Somaliland. L’accordo della discordia


Il Paese cerca il riconoscimento internazionale, mentre l’Etiopia cerca il mare. I due annunciano di aver siglato un accordo. Ma la Somalia non ci sta e rivendica la sua sovranità su un territorio autonomo – di fatto – dal 1991. I grandi della terra si schierano per l’integrità territoriale somala, che in realtà non esiste.

Non c’è. Sulle cartine geografiche non si trova. Ufficialmente non ha una capitale, né confini. Non fa parte di grandi organizzazioni internazionali. Non ha rapporti (ufficiali) con altri Paesi. Il Somaliland è una nazione fantasma. Eppure esiste. Ha un presidente, un parlamento e istituzioni democratiche. Ha una posizione strategicamente rilevante all’imbocco del Mar Rosso e una propria economia, anche se molto povera. Da 33 anni chiede un riconoscimento ufficiale ma, finora, nessun Paese al mondo gliel’ha mai accordato. Almeno finora, perché dal primo gennaio il Somaliland è entrato con prepotenza e astuzia nella politica africana e rischia di minare i già fragili equilibri della regione orientale del continente.

Una terra pacifica

Per comprendere meglio la tormentata vicenda del Somaliland bisogna fare un salto indietro nella storia e, in particolare, al 1960, anno che rappresenta una svolta per la Somalia. Un tempo divisa tra la colonia italiana, al Sud, e quella britannica (Somaliland), al Nord, al momento dell’indipendenza si forma un unico Paese, all’insegna di un nazionalismo che vuole superare le divisioni causate dal passato coloniale. La Somalia vive una breve primavera democratica per poi trasformarsi in una dittatura sotto il pugno di ferro del presidente Mohamed Siad Barre, un ex carabiniere, molto vicino ai governi di Roma.

Il suo regime è particolarmente repressivo e dura un ventennio ma, progressivamente, si indebolisce fino a crollare definitivamente nel 1991. Sgretolandosi, lascia un vuoto di potere che viene presto occupato dai signori della guerra e dalle loro milizie. Nelle regioni meridionali, un tempo ex colonia italiana, si scatena un conflitto civile i cui effetti si trascinano fino a oggi. Nel Nord del Paese quella che era l’ex colonia britannica prende le distanze dal Sud e dalle lotte fra le varie cabile (gruppi clanici, ndr).

Nel 1991, di fronte al collasso delle istituzioni di Mogadiscio (la capitale, nel Sud), il Somaliland dichiara la propria indipendenza, elegge Hargeisa come propria capitale e crea nuove istituzioni e un esercito. Per un trentennio rappresenta un modello di stabilità in una regione dominata dai conflitti (pensiamo alla guerra civile nella vicina Somalia, a quella tra Eritrea ed Etiopia, a quella in Tigray). In verità, qualche tensione la vive anche il Somaliland che lotta contro cellule di terrorismo islamista e contro il Puntland, la confinante regione somala, con la quale ha una disputa territoriale. Fondamentalmente, però, rimane un Paese pacifico.

Dal punto di vista economico intrattiene relazioni informali con l’Etiopia e ha stretti rapporti commerciali e industriali con Taiwan, altro Stato paria a livello mondiale. Le grandi organizzazioni internazionali e regionali e i principali attori della politica internazionale continuano a negare ad Hargeisa quel riconoscimento politico che ne sancirebbe l’indipendenza. La comunità internazionale, da sempre, ribadisce la volontà di mantenere l’unità territoriale somala e la stessa Somalia continua a rivendicare la propria sovranità sulla regione settentrionale.

Una nuova intesa

Lo stallo si rompe il primo gennaio 2024. Etiopia e Somaliland annunciano di aver siglato un’intesa che prevede un accesso facilitato della prima al porto di Berbera e la possibilità per le forze armate etiopi di costruire una base navale sul Golfo di Aden. L’accordo è stato cercato con determinazione soprattutto da Addis Abeba. Con l’indipendenza dell’Eritrea nel 1993, l’Etiopia si è trovata senza uno sbocco al mare. I porti di Massaua e di Assab che, fino ad allora, erano serviti per l’export delle merci attraverso il Mar Rosso, passarono sotto la sovranità di Asmara. La successiva guerra combattuta da Eritrea ed Etiopia alla fine degli anni Novanta ha precluso definitivamente le banchine degli scali eritrei alle aziende etiopi. Gli unici sbocchi al mare rimasti per Addis Abeba sono quelli di Port Sudan e di Gibuti che però sono lontani e male collegati, almeno fino a pochi anni fa, quando sono state costruite migliori tratte ferroviarie e stradali.

Per l’Etiopia la ricerca di uno sbocco al mare diventa una priorità assoluta. Il 19 ottobre, il premier Abiy Ahmed dichiara: «Un Paese di 150 milioni di abitanti non può essere tenuto in una prigione geografica. E come non è un tabù discutere del Nilo con Sudan ed Egitto non deve esserlo per il Mar Rosso e l’Oceano Indiano».

Successivamente, rincara la dose citando un famoso generale, Ras Alula, che nel XIX secolo aveva dichiarato che il Mar Rosso è il confine naturale dell’Etiopia e che Addis Abeba «vuole ottenere un porto con mezzi pacifici. Ma se ciò fallisce, useremo la forza».

L’opposizione internazionale

Da qui le trattative a 360 gradi e la disponibilità del Somaliland a siglare un accordo dietro la velata promessa di riconoscimento politico da parte etiope. L’intesa che ne è scaturita cozza però contro una serie di scogli diplomatici. Stati Uniti, Unione europea, Cina, Unione africana e Igad (Autorità intergovernativa per lo sviluppo, organizzazione dei paesi del Corno d’Africa, ndr) la condannano, fin dal primo momento. Tutti si proclamano a favore dell’integrità della Somalia che, da sempre, rivendica la propria sovranità sulla regione settentrionale.

Molly Phee, sottosegretario di Stato per gli Affari africani degli Stati Uniti, dichiara, secondo quanto riporta il sito Shabelle media, che la violazione della sovranità della Somalia da parte dell’Etiopia potrebbe essere «un ostacolo alla guerra contro al-Shabaab (milizia jihadista legata ad al Qaeda che da anni opera in Somalia, ndr)». E aggiunge: «Siamo preoccupati che l’accordo Somaliland-Etiopia possa ostacolare la nostra lotta comune che, negli ultimi anni, ha visto anche Addis Abeba in prima linea». Il governo Usa inoltre afferma di sostenere i colloqui tra il governo federale di Mogadiscio e quello di Hargeisa sul futuro del Paese all’insegna dell’unità.

Anche la Cina si dice preoccupata per l’intesa. Pechino è interessata alla stabilità della regione orientale dell’Africa (strategica per le rotte commerciali Europa-Asia), ma anche alla situazione interna. Un eventuale riconoscimento del Somaliland rischierebbe di diventare un precedente che Taiwan potrebbe far valere nei confronti della Cina continentale. «La Cina – dichiara Mao Ning, portavoce del ministro degli Esteri di Pechino – sostiene il governo federale della Somalia nella salvaguardia dell’unità nazionale, della sovranità e dell’integrità territoriale. Ci auguriamo che i Paesi dell’area gestiscano bene il dossier attraverso il dialogo diplomatico e raggiungano uno sviluppo comune attraverso una cooperazione amichevole».

Equilibri regionali a rischio

L’intesa non può non avere ricadute anche sugli assetti regionali. Il primo a schierarsi contro l’accordo è l’Egitto. Il Cairo, insieme a Khartoum (Sudan), ha un annoso contenzioso con Addis Abeba sul dossier della Grande diga del millennio sul Nilo Azzurro, in territorio etiope. I due Paesi a valle temono che questa struttura riduca i flussi di acqua del Nilo mettendo in crisi le rispettive economie. Il Cairo cerca quindi in qualsiasi modo di contenere le manovre di Addis Abeba per poter avere più carte da giocare sul piano negoziale. Il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi si schiera subito a fianco di Mogadiscio e dichiara che l’intesa è «una violazione della sovranità somala». Ancora più duro il ministro degli Affari esteri egiziano, Sameh Shoukry che, in un intervento tenuto alla Lega Araba, definisce l’accordo «un atto di aggressione» e ammonisce Addis Abeba dall’avventurarsi in «politiche unilaterali». Per gli Emirati arabi uniti, l’avventurismo di Abiy è un’opportunità e un rischio: l’Etiopia potrebbe diventare una potenza del Mar Rosso e un alleato degli Emirati, ma nuove tensioni nel Corno potrebbero mettere a repentaglio l’influenza di Abu Dhabi nella regione. L’Arabia Saudita è invece turbata dal modo in cui si sta comportando l’Etiopia. Se Abiy dovesse esagerare, Riad potrebbe superare la sua diffidenza nei confronti dell’Eritrea e sostenerla.

La Somalia, colpita direttamente dall’intesa, ritira il proprio ambasciatore da Addis Abeba. Il presidente Hassan Sheikh Mohamud dichiara nullo l’accordo tra Etiopia e Somaliland. Il premier Hamza Abdi Barre alza i toni e avverte: «L’Etiopia non può interferire nelle terre somale. Se tentassero un simile intervento, si ritirerebbero portando con sé i loro morti».

Le tensioni toccano, però, lo stesso Somaliland. Il 13 febbraio, le due camere del Parlamento diffondono una nota congiunta nella quale rifiutano l’accordo del governo con l’Etiopia. I membri del parlamento dichiarano «illegale» e «dannoso» l’accordo per l’unità del popolo del Somaliland. «Abbiamo rifiutato l’accordo e la sua attuazione e chiediamo al governo di fermare e ritirare il memorandum d’intesa», si legge nella nota. La firma dell’accordo ha infatti rivitalizzato le tensioni interne, in particolare quelle con l’Awdal, provincia che da tempo lotta per la riunificazione con lo Stato somalo. In allerta anche le milizie claniche nella regione che minacciano una resistenza armata contro il presidente Muse Bihi se il memorandum d’intesa dovesse procedere. E anche lo Stato fantasma potrebbe sprofondare nell’instabilità.

Enrico Casale

Somaliland, Hargeisa.




Corno d’Africa:

Cosa cambia sotto il sole eritreo

Con la firma del 16 settembre a Gedda, l’Eritrea sembra aver perso il suo
maggior nemico: l’Etiopia. Sono passati due anni di guerra e 18 di guerra
fredda. Il piccolo paese che si affaccia sul Mar Rosso si è sigillato nei suoi
confini diventando la peggiore dittatura d’Africa. Cosa cambierà per i suoi
abitanti? Ci saranno aperture? Intanto sembra si sia innescato un effetto
domino che potrebbe portare a un cammino verso la pace in tutta l’area.

«Se vogliamo che tutto rimanga com’è bisogna
che tutto cambi». Sostituite il principe Tancredi a Isaias Afewerki, Salina ad
Asmara e il gioco è fatto. Nulla meglio del celebre romanzo «Il gattopardo» di
Giuseppe Tomasi di Lampedusa riesce a spiegare l’attuale situazione
dell’Eritrea. La pace con l’Etiopia sembra aver portato un grande cambiamento
nel piccolo paese affacciato sul Mar Rosso ma, al momento, poco è davvero
mutato rispetto al passato. Il regime è ancora lì, intatto. La sua presa sulla
politica e sulla società è ancora fortissima. La Costituzione non è stata
emanata. Non esiste un sistema giudiziario indipendente. I più elementari
diritti umani e civili non sono tutelati. Le forze armate non sono state
smobilitate. Pochi detenuti politici sono stati liberati. Certo, l’intesa con
Addis Abeba ha portato a un miglioramento delle condizioni di vita, perché nel
paese sono arrivate più merci.

Robertharding / Michael Runkel

Economia in ripresa

La proposta
di pace avanzata il 6 giugno dal premier etiope Abiy Ahmed al presidente
eritreo Isaias Afewerki ha spiazzato l’Eritrea. Negli ultimi vent’anni lo stato
di non belligeranza con Addis Abeba, seguito al conflitto del 1998-2000 tra i
due Paesi, era servito al regime di Asmara per giustificare il suo potere.
Invocando la «minaccia etiope», Afewerki ha imposto un regime di rigida
autarchia economica accompagnata da una forte stretta politica.

Con la pace
firmata il 9 luglio e poi ratificata il 16 settembre a Gedda (Arabia Saudita),
l’Eritrea ha perso il suo principale nemico e, con esso, ogni pretesto per non
introdurre garanzie democratiche. In realtà, nel paese poco è cambiato. Le
piccole trasformazioni sono avvenute soprattutto in campo economico. «Con
l’apertura delle frontiere con l’Etiopia, prevista dagli accordi di pace –
osserva Erminia Dell’Oro, scrittrice italo-eritrea -, i prezzi dei generi
alimentari e di prima necessità sono fortemente calati. Il teff, cereale base
della cucina eritrea ed etiope, fino a pochi mesi fa costava moltissimo e la
gente soffriva la fame, perché doveva pagare cifre elevate. Oggi il costo è
calato, nei mercati ce n’è maggiore disponibilità grazie alle importazioni
dall’Etiopia. Da anni, la mia famiglia voleva rifare la facciata della casa, ma
aveva soprasseduto perché il cemento e gli intonaci costavano troppo. Adesso i
prezzi sono calati e stiamo progettando di mettere in campo i lavori».

La povertà
però è diffusa. «Servirebbero politiche che favoriscano la
reindustrializzazione del paese – spiega una giovane asmarina che vuole
mantenere l’anonimato -. Il paese deve recuperare la sua vocazione commerciale.
Pensiamo solo all’importanza dei nostri porti, in particolare Massaua e Assab.
Se ben sfruttati possono diventare lo sbocco al mare per tutto il Corno
d’Africa. L’Eritrea deve però investire per ricostruire quel tessuto
industriale e artigianale un tempo così fiorente (cotonifici, birrifici,
aziende artigiane, ecc.). Solo questo ci può garantire un flusso costante di
entrate e maggiore occupazione».

Attualmente
in Eritrea non c’è lavoro. La povertà è palpabile. «Girando per le strade si
vedono mendicanti che chiedono l’elemosina – continua la scrittrice -. Un
tempo, una cosa simile era impensabile. Molti giovani sono fuggiti e le
famiglie sono composte dai nonni che, tra mille difficoltà, crescono i nipoti».

La povertà
è evidente, anche se si guardano i palazzi e le strade di Asmara. «La nostra
capitale – conclude la ragazza asmarina – è come una donna che da giovane era
bellissima ma è invecchiata male e oggi è piena di rughe. Le strade sono
dissestate e piene di buche. Gli edifici, un tempo splendidi, frutto dei
progetti dei migliori architetti italiani, dimostrano i segni degli anni.
Vent’anni di stato di guerra hanno lasciato segni profondi. Ma sono convinta
che, appena ci saranno le condizioni, Asmara tornerà al suo antico splendore».

John Thys / AFP

Stallo politico

La politica
però rimane un tabù. Nelle strade, nei luoghi pubblici, nelle scuole non si
parla del presidente, del governo, del partito di maggioranza. C’è paura.
L’apparato repressivo, che fa leva su una capillare rete di informatori, non è
stato smantellato. «Nel paese non c’è dibattito – continua Erminia -. Tra la
gente comune c’è una grande ammirazione per il premier etiope Abiy Ahmed. Un
primo ministro giovane, dinamico, che ha saputo superare una crisi politica
lunga vent’anni. Di Isaias Afewerki si parla poco o nulla. C’è la speranza che
sappia guidare una trasformazione del paese. Anche se molti ne dubitano».

I problemi
degli ultimi vent’anni sono ancora tutti sul tavolo. La Costituzione
democratica, redatta alla fine degli anni Novanta, non è mai entrata in vigore.
Quindi non c’è una Carta che garantisca i più elementari diritti civili. Nel
paese non si tengono regolari elezioni, non c’è un parlamento e sistema
giudiziario indipendente. Alcuni oppositori sono stati rilasciati, ma la
maggior parte sono ancora in una delle 350 prigioni del paese. «Quello di
Asmara – sottolinea Mussie Zerai, sacerdote dell’eparchia di Asmara – è uno dei
regimi politici più duri del mondo, una dittatura che ha soppresso ogni forma
di libertà, annullato la Costituzione del 1997, soppresso di fatto la
magistratura, militarizzato l’intera popolazione per quasi tutta la vita. Una
dittatura che ha creato uno stato prigione. Anche di recente sono stati
arrestati oppositori, sono state chiuse scuole cattoliche e islamiche, sono
stati sbarrati otto centri medici e ospedali cattolici, mentre il patriarca
della chiesa ortodossa Abune Antonios, fermato nel 2004, si trova ancora agli
arresti dopo ben 14 anni».

Maheder HaileselassieTadese / AFP

Negli anni,
il regime ha arruolato migliaia di ragazzi e li ha schierati alla frontiera con
l’Etiopia. Questi militari di leva, per i quali non era e non è prevista una
data certa di congedo, non sono ancora stati smobilitati. «La pace – spiega un
altro religioso che vuole mantenere l’anonimato – non ha portato a uno
snellimento delle forze armate. Nonostante la minaccia etiope sia venuta meno,
i reparti sono ancora a pieno organico. Nessun giovane è tornato a casa. La
gente inizia a chiedersi perché. Che senso ha tenere una struttura così grande
e costosa?».

E le
persone continuano a fuggire. Se in passato si scappava di nascosto, attraversando
la frontiera di notte per non farsi bloccare dalle guardie di confine, oggi lo
si fa alla luce del sole. Grazie all’apertura della rotta aerea Asmara-Addis
Abeba, molti eritrei si recano in Etiopia e da lì verso altri paesi africani o
verso l’Europa. «L’Eritrea – ci dice Tekle Haile, eritreo, storico oppositore
del regime, da anni in esilio in Italia – ha siglato un trattato di pace di cui
non si conoscono i contenuti. L’opposizione, oggi frazionata, ma che nei
prossimi mesi darà vita a un unico soggetto, teme che il nostro paese sia stato
svenduto all’Etiopia. Che ne sarà dei nostri porti? Delle nostre strade? Dei
nostri ponti? Della nostra economia? Non vorremmo che, dopo trent’anni di
guerra di indipendenza, un altro conflitto durato tre anni seguito da vent’anni
di dura non belligeranza, ora l’Eritrea torni a essere una sorta di provincia
di Addis Abeba. Questa incertezza economica e questo regime così oppressivo
fanno paura e la gente continua a fuggire».

Enrico Casale

Eduardo Soteras / AFP

Chi è l’artefice del cammino di pace

Abiy Ahmed: come ti rivolto il Corno

La pace tra Eritrea ed Etiopia ha un
protagonista: è il premier etiope Abiy Ahmed. È stato lui l’artefice dell’apertura
nei confronti di Asmara. Ma questo è solo uno dei tasselli della politica di
riforma con la quale sta trasformando nel profondo il suo paese.

Multietnico

Abiy Ahmed, 42 anni, cristiano riformato, ma figlio di un papà
musulmano e una mamma cristiana ortodossa, è un oromo, appartiene cioè
all’etnia maggioritaria, sebbene sempre discriminata. Arrivato al potere,
nell’aprile 2018 ha avviato una serie di grandi cambiamenti. Oltre ad
annunciare, fin dal suo primo discorso tenuto il 2 aprile, la necessità di un
dialogo con l’Eritrea, ha promosso una riconciliazione nazionale, ordinando il
rilascio di migliaia di prigionieri politici e legalizzando i gruppi di
opposizione, a lungo definiti «organizzazioni terroristiche». In campo
economico ha promesso di rilanciare l’economia etiope (che viaggia già a
percentuali di crescita intorno all’8-9%) scommettendo sul sistema produttivo e
privatizzando alcune imprese statali. Anche la pace con l’Eritrea potrà avere
profondi risvolti in campo economico: l’Etiopia potrà infatti sfruttare i porti
di Massaua e di Assab, più vicini e meglio collegati di quelli di Gibuti e Port
Sudan.

Pace nel Corno d’Africa

Proprio la pace con l’Eritrea ha creato una sorta di effetto
domino che, dopo anni di forti tensioni, sta riportando stabilità in tutto il
Corno d’Africa. Dopo l’intesa fra Asmara e Addis Abeba, il premier Abiy Ahmed e
il presidente Isaias Afewerki hanno infatti aperto un tavolo di trattativa con
il presidente somalo Mohamed Abullahi Mohamed «Farmajo». Da questo tavolo, il 6
settembre è nato il Joint
high level committee
, una commissione
formata dai tre governi che mira al rafforzamento dei loro legami politici,
economici, sociali e culturali, oltre che garantire il perseguimento e il
mantenimento della pace e della sicurezza in tutta l’Africa orientale. Un passo
avanti importantissimo se si tiene conto che la Somalia è stata per anni un
teatro in cui Eritrea ed Etiopia si sono scontrati per interposta persona. Non è
un caso che, nel 2009, l’Onu ha imposto ad Asmara l’embargo sull’importazione
delle armi per il sospettato supporto eritreo ai militanti islamisti somali di
Al Shabaab (milizia da sempre feroce avversaria dell’Etiopia).

La creazione di questa commissione ha rappresentato la base per
porre un altro tassello della stabilità regionale: la pace tra Eritrea e
Gibuti. Le tensioni tra i due paesi risalgono al 1996, quando l’ex Somalia
francese ha accusato Asmara di un attacco presso il villaggio di Ras Doumeirah.
L’episodio non si è trasformato in guerra aperta, ma le tensioni si sono
trascinate fino al 2010 quando, grazie alla mediazione del Qatar, le due
nazioni sono arrivate a un accordo sulle dispute territoriali. Nel 2017 le
tensioni sono tornate ad accendersi quando Gibuti si è apertamente schierata a
favore della coalizione saudita contro il Qatar, mentre l’Eritrea ha continuato
a professarsi amica di Doha. Proprio grazie alla mediazione di Etiopia e
Somalia, la frattura è stata ricomposta e a metà settembre i presidenti eritreo
Isaias Afewerki e gibutino Ismail Omar Guelleh hanno siglato un’intesa di
collaborazione.

Diffidenze

È ormai chiaro che le aperture di Abiy Ahmed hanno dato il via a
un processo di distensione che va oltre la stessa Etiopia e investe l’intera
regione. Una regione, il Corno d’Africa, che negli ultimi 25 anni ha conosciuto
guerre civili lunghissime (Somalia) e tensioni tra stati (Gibuti, Eritrea ed
Etiopia) che hanno frenato la crescita economica e sociale.

Non tutti però apprezzano la politica di apertura del premier di Addis Abeba. La diffidenza arriva dall’etnia tigrina (che in Etiopia rappresenta solo il 7% della popolazione) che ha gestito il potere dall’inizio degli anni Novanta, ma anche dagli apparati di sicurezza e da alcune frange delle forze armate. Riuscirà Abiy Ahmed a superare queste resistenze? La popolazione è dalla sua parte. E anche la comunità internazionale, se è vero che il Wall Street Journal lo ha definito «la più grande speranza per il futuro democratico dell’Etiopia».

En.Cas.

Foto di Claudia Caramanti