera di Filippo (come faranno tante autorità religiose da allora in poi e come era già accaduto a Gesù, a Pietro e a Stefano), ma si fa battezzare e cerca poi di entrare nel gruppo dirigenziale del nuovo movimento, offrendo denaro per poter gestire lo stesso potere di guarigione e di effusione dello Spirito che ha visto passare dalle mani dei discepoli.

La risposta di Pietro è durissima: accettare quel pagamento andrebbe a danno del dono di Dio, che è gratuito, e interpretare l’opera divina come compravendita implica di essere malvagi e non aver capito Dio.

Con poche parole Pietro rimarca che al cuore della comunità voluta dal Dio di Gesù c’è la comunione tra Dio e gli uomini e degli uomini tra di loro, e null’altro. La chiesa di Gesù può essere poverissima, perché a interessare a Dio è la relazione personale con gli uomini, che non dipende dalle strutture. Il Dio di Gesù non cerca riconoscimenti o potere, vuole solo donarsi gratuitamente agli uomini.

Filippo battezza Etiope

Al di là dei tabù fisici

Quindi ritorna in scena Filippo, che era rimasto un po’ in secondo piano dopo la prima evangelizzazione della Samaria. Questa volta, però, a condurre le danze è Dio. Un angelo spinge il diacono sulla strada che da Gerusalemme scende al mare di Gaza (ossia, geograficamente dalla parte opposta rispetto alla Samaria): qui trova un eunuco della regina Candace che legge, senza capirlo, un passo di Isaia (At 8,26-40).

Qui, se vogliamo, Luca gioca forse un po’ sporco. Alla corte dei re etiopi, le cui regine avevano il titolo di Candace (non il nome proprio, ma un titolo, come si usa faraone per indicare il re dell’Egitto), i funzionari regi erano definiti eunuchi, anche se ormai da secoli per servire a corte non dovevano fisicamente esserlo. Questo eunuco, se sta tornando da Gerusalemme e legge il rotolo del libro di Isaia, è probabilmente di religione ebraica: forse è andato alla città santa in pellegrinaggio. Gli eunuchi veri e propri, ossia, in genere, coloro che evidentemente non avrebbero potuto generare dei figli, non potevano far parte del popolo ebraico (cfr. Dt 23,2). Ecco perché abbiamo scritto che forse Luca qui gioca un po’ sporco: è probabile che non abbiamo a che fare con un vero eunuco ma solo un funzionario della regina etiope. In ogni caso Filippo è spinto dallo Spirito a parlargli, a spiegargli l’Antico Testamento, a fargli scoprire che esso si compie in Gesù, e a battezzarlo, vedendo scendere su di lui lo Spirito Santo. Di conseguenza siamo portati a pensare che nel Vangelo non si dà più l’impossibilità, per persone come lui – eunuco -, di entrare nella comunità dei credenti in Cristo. Tra l’altro, quasi a mettere una ciliegina sulla torta, il brano di Isaia che l’eunuco sta leggendo parla della debolezza, fragilità e svuotamento di sé del servo di Dio (At 8,32-33, che riprende Is 53,7).

Filippo, missionario degli esclusi

Filippo, protagonista di un solo capitolo degli Atti, è colui che porta il Vangelo della povertà e della fragilità a coloro che erano esclusi dal popolo ebraico, che ciò accada per ragioni fisiche o religiose, e che aiuta a cogliere che il Dio di Gesù non cerca denaro o potere.

E poi, come per magia, viene di nuovo portato dallo Spirito lontano da lì, sulla strada che da Azoto andava lungo il mare fino a Cesarea, ancora in territorio non ebraico.

Il Vangelo, insomma, non ha confini, è per tutti gli uomini aperti a farsi domande e ad accogliere la presenza di Dio, senza precondizioni fisiche, economiche o religiose. E a volere questa apertura sono stati alcuni uomini più coraggiosi, ispirati o aperti, ma, insieme, è stato lo Spirito Santo, che non sopporta vincoli. Il battesimo, ufficialmente, non è ancora aperto a tutti, ma già sono tanti gli ex pagani che fanno parte della comunità dei fratelli. La legge interverrà più tardi, con fatica, a ratificare ciò che lo Spirito ha già compiuto di slancio.

Angelo Fracchia
(continua)




Pakistan: Una chiesa piccola ma tenace

Testo di Marta Petrosillo e foto di ACS, Aiuto alla  Chiesa che soffre |


In Pakistan la chiesa è piccola e perseguitata, ma anche apprezzata da molti per le sue opere. I missionari che lavorano nel paese tra scuole, ospedali, evangelizzazione, sono persone forti, determinate e di grande fede.

«Vivo da molti anni in Pakistan. La difficile missione in questa terra islamica dà tanto valore alla mia vita paolina. Mi sento privilegiata a stare tra questi cari cristiani perseguitati. Con la loro fede e testimonianza, mi evangelizzano. Come Paoline abbiamo un compito, un ruolo, una missione apostolica significativa. Ci sentiamo e siamo riconosciute come “sorelle della Bibbia” che lavorano per raggiungere il popolo con la Parola di Dio. Un dono per la nostra vocazione, un impegno, una passione, una scelta del cuore. Lui mi ha condotta in tutti questi anni; mi ha dato gioia, amore e grazia. La sua tattica spirituale è inconfondibile: chiama alla missione attraverso non pochi sacrifici e chiede sempre distacco…». Così scriveva suor Daniela Baronchelli, figlia di San Paolo, che ha vissuto trentasette dei suoi ottantasette anni di vita – conclusasi il 23 marzo 2019 – in Pakistan.

In una terra difficile

Suor Daniela amava profondamente il Pakistan, terra difficile, a volte ostile, così come amava il popolo pachistano tutto, sia cristiano che musulmano. Al punto che, come lei stessa ci ha confidato, dal 2016 aveva scelto di non tornare più in Italia. «Oramai è questa la mia terra, e voglio essere sicura di morire qui». Oggi la sua tomba, nel cimitero cristiano di Lahore, è meta di pellegrinaggio delle tante persone che ha aiutato.

Come lei, tantissimi altri missionari hanno trascorso la loro vita nel paese asiatico, contribuendo in modo determinante all’evangelizzazione e allo sviluppo della piccola minoranza cristiana, ma anche dell’intera popolazione. Come sempre, infatti, nonostante le modeste dimensioni della comunità cattolica – appena l’1% dei 190 milioni di abitanti -, la Chiesa ha fatto molto, e continua a fare moltissimo in ambito educativo e sanitario.

Il ruolo dei missionari

I primi missionari giunsero in queste terre da Portogallo, Francia e Gran Bretagna, al seguito delle potenze coloniali. La prima chiesa cattolica in Punjab, a Lahore, fu costruita intorno al 1597 dai gesuiti provenienti dallo stato indiano di Goa, allora colonia portoghese. Più tardi, il cristianesimo fu portato principalmente dall’impero britannico, alla fine del Settecento e nell’Ottocento. Questo è evidente se si guardano i centri urbani fondati dagli inglesi, come la città portuale di Karachi dove si erge la maestosa cattedrale di San Patrizio, una delle chiese più grandi del Pakistan, oppure le chiese di Rawalpindi, dove gli inglesi si stabilirono.
Il ruolo dei missionari è stato fondamentale: molte congregazioni sono all’origine della nascita delle diverse diocesi. I cappuccini hanno dato vita a quella di Lahore, gli Oblati di Maria Immacolata al vicariato apostolico di Quetta, la Società missionaria di San Giuseppe di Mill Hill alla diocesi di Islamabad Rawalpindi.

La scuola, tra le altre cose

«Sono davvero molto grato e ho profondo rispetto per l’immensa opera compiuta dai missionari europei in Pakistan. Questi religiosi hanno giocato un ruolo determinante per lo sviluppo della nostra Chiesa», ci dice il cardinale Joseph Coutts, unico porporato del paese.

Il viso del cardinale s’illumina ricordando i tanti missionari che ha incontrato nel suo cammino, prima di sacerdote e poi di vescovo, e che hanno fatto parte della sua vita fin da prima della sua nascita: «I miei genitori sono stati sposati nel 1940 dall’allora parroco della cattedrale di St. Patrick, James Cornelius van Miltenburg, un francescano olandese poi divenuto arcivescovo di Karachi e in seguito di Hyderabad».

Molte delle scuole cattoliche del Pakistan sono nate grazie all’opera dei missionari. «Oggi le nostre scuole continuano il lavoro dei primi missionari», afferma il cardinal Coutts notando come nel paese vi siano oltre 300 istituti cattolici. A Karachi ve ne sono 56, di cui tre situati nel compound della cattedrale. E – come abbiamo potuto osservare di persona – non è raro che all’orario di uscita degli studenti, l’auto del porporato debba faticare un bel po’ per entrare dal cancello principale.

L’educazione è essenziale in un paese nel quale l’analfabetismo sfiora in alcune zone l’85%. «Le nostre scuole sono molto apprezzate, anche dai musulmani, perché insegniamo valori come la fratellanza. Nei nostri istituti hanno studiato anche ex presidenti, così come molti impiegati pubblici, militari, ambasciatori e altri funzionari».

«Libri, non mattoni»

A Youhanabad, quartiere cristiano di Lahore, vive un religioso che incarna la bellezza della chiesa pachistana. È padre Edward Thuraisingham, degli Oblati di Maria Immacolata. È giunto in Pakistan dallo Sri Lanka ormai 40 anni fa. Si è sempre dedicato ai poveri e in particolar modo all’educazione dei bambini. Padre Edward è fortemente impegnato a salvare dalla schiavitù, attraverso l’istruzione, i figli dei lavoratori delle fornaci di mattoni (vedi MC 8-9/2019 p. 20).

In queste fabbriche, intere famiglie sono costrette a lavorare per pochi euro al mese, spesso allo scopo di restituire debiti contratti con i proprietari della fornace. «Libri, non mattoni», è il motto del religioso che ha aperto ben cinque scuole per questi ragazzi e per altri bimbi orfani o appartenenti a famiglie povere. Durante una nostra visita a Lahore, padre Edward ci ha accompagnato in una di esse, poco distante da una fabbrica di mattoni. La struttura è, in realtà, una parte della stessa casa di Solomon Bhatti e di sua moglie Sabbah, che insegnano anche a leggere e a scrivere ai piccoli alunni di età compresa tra i 5 e i 15 anni. «Pensiamo a tutto noi, libri, retta scolastica e divise – ci dice padre Edward -. Se dovessero affrontare delle spese, le famiglie non li manderebbero a scuola. Anzi, in realtà non è sempre facile convincere i genitori, perché in molti preferiscono che i figli li aiutino a fabbricare mattoni». Proprio mentre parla con noi, padre Edward viene informato da uno degli insegnanti che un bambino si è presentato a scuola senza scarpe. Prontamente il sacerdote fruga nelle sue tasche per racimolare qualche rupia e provvedere ad acquistarne un paio. I vestiti del sacerdote sono logori e macchiati del fango della fabbrica, e il suo pakol, berretto tipico dell’Afghanistan e di alcune zone del Pakistan, ha probabilmente qualche anno. Ma padre Edward non se ne cura e riserva ogni singola donazione ai suoi bambini.

«L’istruzione è l’unica via per uscire dalla schiavitù delle fornaci e da un destino segnato come quello di tanti cristiani qui in Pakistan», afferma raccontando come una delle sue ex alunne, Lina, sia oggi microbiologa alla Nasa.

Ospedali missionari

Un altro fiore all’occhiello legato alla presenza dei missionari in Pakistan sono gli ospedali cattolici. A Karachi abbiamo visitato l’Holy Family Hospital, oggi considerato uno dei migliori ospedali della città. La struttura è stata fondata nel 1948 dalle Medical Mission Sisters, un ordine religioso femminile con sede a Philadelphia, Usa, in un momento in cui esistevano pochissime strutture sanitarie in Pakistan. La fondatrice delle Medical Mission Sisters, la dottoressa Anna Dengel, arrivò nel 1920 a Rawalpindi per lavorare come medico. Poi si trasferì a Karachi. Oggi l’ospedale è gestito da suor Mary.

«Suor Mary è stata un dono del cielo per noi – ci ha raccontato il cardinal Coutts -. Si dedica giorno e notte al nostro ospedale che, pur essendo una struttura cattolica, conta soltanto uno o due medici cristiani. Per il resto il personale è composto soprattutto da musulmani e da qualche indù. Noi lavoriamo così: tutti insieme. Ed è anche attraverso strutture come l’Holy Family Hospital che diffondiamo i nostri valori cristiani».

La Madre Teresa del Pakistan

Una vera e propria icona della sanità pachistana è suor Ruth Katherina Martha Pfau, nota come la Madre Teresa del Pakistan. Nata nel 1929 a Lipsia, in Germania, da genitori cristiani luterani, nel 1957 la Pfau, dopo essersi laureata in medicina, si unì all’ordine delle Figlie del Cuore di Maria a Parigi. Nel 1960 fu inviata nell’India meridionale, ma un problema con il visto la costrinse a rimanere a Karachi.

Aveva solo 31 anni suor Ruth quando, un giorno per caso, visitò il lebbrosario vicino alla stazione ferroviaria della città. Fu allora che decise di dedicare il resto della sua vita al popolo pachistano e alla battaglia contro la lebbra fino alla sua morte avvenuta il 10 agosto 2017.

In una piccola capanna del lebbrosario diede vita a un piccolo centro per le cure, poi divenuto il Centro di lebbra Marie Adelaide. Iniziò a viaggiare in tutto il paese per curare i malati di lebbra, principalmente i bambini che spesso venivano abbandonati dalle loro famiglie, oppure chiusi in piccole stanze per tutta la vita.

Grazie ai suoi continui sforzi, nel 1996 l’Organizzazione mondiale della sanità dichiarò il Pakistan uno dei primi paesi in Asia ad aver controllato la lebbra. Le autorità pachistane la nominarono consigliere federale per la lebbra presso il ministero della Sanità nel 1979, e nel 1988 le concessero la cittadinanza, un fatto piuttosto raro, considerando che quasi tutti i missionari stranieri, pur essendo in Pakistan da decenni, sono costretti a rinnovare il visto ogni anno e con non poche difficoltà.

Il popolo la ama, come dimostra la cura con cui tantissimi tengono in ordine la sua tomba nel cimitero di Gora Qabaristan a Karachi, che abbiamo avuto modo di visitare. Proprio lì abbiamo incontrato delle persone che, pur non conoscendola, si recano spesso a pregare di fronte alla sua lapide. «Siamo stati anche al suo funerale – ci racconta Hamid, circa una cinquantina d’anni -, è stato emozionante, tante persone erano lì per ringraziarla». Suor Ruth ha avuto l’onore dei funerali di stato. Dietro al feretro, durante la camera ardente, uno striscione ricordava i 57 anni di servizio per sconfiggere la lebbra e risollevare le sorti degli emarginati del Pakistan, e riportava la frase: «È difficile dimenticare qualcuno che ti ha donato così tanto».

Pakistan, Sr. Daniela Baronchelli (Figlie di San paolo – Paoline), St. Paul Book Center in Karachi

Le postine di Dio

Il lavoro dei missionari non riguarda ovviamente soltanto l’ambito umanitario, ma anche la cura pastorale e l’evangelizzazione. Le Figlie di San Paolo sono le uniche a distribuire la Bibbia cattolica nel paese. Abbiamo visitato una delle loro librerie a Karachi. Nella grande metropoli pachistana il bookshop si trova nel caotico quartiere di Saddar. La cattedrale di San Patrizio non è molto distante, ma la presenza musulmana è ovunque. Uomini con abiti e copricapo islamici affollano il marciapiede di fronte alla libreria.

Le suore, oltre a libri cattolici di dottrina e spiritualità, rosari, cd e dvd su temi cristiani, vendono anche immagini sacre, cosa che dai musulmani viene considerata un peccato grave.

Come ci racconta suor Agnese Grones, missionaria del bellunese in Pakistan dal 1980, nel 2005 la polizia effettuò un raid nella libreria dopo che, dalle colonne del quotidiano nazionale «Nawa-I-Waqt», estremisti locali avevano accusato i cristiani di vendere cd contenenti caricature della morte di Maometto. Alcuni leader musulmani avevano perfino emesso una fatwa, un verdetto di condanna, contro i filmati e chiesto l’apertura di una causa per blasfemia contro le suore. Spesso i talebani fanno circolare dei biglietti con la scritta: «Chiudete o morirete». Ma, pur coscienti del pericolo, le missionarie non si danno per vinte.

«All’inizio è stato difficile – ci dice suor Agnese -, ma ora è questa casa mia. Anzi quando d’estate torno in Italia, mi rendo conto che non sono più abituata neanche al freddo delle mie montagne». Per sicurezza, le religiose vestono «alla pachistana» con il tipico abito shalwar kameez celeste e lo scialle bianco, ma tutti ovviamente sanno chi sono quando le vedono girare per le diverse basti (le grandi periferie di Karachi) per insegnare il catechismo ai bambini e spiegare alle mamme l’importanza di educare i propri figli alla fede.

In tutto il Pakistan le Paoline distribuiscono catechismi e Bibbie e hanno persino un cineforum itinerante grazie al quale proiettano ovunque film sulle vite dei santi e altri video per diffondere i valori cristiani. «Siamo coscienti del pericolo, ma è un rischio che tocca tutti i cristiani in Pakistan – ha più volte testimoniato suor Daniela Baronchelli -. Distribuire la Bibbia è una grande gioia per noi che siamo le suore della Bibbia, le postine di Dio».

Marta Petrosillo
portavoce di Acs Italia




Missione è Gioia

Testimonianze di missionari e missionarie della Consolata

A cura di Gigi Anataloni – foto Archivio fotografico MC


Nel mese missionario straordinario.
La gioia della Missione

Stefania Raspo: Bolivia – Per sempre con la mia gente.
Accanto ai «rifugiati climatici».

Nicholas Muthoka: Italia – missione in barriera a Torino.
Camminare in mezzo alle «due città».

Mary Agnes Njeri Mwangi: dal Kenya a Roraima.
Respiri di cuore missionario.

Giorgio Marengo: Mongolia – sotto i cieli infiniti
Sussurrare il Vangelo.

José Luis Ponce de Leon: Eswatini – Missionario e vescovo.
Arrivare senza farsi annunciare.

Ramón Lázaro Esnaola: Costa d’Avorio – missionario oggi è
Essere itinerante per il Vangelo.

Rinaldo Do: Dalla Valle Camonica al cuore della RD Congo.
A servizio della pace in realtà di guerra.

Angelo Casadei: Caquetà – nel posto più bello del mondo.
La missione ti cambia e ti fa camminare.

Sandra Garay: dall’Argentina alla Mongolia
Dio è al cuore della missione.

Hanno firmato questo Dossier

 

La semplice gioia dei cristiani di Luacano, in Angola, che vedono il ritorno dei missionari dopo troppi anni di guerra e abbandono.

Nel mese missionario straordinario

La gioia della Missione

«La gioia del Vangelo riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù» (EG).

Nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium del 2013 (EG), la scelta di papa Bergoglio appare chiarissima: l’insistenza sulla gioia. Il termine ricorre 59 volte, ha il carattere del «lieto annuncio» che dà vita alla Chiesa, e costituisce il contenuto di ogni azione evangelizzatrice (vecchia o nuova). Intende cioè riconnettere la Chiesa con l’esperienza fondamentale da cui ha origine, quella della Pasqua.

Difficile immaginare una comunità in uno smarrimento più profondo di quella dei discepoli due giorni dopo la morte di Gesù in croce. Impossibile immaginare una gioia più grande di quella provata scoprendolo risorto. Una gioia che fa persino paura, ma che mette le ali ai piedi perché venga annunciata. Se non si riprende oggi contatto con questa esperienza sorgiva e non se ne apre l’accesso a coloro ai quali ci si rivolge, qualunque iniziativa di evangelizzazione rimarrà nell’ambito delle tecniche di comunicazione pastorale, senza incidere davvero nella vita delle persone. Per questo la scelta della gioia come filo conduttore è pertinente al tema del Sinodo per l’Amazzonia.

Certo, la Chiesa tutta intera si fonda sull’esperienza pasquale, ma un conto è saperlo, un conto è metterlo in pratica. È quindi particolarmente efficace il suggerimento di Francesco che indica la gioia del Vangelo come criterio di verifica di quanto si vive. Questo vale a livello individuale, ma anche per la Chiesa nel suo insieme: il papa ce lo ricorda, con espressioni tanto sorprendenti quanto inusuali, nei paragrafi di EG dedicati a «Il piacere spirituale di essere popolo» (nn. 268-274).

Bisogna chiarire subito, a scanso di facili equivoci, lo spessore della gioia di cui egli parla: non un sentimento superficiale ed effimero di euforia o piacevolezza, è piuttosto l’atteggiamento di chi sa che la sofferenza e la morte esistono, ma li ha attraversati sperimentando che la vita è più forte. Il papa fa alcuni esempi presi dalla sua esperienza: «Posso dire che le gioie più belle e spontanee che ho visto nel corso della mia vita sono quelle di persone molto povere che hanno poco a cui aggrapparsi. Ricordo anche la gioia genuina di coloro che, anche in mezzo a grandi impegni professionali, hanno saputo conservare un cuore credente, generoso e semplice». Qui ognuno è invitato a introdurre le proprie esperienze personali: stupisce sempre vedere persone che nelle situazioni più difficili e impensabili riescono ad accogliere, affrontare e vivere in profondità quello che sono.

Il contrario di questa gioia non è il dolore, ma «una cronica scontentezza», «un’accidia che inaridisce l’anima», un «cuore stanco di lottare» che «non ha più grinta» (n. 277 passim). Questa tristezza avvelena la vita di molte persone e soprattutto è agli antipodi di quello che Dio desidera per ogni uomo. Aver gustato la vera gioia, che è il contenuto più profondo dell’esperienza di fede, permette di smascherare l’insoddisfazione profonda di ogni chiusura in se stessi, per quanto sembri a prima vista confortevole.

Da questo punto di vista, il messaggio dell’esortazione riposa su una verità fondamentale della fede cristiana, spesso ripetuta, ma ancor più spesso incompresa o presa poco sul serio, quando non addirittura temuta per il suo carattere insopprimibilmente rivoluzionario: Dio vuole la gioia e la felicità dell’uomo, e la vuole per tutti. Non c’è motivo per cui qualcuno possa pensare che questo invito non è per lui, perché «nessuno è escluso dalla gioia portata dal Signore» (n. 3). Ciò richiede effettivamente un atto di fede che sfida tante consuetudini e convinzioni profonde, per lo più implicite, in particolare nel nostro disincantato mondo postmoderno.

Ma senza questa fede, qualunque annuncio evangelizzatore suonerà falso e mancherà di attrattiva. Per questo Francesco non teme di ricordare che proprio coloro che hanno la missione di evangelizzare sono i primi a rischiare di non vivere l’Evangelii gaudium. Il capitolo sulle «Tentazioni degli operatori pastorali» (nn. 76-109) è molto concreto nel dare indicazioni in questa direzione, sempre nel registro del sostegno e dell’accompagnamento spirituale.

Stefano Camerlengo,
superiore generale dei missionari della Consolata

Condividiamo in queste pagine la gioia della missione attraverso alcune testimonianze di missionari e missionarie che abbiamo un po’ obbligato a uscire dal loro riserbo.
Il missionario non è un supereroe, ma una persona normale che per amore «si mette in movimento, è spinto fuori da se stesso, è attratto e attrae, si dona all’altro e tesse relazioni che generano vita».
(dal messaggio di papa Francesco per la GMM 2019)


Stefania Raspo: Bolivia – Per sempre con la mia gente

Accanto ai «rifugiati climatici»

Suor Stefania Raspo, piemontese, classe 1977. È entrata tra le missionarie della Consolata nel 2001. Ha fatto la sua prima professione nel 2008. Dopo gli studi teologici a Roma, è stata destinata alla missione della Bolivia, dove vive dal 2013 con il popolo quechua.

Basilio è un personaggio un po’ speciale in Vilacaya. Quando ci trova per strada esprime sempre tutta la stima che nutre per le hermanitas (sorelline). Ma è interessante come questo uomo semplice ha interpretato la mia professione perpetua, che si è tenuta nel paesino andino il giorno della Consolata del 2016.

«Tu, hermanita Stefania», mi dice spesso, «hai voluto essere hermanita per sempre in Vilacaya». Se da una parte mi fa sorridere che Basilio abbia unito l’aggettivo «perpetua» con la mia presenza in Vilacaya, dall’altra è il più bell’augurio che mi si possa fare: poter vivere tutta la mia vita missionaria con la mia gente contadina di lingua quechua.

Sì, perché nella vocazione missionaria si mette l’accento sull’andare, ma il restare è una parte fondamentale. È vero che ho viaggiato molto e ho vissuto in vari paesi (dapprima il Brasile per il noviziato, quindi l’Argentina e poi la Bolivia). È vero che c’è tutto lo sforzo del mettere radici in una realtà, entrare in una nuova cultura e società, così come c’è l’altra faccia della moneta: il dolore dello sradicarsi per andare altrove. Il restare è la cosa più bella ed arricchente. E non è scontato. Alle volte, in quanto missionari e missionarie, non disdegniamo un certo nomadismo che non ci lascia affondare le radici in un luogo, qualunque esso sia.

Sono ormai 7 anni che vivo in Vilacaya (Bolivia), un piccolo villaggio contadino che ha mantenuto molte tradizioni millenarie del popolo andino. La gente parla quechua ed io, purtroppo, non lo domino ancora, anche se lo capisco abbastanza. Ci hanno accolte a braccia aperte, quando abbiamo aperto la comunità nel 2013, e continuano ad accoglierci e a volerci bene.

Il popolo nativo quechua di Vilacaya mi ha permesso di recuperare valori che un po’ avevo messo da parte: l’accoglienza e il saper condividere (se arriva un ospite inatteso, c’è sempre un piatto di cibo per lui), il saper chiedere permesso, perdono e il dire grazie alla Madre Terra, con cui si vive una relazione vitale. Una spiritualità semplice però profondissima. Il sapermi «sprogrammare» e accogliere il giorno così come viene, senza chiudermi in orari e tabelle di marcia.

La gente di Vilacaya (e in generale della regione di Potosì) è una vittima del cambio climatico: la desertificazione avanza, l’imprevedibilità del clima rende quasi impossibile l’agricoltura. La conseguenza è la migrazione e lo spopolamento. Ormai ci sono poche famiglie giovani, la maggior parte sono anziani o ragazzi fino ai 18 anni. Questi, finite le superiori, si mettono in marcia anche loro per cercare un’altra possibilità di vita nelle città, o all’estero. Ci ritroviamo accanto ai poveri, ai «rifugiati climatici» come dice la Laudato Si’. Quelli che pagano più degli altri le follie di un clima impazzito, alla mercé delle grandinate devastatrici, delle gelate fuori stagione, che ormai da 4 anni non danno un raccolto soddisfacente. I peccati contro la natura hanno ripercussioni forti sui poveri.

Ma se c’è una cosa che ho sperimentato in Vilacaya, è dove sta Dio: al fianco del povero. L’ho visto, l’ho sentito: lui è lì, perché i poveri sono i suoi preferiti. Allora lo stare qui è anche una profonda esperienza di Dio.

Rimane l’impegno di saperlo annunciare, con la vita e con le parole. Un Dio Amore, che non è responsabile delle pazzie del clima, come forse la visione indigena tende a credere. Un Dio che piange per i colpi inferti alla Pachamama (la Madre Terra) e si china a consolare i suoi figli. Anche attraverso di me.

Suor Stefania Raspo, mc


Nicholas Muthoka: Italia – missione in barriera a Torino

Padre Nicholas Muthoka alla Professione perpetua di Fumo Célio Joao.

Camminare in mezzo alle «due città»

Padre Nicholas Muthoka Nyamasyo, nato in Kenya nel 1981, ordinato sacerdote nel 2011, è stato responsabile del Centro di animazione missionaria in Torino e dal 2013 è nella parrocchia Maria Speranza Nostra in Barriera di Milano, quartiere multietnico di Torino, dove ora è parroco.

Al calar del sole, le strade di «barriera», quartiere Nord di Torino, si riempiono di giovani e giovani adulti in cerca di svago e anche di un po’ di soldi: chi beve sulla strada, chi chiacchiera, chi spaccia, chi si prostituisce. È un mix di gente «di ogni tribù, lingua, popolo e nazione», stavolta non radunati sul monte Sion per il banchetto di «grasse vivande, cibi succulenti e di vini raffinati» (Isaia 25,6), ma per sopravvivere. Ognuno risponde alle domande della vita a modo suo. Spesso sono storie di vita e situazioni molto difficili e depravate, tra droga, microcriminalità e miseria. E il missionario cammina in mezzo a loro salutando e facendo due chiacchiere. Anche lì c’è bisogno di salvezza, della parola buona e salvatrice di Gesù. In fondo «quei ragazzi all’angolo della strada» hanno la stessa umanità, le stesse domande, gli stessi sogni di tutti.

La percentuale dei migranti residenti nel quartiere tocca il 35%, tra disagio, povertà e disoccupazione. Tra di essi, c’è un alto numero di non cristiani: gente di altra fede, quelli che si sono allontanati dalla fede, gli agnostici e gli atei.

C’è un’altra umanità però, quella che cammina sulle strade di barriera durante il giorno. Per andare a scuola, al lavoro, al bar, a far la spesa, a messa, ecc. Un’umanità, anche questa, angosciata, affannata e distratta per le faccende della vita. Anche qui, c’è un po’ di tutto: precarietà lavorativa, solitudini, soprattutto quelle dei giovani e degli anziani, rapporti difficili nelle famiglie tra divorzi, separazioni e violenza… insomma, «due città», come le chiama l’arcivescovo di Torino Cesare Nosiglia, ambedue bisognose di salvezza.

In mezzo a tutta questa umanità, c’è lo svettante campanile di rame che troneggia: ogni ora batte come per ricordare di guardare in alto. È la chiesa, la parrocchia, con tante attività e proposte, rivolte a tutti indistintamente. Un cortile d’oratorio di medie dimensioni che spesso si presenta colorato di bambini, ragazzi, adulti e anziani, e anche questa volta «di ogni lingua, tribù, popolo e nazione». Un’altra città in mezzo alle altre due? Una mediazione tra le due?

Cosa significa la missione in quest’angolo della città di Torino, dove in 2 km2 vivono/convivono quasi 19mila abitanti?

Quasi il 30% della gente è coinvolta, in un modo o nell’altro nella vita della parrocchia, tra catechesi, carità, liturgia, giovani, il sociale.

Cos’è la missione per me in questo contesto dinamico, bello e complesso? Me lo chiedo spesso.

È camminare in mezzo agli uomini e alle donne, raccogliere le lacrime di gioia e di dolore, e depositarle sull’altare di Cristo. È ascoltare le intime speranze dei giovani e la realtà spesso dura degli adulti e cercare di illuminarle con la Parola di Cristo. È accompagnare le ginocchia vacillanti degli anziani, cercando di individuare insieme a loro il senso delle fatiche dei loro giorni e rallegrare la loro solitudine.

La missione è aprire la porta a chi bussa in cerca di un «porto sicuro»: il viandante senza casa, il povero senza riscaldamento nei duri inverni, il disperato in cerca di una buona parola.

La missione è anche la fatica di tenere insieme un tessuto sociale che rischia di strapparsi, cercando di creare un clima umano in un contesto difficile di contrapposizioni e pregiudizi tra etnie e individui attraverso iniziative che facciano risplendere la bellezza di ogni persona e di ogni popolo.

Tutto questo è annuncio della potenza della grazia di Cristo e della sua opera redentrice. Far apprezzare ai non cristiani e ai «lontani» l’amore di Cristo e la bellezza della sua famiglia, la Chiesa. Naturalmente, sostenere il cammino dei fedeli cattolici nella ricerca del volto di Dio attraverso i sacramenti, le celebrazioni liturgiche e l’ascolto della Parola, fa parte dell’impegno di ogni buon parroco e viceparroco. Infatti, è propedeutico alla missione la formazione e accompagnamento di una comunità cristiana bella e forte, un laicato che assuma anch’esso la missione dell’annuncio, per far brillare il volto bello di Cristo in mezzo agli uomini e alle donne di questo pezzettino di mondo.

Padre Nicholas Muthoka


Mary Agnes Njeri Mwangi: dal Kenya a Roraima

Respiri di cuore missionario

Suor Mary Agnes Njeri Mwangi, è missionaria della Consolata nata in Kenya. È in Roraima dal 2000, da allora presta il suo servizio nella missione del Catrimani. Vedi l’intervista «Attorno al fuoco nella casa comune» in MC 3/2019.

Arrivai a Boa Vista, in Roraima, all’estremo Nord del Brasile, nell’anno 2000, anno del giubileo. Mi sentivo una missionaria del terzo millennio, disposta a tutto per esserela ad gentes (tra le genti) e tra la gente.
Finalmente tutto quello che sognavo quando in Kenya mi ero sentita chiamata a essere missionaria della Consolata, diventava vero.
Essere missionaria nel contesto della chiesa locale di Roraima, era una grande sfida.

La lotta per i diritti e la vita dei popoli indigeni, per l’omologazione della terra indigena della Raposa Serra do Sol (ottenuta finalmente nel 2005), e l’impegno per migliorare i servizi per la salute («perché abbiano la vita, e la vita in abbondanza») specialmente per gli Yanomami, richiedevano tanto lavoro, tenacia e creatività da parte delle suore, per lanciarsi verso orizzonti di missione più ampi. E per me, le sfide che vivevo si trasformavano in domande, tante domande, aggiunte a quella più significativa che il nostro padre fondatore ci esortava a farci sempre: «Ad quid venisti?» (per quale motivo sei venuta qui?).

Con gratitudine ricordo suor Aquilina Fumagalli, arrivata a Boa Vista nel 1950, e suor Leonilde Dal Pos, nel 1953. Le due sorelle, nel tentativo di rispondere alle mie domande, mi hanno trasmesso il respiro del loro cuore missionario maturato insieme al popolo amazzonico. Le loro condivisioni animavano e sviluppavano in me la speranza.

Così, quando, appena arrivata, condividevo con loro qualche problema di relazione con la gente, suor Aquilina mi rispondeva sorridendo che non c’era niente di nuovo. Anche lei e le altre suore, all’inizio, dopo che erano appena andati via sia i benedettini che le benedettine, avevano sperimentato accoglienza e rifiuto. «L’unico mezzo che avevamo a disposizione (per vincere i cuori) era la carità».

E suor Leonilde, una suora di età avanzata e fragile, ma molto serena e gioiosa, mi spiegava come era riuscita a incarnarsi in questa realtà così difficile e complessa. Ricordava che i primi tempi aveva sofferto molto, soprattutto a causa della scarsità e della qualità del cibo, ma «davanti alle difficoltà non ho mai pensato di ritornare in Italia, perché il mio obiettivo era morire in terra di missione. Ho preferito rimanere qui, visto che c’erano tutte le opportunità per formarmi alla santità, che è lo scopo finale della vita di ogni missionaria della Consolata».

Grazie a loro mi sono inserita nella realtà dei popoli dell’Amazzonia brasiliana. Certo che quando le cose vanno bene e si vivono momenti di allegria e di consolazione è più facile essere una missionaria che annuncia la gloria di Dio incarnata, ma è il modo nel quale si vivono i momenti di scoraggiamento, dolore e fatica, che è determinante nella vita e nella missione.

Suor Leonilde mi insegnava a cercare parole di forza e ripeteva molte frasi significative. «Dio non si ripete mai nelle sue opere. Si comunica per mezzo di persone, e ogni persona ha qualcosa da seminare. Dobbiamo essere vigilanti per cogliere la grazia di Dio. Essere umili. Al tempo opportuno Dio si rivela. Per chi non sta attento invece il tempo fugge».

I 19 anni che ho trascorso finora in Amazzonia, sono di vita donata. Condividendo, ho imparato – e lo credo fortemente – che il cammino più lungo comincia sempre con un primo passo, e alle volte il primo passo è fare una domanda.

Suor Mary Agnes


Giorgio Marengo: Mongolia – sotto i cieli infiniti

Sussurrare il Vangelo

Padre Giorgio Marengo. Nato a Cuneo nel 1974, dopo il liceo classico a Torino è entrato nei missionari della Consolata. A Roma per la formazione teologica, è stato ordinato sacerdote nel 2001. Assegnato al primo gruppo diretto in Mongolia, nel 2003 ha raggiunto la sua destinazione insieme a un confratello e a tre consorelle.

Dal 2006 vive in una zona rurale a 430 km dalla capitale (Ulaanbaatar), dove in questi anni è nata una piccola comunità cristiana di cui è parroco, condividendone la responsabilità con gli altri missionari e missionarie con i quali vive. Nel 2016 ha conseguito il dottorato in missiologia alla Pontificia università urbaniana con una ricerca sull’evangelizzazione in Mongolia. Segue i primi passi di un piccolo centro per il dialogo interreligioso e la ricerca culturale che i missionari e le missionarie della Consolata hanno avviato a Kharkhorin, l’antica capitale dell’impero mongolo.

Per me essere missionario è aiutare le persone a incontrare Cristo, in particolare quelle persone che vivono in situazioni nelle quali tale incontro è obiettivamente difficile, a motivo dell’assenza della Chiesa o di una sua presenza limitata e parziale. Questo è ciò che la Chiesa chiama missione ad gentes ed è la nostra vocazione di missionari della Consolata, quella di offrire la vita a Cristo per la prima evangelizzazione laddove non ci sono altri cristiani a poterlo fare.

La Mongolia è una delle situazioni esistenziali dove – per vari motivi storico culturali – Cristo è ancora poco conosciuto. Essere al servizio di questo incontro è per me il dono più grande e ringrazio tanto il Signore di poter vivere in prima persona questa vocazione. Certamente questo è un mistero che ci supera e ci avvolge, ma è anche molto concreto, perché se Dio per raggiungerci ha scelto di farsi uomo, l’incontro con lui passa ancor oggi attraverso la nostra umanità. Questo secondo me è il cuore della missione. Tutto il resto è subordinato e finalizzato a questo cuore. Anche la promozione umana, che da sempre accompagna l’azione evangelizzatrice della Chiesa, si comprende alla luce di questo amore più grande e di questo desiderio che le persone incontrino concretamente la misericordia di Dio in Cristo.

Il nostro specifico, come missionari, è proprio offrire la possibilità di instaurare un rapporto personale ed ecclesiale con il Risorto. Non in forza di una qualche strategia di espansione o attraverso un’azione di convincimento simil-pubblicitario, ma come puro dono, in continuità con quanto i cristiani hanno sempre fatto: «Non possiedo né argento né oro, ma quello che ho te lo dò», diceva san Pietro (Cfr. At 3,6). E quel dono da lui offerto era precisamente il nome di Gesù Cristo, cioè la fede in Lui.

Questa è la nostra chiamata. Mi pare evidente che noi missionari dovremmo essere trasfigurati in prima persona dall’incontro con Cristo: non si può favorire l’incontro con una persona che noi stessi non frequentiamo. La fede non si comunica come un oggetto qualunque, si può solo contribuire a generarla, mettendo in conto anche il rifiuto. Per questo la missione non è la diffusione di un’idea, ma ha a che fare con la gestazione di una vita. Essa richiede una profonda conversione innanzitutto in noi missionari. Se il Vangelo non ci attraversa profondamente è difficile che riusciamo a condividerlo. Essere missionari è innanzitutto lasciarsi raggiungere personalmente dal Vangelo stesso, facendoci plasmare da esso; allora sì, questa luce si effonderà intorno a noi. E lo farà attraverso quella moltitudine di coinvolgimenti che da sempre caratterizza la vita del missionario: la carità, il dialogo interreligioso, la ricerca culturale, lo studio, l’accompagnamento nel cammino di fede. Proprio come succede qui in Mongolia, dove tentiamo di «sussurrare il Vangelo al cuore dell’Asia».

Padre Giorgio Marengo


José Luis Ponce de Leon: Eswatini – Missionario e vescovo

Arrivare senza farsi annunciare

Mons. José Luis Gerardo Ponce de León. È nato in Argentina, a Buenos Aires, nel 1961, dove ha conosciuto i missionari della Consolata. Dopo la formazione di base nel suo paese e in Colombia, è stato ordinato sacerdote nel 1986. Tornato in Argentina per alcuni anni di animazione missionaria, nel 1994 è stato mandato in Sud Africa, dove, nel 2009, è diventato vescovo di Ingwuavuma (ai confini con il Mozambico) e poi vescovo di Manzini in quello che un tempo era lo Swaziland e oggi è lo Eswatini.

Vescovo da 10 anni. In due nazioni diverse: Sud Africa prima e, da cinque anni, nel Regno di Eswatini, ex Swaziland. In tutti e due i posti sono partito allo stesso modo. Non conoscevo la zona che mi era stata affidata e così ho deciso di visitare ogni singola comunità, piccola (piccolissima) o grande. Qui, in Eswatini, ce ne sono 120. Arrivavo senza farmi annunciare. Non volevo che la gente fosse lì «per il vescovo» ma per il giorno del Signore (la domenica).

Non è stato semplice che loro accettassero questo «mio» modo di farmi presente, perché avrebbero voluto potermi accogliere diversamente, ma… non hanno avuto scelta. L’impatto è stato forte perché in diversi posti era la prima volta che vedevano il vescovo fra di loro. «Oggi noi siamo la cattedrale», dicevano con un grande sorriso.

C’è stato qualche posto dove sono stati contenti di vedere un volto nuovo ma non avevano idea che fosse proprio il loro vescovo a essere fra di loro.

La missione è sempre un andare all’incontro dell’altro e, in modo particolare, all’incontro di colui/colei che non si sente degno di tale visita. Infatti, il mio motto episcopale (diventato «saluto» nella diocesi) è: «La Parola si è fatta carne» (Gv 1:14), espressione di quel Dio venuto al nostro incontro nella nostra fragilità.

Di questo incontro nella fragilità la diocesi è testimone con delle iniziative che sono uniche in questa nazione.

Eswatini è la nazione con la percentuale più alta al mondo di malati di Aids. Da quasi 20 anni, la diocesi porta avanti una casa di cura per adulti e bambini. Nata nei tempi nei quali l’Aids era una sentenza di morte, ha accompagnato tanti all’incontro con il Padre. Oggi, invece, è il posto dove ritrovano la loro dignità per poter tornare a casa. La sfida è farli tornare in case nelle quali non si sono mai trovati bene come da noi. La cura dei disabili (bambini, giovani e adulti) è un’altra espressione di questo amore che innalza. Qualche settimana fa è stato consegnato un riconoscimento a un missionario Servo di Maria che 50 anni fa aveva introdotto il braille per l’educazione di coloro che hanno difficoltà con la vista (visullay challenged). Lui, morto qualche anno fa, mi diceva sempre: «Sono riuscito a fare tanto per i disabili ma non sono riuscito a cambiare il modo nel quale le loro famiglie e la società li guarda». Per questo i nostri centri sono diventati espressione dell’amore del Padre.

Ma anche la realtà dei rifugiati è una chiamata a guardare al di là del nostro piccolo mondo nel quale abbiamo la tentazione di rimanere chiusi. Da tanti anni la Caritas Swaziland guida, come soggetto che attualizza gli accordi tra il governo e l’agenzia Onu per i rifugiati (Unhcr), il centro di rifugiati nato al tempo della guerra civile in Mozambico. Oggi sono famiglie (marito, moglie e diversi figli) che arrivano dalla regione dei grandi laghi (Rwanda, Burundi, Congo). Attraversano tutto il continente con il sogno di un futuro diverso. In risposta all’appello di papa Francesco, e per iniziativa dei laici della diocesi, tutte le parrocchie convergono una volta all’anno nella cattedrale per la celebrazione della messa e per portare i loro doni.

La missione è tutto questo… cultura dell’incontro, aprire gli occhi, imparare a vedere, amore gratuito e sempre la buona notizia di Gesù che ci dà vita in abbondanza.

Luis Ponce de Léon, vescovo


Ramón Lázaro Esnaola: Costa d’Avorio – missionario oggi è

Essere itinerante per il Vangelo

Padre Ramón Lázaro Esnaola. Nato nel 1967 in Spagna, nel 1997 è stato ordinato prete a Zaragoza. Nei primi tre anni di ministero è stato destinato in Spagna all’animazione missionaria e vocazionale, alla formazione di base e alla pastorale con le persone migranti. Nel 2001 ha cominciato la sua Odissea nello spazio – come la chiama lui – ed è arrivato in Costa d’Avorio. Dal 2008 al 2012 è stato incaricato della formazione di base nella RD Congo. Poi è tornato in Costa d’Avorio fino a oggi. Quando leggerete queste righe avrà appena cominciato una nuova tappa di vita in Messico (vedi lettera).

Il missionario d’oggi ha una forte esperienza personale di Dio. Conosce Dio ed è conosciuto da Lui. Ha un rapporto quotidiano con Lui secondo il momento che sta vivendo. A volte questa relazione sarà più profonda, a volte più superficiale, a volte più biblica, a volte secondo il vissuto. La cosa più importante è la perseveranza in questa relazione. Non abbandonare Dio ma abbandonarsi a Lui per vivere la vera gioia. Sono convinto che questa relazione ha mantenuto la mia passione per la missione ad gentes, per la costruzione della fraternità, la mia passione per i poveri e la mia voglia d’ascoltare le persone ed essere vicino a loro.

Il missionario d’oggi ama il popolo al quale è inviato. S’informa, studia la storia, ascolta la musica, guarda il cinema. In definitiva, cerca d’impregnarsi della cultura che l’accoglie. Tutta questa scoperta oggi è molto più facile grazie a internet perché tutto è alla portata d’un click. L’amore nasce dalla conoscenza, dal capire, dal comprendere. L’amore è anche critico e scopre le rotture che provoca il Vangelo. Il missionario oggi cerca di cogliere il momento culturale che vive il paese dal quale è accolto per riuscire davvero a diventare parte di quel mondo senza essere perpetuo forestiero.

Il missionario d’oggi è un esperto comunicatore e accompagnatore. Deve imparare a comunicare la Parola di Dio non solo nelle omelie ma anche attraverso le relazioni sociali e i media. Deve avere la pedagogia per comunicare la Buona Novella, non la Buona Vecchiaia. È una persona creativa.

Le persone che hanno sete di Dio, hanno anche sete di una parola che sia davvero come quella di Gesù. Una parola che dà speranza, che apre orizzonti, che propone, che invita, che accompagna. Accanto a questo, il missionario d’oggi è un buon accompagnatore nella vita. È una persona facile all’empatia, accetta senza condizioni l’altro ed è una persona autentica, cerca di vivere onestamente la propria vocazione.

Il missionario d’oggi è un artista della fraternità. Un artigiano della comunione. Un appassionato della vita comunitaria e delle relazioni interpersonali. La comunità è il microcosmo del Regno di Dio. Un’utopia. Un luogo liberato dove il perdono, la festa, la gioia e il discernimento sono costanti.

Abbiamo bisogno di referenti e di una comunità unita nella diversità: è un segno contro culturale nel nostro mondo che tende verso l’uniformità.

Il missionario d’oggi agisce con fermezza. Appassionato della riconciliazione, della pace, della giustizia, dell’ecologia e della diversità, cerca di costruire un mondo degno per i più poveri e un mondo migliore per tutti. Quello che si chiamava «la pastorale» non è più un tempo dedicato agli altri, perché, come dice papa Francesco, «siamo missione, non facciamo la missione».

Padre Ramón Lázaro Esnaola


Rinaldo Do: Dalla Valle Camonica al cuore della RD Congo

A servizio della pace in realtà di guerra

Padre Rinaldo Do. Nato a Darfo (Bs) nel 1956, dopo il seminario minore ecco le sue tappe principali: 1975-78 filosofia prima a Torino e poi a Sassuolo (Re), lavorando anche quattro ore al giorno in una fabbrica di piastrelle; 1978-79 noviziato in Certosa Pesio (Cn); 1979-80 anno di servizio nel seminario di Rovereto (Tn); 1980-82 teologia a Madrid (Spagna) e 1982-84 licenza in Missionologia. Ordinato nel 1984 a Boario, è stato animatore in Spagna fino al 1990 e dal 1991 al 2005 è stato missionario nell’Alto Zaire (RD Congo). Nel 2006-08 è rientrato in Italia per l’animazione missionaria e poi è tornato in RD Congo, prima a Kinshasa e dal 2014 a Neisu.

«No, Rinaldo no! È troppo birichino!». Queste le parole del mio parroco, don Ilario, a p. Antonio Lasaponara quando lo saluto e gli dico che voglio essere missionario, entrando nel seminario di Bevera (Lecco, allora Como).
Eravamo nel 1965 quando i missionari passavano facilmente nelle scuole della Valle Camonica per animare ragazzi e giovani alla missione.

Fin da piccolo mi piaceva ascoltare suore e preti missionari che ci entusiasmavano ad avere un cuore grande e generoso.

Sono cresciuto in una famiglia normale e operaia, un po’ troppo birbantello (aveva ragione don Ilario) ma, penso, con cuore buono.

Diventato prete nel 1984, non per le mie capacità, ma per bontà di Dio, ho vissuto 6 anni a Malaga e poi dal 1991 in Congo.

Gli anni in Congo sono stati belli anche se preoccupanti; difficili, ma ricchi di amore, di fede, di preghiera e di tanti esempi ricevuti dalla mia gente.

Dalle periferie immense di Kinshasa alla savana di Doruma e alle foreste di Neisu, gli anni sono passati velocemente e mi hanno fatto maturare.

Essere missionario oggi in Congo non è facile. Voglio continuare a essere segno di consolazione infondendo coraggio, togliendo paure, evidenziando nel discernimento i valori della cultura ngbetu (del popolo Mangbetu), annunciando così che Dio che abbiamo conosciuto in Gesù ha un progetto di amore e di fraternità per tutta l’umanità.

Purtroppo, siamo ancora lontani da questo progetto di amore, sono troppe le guerre, lo sfruttamento, le ingiustizie, le divisioni tra i popoli e le culture… per questo vale la pena di donare la vita per essere missionario.

Viva la Consolata, viva il Congo, viva tanta gente dal cuore buono che, con me e con tanti altri missionari, è missionaria!

Padre Rinaldo Do


Angelo Casadei: Caquetà – nel posto più bello del mondo

La missione ti cambia e ti fa camminare

Padre Angelo Casadei. È di Gambettola (Fc), classe 1963. La sua famiglia da sempre profondamente cristiana ha trasmesso ai figli i valori della solidarietà verso i poveri vicini e lontani. Sono quattro fratelli. Il maggiore è Tarcisio, con il quale ha conosciuto, quando aveva 11 anni, i missionari della Consolata che hanno una casa nel suo paese. Tarcisio in seguito si è sposato e ha una bella famiglia con quattro figli e una brava moglie. C’è poi suo fratello minore, Gabriele, anche lui missionario della Consolata ora in Mozambico, e Giovanna che con molto amore accudisce i loro anziani genitori.

Quando facevo la 5ª elementare, un missionario che operava nella selva amazzonica ci ha raccontato episodi della sua vita in quei luoghi, ne sono rimasto affascinato e immaginavo che la missione fosse una grande avventura.

Sono entrato quindi nel seminario minore di Gambettola dove, sperimentando la vita comunitaria e leggendo la Parola di Dio, ho scoperto come la missione sia l’annuncio di Gesù Cristo.

Proseguendo, per terminare gli studi di teologia sono stato inviato in Colombia e ho scoperto che la missione non è solo «un dare» ma anche cercare di scoprire i valori evangelici presenti nelle culture dei popoli dove Cristo è arrivato prima di noi.

In America Latina ho capito che la missione non è solo dei consacrati, ma di tutta la Chiesa, di ogni battezzato. Ho imparato a lavorare con i laici missionari, che hanno collaborato in tutti gli impegni di servizio che l’Istituto mi proponeva. Credo nella comunione e partecipazione dei laici nella missione della Chiesa.

Oggi la missione la vivo nel posto più bello del mondo: nella selva amazzonica colombiana, un tempo considerata «la periferia del mondo», oggi «piazza centrale». Molti occhi sono puntati su questo giardino stupendo: chi per proteggerlo, chi per sfruttarne l’abbondante acqua e le immense ricchezze del suolo e sottosuolo.

Noi missionari della Consolata siamo arrivati nella selva amazzonica colombiana nel 1951 accompagnando la colonizzazione e le comunità indigene sfruttate e spesso maltrattate, mentre oggi la nostra presenza consiste nell’ascoltare il grido di una selva in agonia, imparare dagli stessi popoli originari che per millenni hanno saputo convivere in un perfetto equilibrio con la creazione, chiedendo «permesso» alla Madre Terra quando per alimentarsi, vestirsi, costruire la maloca (la casa comunitaria) la «feriscono».

La missione è come un corpo vivo in continua evoluzione, che ti pone delle domande, ti cambia e ti fa camminare.

Spetta a ciascuno di noi lasciarsi guidare. La strada è lunga, a volte faticosa, sembra di non vedere l’orizzonte ma fino adesso ne è valsa la pena.

Chiedo al Signore che mi doni la salute e la forza di continuare. Nel mio cuore sono contento. Dopo 45 anni da quando ho conosciuto il primo missionario della Consolata che veniva dall’Amazzonia brasiliana, oggi mi trovo nell’Amazzonia colombiana.

A volte ho paura di essere svegliato da questo bellissimo sogno: la missione in mezzo a persone semplici, con le loro difficoltà, però con tanti valori evangelici che mi animano nel continuare in questo cammino missionario, che non è mio ma è la strada (qui dove le strade sono rare) che ho ricevuto dal Signore fin dal seno di mia madre.

Grazie Dio Padre per questa grande vocazione che è la stessa che hai dato a tuo Figlio Gesù: annunciare al mondo il tuo Regno di giustizia, pace, solidarietà e rispetto della creazione.

Padre Angelo Casadei


Sandra Garay: dall’Argentina alla Mongolia

Dio è al cuore della missione

Suor Sandra Garay, nata a Mendoza in Argentina. Dopo la sua formazione religiosa in Italia per diventare missionaria della Consolata, ha studiato negli Stati Uniti e poi lavorato con i migranti ispanici nel Michigan. Nel 2004 è partita per la Mongolia. Attualmente lavora nella nuova missione di Chingiltei alla periferia della capitale Ulaanbaatar.

Definitivamente posso dire che missione è condividere la vita con fratelli e sorelle del mondo. Dio mi ha regalato pure la possibilità di vivere in posti e culture affascinanti in America, Europa e Asia. Come non sentirmi benedetta da così grandi doni? Mi sono arricchita tanto e porto nel cuore i volti di tanti amici e gli spazi di tante terre. Ma tutta questa bellezza è solo la copertina di un cammino segnato da ricerche a volte tanto lunghe, da incontri non sempre lunghi abbastanza, da desideri parzialmente soddisfatti.

La bellezza, scoperta a volte così facilmente in persone e luoghi, non si sostituisce mai a quella ricerca, a quel desiderio profondo di Qualcuno. Ed è per questo che per me la missione vera è il cammino del cuore alla ricerca di Dio.

Sì, la vera missione è su Dio, sul come trovarlo e poi imparare a vivere con Lui. È un passare dalla ricerca di me alla ricerca di Lui, dal cercare di capire me al cercare di capire Lui, dall’accogliere la mia complessità all’accogliere la Sua semplicità. E così, negli anni, la mia preghiera è passata dall’aiutami all’usami, dal perché al grazie, dal vorrei al sì. La cosa più bella in assoluto della missione è che pian piano ci si addentra nel mistero di Dio. Ed è tanto affascinante. Mi piacerebbe condividere tre piccole scoperte.

Prima: Dio è come un Gps

Al centro della tecnologia del Gps (Sistema di posizionamento globale) sta la capacità di rilevare attraverso gli orologi atomici dei satelliti, l’esatta posizione di un oggetto. Di conseguenza il Gps può guidare perché può localizzare con precisione. Il Gps trova, e guida partendo dal quel che trova. Non potremo seguire un Gps se non fosse il Gps stesso a trovarci per primo. Analogamente, nel nostro cammino di fede, ci rendiamo conto che non siamo noi a cercare Dio ma è Lui per primo a cercare noi. Con cuore sollevato scopriamo che Dio, quasi come un Gps, sa sempre in quale punto della nostra vita ci incontriamo e le circostanze in cui camminiamo. Poi Lui parte da lì, offrendoci buone alternative per arrivare alla destinazione scelta. E se per qualsiasi ragione ci allontaniamo dai percorsi proposti, assume la nostra nuova strada e ci offre ancora altri percorsi. Dio è un Padre che non vuole perderci e ci lascia provare le nostre strade nell’attesa che un giorno ci renderemo conto che le sue strade sono le migliori per noi. Vuole essere parte della nostra vita e fa suoi i nostri cammini, le nostre scelte, per rimanere sempre con noi. Perché sa come siamo fatti e sa che un giorno impareremo a seguire Lui, avremo perso la voglia di resistergli. Nel frattempo avremo imparato che l’amore vero perdona, spera e non si arrende mai.

Seconda: l’agire di Dio è multiscopo

Sì, quando Dio interviene tocca la vita di tante persone, fa in modo che il bene realizzato sia il miglior bene per tutti quelli coinvolti in una stessa situazione. Quando Dio agisce non si limita a fare del bene a una singola persona lasciando gli altri a mani vuote, e non agisce mai a favore degli uni contro gli altri. Il bene, la grazia data a una persona implica sempre che anche altri ricevano dei doni. Anche nel nostro mondo relazionale a volte così complesso e con spruzzi di inimicizia, Dio fa il bene che è il meglio per tutti. Forse questo può spiegare perché la maggioranza delle nostre richieste sono esaudite in modo diverso dallo sperato. È il mistero dell’amore di Dio per noi, del suo cuore di Padre che si prende cura di tutti e sa dare a tutti quello di cui hanno bisogno anche quando i nostri bisogni sembrano di essere così diversi.

E l’ultima: Dio non fa miracoli

Dio interviene sempre, o, per dirlo in un altro modo, i miracoli, intesi come interventi soprannaturali, sono un’eccezione pure per Dio. Lui agisce soprattutto attraverso la nostra umanità, con le nostre complessità, i nostri limiti, le nostre resistenze, i nostri rifiuti. Fa miracoli con quello che noi siamo, perché ci accoglie, ci fa crescere, ci fa suoi. Lui che ci ha creati, sa quanta capacità di bene c’è in noi e vuole che venga alla luce. Qui bisogna fare attenzione perché molte volte, per mancanza di attenzione, ci può sembrare che siamo noi a fare un certo bene. Persino potremmo pensare che Dio non c’è. Invece è opera sua.

A capire questo mi ha aiutato tanto la missione in Mongolia. Sono così certa che in diverse situazioni non sarei mai riuscita da sola. Sono sicura che tanto del bene fatto è venuto da Dio. Sono i miracoli con la natura. Dio interviene sempre.

Con la missione Dio mi ha dato il privilegio di presenziare ai suoi miracoli, ai suoi interventi, in prima fila. Il vedere come Dio cambia la vita degli altri e soprattutto la mia, mi ha riempito sempre di grande gioia. Ma il più bel regalo che ho ricevuto dalla missione è Dio stesso, il poterlo sentire tanto vicino, il sapere che cammina accanto a me, l’imparare a lasciarmi guidare da Lui. Sì, la missione è prima di tutto contare su Dio.

Suor Sandra Garay

Hanno firmato questo Dossier

Missionari e missionarie della Consolata:

  • Angelo padre Casadei dal Caquetà, Colombia
  • Giorgio padre Marengo dalla Mongolia
  • José Luis Ponce de Léon, vescovo, da Eswatini
  • Mary Agnes suor Mwangi Njeri da Roraima, Brasile
  • Nicholas padre Muthoka dall’Italia
  • Ramon Lázaro padre Esnaola dalla Costa d’Avorio
  • Rinaldo padre Do dalla RD Congo
  • Sandra suor Garay dalla Mongolia
  • Stefania suor Raspo dalla Bolivia
  • Stefano padre Camerlengo (superiore generale)




Cooperazione e missione, gemelle diverse

testo di Chiara Giovetti


Nel mese missionario proponiamo una riflessione sulle differenze fra cooperazione e missione, ma anche sullo stimolo reciproco che hanno rappresentato l’una per l’altra nel corso degli ultimi cinquant’anni. Tentiamo di fare il punto sulla situazione attuale.

Tanta parte del mio lavoro come responsabile dell’Ufficio progetti di Missioni Consolata Onlus è lavoro di traduzione. Non solo e non tanto da una lingua a un’altra, ma soprattutto da un linguaggio a un altro. Si tratta cioè di tradurre nel linguaggio della cooperazione allo sviluppo concetti missionari e, in quanto missionari, profondamente e autenticamente cristiani.

Con una battuta che suscita sorrisi nei missionari più spiritosi e alzate di sopracciglia in quelli più austeri, mi trovo spesso a dire che il mio incarico più delicato è tradurre in «sviluppese» concetti espressi in «pretesco», cercando di far emergere nel modo più chiaro possibile che i nostri missionari fanno cooperazione già da molto prima della fondazione della Onlus (2001) o del riconoscimento come Ong (2007). Solo che, mentre alcuni la fanno conoscendo il «ciclo di progetto» e il suo linguaggio, altri la fanno chiamando le cose con un altro nome.

Così, progetti che arrivano sulla mia scrivania con un titolo come «Promozione della donna», vengono reindirizzati ai donatori con il titolo «Empowerment femminile». «Pace, perdono e riconciliazione» diventa «Gestione e risoluzione del conflitto», «aiuto alle mamme incinte e ai loro bambini», si riformula in «miglioramento della salute materna e infantile».

Le attività sono le stesse, ma le parole rimandano a valori non completamente sovrapponibili.

Fra il linguaggio dello sviluppo e quello della missione c’è, sì, un’ampia intersezione di concetti simili, se non identici benché detti con parole diverse, ma anche un confine di intraducibilità che non può – e nemmeno deve – essere forzato.

 

Cooperazione: una parola, due significati

Nella maggioranza dei casi, all’orecchio di un missionario cattolico la parola «cooperazione» arriva come l’abbreviazione dell’espressione «cooperazione missionaria fra le Chiese».

Per un operatore della cooperazione fuori dal mondo ecclesiale, viceversa, la stessa parola sottintende l’espressione «cooperazione allo sviluppo» o «cooperazione internazionale».

Il fatto che per un religioso la cooperazione sia prima di tutto missionaria, significa che la vede come un modo per realizzare la missione della Chiesa, che – si legge nel decreto Ad Gentes del Concilio Vaticano II del 1965@ -, a sua volta, è la crescita «nella storia della missione del Cristo, inviato appunto a portare la buona novella ai poveri».

L’annuncio della buona novella è l’evangelizzazione, e la cooperazione missionaria ne è uno degli strumenti, non il fine.

Già nel 1990, in una Nota pastorale della Conferenza Episcopale Italiana dal titolo I laici nella missione ad gentes e nella cooperazione fra i popoli@, emergeva una preoccupazione: «Spesso», recita la nota, «l’attenzione è assorbita dalle esigenze tecniche dei progetti a scapito dell’ispirazione cristiana che deve essere sostenuta in modo costante». Detto in modo più rozzo ma immediato, la Cei raccomanda ai laici cristiani che vanno in missione di ricordare sempre che scavare un pozzo non è il fine ultimo del loro mandato. Il pozzo è solo lo strumento. Sono stati mandati a scavare un pozzo perché la povertà dei fratelli privi di acqua grida vendetta al cospetto di Dio, e contraddice il messaggio di salvezza e liberazione che suo Figlio ha portato agli uomini a costo della sua stessa vita, un messaggio di cui è nostro dovere di cristiani farci portatori, anche – ma non solo – attraverso le opere concrete.

La stessa nota sottolinea, richiamando l’enciclica Sollicitudo Rei Socialis del 1987, che «gli insuccessi degli ultimi decenni negli sforzi di accrescere il benessere dei popoli mostrano che lo sviluppo non si può basare su una semplice accumulazione di beni e di servizi». Lo sviluppo autentico, per la Chiesa, è lo sviluppo integrale, «volto alla promozione di ogni uomo e di tutto l’uomo» (Populorum progressio), anche della sua sfera spirituale e morale.

Se per i cristiani la cooperazione è uno degli strumenti per continuare la missione del Cristo che parte da Dio e si irradia nella relazione fra le Chiese locali; per il mondo non ecclesiale è, invece, una relazione che parte dalle comunità umane definite a partire dalla loro organizzazione statale, e che ha come obiettivo lo sviluppo, pur con tutte le declinazioni e riformulazioni che il concetto ha attraversato nell’ultimo cinquantennio.

Non potrebbe essere più chiara la direzione divergente delle spinte che muovono queste due idee di cooperazione.

Dalla teoria alla pratica: la cooperazione come punto di incontro

Queste due visioni della cooperazione sono posizioni irriducibili l’una all’altra, dal punto di vista filosofico. Ma questa irriducibilità non ha impedito che si sia trovato un punto di mediazione nel campo del fare, del trovare soluzioni a problemi condivisi.

Per realizzare il raccordo, è stato fondamentale l’incontro fra religiosi innovatori, a volte addirittura rivoluzionari, da un lato, e volontari laici, dall’altro. La parola «laico» in questo caso significa il contrario di quello che potrebbe sembrare a un lettore esterno al mondo ecclesiale: non rimanda al laicismo ma al laicato, il complesso dei fedeli che non appartiene al clero.

Un esercizio interessante per dare la misura di questo incontro è prendere la lista delle Ong riconosciute dal ministero degli Affari esteri e della Cooperazione internazionale e scavare un po’ nella sezione Chi siamo dei rispettivi siti. Il risultato è abbastanza illuminante: su 217 organizzazioni, una su tre circa ha per fondatore, ispiratore o dirigente, un religioso, e quasi una su cinque è vicina al mondo missionario. Alcune Ong sono nate per sostenere il lavoro di uno specifico missionario, di un Istituto o di una Congregazione, altre sono emanazione di un Centro missionario diocesano, altre sono talmente missionarie di ispirazione che inseriscono la parola anche nel nome.

Gli anni Sessanta e Settanta sono stati una grande incubatrice per queste realtà: erano gli anni della decolonizzazione, delle crisi in Biafra e in Congo, delle campagne di Raoul Follereau; la Chiesa affrontava il cambiamento epocale del Concilio Vaticano II e assisteva al sorgere, in America Latina, della teologia della liberazione.

In Italia erano anni drammatici, di scontri politici e sociali, di forti ineguaglianze, evidenti in particolare nelle grandi città.

Solo per citare alcune di queste realtà nelle quali missione e cooperazione allo sviluppo hanno iniziato ad andare a braccetto, ricordiamo che nel 1961 è nata la Cisv@ «al servizio dei poveri nella Torino allora meta degli immigrati dal Sud Italia». Nel 1973, raccontava qualche anno fa Stefania Garini del Cisv alla nostra rivista, la stessa organizzazione ha inviato i primi volontari in Burundi anche su stimolo dell’allora arcivescovo di Torino, monsignor Michele Pellegrino, «che auspicava una missione animata anche da laici, ritenuti in grado di creare maggior vicinanza con la gente»@. Nel 1964 è nata Mani Tese, nel 1966 la Lvia, che l’anno dopo ha inviato la prima volontaria in Kenya ospite dei missionari della Consolata.

La Focsiv, che federa gli organismi italiani di ispirazione cristiana (Ong e non), è nata nel 1972 e ad oggi raggruppa 86 organismi.

Negli anni Ottanta e fino a tutti gli anni Novanta l’incontro fra missione e cooperazione allo sviluppo era ormai una realtà consolidata e strutturata grazie all’impegno di tanti missionari e al coinvolgimento dei volontari laici cristiani: l’invio di questi ultimi in missione era regolare, i riconoscimenti dello status di Ong da parte del ministero degli Esteri sono cominciati ad arrivare, la disponibilità di fondi – sia pubblici che privati – ha dato un’ulteriore spinta, e le campagne di sensibilizzazione in Italia sono state numerose e molto partecipate.

Anche la nostra rivista, che parla di cooperazione e di sviluppo sin dagli anni Settanta, ha inserito per gran parte del decennio 1980 – 1989 l’argomento fra i temi fissi trattati nelle rubriche. La lettura degli articoli sulla cooperazione di quegli anni è un tuffo più nel futuro che nel passato, tanto raffinata era già l’analisi delle cause delle diseguaglianze e tanto forte era il richiamo, oggi molto di moda, al cambiamento negli stili di vita.

La nota della Cei su laici, missione e cooperazione citata sopra è arrivata nel 1990 proprio per mettere ordine in questa relazione tanto vivace e animata da rischiare di diventare caotica. La Cei infatti, oltre al richiamo a non perdere di vista l’ispirazione cristiana, insisteva sull’importanza di migliorare la preparazione sia spirituale che professionale dei volontari ed esortava a evitare permanenze troppo brevi e mal programmate. La cooperazione missionaria non è una parentesi, un periodo circoscritto nella vita dei cristiani: è una scelta di vita che continua anche al rientro dalle missioni.

Cooperazione e missione oggi

L’ultimo ventennio ha visto un’impennata nella professionalizzazione della cooperazione. È nata la figura del cooperante, sono sorti corsi di studi a livello universitario, la gestione del ciclo di progetto si è fatta più complessa, l’obbligo di trasparenza nella gestione dei fondi è oggi, giustamente, un imperativo.

Quanto questo processo sia legato, in positivo, a un bisogno di affrontare in modo rigoroso una crescente complessità del mondo o, in negativo, agli obiettivi non raggiunti – e agli errori – di cinquant’anni di cooperazione internazionale, è un dibattito aperto.

Il dato di fatto è che le organizzazioni di origine missionaria, come tutte le altre, si sono attrezzate e dotate di personale formato e contribuiscono a quella parte della missione che, per brevità, si può definire sociale.

I fondi dei donatori pubblici non costruiscono chiese né comprano Bibbie per i catechisti (ci sono donatori cattolici per questo); ma certamente possono essere un sostegno fondamentale per scavare un pozzo e dare acqua pulita a un dispensario, formare infermieri, dare assistenza a migranti in fuga da un paese sull’orlo del disastro che arrivano stremati e disperati nel paese confinante.

Da questo punto di vista, il rapporto fra missione e cooperazione allo sviluppo continua a godere di ottima salute una volta che ci si accorda su uno spazio comune in cui una può essere funzionale alla realizzazione degli obiettivi dell’altra senza snaturarla. Si può dire, per semplificare, che la missione continua a «ospitare» la cooperazione allo sviluppo nella parte sociale della cooperazione missionaria e che la cooperazione allo sviluppo ricambia «ospitando» i missionari in tutti i suoi settori, a patto che oltre al collarino ecclesiastico indossino lo stetoscopio del medico, il casco antinfortunistico dell’ingegnere, il grembiule del maestro di scuola.

Senza avere una struttura professionalizzata che lo affianchi per gli aspetti tecnici, per il singolo missionario diventa impossibile realizzare interventi complessi come quelli previsti da un progetto di cooperazione allo sviluppo istituzionale. Il progetto, senza un aiuto adeguato, rischia di essere percepito dal missionario come un male necessario, uno strumento di cui non si può fare a meno ma che porta via tempo al resto. E per un missionario, il resto, spesso, è il grosso: «Ecco, Chiara», mi ha detto una volta il padre responsabile di una impresa sociale del settore alimentare gestita dalla Consolata in un paese africano, «con il progetto che ci aiuterai a scrivere potremo finalmente aumentare la produzione; per il resto, con i proventi delle vendite già manteniamo la biblioteca, facciamo i corsi di alfabetizzazione per i nostri lavoratori, contribuiamo all’allevamento di polli delle loro mogli. Poi, a tempo perso, diciamo messa, facciamo le confessioni, prepariamo i catecumeni… Ogni tanto riusciamo anche a stare in silenzio, pregare un po’ e dormire».

In questi anni di lavoro nell’ufficio progetti mi sono trovata spesso a scherzare con i missionari con cui lavoro sul fatto che è una lotta impari cercare di far appassionare a un quadro logico e a un cronogramma qualcuno (il missionario) che ha per logica il Verbo e per orizzonte temporale la vita eterna.

Al di là delle battute, però, probabilmente il punto è proprio questo: il rapporto fra missione e cooperazione allo sviluppo è stato ed è proficuo proprio perché sono due attività non completamente sovrapponibili: negli anni, oltre a non capirsi mai del tutto e, a volte, a criticarsi, si sono anche ascoltate e ciascuna ha fatto a se stessa delle domande che non si sarebbe mai fatta se l’altra non l’avesse stimolata. E non smette di sorprendermi quanto le domande che i missionari della Consolata si fanno da oltre un secolo, ispirandosi al loro fondatore, Giuseppe Allamano, – «stiamo capendo i segni dei tempi? Stiamo davvero facendo uomini e non beneficiari, assistiti, bisognosi?» – somiglino alle domande che si fa il mondo dello sviluppo.

Chiara Giovetti




Kenya: Ritorno alle origini della missione

Testo e foto di padre Jaime Carlos Patias |


La visita a Tuthu, in Kenya, la prima storica missione nella vita dei missionari della Consolata, serve da
ispirazione per rinnovare e reinventare lo stile delle loro presenze nel mondo.

In Kenya per una sessione di consiglio, la direzione generale dell’Istituto si reca in visita a Tuthu, provincia di Murang’a, nella regione centrale di quella nazione che è il primo amore dei missionari della Consolata. Questa piccola località, a 140 km da Nairobi, sui monti dell’Aberdare a oltre 2.500 metri, fu la destinazione finale dei primi quattro missionari della Consolata inviati in Africa dal beato Giuseppe Allamano.

I padri Tommaso Gay (31 anni) e Filippo Perlo (29), e i giovani fratelli missionari Luigi Falda (19) e Celeste Lusso (18) arrivarono in Kenya l’8 maggio 1902. A Nairobi, incontrarono Monsignor Allgeyer, superiore dei missionari dello Spirito Santo, che suggerì loro di recarsi tra il popolo kikuyu, in risposta all’invito del chief (capo) Karuri wa Gekure che voleva una scuola nel suo villaggio di Tuthu. Iniziò così l’evangelizzazione cattolica nel cuore del Kenya.

1903 – Capannone fatto erigere da Karoli (anche Karuri o Karori) a uso scuola. Karoli, in piedi, osserva alcuni dei suoi figli tra i quali sta seduto padre Vignoli

Nel villaggio di Karuri

La strada che porta a Tuthu si snoda tra verdissime piantagioni di tè distese sulle ripide colline che caratterizzano la zona, all’orizzonte le montagne dell’Aberdare che i primi missionari dovettero attraversare a piedi, partendo da Naivasha (dove arrivava la ferrovia) con un viaggio di due giorni accompagnati da portatori (per tutto il materiale necessario a impiantare la missione) e soffrendo le basse temperature di notte (a oltre duemila metri e a fine giugno, il periodo più freddo dell’anno).

Le difficoltà degli inizi, ci fanno comprendere l’insistenza dell’Allamano sull’importanza della preparazione e il motivo per cui voleva i suoi missionari «santi in modo superlativo», zelanti, disposti a sacrificare la vita, perché preferiva la qualità, al numero. «Prima santi, poi missionari», ripeteva spesso, sottolineando la santità come valore prioritario.

L’evangelizzazione e la promozione umana era il metodo proposto dal Fondatore e fu applicato puntualmente dai suoi missionari. Per prima cosa i missionari si dedicarono allo studio della lingua kikuyu e, dopo neppure un anno, iniziarono una piccola scuola in una capanna offerta da Karuri. Visitavano sistematicamente la gente nei villaggi con una particolare attenzione alla cura dei malati e ai bambini orfani o abbandonati. Lungimiranti e intraprendenti, portarono semi nuovi per l’agricoltura e installarono una segheria per le varie costruzioni necessarie per lo sviluppo delle missioni.

Gli errori commessi erano compresi e perdonati dalla gente che vedeva la buona volontà e la retta intenzione dei missionari dediti unicamente al servizio della popolazione che il Signore aveva loro affidato.

«Un albero secolare attorniato da liane e gettante le radici in due branche separate forma come un tunnel; ivi fu sepolta Suor Giordana morta nelle missione di Tusu. Due catechisti più coraggiosi si uniscono alle suore nelle preci di suffragio» (dida originale da MC 1907/11 p. 163)

Una croce nella foresta

Dal 1903 la missione di Tuthu ebbe la presenza delle Suore Vincenzine (quelle fondate da san Giuseppe Cottolengo), che lavorarono in Kenya a fianco dei missionari della Consolata per più di 20 anni. Una croce (un tempo di legno) con il nome di suor Giordana rimane nella foresta a pochi chilometri da Tuthu, a perenne memoria della loro presenza e del servizio per la gente.

La loro partenza da Tuthu nel 1909 diede un’ulteriore spinta al processo per la fondazione dell’Istituto delle suore missionarie della Consolata avvenuta nel 1910.

Appena arrivati a Tuthu, i missionari celebrarono la prima messa di ringraziamento, il 29 giugno 1902, ai piedi di un mugumo, albero sacro della tradizione kikuyu. Per ricordare tale evento e proprio sul luogo della celebrazione fu poi costruita la cappella della memoria. La struttura in metallo è adornata da pareti in vetro colorato. A fianco, al posto dell’albero, c’è una stele con una grande croce, su cui è scritta la data di arrivo, i nomi dei quattro missionari e il motto: «Annunceranno la mia gloria alle nazioni» (Is 66, 19). Due portici con i misteri del santo Rosario partono da entrambi i lati della cappella e si estendono lungo la piazza come per accogliere in un abbraccio i pellegrini che visitano quel luogo sacro da cui si è irradiato il dono delle fede.

Il battesimo del chief Karuri e della sua ultima moglie (scelta dopo aver onorevolmente sistemato le altre) con i nomi di Giuseppe e Consolata, suggellò un processo di avvicinamento e reciproca fiducia che con il tempo avrebbe trasformato Tuthu in un centro di irradiazione del cristianesimo in altre regioni fino a raggiungere il Nord del Kenya. Da Murang’a i missionari della Consolata raggiunsero Nyeri, Nanyuki, Isiolo, Meru e, più tardi, Embu. Oggi, la vitalità delle diverse comunità cristiane continua a dare un contributo decisivo alla società attraverso l’educazione, i centri sanitari e molte altre attività di carattere sociale ed economico.

Messa di ringraziamento

Il 2 marzo 2019, dopo 117 anni, la direzione generale celebra l’eucaristia nello stesso luogo. È presente anche padre Luigi Brambilla, attuale parroco del santuario della Consolata di Tuthu da cui sono nate ben altre 31 parrocchie nella sola diocesi di Murang’a.

Il superiore generale, padre Stefano Camerlengo, presiede l’eucarestia e nell’omelia ricorda che «questa è una visita storica, in quanto non capita spesso che la direzione generale al completo si rechi in una regione e tanto meno visiti una nostra comunità locale. Soprattutto perché la missione di Tuthu rappresenta l’inizio della nostra missione in terra africana. Non possiamo, come missionari della Consolata dimenticare questo, perché un popolo senza memoria non può vivere – insiste padre Stefano -. Lo stesso vale per un istituto: la memoria storica è garanzia per il futuro».

Durante l’Eucaristia sono richiamate le diverse situazioni di sofferenza e conflitto dove l’istituto è presente come in Venezuela, nella Repubblica Democratica del Congo e in Costa d’Avorio. Con la mente e la preghiera la direzione generale ricorda tutti i missionari che sono passati da Tuthu e tutti quelli che hanno evangelizzato il Kenya tra i popoli nomadi, i contadini delle campagne e gli abitanti delle città.

«Sotto la croce preghiamo per trovare la forza e il coraggio di reinventare lo stile missionario delle nostre comunità, consapevoli che guardando al passato si costruisce il futuro attraverso uno sforzo quotidiano, convinti che il meglio per il nostro istituto e per la missione deve ancora venire», conclude il padre generale.

L’atmosfera di sacralità che circonda i luoghi della memoria di Tuthu, fa sorgere spontaneamente suggestioni ed emozioni. Il consigliere generale per l’Africa, padre Godfrey Msumange, ricorda che «qui siamo nelle nostre radici. Mi piace immaginare 117 anni fa. Mi metto nella pelle dei primi missionari. Certamente erano decisi, coraggiosi, determinati e pieni di zelo missionario. In mezzo a mille sfide, animati dalla fede e amore di Dio, hanno superato tutto. Quanti sacrifici», esclama baba Godfrey. «Proprio per questo mi piace dire che il loro vero nome è passione missionaria, è amore, è coraggio, è dono. Sì, verso il Signore ma soprattutto verso i fratelli e sorelle desiderosi di conoscere il Signore».

Padre Mino Francesco Vaccari, da tanti anni missionario in Kenya, è arrivato dalla missione di Rumuruti per unirsi alla comunità. In un momento di condivisione, durante la preghiera delle lodi, dal profondo della sua esperienza, con emozione, ci confida che «questo posto è molto importante per l’Istituto e la storia della missione in Kenya, quindi dobbiamo tenerlo come il centro di irradiazione della fede. È la prima volta che incontro tutta la direzione generale riunita così. Sembra di essere al tempo degli Apostoli che erano uniti come in una sola famiglia. Sentire la vicinanza della direzione generale è una benedizione per me e per tutti».

Prendendo lo spunto da quella confidenza, padre Stefano aggiunge che «l’esempio dei primi missionari indica chiaramente che non siamo solo delle comunità per la missione, ma comunità in missione. Siamo strumenti dello Spirito, l’unico che muove i cuori ed è capace di trasformare le persone e la storia. Fare missione è ascoltare il cuore della gente… è trasmettere l’esperienza della tenerezza di Dio e della compassione di Gesù soprattutto a chi è debole e ai margini».

Parole sagge che traggono dall’esperienza di Tuthu insegnamenti per l’oggi della missione. Secondo il consigliere generale per l’Europa, padre Antonio Rovelli, «la memoria non deve diventare un semplice contenitore di ricordi ma, come Tuthu ci insegna, deve essere qualcosa che si custodisce a partire dal futuro. Il ricordo dell’eroismo dei primi missionari deve rivitalizzare la vita dei missionari della Consolata oggi e dare un rinnovato impulso al coraggio e all’entusiasmo per l’evangelizzazione e custodire la memoria di Tuthu significa farci tutti responsabili del nostro passato per gettarci in un movimento proteso in avanti verso altre tappe della missione universale». Al termine della visita, il superiore generale esprime un augurio per tutte le nostre comunità sparse nel mondo: «L’esempio dei primi quattro missionari di Tuthu ci sia di stimolo per reinventare l’arte del vivere insieme attraverso un esodo continuo da sé e i seguenti atteggiamenti fondamentali: l’accoglienza, il dialogo, la fraternità e la corresponsabilità in missione».

L’Istituto nato nel 1901 ai piedi della Madonna Consolata a Torino, in Italia, ha più di cento anni, e rimane fedele al carisma ereditato dal Fondatore, il beato Giuseppe Allamano. Seguendo le orme dei pionieri nella missione di Tuthu, continua a raggiungere nuovi popoli e culture. Prova di questo è l’inizio di una nuova presenza in Madagascar. I missionari dell’Allamano oggi sono 950 dei quali 463 sono africani. Sono presenti in 28 paesi in Africa, America, Asia ed Europa. La Consolata è la protagonista di tutto questo con il suo silenzio, il suo ascolto, la sua donazione.

Jaime Carlos Patias
Consigliere generale per l’America


Tuthu: umile inizio di una grande missione

«E tu Tuthu non sei il più piccolo insignificante villaggio del Kikuyu perché da te è iniziato l’annuncio di salvezza a tante genti…». Sono milioni i cristiani che in Kenya, devono a questo villaggio l’origine della loro fede: dalle zone poco a Nord di Nairobi fino ai confini dell’Etiopia e della Somalia.

Anche un fiume maestoso parte da una sorgente piccola e modesta: è l’inizio, è la nascita.

I cristiani che vengono in visita e in preghiera trovano il luogo ideale: bellezza della natura, tanta pace e silenzio, la bella chiesa, la cappella della memoria, il chiostro del rosario, la grotta di Lourdes, la cappella dell’adorazione. Poi intorno, posti suggestivi nella foresta. Il luogo dove i missionari impiantarono una storica segheria, o il posto del martirio del catechista Aloisio Kamau dove abbiamo eretto una croce a ricordo, meta di pellegrini e preghiere.

Qui storia e geografia si uniscono a fare di Tuthu un posto veramente suggestivo, testimone della grandezza del Fondatore e dei primi missionari.

Non deve succedere che perdiamo questa storia e questa testimonianza. Nelle dovute proporzioni, sarebbe come se Assisi rimanesse senza Francescani! Torino e Tuthu dovrebbero gemellarsi: la radice dell’istituto e la radice delle nostre missioni.

La porta della chiesa

Fu voluta da padre Tommaso Biasizzo che costruì l’attuale chiesa. Si rivolse a fratel Filippo Abbati, autore di altari, porte, tabernacoli intagliati in legno, sparsi in diverse nostre missioni «storiche».

Fratel Filippo chiese a me di disegnargli i «cartoni» con i soggetti suggeriti da padre Biasizzo.

Nel pannello in alto a sinistra sono rappresentati i simboli dei sacrifici kikuyu generalmente offerti sotto un mugumo (un maestoso ficus) considerato albero sacro. Su quello di destra, i simboli della nuova fede: la Croce e la Madonna Consolata.

Nei pannelli di mezzo è rappresentato l’incontro dei missionari, scesi dalle motagne dell’Aberdare, con il capo Karuri wa Gakure. In basso a destra è inciso il logo di quel tempo dei missionari della Consolata e, a sinistra, un simbolo del Kenya.

padre Luigino Brambilla
parroco della parrocchia santuario della Consolata a Tuthu

 




Sulle vie d’Etiopia con le scarpe da corsa


Testo di Luca Lorusso, foto di Domenico Brusa (AfMC)


Trentanove anni di missione tra Kenya ed Etiopia, raccontati con semplicità e gratitudine. Tante persone incontrate e amate tra le loro povere abitazioni. Tanti ragazzi istruiti nelle scuole della Consolata. Tanti amici musulmani, ortodossi e protestanti. Tanti chilometri fatti di corsa per tenersi in forma e contemplare le meraviglie del creato.

«Ad Addis Abeba, in Etiopia, sono stato 13 anni, dal 1997 al 2010. Mi è piaciuto quel periodo perché vicino a noi c’erano i rifugiati dall’Eritrea. Inizialmente vivevano sotto le tende dell’Unhcr. Dato che sono dovuti rimanere lì diversi anni, alla fine si sono fatti la capanna.

Ho conosciuto diversi bambini di quel campo perché la nostra casa era proprio lì attaccata. Parlavano tigrino. Alcuni bimbi venivano nel nostro campo sportivo a giocare. Qualcuno era cattolico e frequentava la chiesa. La maggioranza era ortodossa. C’era qualche musulmano. Alla fine entravo nel campo senza problemi.

Gli ultimi anni, con alcuni ragazzini di 12-13 anni abbiamo fatto un gruppo per la corsa: venivano a chiamarmi e andavamo a correre. Facevamo tre o quattro chilometri. Era interessante, perché c’era la gente che batteva le mani, ci dava i nomi dei campioni etiopici».

Nato nel 1940 in Valle d’Aosta, fratel Vincenzo Clerici si è laureato in Fisica a Torino e ha insegnato all’Istituto tecnico commerciale di Chieri fino al 1970. Poi la missione l’ha chiamato, e lui ha risposto.

foto di Luca Lorusso

Fratel Vincenzo, come sei arrivato in missione?

«Quando ero giovane, negli anni ‘60, Giovanni XXIII e Paolo VI parlavano dei giovani che lasciavano la loro patria con spirito missionario. Io mi sentivo uno di loro. Desideravo fare il missionario anche se non come religioso. Quando mi è venuta l’idea delle missioni sono andato all’ufficio della diocesi, e lì mi hanno detto: “Chiedi ai missionari della Consolata”. Così nel 1970 sono andato in Kenya grazie a padre Giovanni De Marchi. Dice: “Tu sei insegnante e in Kenya c’è il boom delle scuole. Puoi lavorare come insegnante e vivere in missione”. Così sono andato a Mugoiri, vicino a Marang’a, dove c’erano alcuni padri anziani che anni prima erano stati internati nei campi di concentramento in Sudafrica.

Ho fatto le cosiddette scuole Harambee (termine che in Kenya significa “insieme”; si usa quando è necessario uno sforzo comune per realizzare un obiettivo, ndr). Ho fatto prima un contratto di due anni e poi un altro di tre anni».

Come hai maturato la decisione di diventare fratello?

«Finiti quei cinque anni, ho fatto l’aggregazione all’istituto: ero laico, ma membro dei missionari della Consolata. A quel punto sono andato a insegnare matematica e fisica a Sagana dove c’era una scuola tecnica molto ben attrezzata. Lì ho incontrato i fratelli della Consolata. Erano cinque. Mi sono trovato bene con loro, ed è stato lì che mi è venuta la vocazione. “Perché non essere anche io fratello? Facciamo lo stesso lavoro, stessa vita, stesso orario”.

Il postulato l’ho fatto a Sagana mentre insegnavo. Per il noviziato sono tornato in Italia, un anno alla Certosa di Pesio con padre Peyron alla fine degli anni ‘70, e poi un anno a Bedizzole. Dopo questi due anni sono tornato a Sagana per un altro anno».

Nel 1981, hai ricevuto la nuova destinazione in Etiopia.

«L’Etiopia è un paese molto diverso dal Kenya, la vita è più semplice. Anche lì insegnavo in una scuola tecnica a Meki, e poi provvedevo i materiali per la falegnameria. Caricavo fino a 7 quintali di legna sul camioncino. Facevo 100 km con le ruote davanti che rimanevano quasi sollevate».

Poi sei tornato in Kenya per un altro breve periodo.

«Quando abbiamo ceduto Meki alla diocesi, alla fine del 1988 sono tornato in Kenya per tre anni. C’erano alcuni fratelli kenioti a Langata che si specializzavano in qualche mestiere».

E quando sei tornato in Etiopia, dove sei stato?

«Nel 1992 sono stato ad Addis Abeba e poi ad Asella, nella casa “etsanat masaderia”, la casa dei bambini: c’erano orfani e alcuni handicappati. Era un bel gruppo.

Dopo Asella sono stato a Gambo per tre anni, fino al 1997. Anche lì facevo commissioni varie e mi interessavo un po’ della scuola, anche se non insegnavo più.

Gambo è vicino alla foresta, è un posto isolato. Per cercare libri per la scuola facevo quasi 40 km. Dopo Gambo, sono stato ad Addis Abeba per 13 anni, al nostro seminario di filosofia e nella procura della casa regionale».

È il periodo in cui correvi con i ragazzi del campo dei rifugiati?

«Sì, mi è piaciuto quel periodo».

E dopo Addis Abeba, sei arrivato a Modjo.

«Sì, nel 2010. Modjo è una cittadina di 50mila abitanti dove si respira aria di campagna. Nella strada davanti alla missione vediamo passare quasi solo calessi tirati da cavalli. Sono un po’ sgangherati, ma quelli sono i taxi.

Le case sono ancora tradizionali: casette a un solo piano con un pezzetto di terreno davanti.

Vicino a Modjo c’è la “città dei container” che arrivano da Gibuti. C’è la dogana, quindi ci sono centinaia di container fermi. Di lì passa l’autostrada che va da Addis a Nazareth (Adama in Oromo). Una grossa città a 20 km da noi».

Com’è la comunità di Modjo?

«I cattolici sono pochi: alcune famiglie. Poi ci sono ragazzini adolescenti ortodossi che ci frequentano. La chiesa è una bella struttura costruita da padre Zordan. Il cardinale ha voluto che diventasse anche un santuario dedicato alla Consolata.

Quando sono arrivato a Modjo c’era ancora il seminario minore. L’ultimo anno di secondaria. Lì facevo un po’ di ripetizioni la sera. Adesso il seminario è stato riaperto dopo un periodo di chiusura. Io faccio l’economo della missione. Dopo una vita, non lavoro più con le scuole».

Com’è l’economia della città?

«Fuori dalla città ci sono cinque fabbriche di pellami, di solito gestite da indiani o pachistani. Ci lavorano molti giovani. Altra attività molto diffusa è il commercio: il mercato, i negozietti. Altro impiego è quello della dogana. Poi a Modjo ci sono almeno cinque banche e molti distributori di diesel e benzina perché la città è un luogo di passaggio, sia da Gibuti che dal Sud le strade s’incrociano a Modjo per arrivare ad Addis Abeba.

Fuori dalla città ci sono villaggi tipici tradizionali nei quali le persone lavorano la terra. Diversi giovani di Modjo lavorano ad Addis Abeba o a Nazareth e tornano nei week end».

Come si presenta il territorio?

«Modjo è in una zona semiarida. La città è piatta, si trova nella Rift Valley. Attorno ci sono colline sulle quali viene coltivato grano e teff, un cereale locale.

Noi lavoriamo con la gente della città. Ma abbiamo tre cappelle fuori. Una a 4 km in zona rurale, una in una piccola cittadina a 15 km e la terza è a 11 km sulle colline. In quest’ultima operano tre famiglie. In due di queste cappelle c’erano due asili informali. Uno gestito da una suora, l’altro da una maestra. Ma il governo centrale ha chiesto di renderli degli asili formali, di tre anni, con il personale. Quindi l’attività è stata ridotta a semplice accoglienza il sabato e la domenica».

In Etiopia, su 108 milioni di abitanti, i cattolici sono pochi: intorno agli 800mila. Quasi tutti gli altri sono musulmani (37 milioni), ortodossi (47 milioni) o protestanti (20 milioni).

«Penso che nella nostra parrocchia siano elencate un centinaio di persone sul registro dei battesimi. Ci sono una ventina di adolescenti. Poi qualche famiglia con i bambini piccoli. La domenica ci sono una cinquantina di persone a messa. Le celebrazioni qui sono fatte con il rito orientale, perché Modjo è sotto la diocesi di Addis Abeba, mentre pochi chilometri più in là, a Meki, c’è il rito latino».

Come sono le relazioni con i musulmani?

«Le persone non hanno nessun problema. La convivenza è buona. I musulmani sono gentili: c’è un negoziante in città che mi fa sempre lo sconto. Vicino alla missione vive una famiglia della quale sono molto amico. La mamma è originaria di Gambo, ha tre bambini ed è moglie di un musulmano. Qualcuno della sua famiglia è cristiano. Qualche volta vado a prendere il caffè da loro. Quello tradizionale ci vuole un’ora per prepararlo: prendono i grani, li lavano, li abbrustoliscono, poi li pestano nel mortaio e intanto fanno bollire l’acqua. Due o tre amiche della signora, che incontro quando vado da lei, hanno tutte la croce appesa al collo. Sono ortodosse e non hanno problemi a indossarla. Stanno assieme, chiacchierano, si aiutano».

Che lingua si parla a Modjo?

«In Etiopia si parlano ottanta lingue. In città da noi sanno tutti l’amarico, però molti sono Oromo. In campagna la maggioranza sono Oromo. Gli Amara sono ortodossi. Gli Oromo dell’Ovest, invece, sono per lo più protestanti. Mentre gli Oromo dell’Est sono per la gran parte musulmani.

C’è un problema politico che riguarda gli Oromo, ci sono quelli che vogliono l’indipendenza da Addis Abeba, quelli che vedono male il programma di sviluppo del governo che fa molti contratti con la Cina».

Si sente il problema dell’emigrazione in Etiopia?

«In Etiopia i giovani hanno come obiettivo di andare all’estero, negli Usa specialmente, anche perché durante il marxismo gli Usa facilitavano gli esuli. Oggi molti hanno parenti negli Usa o in Canada.

Altri emigrano nella penisola arabica e in Libano. In particolare ragazze che vanno a fare le collaboratrici domestiche.

C’è un’organizzazione che procura l’alloggio e paga il viaggio. Le donne restituiscono l’anticipo ricevuto con i primi stipendi presi nel paese. Conosco una ragazza, mamma di due bambini, che è di Gambo e ora sta a Beirut. Lavora in una famiglia cristiana. I bambini e il marito sono a Gambo, e lei manda aiuti».

Qual è l’aspetto che ti piace di più del popolo Etiope?

«A Modjo ero andato a una festa patronale di una chiesa ortodossa in una zona di campagna. La chiesa è bella, su una collina. Cento metri più in basso ci sono grotte scavate nel tufo dove vivono dei monaci. A quella festa vanno migliaia di persone.

Quando sono arrivato a sei chilometri di distanza, ho iniziato a vedere la strada piena di auto parcheggiate. Allora ho lasciato lì l’auto e ho fatto un’ora e mezza di strada a piedi. C’era con me un ragazzino, sua cugina di nome Marta e un’altra ragazzina, Ghennet. Avevano 12 anni. Quando siamo arrivati alle grotte dei monaci, lì c’erano dei ragazzi che raccoglievano la sabbia perché consideravano quella come terra benedetta.

Al ritorno, i ragazzi erano stanchi e io non ricordavo neppure bene dove fosse l’auto. A un certo punto il ragazzo è andato avanti a cercare acqua perché sentiva sete. Dopo un altro po’, a causa della folla, ho perso di vista Marta. Siamo rimasti solo io e Ghennet. Quando siamo arrivati alla macchina, Marta non c’era. Ero in ansia per lei. Dopo un po’, una coppia si è avvicinata e mi ha detto: “La ragazzina sta arrivando”. Io non li conoscevo. Non erano neppure di Modjo. Però mi hanno visto lì ad aspettare e hanno capito.

Ecco. Gli etiopici sono così, sono gentili. È gente aperta».

C’è un brano biblico che ti accompagna in modo particolare nella tua missione?

«Mi piacciono i Salmi. In particolare il 63:
“O Dio, tu sei il mio Dio, / all’aurora ti cerco, / di te ha sete l’anima mia, / a te anela la mia carne, / come terra deserta, / arida, senz’acqua.
Così nel santuario ti ho cercato, / per contemplare la tua potenza e la tua gloria.
Poiché la tua grazia vale più della vita, / le mie labbra diranno la tua lode.
Così ti benedirò finché io viva, / nel tuo nome alzerò le mie mani”».

Luca Lorusso


Una visita ai monaci ortodossi

«Le chiese ortodosse si trovano spesso su cocuzzoli di montagna, con piccoli villaggi nelle vicinanze. La chiesa di Tekle Haymanot, 60 km a Nord Est della capitale, si trova su un piccolo ripiano a metà di una valle molto scoscesa, nel distretto di Bereh. Il posto è legato alla storia della Chiesa etiopica perché il santo Tekle Haymanot (nome che significa Pianta della fede) è stato riformatore del monachesimo nel XIII secolo e fondatore del monastero Debre Libanos.

Attorno alla chiesa si estendono campi sassosi dove si coltiva il grano. Ci sono un piccolo villaggio, una sorgente di acqua cui si attribuiscono proprietà curative, e un gruppo di capanne abitate dagli studenti della chiesa (quelli che noi chiameremmo “seminaristi”), qui soprannominati kollò tamari, da tamari, studente, e kollò, grano abbrustolito, perché hanno la tradizione di elemosinare nelle case il cereale.

A pochi minuti dal villaggio sulla ripida costa della montagna, vivono, in alcune grotte, dei monaci eremiti. C’è anche una piccola chiesa rupestre, scavata a mano nel tufo della montagna e dedicata a San Michele.

Facemmo una visita a quella chiesa il giorno della festa di Tekle Haymanot. Vedemmo un giovane monaco di pochissime parole. Non rispose subito alla nostra richiesta di visitare le grotte, ma fece capire che era possibile. Prima di tutto bisognava togliersi le scarpe, come usano i fedeli nei luoghi sacri. Poi, con mia sorpresa, il monaco ci condusse ai piedi della ripida scarpata che avevamo appena salito, e ci portò all’imbocco di una grotta scavata a mano. Feci presente che non avevamo niente per illuminare il tunnel, ma rispose che non era necessario. Ci fece prendere per mano come a formare una catena e iniziò a salire nel buio più completo.

Il cunicolo aveva a tratti delle impennate brusche, dove avevi l’impressione di cadere nel vuoto. Dopo un tempo che parve molto più lungo del reale arrivammo ad alcuni scalini scavati nella roccia. Qui il monaco ci fece fermare e andò ad aprire una porta. Finalmente vedemmo di nuovo la luce del giorno e ci accorgemmo di essere arrivati a pochi metri dalla chiesa di San Michele.

In seguito un altro monaco mi spiegò che il cunicolo rappresenta l’inferno (Sheol). Quando esci e ti trovi nella luce, sei come alla porta del Paradiso».




Essere auguri, non fare gli auguri


Testo e foto di Stefano Camerlengo


Tornato in Kenya in occasione della Settimana Santa per partecipare all’assemblea dei missionari subito dopo Pasqua, ho avuto la gioia di un’esperienza bellissima nel Nord del paese, nella diocesi di Maralal, andando a celebrare il triduo pasquale nella prima missione del territorio, Baragoi, fondata nel 1952.

Giovedì Santo

Il Giovedì Santo insieme a Patrick, l’autista della comunità della casa regionale di Nairobi, iniziamo il viaggio: Nairobi – Baragoi, 640 km. Un viaggio dal sapore antico, di missione vera, con un pezzo della strada asfaltata, opera dei soliti cinesi, un’altra parte in cantiere e l’ultimo tratto ancora da sistemare. Un viaggio impegnativo. Prima tappa alla missione di Rumuruti e incontro con padre Mino Vaccari, un missionario quasi novantenne che rimane sempre presente nonostante le burrasche della vita.

Terminata la colazione e il dialogo con il missionario, via per la strada verso Maralal dove siamo attesi alla casa del vescovo, mons. Virgilio Pante. Con lui consumiamo un fraterno pasto e dopo i saluti via di nuovo verso Baragoi, ballando al suon di musica cadenzata dalla strada piena di pietre e corrugazioni varie. Finalmente alle 16.30 arriviamo alla missione di Baragoi, una delle presenze dell’Imc più antiche.

Siamo accolti dalla musica proveniente dalla chiesa strapiena di gente che innalza canti di gloria al Signore nel ricordo del giorno dell’Eucarestia. Una Messa semplice, senza troppe cose, ma sentita e partecipata e soprattutto cantata da tutti. Certamente devo riconoscere l’emozione provata all’intenso ricordo dei bei momenti vissuti in brousse con la gente nella foresta del Congo (allora Zaire), quando più giovane vivevo in una missione di frontiera.

Venerdì Santo

La giornata nella cittadina inizia con una visita a un panificio, creato dai nostri missionari e affidato a due giovani intraprendenti. Una casa dignitosa costruita per accompagnare il progetto. Un pane viene venduto a 25 scellini (circa 25 centesimi al chilo). Non è molto, anzi è quasi niente, ma è prezioso perché qui da tempo non piove, la fame è già presente e la crisi si avvicina. Terminata la visita andiamo a benedire un grande gruppo di persone, per lo più donne e bambini, che sfidando il calore e il sole proibitivi s’incamminano verso una collina simbolica recitando il Rosario e tornano facendo la Via Crucis, il tutto percorrendo diversi km, precisamente 7 di andata e 7 di ritorno, con un clima che definire solo caldo è un gioco, infatti solo ieri c’erano circa 32 gradi all’interno della casa e 43 fuori.

La camminata ha voluto essere una testimonianza della fede, una manifestazione della preghiera al Dio della vita che per amore muore in croce.

Personalmente non oso prendere parte alla camminata, segno della vecchiaia che arriva, a causa del caldo eccessivo e soprattutto del sole che non ha pietà, ma benedico con tutte le mie forze questa gente che nonostante tutto, sfidando il caldo eccessivo, la mancanza di pioggia che attanaglia la regione da mesi, vuole liberamente e con calma, camminare insieme la Via Crucis di Gesù per rendergli gloria e lasciarsi riempire dalla sua grazia.

Anche se non sono andato con loro mi sento parte di questa gente semplice che, già da ieri sera, al mio arrivo mi ha adottato come uno di loro e con me vogliono vivere il mistero pasquale.

Verso le ore 13.30 tutto il gruppo della camminata ritorna alla chiesa parrocchiale. Una breve pausa per rifocillarsi, bere dell’acqua e riposare un pochino e poi inizia la seconda celebrazione della giornata, quella della liturgia della croce. La gente aumenta a vista d’occhio e alla fine la chiesa si trova totalmente piena. La cerimonia si svolge con attenzione e semplicità, senza troppi fronzoli guardando all’essenziale dello spirito della liturgia del Venerdì Santo che non vuole partole inutili e che concentra tutto il messaggio attorno ai tre segni: la Parola, la Croce, la Comunione.

Sabato Santo

Inizia con le confessioni, dalle 9.00 circa fino alle 12.00. Una fila ininterrotta di persone, grandi e piccole, con ordine e rispetto, molto ben preparati si avvicinano per la confessione individuale e la relativa penitenza proprio per prepararsi bene alla celebrazione pasquale.

Nel pomeriggio si parte per iniziare le celebrazioni pasquali in quasi tutte le cappelle sparse sul territorio. Con padre Matthew Kirema, il parroco, affrontiamo la pista più difficile e problematica, mentre padre Roberto Sibilia va in altri villaggi. Dopo 6 o 7 km siamo costretti a fermarci perché la Land Rover, di soli 22 anni di vita, inizia a fare capricci e ci obbliga ad una sosta forzata. Fortunatamente siamo in zona dove c’è connessione e possiamo chiamare un giovane meccanico che con una rapidità sorprendente ci raggiunge e in pochi minuti ripara il guasto.

Si riparte e vengo lasciato sotto un albero nel villaggio di Soit Ngiro. Un villaggio particolare di Samburu, incollato sulla collina, vicino al letto di un fiume che da tempo non conosce acqua. In questo villaggio vivono più o meno 30/40 famiglie, isolate dal resto del mondo.

Arriviamo e l’accoglienza è subito una festa, soprattutto da parte dei bambini e delle donne; gli uomini rimangono in disparte sotto un albero a dialogare tra loro, come se niente fosse. Anche la mia cappella è un albero molto grande e ombroso che lascia passare una dolce arietta che rinfresca l’ambiente, e ce n’è bisogno. La partecipazione è sentita e attenta, le mamme devono seguire la messa e le parole del padre (in kiswahili, con cui avevo già dimestichezza in Congo), e allo stesso tempo devono accudire il bambino che portano in braccio e quello più grande, che gli scorrazza attorno. È proprio vero qui è tutto in mano alle donne. Povera Africa senza le donne.

In una parte del villaggio scorgo un movimento particolare, curiosamente vado a guardare e trovo una festa per la casa nuova che una famiglia sta preparando. Alcune donne stanno conficcando i pali per la manyatta, altre trasportano materiale, gli uomini all’ombra stanno guardando dopo aver terminato la festa di benedizione per la nuova casa e bevuto alla faccia… del malocchio, ma anche delle donne! Terminata la messa e la visita al villaggio con il catechista, una sua bambina, un giovane e una mamma anziana, iniziamo a piedi la via del rientro per arrivare alla via principale e ritrovarci con padre Matthew che dopo averci lasciato ha proseguito per altri due villaggi più lontani. Percorriamo il tratto di diversi chilometri e alla fine stanchi ma contenti ci ritroviamo con il padre per fare ritorno alla missione già a notte avanzata.

Appena arrivato, via di corsa alla cappella Huruma, situata alla periferia Sud della cittadina di Baragoi, in una zona abitata prevalentemente da Turkana, dove un bel gruppo di cristiani ci sta aspettando per la veglia pasquale. Termino stremato, senza forza né voce, ma contento di aver potuto servire il Signore in questo angolo dimenticato di mondo, dove non solo il calore è un problema, ma soprattutto la mancanza d’acqua. Sono ormai le 23.30 passate, mi siedo in casa, bevo quasi un litro d’acqua contento di aver passato una Pasqua speciale, con della gente semplice e senza troppe pretese, dove tutto è dono da accogliere e da celebrare, anche la fatica di vivere.

 

Domenica di Pasqua

Arriviamo così alla domenica di Pasqua. Di primo mattino arriva il mio accompagnatore per raggiungere due centri, relativamente vicini alla missione, precisamente Logetei e Nachola.

La prima comunità è quella di Nachola, gente buona e accogliente. Un centro situato su una collinetta da dove si può dominare tutta la valle. Una valle dai contorni infiniti, con una bellezza surreale perché ti dà l’impressione di essere fuori dal mondo, proiettato quasi sulla luna. La cappella è bella e bene areata, uno spettacolo poter celebrare animati dai canti e dalla partecipazione attiva della gente. Terminiamo cantando e lodando Iddio per questa nuova Pasqua che ci fa vivere.

A Logetei, la cappella è più antica e caldissima. Qui ci sono una quarantina di adulti e giovani che sono pronti per ricevere il battesimo e la cresima. Siamo già arrivati alle ore 11.30 circa, il sole è forte su nel cielo, e la cerimonia inizia con canti e festa grande. I giovani sfilano vicino all’altare esibendo i loro nomi da cristiani, consapevoli del grande passo che stanno facendo. Terminiamo la celebrazione e stanchi e contenti ci avviamo verso casa, con la gioia dell’operaio che anche oggi qualche cosa ha potuto realizzare per la gloria del Suo nome.

Qualche riflessione

Pensando alla Pasqua e alla tradizione degli auguri, vivendo quest’anno il triduo con queste persone semplici ho pensato che poteva essere l’occasione per tentare di «essere auguri» più che pensare di «fare gli auguri»!

Anziché fare gli auguri, essere auguri, farsi augurio per gli altri, non chiedendo cosa mi possono donare, ma impegnandosi a portare qualcosa per rendere la Pasqua e la vita più bella, più umana. Come insegna il Nuovo Testamento, per il quale la felicità non è un’utopia,  ma una possibilità concreta alla portata di tutti. Infatti, la felicità per Gesù, non consiste in quel che si riceve, ma in quel che si è capaci di donare: «Si è più beati nel dare che nel ricevere» (At 20,35). Se la felicità dipende da quel che si riceve, si rischia di consumare l’esistenza sempre amareggiati, perché gli altri non hanno saputo rispondere ai bisogni, ai desideri per i quali si è atteso invano una risposta. Ma se la felicità consiste invece in quel che si dona, questa può essere possibile, immediata e piena; anzi, più si dà e più si è felici, perché il Padre non si lascia vincere in generosità, e regala vita a chi dona amore: «Con la misura con la quale misurate sarà misurato a voi; anzi, vi sarà dato di più» (Mc 4,24; Lc 12,31).

Essere un augurio per gli altri significa fare della generosità il distintivo che rende riconoscibili.  Come il Cristo risuscitato, che ogni volta che si manifesta ai suoi discepoli dice loro: «Pace a voi» (Gv 20, 19.21.26). Il suo non è un augurio, ma un dono. La pace può essere un dono solo quando è espressione di tutta la vita della persona, altrimenti è solo un suono. Chi dona pace non solo comunica gioia, ma arricchisce la propria: «Perché la nostra gioia sia perfetta» (1 Gv 1,4). La pace, l’ebraico shalòm, nel mondo semitico ha un significato molto più ampio di quello conosciuto in Occidente, infatti include tutto quel che di buono e bello rende appagata la persona, dalla pienezza di salute all’amore, dal lavoro al benessere: la felicità. Per questo in quella cultura, come in quella africana in genere, il saluto augurale, non è mai espresso solo verbalmente, ma sempre accompagnato da un dono, che può essere un dolce, una bevanda, un frutto, per contribuire alla felicità e alla gioia di chi riceve il saluto. Per questo quando Gesù dona pace, regala felicità, e quel che aveva promesso non rimane un augurio, ma diventa realtà, affinché «la vostra gioia sia piena» (Gv 15,11; 16,24). I Vangeli invitano a essere portatori di questa pace: «In qualunque casa entriate, prima di tutto dite: “Pace a questa casa!”», (Lc 10,5) affinché questa raggiunga tutti gli uomini.

Ringrazio di cuore e saluto fraternamente padre Matthew e padre Roberto, i due confratelli che da tempo sono auguri per questa gente, in mezzo a questo popolo.

Coraggio e avanti in Domino!

Stefano Camerlengo
superiore generale IMC


Kenya: qualche informazione per capire

l Kenya è situato nella regione centrorientale dell’Africa, a cavallo dell’equatore. Ricopre una superficie di 582.546 km2 e ha oggi una popolazione di 52.051.295 abitanti (stima al 5/5/2019 del Population Clock). È caratterizzato da 44 gruppi etnico-linguistici tra cui i Kikuyu e i Luo (le due etnie più numerose), gli Akamba, i Meru, i Masai, i Samburu, i Turkana, i Borana, ecc. comprese anche le due «tribù» dei Wazungu (cioè quelli che noi diciamo i «Bianchi») e degli Asiatici. Le lingue ufficiali sono lo swahili e l’inglese.

Per quanto riguarda le religioni: i keniani sono per il 47% cristiani protestanti, per il 25% cattolici, per il 12% di chiese indipendenti africane, per l’11% musulmani e per il 5% sono tradizionali, atei o di altre religioni (dal censimento del 2009).

Il Kenya è un paese indipendente dal 1963 ed è una repubblica presidenziale la cui capitale è Nairobi.

La moneta è lo scellino e i prodotti principali sono il caffè, il tè, il granoturco, fiori e ortaggi per esportazione e il bestiame.

Le malattie più diffuse sono la malaria, l’amebiasi, la bilharziosi, la tubercolosi e, in questi ultimi anni, l’Aids. La mortalità infantile è passata da 119 su 1000 nati vivi nel 1960 a 37 su 1000 nel 2017 (in Italia 3 su 1000); la vita media si aggira intorno ai 64 anni (fine 2017 – Italia 82) e l’analfabetismo (sopra i 15 anni) è circa del 22% nel 2015.

Dalla diocesi di Marsabit alla nascita della diocesi di Maralal

La diocesi di Marsabit, alla sua creazione nel 1964, si estendeva nel Nord del Kenya dal Lago Turkana fin quasi alla Somalia, in quello che durante la colonia era il territorio (inaccessibile ai missionari) a Nord delle diocesi di Nyeri e del Meru e abitata dalle popolazioni Samburu, Turkana, Rendille, El Molo, Gabbra, Borana e Somali. Aveva una superficie di circa 100.000 km2 con una popolazione allora stimata a poco più di 170mila persone.

L’evangelizzazione del territorio ha avuto inizio nel 1952 ad opera dei missionari della Consolata con l’apertura della missione di Baragoi. Nel 1964 è stata creata la diocesi di Marsabit formata dall’omonimo distretto e da quello Samburu (ora i distretti si chiamano county, contea). Esistevano allora 12 parrocchie/missioni in tutto per una popolazione di 180mila persone e 615 cattolici (dati del 1969). Il primo vescovo è stato mons. Carlo Cavallera, trasferito da Nyeri. Nel 1981 gli è succeduto un altro missionario della Consolata, mons. Ambrogio Ravasi, tutt’ora vivente e ritirato nel santuario mariano di Marsabit.

Nel giugno 2001 la grande diocesi è stata divisa in due: il distretto di Marsabit (78mila km2, 175mila abitanti, 20mila cattolici e 10 parrocchie/missioni) è rimasto con il vescovo Ravasi ed è stata creata la diocesi di Maralal (21mila km2, 144mila abitanti, 24mila cattolici e 12 parrocchie/missioni) nel distretto Samburu con il nuovo vescovo mons. Virgilio Pante.

I dati più recenti delle due diocesi

(fonte Annuario pontificio 2017)

Marsabit: il vescovo Ravasi ha dato le dimissioni nel 2006 per raggiunti limiti di età e mons. Peter Kihara, missionario della Consolata keniano, nel novembre dello stesso anno è stato installato come nuovo vescovo, trasferito dalla diocesi di Murang’a. Ci sono 386mila abitanti, 45.579 cattolici, 13 missioni, 20 preti locali e 13 missionari. La diocesi è caratterizzata da una popolazione a maggioranza islamica.

Maralal: 255mila abitanti, 76.797 cattolici, 14 missioni, 19 preti diocesani e 13 missionari. Nativo della diocesi è il vice superiore generale dei missionari della Consolata, padre James Lengarin.

Situazione attuale

Dalla metà degli anni ‘90 sia il distretto del Marsabit che quello Samburu, soprattutto, sono diventate aree piuttosto pericolose a causa dell’acuirsi delle tradizionali razzie di bestiame tra i vari gruppi etnici. La presenza dei guerriglieri/predoni shifta nel Marsabit, quella dei predoni ngorokos nel Samburu e l’interesse di trafficanti di bestiame sia verso Nairobi che verso i paesi della penisola arabica, ha aggravato la situazione. Per questo il governo ha concesso ai capi dei villaggi di tenere armi leggere e, da quel momento, molta gente tiene un fucile nella capanna.

Nel 1996, durante la campagna elettorale nel Samburu, alcuni candidati al Parlamento hanno alimentato le rivalità tra le varie etnie, sfociate poi in gravi razzie e scontri a stento domati dall’esercito, svantaggiato sui locali che conoscono meglio il territorio. Ci sono stati decine di morti e molte persone sono state costrette a raccogliersi in grandi campi di rifugiati, soprattutto attorno a Baragoi, o a fuggire nella periferia di Maralal. La situazione ora sembra calma, anche se la presenza diffusa di armi leggere continua a favorire il banditismo.

In questi ultimi anni si è avuto anche un crescendo delle tensioni etniche tra Turkana e Samburu e anche con i Pokot, che vivono nella Rift Valley, ai confini Sud del Samburu. Queste tensioni hanno avuto anche gravi ripercussioni nel vicino Laikipia dove c’è la missione di Rumuruti. Tutto questo ha ovviamente aumentato la povertà e l’incertezza per il futuro.

Le due contee (Marsabit e Samburu), inoltre, hanno ampie zone desertiche e sono periodicamente colpite da gravi crisi di siccità. Anche ora sono già passate due stagioni delle piogge (ottobre-novembre e marzo-aprile) senza che sia piovuto a sufficienza e nella sola contea Samburu sono oltre 90mila le persone a grave rischio di fame.

È anche evidente il problema dei giovani, che costituiscono oltre il 50 per cento della popolazione. Finite le scuole elementari e medie (primaries), non sanno cosa fare. Le scuole secondarie sono concentrate nei centri principali (Maralal, Baragoi, Wamba) e quindi distanti dai villaggi dove gran parte della popolazione vive. Sono tutte residenziali e costose (trasporto, uniformi, libri, materiale didattico, effetti personali e tasse scolastiche richiedono dai 600 agli oltre 1.000 euro all’anno) e, quindi, per molti continuare gli studi è un miraggio. E finita la scuola è difficile trovare un lavoro nella regione.

Molti stanno vivendo anche un periodo di confusione a causa del pullulare di sètte religiose. I giovani, quindi, rappresentano la grande sfida della società keniana e di conseguenza delle parrocchie della diocesi, che spesso sono l’unico punto di riferimento della gioventù anche fuori dalla scuola.

(a cura della redazione)




Solalinde: Questo è il Regno di Dio

Testo di Luca Lorusso |


Le relazioni (divine) che promuovono la vita invece della morte

Solalinde: Questo è il Regno di Dio

L’«antiregno» è semplice da descrivere: il sospetto su Dio, il male procurato agli
altri, la violazione del creato, l’autocondanna alla disperazione. Più complicato è dire cosa il Regno è e cosa suggerisce al mondo odierno complesso e segnato da violenza. Padre Alejandro Solalinde ci offre la sua sintesi usando la parola chiave relazione e partendo dalla sua fede ed esperienza di lotta accanto ai poveri.

«La condizione perché Dio regni su di noi è che nessuno regni sull’altro», scrive padre Alejandro Solalinde. E il motivo per scegliere di far regnare Dio su di noi è che il suo è un Regno di gratuità, pace, giustizia, perdono, accoglienza. È un Regno d’amore al centro del quale c’è la promozione delle relazioni che danno vita: la relazione fondativa tra Dio e l’uomo, quella tra l’uomo e gli altri uomini e quella tra l’uomo e il resto del creato.

Padre Alejando è un prete sorridente ed energico di 74 anni. È noto per essere un sacerdote messicano in prima linea nell’emergenza umanitaria che riguarda i migranti sudamericani diretti negli Usa e transitanti sul suolo del suo paese. Avere a che fare con i migranti non significa solo contrastare i discorsi d’odio di Trump ma, molto più concretamente, fronteggiare le organizzazioni criminali che con i migranti fanno affari d’oro.

Per il suo impegno, padre Alejandro è, allo stesso tempo, candidato al Nobel per la pace e «ricercato» dai narcos con una cospicua taglia sulla sua testa. Nonostante questo, appare un uomo sereno, umile e mite. A chi glielo fa notare risponde: «Io sono un uomo di fede. Gesù continua ad ispirarmi. Mi sento molto orgoglioso di essere battezzato, di essere una persona consacrata, missionaria, itinerante del Regno di Dio. Io non sono solo»1, e ribadisce la stessa idea nel suo libro, come un caposaldo della sua speranza: «Nessuno può sentirsi solo con un’amicizia come quella di Gesù».

Libro sorprendente e coraggioso

Padre Alejandro Solalinde ci offre un libro sorprendente. Sorprendente perché insiste su Dio e sul suo sogno d’amore per l’umanità e il creato, mentre da un uomo «di lotta» come lui ci si potrebbe aspettare un testo tutto concentrato sulla denuncia dura e pura (come ce ne sono molti) nei confronti delle potenti strutture di peccato che generano le sofferenze delle quali si occupa. Non manca la denuncia, e padre Solalinde le dedica un intero capitolo, il terzo, intitolato «L’antiregno». Ma non è il centro del suo pensiero. È forse il movente, ma non l’orizzonte del suo scritto.

Padre Solalinde ci offre un libro sorprendente e anche coraggioso. Coraggioso perché indica il Regno di Dio come suo centro d’interesse principale, e la prassi «fallimentare» del Gesù crocifisso come strada da seguire per realizzarlo. Superare l’antiregno in direzione del Regno di Dio si può solo attraverso relazioni improntate al dono totale di sé, alla misericordia, all’accoglienza di tutti. Anche all’accoglienza dei violenti e dei potenti, di quell’1% che domina il mondo, perché mai nessuno è escluso dal desiderio di Dio di averlo dalla sua parte: «Ai giorni nostri sono invitati alla tavola di Gesù anche quell’1% di magnati che si accaparrano le ricchezze del mondo […]. Da soli non potranno arrivare allo spazio della fede in Dio, Padre di tutti e tutte. Bisogna avvicinarli, amarli, metterli in discussione, invitarli! […] Anche un “tossico” del denaro e del potere è salvabile!».

L’idea giusta di Dio

«Siamo nati nel sistema capitalista, una condizione che impone il denaro come valore supremo; solo dopo viene Dio e infine la gente. Il Dio della vita è stato espulso dall’economia e rinchiuso nei templi. Ogni giorno aumentano i poveri e cresce la diseguaglianza. Quel che è peggio è che stiamo accogliendo tutto questo come normale. E non manca chi attribuisce a Dio queste ingiustizie, assicurando che questa è la sua volontà. […] In tale voragine di idee, le cupole del potere economico impongono come verità indiscutibili la loro versione di ciò che noi “dobbiamo” vedere e credere».

Nel solco della letteratura profetica, padre Solalinde si preoccupa di ristabilire la giusta immagine di Dio, quella di cui l’uomo può nutrirsi per trovare la salvezza. Il suo Dio non è quello usato da alcuni per giustificare le ingiustizie, ma quello che offre tutto se stesso per il bene dell’umanità. Se al centro ci fosse Dio con il suo Regno, l’uomo vivrebbe nella pienezza. «La crisi del mondo attuale, e in particolar modo del mio Messico, è in fondo una crisi di relazioni interpersonali: tra persone fisiche e persone giuridiche, tra persone umane e persone divine. […] Qual è il riferimento affidabile che ci permetterà di uscire da questa crisi generalizzata? A partire dalla fede cristiana che professo, io propongo il Regno di Dio […]. Non per niente questo è il tema centrale dell’insegnamento del giovane Maestro di Nazareth. Nei Vangeli troviamo più di novanta occorrenze di “Regno di Dio” o “Regno dei cieli”. […] Gesù non predica se stesso, parla della sovranità di Dio». Gesù realizzò nella sua persona la sovranità di Dio inaugurando l’esperienza più inclusiva e aperta che sia esistita nella storia dell’umanità. «Bisogna credere nel Regno e allo stesso tempo esserne operatori efficaci, affinché sia davvero l’amore divino a governare […], a partire dalla lettura dei segni dei tempi e dall’accompagnamento pastorale degli ultimi, degli esclusi».

Una vita radicalmente cambiata

Il Regno di Dio non è un’utopia. È una realtà già vivente e operante che cresce con la crescita della sua conoscenza da parte dell’uomo. Una realtà bella anche perché si prende carico della condizione contraddittoria e fragile dell’uomo. Sono belle le parole del sacerdote messicano sul «rilievo umano», cioè sulla storia particolare, personale di ciascun operatore del Regno: «Chiamo “rilievo umano” la storia di ogni persona […]. Nessuno può cancellare il passato! E neppure può ignorarlo […]. Quello che invece possiamo fare è assumerlo, impararne la lezione, leggerlo entro una nuova narrazione positiva, accettarlo. […] Il Dio rivelato da Gesù Cristo si carica del nostro passato e lo redime, invitandoci a un presente equilibrato e a scrivere una nuova storia personale d’amore. […] Gesù ci accetta come siamo, incondizionatamente, [anche] se siamo stati assassini o carnefici […]. Dio chiama tutti alla santità, ma lo farà sempre a partire dal “rilievo” di ciascuno». La via della realizzazione del Regno è la storia individuale di ognuno, nel momento in cui si mette in relazione vitale con Dio Trinità, con gli altri e con il creato. Come la storia di ogni singolo è segnata dalle storie degli altri e del mondo, anche la storia degli altri e del mondo è segnata dalla storia di quel singolo.

Questo, per Solalinde, è il Regno di Dio: una vita donata, una vita radicalmente cambiata in Gesù.

Luca Lorusso

Note:

1- Paolo Moiola, Un salto nel buio, MC, ottobre 2017, p. 51.

Messico, migranti: Un salto nel buio