Gli indigeni (e l’industria del carbone) della Guajira colombiana


Testi e foto di Eloisa d’Orsi


In questo dossier vi raccontiamo una storia di incubi (il carbone e le sue conseguenze) e di magie (l’inventiva che alimenta l’arte di sopravvivere delle persone).

Incubi e?magie

CARBONE di?COLOMBIA

  • Le risorse minerarie colombiane sono di circa 17 miliardi di tonnellate. Suddivise tra il dipartimento del Cesar, la Guajira, Boyacá e Antioquia.
  • La Colombia è il principale paese produttore di carbone in America Latina. A livello globale è il decimo per la produzione, il quinto per l’esportazione.
  • Per l’economia colombiana, il carbone si è consolidato come secondo prodotto di esportazione dopo il petrolio grezzo.Il terzo è il caffè.
  • La produzione nazionale è cresciuta in modo significativo nel corso degli ultimi venti anni, alimentata soprattutto dalla realizzazione di grandi progetti destinati all’esportazione da parte di investitori stranieri come Drummond, Exxon, Bhp Billiton, Glencore International, Amcoal e Rio Tinto.
  • Le principali destinazioni del carbone colombiano sono l’Europa e gli Stati Uniti.

L’incubo:
L’impossibile convivenza tra miniere e popolazioni indigene

La scelta tra il carbone e la vita

Come in tutta l’America Latina le attività estrattive producono effetti devastanti sulle popolazioni indigene e sull’ambiente. E oltretutto sono fonte di profitti soltanto per una ristretta oligarchia nazionale e internazionale. Il caso del carbone nella Guajira colombiana.

La Guajira, uno dei trentadue dipartimenti colombiani, è un deserto di sabbia, vento e cactus, all’estremo Nord Est del paese. Con le sue 3mila ore di sole all’anno e i suoi venti costanti del Nord, gli Alisei, è più nota per le sue spiagge selvagge e per le tartarughe marine che per il suo potenziale minerario ed energetico. Eppure il valore delle sue esportazioni di combustibili fossili indica un ambito economico degno di grande interesse. Ben più grande di quello dei turisti nei confronti delle borse colorate tessute a mano dalle belle donne indigene della regione. Donne native come è nativo il 98% degli abitanti della zona, di cui 270mila appartengono all’etnia wayuu, uno dei gruppi della famiglia indo-americana, il maggiore di tutto il paese.

 

Vivere da Wayuu 

I Wayuu, presenti nella Guajira da più di 10mila anni e plasmati dai suoi elementi naturali, il vento, la luna, il tempo, la calma, tanto da farli confluire nei loro racconti cosmogonici, sono da sempre un popolo resistente che, nonostante gli svariati tentativi violenti di colonizzazione, ha mantenuto le proprie tradizioni e la propria lingua, il Wayuunaiki. Sparsi in piccoli villaggi dislocati su un territorio di 15mila km2 di superficie sabbiosa con una vegetazione rada, hanno fin qui vissuto di pastorizia e pesca che garantivano loro una precaria sussistenza.

Grazie a tecniche tramandate dalla loro cultura ancestrale, come lo scavo di «jagüeyes» (pozzi per accumulare le piogge), la canalizzazione dell’acqua dei fiumi per irrigare i terreni, la costruzione di case «antisismiche» con tetti di corteccia di cactus e pareti di fango e bambù, i Wayuu conquistarono palmo a palmo questa zona semidesertica, dimostrando la possibilità di sopravvivere a contatto con una natura difficile, con risorse scarse, tramite la gestione responsabile delle stesse.

El Cerrejón: la miniera, la città, il treno

L’industria mineraria colombiana cominciò a crescere a partire dagli anni ’70, quando iniziò lo sfruttamento delle riserve di gas e di carbone del sottosuolo, tra le più grandi dell’America Latina.

Nel 1976 il governo, sotto la presidenza di Alfonso Lopez Michelsen, firmò un accordo storico con la società transnazionale Intercor (oggi ExxonMobil) per sviluppare una delle più importanti operazioni minerarie di tutto il paese, quella della montagna El Cerrejón, nel Sud del dipartimento de La Guajira.

Nel 2002, il governo cedette le proprie quote alle multinazionali Bhp Billiton, Anglo American e Xstrata Glencore che – una volta costituitesi nel consorzio «Carbones del Cerrejón Limited» (www.cerrejon.com) – estesero la loro concessione di altri 25 anni. Un territorio di 69mila ettari i cui abitanti furono lasciati, di fatto, nelle mani di un colosso energetico transnazionale. Fino al 2034.

Dopo 40 anni di attività, la miniera del Cerrejón, controllata 24 ore al giorno da più di 800 guardie armate, è diventata una zona off limits. Un piccolo principato con i suoi 12mila dipendenti – tra lavoratori interni ed esterni (contractors) – che faticano senza tregua giorno e notte nei 42 hangar di mantenimento della miniera, caricatori dislocati in un’area di circa 8.400 metri quadrati. Un quartier generale di polvere nera e macchine pesanti di dimensioni abnormi con pneumatici di 4 metri di altezza e 100mila dollari di valore di mercato, che sembrano uscite da un film di fantascienza. Trattori, raschiatori, bulldozer, Caterpillar cingolati, autobotti per i liquidi, gru semoventi, scavatori, traforatrici, camion e autocarri a cassoni ribaltabili con capacità di 320 tonnellate. Ingombranti dinosauri di metallo che, con folli pulegge, pompe, rulli, pale, in questi anni di attività, hanno scavato montagne, inghiottito fiumi e sommerso interi villaggi di polvere. Tutto ciò per raggiungere la cifra di 33.700 tonnellate di carbone termico estratto ogni anno. Combustibile fossile che viene lavato quotidianamente con 17mila litri di acqua dolce e poi trasportato su una ferrovia per 150 chilometri fino a Puerto Bolivar. Qui viene stivato in navi con capacità fino a 180mila tonnellate che salpano verso Europa, America e Asia.

La costruzione della ferrovia, tagliando il territorio, ha sconvolto i rapporti tra i diversi clan della zona, mettendo in difficoltà la loro forma di organizzazione sociale e l’uso delle risorse agricole e animali locali.

È vero che grandi cartelli segnalano a caratteri cubitali il passaggio dei convogli ferroviari, ma, come dicono scherzando gli indigeni più anziani, «le capre non sanno leggere», e finiscono travolte dai vagoni, mentre le particelle nere di carbone si disperdono nell’aria, oscurando il paesaggio.

Polveri micidiali

«È solo polvere, annerisce, ma è innocua», ripetono come un mantra i responsabili del programma di miniera del Cerrejón durante una delle tante visite organizzate ad hoc per i giornalisti. Polvere nera e leggera come quella seminata dai camion che trasportano il carbone agli hangar, e che i venti Alisei del Nord disperdono nell’ambiente in una pioggia costante di particelle sospese. Particulate Matter, si chiamano, o Pm10, e sono responsabili di malattie respiratorie, problemi cardiovascolari e tumori polmonari: la silice cristallina, infatti, è un agente cancerogeno.

I responsabili di «Carbones del Cerrejón», interrogati a riguardo, minimizzano affermando di essere entro i limiti consentiti dalla legge colombiana e di avere un efficiente sistema di monitoraggio della qualità dell’aria, nonostante si oppongano a far realizzare test da società indipendenti e non al loro servizio. L’azienda cerca di mitigare la situazione usando grandi quantità di acqua, ma la misura risulta essere insufficiente. Per i lavoratori della miniera che fanno turni di 12 ore, come per le comunità circostanti, quella «polvere nera e innocua» è diventata la causa di gravi malattie. Una di esse è quella diagnosticata al piccolo Moisés Daniel Guette, figlio di Luz Angela Uriana Epiayu.

La casa di Luz Angela e dei suoi cinque figli

Luz Angela è una donna di 28 anni che, insieme ai suoi cinque figli e al suo compagno, due cani smilzi e poche capre, vive nella piccola comunità wayuu di Provincial, in una bella casa di mattoni di fango, a soli 1.500 metri dal «Tajo la Puente»: un buco nero di polvere largo due chilometri e profondo più di 100 metri, una delle zone di estrazione de El Cerrejon. Moisés, il suo piccolo di sei anni, ha gli occhi color mandorla e una storia di problemi respiratori. «Si stanca subito quando corre e ha bisogno di fermarsi perché non riesce a respirare», dice la madre che, con il solo sostegno del Colectivo de Abogados José Alvear Restrepo, sta conducendo una battaglia importante che nel 2015 ha portato il giudice di Barrancas a dare seguito a una denuncia contro il consorzio energetico. David, il figlio più grande, appena 11 anni, mostra le crepe profonde nelle pareti della sua capanna di argilla provocate dalle continue esplosioni che gli fanno fischiare le orecchie tre volte al giorno. «È il nostro terremoto 13,45, l’ora della prima esplosione della giornata», racconta con il suo lessico da adulto e gli occhi grandi da bambino: «Trema tutto, corriamo fuori per paura che ci cada il soffitto sulla testa e, una volta finito, torniamo a vedere quanti mattoni sono venuti giù». Gli anni passano e la casa non sopporterà ancora a lungo.

Si chiama «water grabbing», furto d’acqua

Luz Ángela non è l’unica a combattere il progetto del «Tajo la Puente»: ha dalla sua gran parte della comunità locale, insorta dopo aver scoperto che i lavori di apertura della nuova zona di estrazione avrebbero implicato la deviazione del corso d’acqua Arroyo Bruno. Secondo la compagnia, la deviazione dovrebbe proteggere l’alveo del torrente. Secondo i nativi, invece, mira solo a incrementare la produzione con lo sfruttamento dei 40 milioni di tonnellate di carbone che riposano appena sotto il letto del fiume. Il Bruno è uno dei 45 bellissimi torrenti che affluiscono nel fiume Ranchería. La compagnia aveva già cercato di deviarlo qualche anno fa provocando vive proteste.

Questo ennesimo progetto di deviazione di un corso d’acqua, come denuncia Jackeline Romero Epiayu, del collettivo Fuerza Wayuu, avrebbe gravi conseguenze perché, danneggiandone l’alveo e diminuendone il flusso, farebbe aumentare la siccità. Ad agosto la Corte costituzionale ha deciso di rinviare l’inizio del progetto in attesa che le cause in corso si risolvano. Ma il rinvio è una delle tante misure provvisorie che non mettono fine ai conflitti in un territorio semiarido in cui il consorzio minerario ha già prosciugato 17 fonti d’acqua e continua impunito a godere del 70% delle riserve idriche, aggravando le conseguenze del cambio climatico.

«Cerrejón Llc» utilizza 25 litri di acqua al secondo prelevandola dal fiume Ranchería, mentre gli abitanti della regione hanno diritto solo a 0,7 litri al giorno a persona.

Se i governi continueranno a investire in energie fossili, dirigeranno il mondo verso un futuro in cui la rivalità per risorse fondamentali come l’acqua diventerà sempre più disperata. Oscure profezie – come quelle lanciate da Greenpeace nel suo rapporto The Great Water Grab – che nella Guajira sono già divenute realtà, fornendo un esempio delle conseguenze negative della privatizzazione dei beni comuni. L’acqua, l’aria, la terra, sono proprio i beni per i quali i leader locali lottano, anche se minacciati dalle multinazionali. Secondo Global Witness, almeno 200 ambientalisti lo scorso anno sono stati uccisi in 24 paesi: il 60% in America Latina, nell’inerzia dei governi, spesso complici.

Sono la violenza, la corruzione e la politica a corto raggio i mali contro i quali i Wayuu quest’anno si sono ribellati occupando pacificamente i binari della ferrovia. La loro richiesta è che venga rispettata la loro autonomia politica e territoriale e che il governo intervenga per risolvere la crisi della malnutrizione della Guajira, problematica urgente che potrebbe annientare il loro popolo.

Tra malnutrizione e abbandoni

Fame, sete, siccità: parole che sembrano inappropriate nel 2017 in una regione che produce il 44,4 per cento delle esportazioni di carbone del paese. Eppure la malnutrizione peggiora, specie nell’Alta Guajira, dove la crisi offre scene surreali ai pochi visitatori della zona che – mentre percorrono in 4×4 le strade sterrate del territorio wayuu – vengono fermati a check point improvvisati con un filo di spago da bambini malnutriti e disidratati che chiedono da mangiare ottenendo qualche caramella.

Nel frattempo nella Media e Bassa Guajira, a causa della contaminazione delle acque, i nativi sono costretti ad abbandonare i villaggi, accettando – in cambio di misere compensazioni – di reinsediarsi in luoghi senza anima né fonti d’acqua, nei quali la cultura ancestrale viene annullata costringendo gli indios a trascorrere le giornate sotto il solleone aspettando invano la pioggia.

Aspettando la pioggia che non arriva

In wayuunaiki, pioggia si dice «juya», parola che può significare anche «anno», inteso come il tempo che intercorre tra una pioggia e l’altra. Ma come vengono calcolati gli anni se non piove più? Il significato originario della parola «wayuu» è «figli della pioggia», ma negli ultimi cinque anni le precipitazioni – anche a causa del fenomeno de El Niño – sono diminuite drasticamente. E quando piove, non sono precipitazioni normali, ma veri e propri cicloni che sferzano violentemente quelle lande desolate colpite da una siccità prolungata. Non riuscendo a penetrare in profondità, l’acqua inonda le coltivazioni dissestando il territorio.

I costi della svendita del territorio

Nei villaggi della Alta, dove il vento caldo soffia senza sosta tra i rami secchi e il sole incendia l’aria, donne avvolte in tessuti dai colori vivaci raccontano, con la calma di chi calcola il tempo in altro modo, le loro storie di desolante quotidianità. Storie d’impianti di potabilizzazione rotti, di mulini a vento in avaria, di cisterne che non arrivano mai, di sete, fame, disoccupazione, povertà, di mancanza di pozzi, corruzione, inquinamento delle acque, malattie respiratorie e della pelle. Nenie che nascono dalle conseguenze di un’operazione di gigantesca privatizzazione avallata da un governo miope che, in nome dello «sviluppo», ha avuto l’idea poco originale di sacrificare il territorio e i suoi abitanti, comportando enormi profitti per le corporation e scarsissimi benefici per il paese.

Infatti solo il 10% dei profitti viene utilizzato in Colombia, e l’1% in Guajira. Il «Cerrejón Llc», in 40 anni di saccheggio – o «concessione», a seconda del punto di vista -, oltre al genocidio culturale dei popoli in questione, ha causato effetti ambientali devastanti.

La strada da imboccare

Anticamente l’uomo era in grado di sopravvivere con quel poco che aveva. Le poche popolazioni indigene che sono ancora radicate sulle proprie terre sono lì, pronte a mostrarci come l’unico modo di adattarsi ai cambiamenti ambientali passi da una profonda comprensione del territorio. Motivo per cui l’Università delle Nazioni Unite nel 2016 ha deciso di convocare alcune popolazioni indigene per discutere di un loro possibile contributo alla indipendenza energetica, soprattutto attraverso le energie rinnovabili, provando finalmente a invertire il paradigma occidentale di successo, progresso e sviluppo.

Eloisa d’Orsi


La magia 1:

Le indigene wayuu e l’energia solare

Storie di donne che portano la luce

Colombia, India e un tocco d’Italia. A Nazareth – villaggio indigeno dell’Alta Guajira – un gruppo di donne di etnia wayuu è partita alla volta del «Barefoot College», in India, per imparare a produrre energia verde. Un progetto meritorio e di successo sostenuto da un’importante azienda italiana. Questa è la storia di una di loro.

La storia di Magalys Polanco, la nonna wayuu che a Nazareth dal buio creò la luce, come ogni storia che si rispetti in Colombia, ha qualcosa di quel «realismo magico» che rende la sua terra così fascinosa e imprevedibile. Tutto ebbe inizio nel 2013, quando Magalys Polanco, 65 anni e 3 figli, venne a sapere di quel tipo allampanato che si aggirava come un rabdomante per la provincia di Uríbia, in cerca di donne analfabete di una certa età che avessero il coraggio di lasciare per un certo tempo la Guajira per andare fino in India. «Ma perché mai gente di città si aggirerebbe per una regione sperduta come l’Alta Guajira in cerca di attempate madri di famiglia semianalfabete?», si chiedevano scettiche le comari indigene in coda per ricaricare il proprio cellulare all’ospedale di Nazareth, l’unico punto con energia elettrica del villaggio.

Magalys, al di là della sua terza media, è una donna curiosa e intelligente, e volle andare di persona a parlare con quell’uomo venuto da un altro mondo con promesse realmente luminose.

L’affidabilità è donna

«Perché cercate delle donne per andare fin laggiù?», gli chiese quando lo trovò. E l’uomo, di nome Rodrigo Paris, «messaggero» del Barefoot College, le raccontò che la fondazione di cui era emissario aveva scelto di coinvolgere nei suoi progetti di sviluppo sostenibile delle donne perché più ancorate al territorio di quanto non lo fossero gli uomini. Questi, infatti, di solito, una volta ottenuto il brevetto di ingegneri solari, abbandonavano il villaggio per andare in città a cercare di sfruttare economicamente la loro nuova professione. E concluse: «Si educas a un niño tendrás un hombre, si educas a una niña tendrás una aldea» (Se educhi un bambino avrai un uomo, se educhi una bambina avrai una comunità). Magalys lo ascoltò con attenzione e, pur non avvezza a concetti come quello dell’empowerment femminile, comprese che la posta in gioco non era solo imparare un mestiere, ma regalare a tutta la sua comunità energia elettrica. Si sentì chiamata in causa, ne discusse con la sua famiglia e decise di partire per recarsi al corso intensivo per ingegneri solari organizzato dal Barefoot College in Rajasthan, India.

Bunker Roy e il «collegio dei piedi scalzi»

Il Barefoot College, «collegio dei piedi scalzi», (www.barefootcollege.org) è una fondazione non profit con base a Tilonia, un villaggio del Rajastan. È un centro di lavoro sociale e di ricerca di cui esistono pochi esempi al mondo. Fu creato nel 1972 da Bunker Roy, un attivista della intellighenzia indiana. Dopo aver studiato nelle migliori università, seguendo i principi del Mahatma Gandhi secondo il quale lo spirito dell’India vive nei villaggi, invece di sfruttare i suoi studi per godersi una vita da benestante, decise di andare a vivere per un certo tempo in campagna, dove si scontrò con la violenta realtà dell’India rurale. Dopo aver toccato con mano le devastanti conseguenze della carestia del Bihar del 1960, Roy decise di regalare il suo sapere ai poveri e agli emarginati, i cosiddetti «intoccabili», che per lui erano persone degne di rispetto che andavano aiutate a mettere a frutto le proprie conoscenze. Convinto delle potenzialità della formazione come strumento di riscatto, diede il là a uno degli esperimenti sociali più interessanti dell’India contemporanea e, lavorando sulla formazione di poveri e analfabeti, riuscì a nobilitare mestieri antichi come quello delle levatrici o degli scavatori manuali di pozzi, e a responsabilizzare migliaia di persone che nessuno avrebbe mai impiegato, rivisitando dalle basi il concetto stesso di «professionalità» che – secondo Roy – è una combinazione di competenza, passione, e sicurezza per il proprio lavoro. Convinzione quella di Roy che negli anni gli fece ottenere svariati riconoscimenti come quello per l’«Imprenditorialità sociale Schwab» nel 2002, il «Premio Ashden» per l’energia sostenibile nel 2003, e nel 2005 il «Premio Skoll per l’Imprenditoria sociale», trasformandolo in una delle figure di spicco nella comunità indiana del mondo della cooperazione. La rivista Time lo ha nominato nel 2010 tra le 100 personalità più influenti del mondo.

Il Barefoot College ha formato più di 50mila bambini attraverso le scuole serali in villaggi remoti di sedici stati indiani per creare «professionisti a piedi nudi», insegnando loro a sfruttare le proprie risorse in maniera autonoma. Grazie al coinvolgimento di partner internazionali, è poi riuscito ad ampliare i suoi programmi verso regioni sperdute dell’America Latina, dell’Africa e del Medio Oriente. Il suo nuovo obiettivo ora è quello di formare più donne possibile per portare energia elettrica nei loro villaggi, rendendoli sostenibili e rafforzandone il tessuto sociale per incentivare i suoi abitanti a non fuggire verso le città.

A raccontarci tutto questo, con gli occhi pieni di rispetto e ammirazione, è proprio Rodrigo Paris, ambasciatore per l’America Latina del Barefoot College che, dopo aver trovato Magalys, è riuscito a convincere a partire alla volta di Tilonia altre donne coraggiose: Anastasia, Maria Luisa e Maria Milagros. Tutte loro, anche grazie alla partner-ship con l’italiana Enel Green Power (www.enelgreenpower.com), hanno portato elettricità a migliaia di persone di varie comunità sperdute.

Raccontare alla luce di casa Magalys

Ho scelto di andare a visitare la comunità di Magalys, all’estremo settentrionale della penisola, nella provincia di Nazareth, la più difficile da raggiungere. Per arrivarci servono diversi giorni di viaggio in cui non è mai chiaro quando si arriverà. Per la strada s’incontrano solo cactus, alberi morti e vecchi mulini arrugginiti che evocano una lontana presenza umana. Quando sono giunta con Rodrigo Paris, dopo vari incidenti di percorso come insabbiature e conseguenti salvataggi da parte di indios locali, la strada tortuosa che si arrampicava per la serra della Makuira era avvolta nell’oscurità più assoluta. Una volta giunti in cima, è apparsa fioca una luce che, oscillando, si è avvicinata sempre più fino a svelarci Magalys nel suo bel vestito bianco e nero. Dopo averci accolti sorridente nel suo rancho, la donna si è messa subito a preparare arepas con queso nella sua cucina illuminata da varie lampade a led alimentate dai pannelli solari.

«Vedi, anche solo questo momento che stiamo vivendo ora sarebbe stato impensabile qualche anno fa: passare la serata insieme chiacchierando, cucinando o tessendo. Ora i ragazzi possono studiare la sera, noi donne possiamo tessere e si può passare del tempo insieme senza doverci mettere a letto alle sette di sera per poi svegliarci alle tre del mattino. Ora sì che abbiamo capito perché in città la gente fa le ore piccole», scherzava con la sorella.

Magalys, come le altre indigene wayuu partite con lei per la grande avventura, parlava solo wayuunaiki e un poco di spagnolo. «Chi avrebbe mai potuto credere a una cosa simile? Proprio io in India. Africa», racconta, felicemente ignara delle sue lacune geografiche, commossa nella sua amaca tessuta a mano e oscillante al vento del Nord, tipico della regione. «Il viaggio è stato difficile all’inizio. Nessuna di noi capiva nulla di cosa dicessero. Pensavamo fosse hindi, poi abbiamo scoperto che era inglese». «Ripetevamo – continua la donna – cento volte le stesse parole: il nome dei componenti, delle valvole, trasmettitori, bottoni, lampade… era estenuante; pensavamo di non farcela. Le mie compagne volevano tornare a casa. Non eravamo neanche in grado di chiedere di non darci quel cibo così piccante, pensavamo davvero di aver fatto un lungo viaggio inutile. Ma a un certo punto ho capito quello strano abbinamento tra numeri e colori – ha sussultato Magalys emozionata dal ricordo -. Mi sono alzata dal mio banco e ho detto: “Teacher! Posso venire alla lavagna?”. E da allora ho cominciato ad aiutare le altre che avevano più difficoltà. E la lingua, anche con le signore che arrivavano da Zanzibar e dal Myanmar, ha smesso di essere un problema. Comunicando a gesti, siamo riuscite a fare amicizia scoprendo di avere molte cose in comune, e alla fine ci siamo anche divertite».

E così grazie a un’intuizione sagace, a vari incontri casuali, un pizzico di fortuna, molto coraggio e un metodo di apprendimento basico fatto di empatia, ascolto, gesti, ripetizioni e associazione di numeri e colori, dopo sei mesi di corso in India, le novelle ingegnere solari sono tornate in Colombia.

Le ingegnere (e i pannelli) al servizio delle comunità

Maria Luisa ha partecipato all’installazione di 35 pannelli solari a Bocas de Aracataca, nel dipartimento di Magdalena. E Magalys, già da un paio d’anni, monta valvole, gestisce e ripara i pannelli quando subiscono dei danni e ha anche imparato a ricaricare i telefoni, di modo che i membri della sua comunità non sono più costretti a fare chilometri a piedi sotto il sole per andare fino a Nazareth per la ricarica. E grazie alle conoscenze acquisite, e ai pannelli donati da Enel per il programma «Enabling Electricity», presentato al Forum del Settore privato nell’ambito dell’iniziativa «Global Compact» delle Nazioni Unite (www.unglobalcompact.org), non solo lei, ma buona parte della comunità, sta portando avanti un progetto più ampio di elettrificazione rurale in quindici comunità tramite il fotovoltaico, che mira a facilitare l’accesso all’elettricità in aree isolate come Nazareth, Wimpeshi o Uribia, rendendole comunità autosufficienti e sostenibili.

Grazie all’appoggio della Corinam International Corporation (corinam.org), le ingegnere solari infatti hanno dato vita all’«Associazione solare pedagogica» per implementare la formazione della comunità attraverso riunioni e workshop di contabilità di base, gestione del progetto, responsabilità, gestione dei conflitti. Le famiglie utilizzatrici del programma assicurano la sostenibilità del servizio e la remunerazione delle «mamme solari», tramite un contributo mensile il cui importo è stabilito collettivamente, e comunque inferiore a quello che le famiglie avrebbero speso per l’illuminazione tradizionale.

Si chiama cooperazione

Il Barefoot College gestisce il progetto, il governo indiano copre i costi del viaggio e la logistica, il settore privato mette i pannelli solari, le donne chiamate in causa mettono il loro impegno, il loro coraggio di essere catapultate in un altro mondo, e i loro mariti e gli uomini dei villaggi mettono lo sforzo che comporta accettare un ruolo nuovo della donna all’interno della loro comunità. Una circostanza, questa, che in certe società come quella wayuu (fondata sul matriarcato) ha già delle basi culturali, ma in moltissimi altri casi, specialmente in paesi del Sud, è molto facile che possa creare conflitti interni. Quello innescato dal Barefoot College è un meccanismo virtuoso di cooperazione internazionale sulle questioni relative all’energia solare che dal 2008, quando il governo dell’India ha deciso di includerlo nei suoi programmi di cooperazione internazionale, è riuscito ad addestrare 1.100 donne provenienti da 64 paesi. In Colombia, grazie a 350 impianti solari installati nella regione, è arrivato a coinvolgere 15 comunità, 1.050 famiglie e circa 3.500 beneficiari. Grazie anche all’iniziativa di Enel Green Power, dal 2012 a oggi, ha garantito l’accesso all’elettricità in 41 comunità di nove paesi dell’America Latina portando benefici a 19mila persone scommettendo non solo a favore della sostenibilità ma anche della parità di genere, favorendo l’empowerment femminile.

La sfida raccolta da queste donne indigene colombiane, grazie a questo esperimento di sapere collettivo, sta tessendo legami nella comunità e distribuendo a raggiera le conoscenze acquisite, migliorando la vita quotidiana dei beneficiari, e continuando a creare opportunità permettendo a queste donne, madri, nonne indigene di reinventare il proprio futuro e di rendendolo davvero «luminoso».

Eloisa D’Orsi


La?magia?2:

i Wayuu e la trasformazione dell’acqua

Salata, dolce, scarsa (ma sempre preziosa)

Secondo dati ufficiali sono 5mila i bambini indigeni morti negli ultimi sei anni per denutrizione e mancanza d’acqua potabile nella Guajira. Vi raccontiamo la storia di Juan Carlos Borrero Plaza, ingegnere che, per aiutare le popolazioni della regione, ha inventato un sistema per desalinizzare l’acqua.

La penisola della Guajira è una terra semiarida e, per gli indigeni che la abitano, l’acqua è sempre stata un elemento chiave. Amata, rispettata, invocata, difesa, temuta, scarseggiante e maledetta, ma pur sempre wuin (acqua). I Wayuu vivono da secoli questa contraddizione: attorniati da ogni lato dall’acqua salata dell’Oceano, hanno sempre visto scarseggiare quella dolce. Ma se prima – da nomadi e abili rabdomanti quali sono sempre stati – spostandosi alla sua ricerca, padroneggiavano quelle lande desolate, ora che si ritrovano confinati in un territorio sempre più frammentato e compromesso dall’industria mineraria, stanno letteralmente morendo di sete. Per letteralmente intendo che, secondo i dati dell’Unicef, i bambini morti negli ultimi sei anni a causa della malnutrizione sono stati 5mila, anche se secondo le autorità tradizionali la cifra potrebbe arrivare a 14mila.

Quando arrivò Juan Carlos

Vedere un bambino morire di disidratazione davanti ai propri occhi è uno spettacolo difficile da accettare, specialmente in questo secolo, e a maggior ragione per una persona come Juan Carlos Borrero Plaza, un ingegnere specializzato in approvvigionamento idrico e in energie rinnovabili. Un giorno, di ritorno da una visita al Parco Eolico di Jepirachi della Empresas Públicas de Medellín (Epm), nel bel mezzo del deserto si trovò di fronte a una donna che supplicava aiuto per suo figlio. Parlava in wayuunaiki e Juan Carlos non capiva. La guida che accompagnava lui e consorte gli spiegò che, nella Guajira, i bambini muoiono di sete. Portarono la donna e il figlio in ospedale, ma il bimbo morì: Juan Carlos rimase scioccato. Non si capacitava che esistesse un problema simile proprio nel suo paese. Promise allora a sua moglie Helga che avrebbe smesso di dedicarsi a qualsiasi altra invenzione fino a che non avesse trovato una soluzione per tutti coloro che non possono soddisfare un bisogno primario come quello dell’acqua.

L’invenzione dell’«aero-desalinizzatore»

Con 20 anni di esperienza nell’installazione di impianti di trattamento delle acque alle spalle, l’ing. Borrero sostiene che i sogni nascano nel cuore, crescano nella mente ma si realizzino con le mani. Così mantenne la sua promessa tornando nella provincia di Manaure per eradicare il problema della siccità e ridare l’acqua ai «figli della pioggia», il popolo wayuu.

Quando i capi tradizionali dei villaggi sentirono parlare quel signore con un accento caleño che sosteneva di poter estrarre acqua dolce dal sottosuolo grazie alla forza motrice del vento, pensarono che si trattasse di un incantesimo. O forse della solita fregatura di abili venditori di promesse come ne avevano già incontrati.

Succede spesso che, in una regione con grandi risorse ma minime possibilità di riscatto, le poche persone preparate, approfittino delle ricchezze a disposizione facendo aumentare esponenzialmente l’ingiustizia sociale. Ma Juan Carlos è un omone con la faccia sincera e gli indigeni di quel villaggio di 30 abitanti erano così disperati che decisero di dargli il loro assenso. Fu così che, durante i nove anni successivi, egli poté utilizzare segretamente il villaggio di Ulekumaná, in provincia di Manaure, come laboratorio a cielo aperto per mettere a punto la sua invenzione e finalmente brevettare il suo «aero-desalinizzatore». Un apparato basato sulla forza dell’energia eolica (che fornisce la pressione necessaria per aspirare acqua da pozzi) e sulla osmosi inversa che purifica l’acqua facendola passare attraverso filtri e membrane legate che ne sopprimono gli agenti patogeni. Una tecnica questa che Barrero ha messo a punto anche grazie a due viaggi di studio in Egitto e in Messico per approfondire le conoscenze della tecnologia idrica degli antichi egizi e delle civiltà precolombiane, i quali già in quei tempi remoti utilizzavano gli ioni per purificare l’acqua.

Purificare con la forza dei venti

Nella Guajira acqua ce n’è in quantità, ma quella dolce è solo circa l’1%. Purificare la linfa vitale significa dover affrontare costi ingenti e pertanto non sostenibili.

Per rendere il progetto sostenibile, gli studiosi coinvolti da Barrero si sono concentrati sul tema dell’energia che avrebbero dovuto usare per realizzare il processo di purificazione. In una regione come la Guajira, sferzata dagli Alisei del Nord, una forza della natura perenne e pulita, l’idea di utilizzare il vento è sembrata ovvia. Per sfruttarlo senza costi aggiuntivi sono stati utilizzati quei 3mila vecchi mulini a vento installati, negli anni ’50, dal governo di Rojas Pinilla. Da anni in disuso, essi languivano spettrali nel deserto. Ora invece, grazie al progetto di Juan Caros «Guajira sin sed» (Guajira senza sete), hanno finalmente ricominciato a battere le ali, riuscendo incredibilmente a vincere la sfida di rendere dolce l’acqua salata, senza l’ausilio della chimica e costi insostenibili.

Il progetto di Barrero, presentato con l’appoggio dell’Università Santiago de Cali nel 2013, oggi conta 40 aerodesalinizzatori nella zona. Essi forniscono acqua potabile a molte rancheríe (fattorie) isolate disperse per tutta la Guajira. Ogni aerodesalinizzatore – che può durare tra i 20 e i 30 anni – consente di produrre 4mila litri di acqua potabile al giorno, e aiuta a dissetare 20mila persone. Un successo che è stato certificato a livello mondiale da Unicef e dalla impresa svizzera «Sgs», leader mondiale nella verifica e certificazione. Ora che il progetto è avviato, Barrero vorrebbe riuscire a superare tutti gli impedimenti e arrivare a installare almeno 400 di questi sistemi nella Guajira.

Le potenzialità dell’idrogeno

Uomo di scienza, ma anche inventore, alchimista e soprattutto sognatore, Juan Carlos vede cose che altri non hanno la lungimiranza di vedere. Già ai tempi dell’università inventava modi per purificare l’acqua facendola bollire con raggi ultravioletti, o si faceva ispirare dal sistema digestivo delle galline per decomporre sostanze senza prodotti chimici. Non c’è da stupirsi che abbia inventato una nuova tecnica per l’idrogenasi tropicale (metodologia che spezza la molecola dell’idrogeno, ndr), che gli è fin valsa un invito alla Casa Bianca. Il gas idrogeno, che può essere ottenuto dall’acqua, ha enormi potenzialità per generare e conservare energia da usare per produrre elettricità ad un prezzo ragionevole. I nuovi catalizzatori a idrogeno potrebbero diventare un passaggio chiave nel processo di sostituzione dei combustibili fossili con fonti di energia rinnovabili.

Juan Carlos Barrero Plaza d’altra parte è convinto del fatto che le tecnologie si debbano adattare alle persone e non certo il contrario. Lui fa parte di quella ristretta cerchia di persone che in Colombia sta lottando per capitalizzare il proprio patrimonio naturale, solare ed eolico per utilizzarlo in favore delle popolazioni svantaggiate che vivono in un territorio da secoli penalizzato dalla carenza d’acqua dolce e dall’abbondanza di acqua salmastra, e che nel prossimo futuro potrebbe vedere aumentare le difficoltà in concomitanza con l’aggravarsi del cambio climatico.

Bambini da istruire

Quando non sta ideando marchingegni, Juan Carlos inventa storie per bambini, storie che gli hanno già fatto guadagnare un premio dalla «Società dei poeti» della Colombia e che lui sta cercando di pubblicare con uno sponsor per poterli regalare ai poveri, perché possano leggere e imparare come tutti gli altri.

È convinto sia fondamentale e necessario insegnare ai bambini che le nostre risorse non sono infinite e che – se non accresceranno le loro conoscenze – continueranno a subire le prepotenze di chi sa approfittare meglio delle circostanze.

«I sogni sono nati nel cuore, crescono nella mente e sono fatti con le mani. Così continuerò a lavorare, se Dio lo permette», ama ripetere Juan Carlos Borrero Plaza. Uomo di scienza, inventore, alchimista e soprattutto sognatore.

Eloisa d’Orsi


Questo dossier:

 Eloisa d’Orsi

Eloisa d’Orsi è una fotogiornalista freelance, laureata in antropologia visiva presso l’Università di Torino. Ha collaborato con varie testate quali Internazionale, L’Europeo, GEO, New York Magazine, The Guardian, El Pais, Die Zeit. Ha lavorato molto sull’America Latina, con un’attenzione particolare alla Colombia. Negli ultimi anni ha coperto il conflitto in Crimea e nella Striscia di Gaza (nel 2014), la situazione igienico-sanitaria in India e nella Repubblica democratica del Congo (nel 2016) grazie a un grant dell’European Journalism Centre. Più recentemente, grazie a una fellowship dell’Iwmf (International Women’s Media Foundation), ha realizzato questo lavoro.

Ringraziamenti

Un ringraziamento a Luz Angela Uriana e alla sua famiglia, al leader di Chancleta Wilman Palmezano Arregocés, Jackeline e Jasmine Romero Epiayù di Fuerza Mujeres Wayuu, Censat Agua Viva, Emma Banks, Avi Chomsky, Annabel Micus del Colectivo de abogados, Louise Winstanley di ABColombia, Cinep, Richard Solly, Peter Drury e Stephan Suhner di Ask (Arbeitsgruppe Schweiz-Kolumbien) e Oliver Balch e Juanita Isla di Iwmf.

I principali siti web citati:

 www.cerrejon.com; www.barefootcollege.org; www.enelgreenpower.com; www.corinam.org; www.unglobalcompact.org.

Altri link e YouTube:

Per il testo 1: stress idrico, censat.org/; diritti umani, www.colectivodeabogados.org/;
Fuerza Mujeres Wayuu; jieyuuwayuu.blogspot.it/;
speciale carbone Colombia // El Espectador; static.elespectador.com/especiales/1402-caribe/index.html.com.
Per il testo 2: Barefoot College, Bring the sun home, Anastasia Garcia, Magalys Polanco cercare su YouTube.
Per il testo 3: revistas.usc.edu.co/index.php/Ingenium/article/viewFile/312/277 e su YouTube (aerodesalinizzatore).

Foto delle copertine

In prima: Magalays Polanco illumina la sua casa.
In ultima: un gruppo di Wayuu occupano per protesta i binari della ferrovia che collega la miniera de El Cerrejón a Puerto Bolivar.

A cura di Paolo Moiola, giornalista redazione MC.




Algeria: Il metano non dà una mano


Lo sfruttamento spregiudicato del gas

L’Algeria, paese grande produttore di gas, è strategica per l’Europa a causa della sua posizione. Ma lo sfruttamento avviene sempre più con tecniche ad alto impatto ambientale e sociale. È un capitalismo basato sull’estrazione che crea povertà e dipendenza. E la popolazione tenta di ribellarsi. Mentre l’Unione europea resta a guardare.

Hassi R’Mel è la riserva più grande di gas naturale in Algeria, nel centro Nord del paese1. Scoperta nel 1956, insieme al grande campo petrolifero di Hassi Messaoud, è sotto il controllo dell’impresa nazionale Sonatrach. La sua attività di estrazione inizia nel 1961 e già dal 1964 fa dell’Algeria il primo paese esportatore di gas naturale liquefatto (o liquefied natural gas – Lng) verso Marocco, Tunisia, Spagna, Portogallo, Italia. Nel 2011 e 2012 questa energy town è scenario di mobilitazioni sindacali molto forti, sia per le condizioni del lavoro sia in protesta contro il clientelismo e la corruzione.

Una polveriera minacciosa

Negli ultimi anni, i movimenti popolari a cui abbiamo assistito nel Sahara sono in buona parte una insurrezione contro gli effetti del capitalismo fossile, dell’estrattivismo e della sua logica di creazione di povertà e dipendenza. Se si dà un’occhiata alle città del Nord e poi a quelle del Sud dell’Algeria, non si può rimanere indifferenti di fronte al contrasto in termini di disparità di investimenti e servizi, con il Sud abbandonato a se stesso nonostante i giacimenti più fruttuosi si trovino nel suo territorio.

Tuttavia, a differenza di altri paesi come la Tunisia o l’Egitto, l’Algeria non ha visto il crescere di movimenti forti e articolati di opposizione politica.

Probabilmente la memoria della guerra civile che ha seguito il golpe militare degli anni ’90 è ancora molto forte. Una guerra che ha lasciato la popolazione traumatizzata e meno incline a criticare un regime che ha messo fine all’islamismo radicale, seppur a costo di migliaia di vite. In ogni caso il paese sembra avere tutti gli ingredienti di una minacciosa polveriera: autoritarismo, sviluppo diseguale, violazione di diritti umani, una gioventù con educazione (sovvenzionata dalla rendita del petrolio e del gas) ma senza prospettive nel paese, una élite dirigente clientelare e corrotta.

La guerra civile è stata inoltre accompagnata da una campagna di liberalizzazione economica promossa da Fondo monetario internazionale (Fmi) e Banca mondiale (Bm). Per ottenere maggior credito internazionale, il governo algerino ha aperto zone economiche speciali intorno ai campi di estrazione di gas e petrolio. E grazie a queste manovre, imprese come la britannica British Petroleum (Bp), la francese Total, la statunitense Arco, hanno firmato contratti trentennali per lo sfruttamento degli idrocarburi. In nome della sicurezza energetica dei paesi importatori e di quella finanziaria degli investitori, la stabilità del paese non ha prezzo. E se per tal fine è necessaria la militarizzazione e un repressivo apparato di polizia e di intelligence, l’Unione europea non dice nulla.

La benedizione della ricchezza di idrocarburi si è rivelata una maledizione per il paese, ciò che viene chiamata Resource curse (maledizione delle risorse o anche paradosso dell’abbondanza). L’Algeria ha da allora vissuto problemi strutturali gravi, quali altissimi livelli di corruzione, la delicata dipendenza dalle esportazioni, la deindustrializzazione e il disinteresse nel settore agricolo.

Ambiente addio

Ad Hassi R’Mel, scioperi della fame, blocchi stradali e boicottaggi hanno cercato di mettere in luce e denunciare le condizioni di sicurezza del lavoro, salari da fame, favoritismi clientelari e la precarietà dei contratti che portavano spesso a lunghi periodi di disoccupazione. Ai lavoratori di Hassi R’Mel hanno immediatamente fatto eco quelli di Ouargla, forse la più grande energy town oggi in Algeria. Qui, nel 2012, pochi mesi dopo le prime manifestazioni della Primavera araba, la popolazione è scesa nelle strade per denunciare l’emarginazione economica e la mancanza di infrastrutture adeguate per uno sviluppo regionale, nonostante le attività di estrazione di petrolio e gas. Nel 2013, è stato annunciato a Ouargla il primo progetto di sfruttamento di gas secondo la tecnica della fratturazione idraulica2 (fracking), da parte della Total (il fracking è proibito in Francia per l’alto impatto ambientale e sociale, ma viene promosso altrove dalle imprese francesi e molto utilizzato negli Usa), e la popolazione ha cominciato a denunciare gli effetti negativi sui campi e l’inquinamento delle acque. Nel centro della cittadina, al lato del mercato, è stata eretta una tenda da campeggio con un cartello che recita: «La gente ha decretato una moratoria al fracking». Si è creato il Comitato nazionale per al Difesa dei diritti dei disoccupati (Cnddc, nel suo acronimo francese) che mobilita decine di migliaia di persone in Ouargla ma anche in altre località che affrontano vulnerabilità e disoccupazione. Gli attivisti algerini ricordano come nel 1960-61 (prima dell’indipendenza del 1962) la Francia avesse usato Reggane, località nel Sahara algerino, per quattro esperimenti nucleari, i cui effetti sulla salute si percepiscono ancora oggi. Sul fracking, dunque, lo slogan recita «L’Algérie n’est pas une terre d’essais et d’expérimentation pour le gaz de schist» (L’Algeria non è un banco di prova e sperimentazione per il gas di scisto3). Tuttavia, non hanno ricevuto alcuna risposta concreta.

Realpolitik energetica

E ciò non stupisce se si dà un’occhiata alla politica energetica dell’Algeria e al suo commercio estero. Il settore degli idrocarburi rappresenta circa il 60% delle entrate del bilancio totale del paese, quasi il 30% del Pil, e più del 97% provengono dall’export. Per le autorità algerine è di grande importanza mantenere una buona reputazione: essere un fornitore stabile di un prodotto di buona qualità, che garantisce una fornitura continua e senza interruzioni. L’Algeria è in un’ottima posizione geografica e politica per rispondere alla crescente domanda dell’Unione europea (Ue), con la quale è ben collegata con linee di trasporto marittimo in navi cisterna e gasdotti.

Le riserve algerine ammontano a 4,5 miliardi di metri cubi, cosa che mette il paese all’undicesima posizione a livello mondiale e alla seconda in Africa, dopo la Nigeria. Si stima che l’Algeria abbia le riserve di gas di scisto più grandi del mondo.

Più del 90% del gas algerino trasportato in gasdotti va a stati europei, soprattutto Spagna (34%) e Italia (27%), il resto a Marocco e Tunisia come tassazione per il trasporto sul loro territorio. Delle esportazioni come gas liquefatto (Lng), la maggior parte va a Francia (34%), Turchia (23%), Spagna (23%), Italia (9%), Grecia (6%).

Per farsi un’idea dell’importanza della dipendenza dal gas algerino, ricordiamo ancora che rappresenta una buona fetta della domanda domestica di Italia (30%), Spagna (40%) e quasi la metà di quella della Tunisia.

Sicurezza energetica e democrazie

A causa della diminuzione delle riserve nel Mare del Nord e della crisi in Ucraina, l’Unione europea ha stabilito come priorità strategica la diversificazione energetica, all’interno dell’ampio progetto dell’Unione energetica europea (cfr. MC gennaio-febbraio 2017). Tuttavia, la pianificazione gasistica si basa su delle stime al rialzo per quanto riguarda i consumi (che sono in realtà in diminuzione dal 2010 a causa della crisi finanziaria e produttiva ma anche dell’uso di altre fonti). In questo modo vengono costruite infrastrutture con garanzie e fondi pubblici, che poi rimangono sottoutilizzate. D’altro canto, la diversificazione avviene in termini di paesi di origine del gas, ma non discute strade possibili per la promozione di altre fonti o altri tipi di gestione (più comunitaria, democratica, a piccola scala ad esempio).

Nel luglio del 2013 è stato firmato un importante accordo per la cooperazione tra Ue e Algeria, rappresentati dall’allora presidente della Commissione europea José Manuel Barroso e dal primo ministro algerino, Abdelmalek Sellal. Si è sancita così una promettente cooperazione sulle riforme democratiche e sulle politiche di sviluppo. A livello interno in Algeria si è promosso, nella totale opacità, la legge sugli idrocarburi, volta ad attrarre e proteggere investimenti stranieri.

Allo stesso tempo, da parte dell’Unione europea, si continua a mantenere il silenzio in materia di restrizioni delle libertà personali, delle minacce contro attivisti politici, violazioni di diritti umani, contaminazione ambientale, o riguardo la corruzione altissima all’interno della classe dirigente. La sicurezza energetica dell’Unione europea, con il beneplacido delle sue lobby dell’industria delle armi e delle grandi imprese energetiche, resta assicurata.

Ma per gli algerini, la dipendenza dall’esportazione del gas si presenta come un’altra preoccupante forma di accaparramento delle risorse, in cui i benefici derivanti dalla rendita sono concessi alla popolazione attraverso politiche assistenzialistiche, parziali e clientelari.

Manifestazioni anti fracking

Nel 2014 le autorità algerine annunciano la perforazione di pozzi di gas di scisto anche a In Salah, un paesino-oasi nel centro del deserto algerino e sede della potente joint venture tra Bp, Statornil e Sonatrach. Decine di migliaia di algerini manifestano a partire dall’inizio del 2015 in tutto il paese (Salah, Tamanrasset, Ouargla, Ghardaia, Illizi, Adrar, Timimoun, Bordj Baji Mokhtar, Argel, Ain Beida, Oum El Bouaghi, Bejaia e Oran). Il livello delle proteste coglie di sorpresa il governo che comincia a temere per i piani di Total e Shell per il fracking.

Si tollerano diverse marce e proteste pacifiche, fino a quando sabato 17 gennaio 2015 decine di persone sono arrestate ad Algeri per una manifestazione di solidarietà. Le violenze di tale operazione scatenano un’ondata di protesta, che dura più di cinque mesi. Il popolo richiede la sospensione di qualsiasi attività di fracking e l’apertura di un dialogo a livello nazionale, che era mancato nel processo di approvazione della Legge sugli idrocarburi del 2013.

Rapporti pericolosi

L’Algeria non è l’unico regime violento con il quale l’Unione europea coltiva rapporti d’amicizia in nome della sua sicurezza energetica. La politica estera comunitaria infatti vede anche controversi rapporti con paesi dove l’Indice di sviluppo umano (Isv) è particolarmente basso, dovuto a ragioni simili all’Algeria, tra cui Tanzania, Nigeria e Mozambico. Con paesi i cui governi sono considerati autoritari (Algeria, Angola, Russia, Qatar, Egitto, Azerbaijan, Libia, Iran, Turkmenistan), con paesi che presentano grande conflittualità interna (Libia, Russia, Iraq e Egitto), con corruzione endemica (Angola, Iraq, Libia, Turkmenistan, Nigeria) e forti disuguaglianze in termini di distribuzione della ricchezza (Nigeria, Usa, Mozambico e Angola).

La diversificazione promossa dalla politica energetica comune cerca inoltre solo un ampio ventaglio di origini degli idrocarburi, ma non pone in discussione il loro utilizzo e non propone politiche chiare per una transizione a energie rinnovabili e su basi democratiche.

La responsabilità dell’Unione europea verso la popolazione algerina e del progetto dell’Unione energetica verso il resto dei paesi di esportazione è enorme. Promuovere il gas come «combustibile della transizione», ma non fare niente per discutere verso cosa si vuole transitare è una contraddizione in termini. Pianificare l’infrastruttura gasistica sulla base di ottimistici calcoli al rialzo rispetto alle riserve e poi accettare qualsiasi condizione per mettere mano a esse è una strategia connivente con i regimi dei paesi produttori.

Daniela Del Bene
Coeditrice di Ejatlas

Note

1- Questo articolo si basa principalmente sul rapporto Colonialismo Energético: el acaparamiento del gas de la Ue en Argelia preparato da Hamza Hamouchene del Algeria Solidarity Collective e Alfons Perez del Observatori del Deute en la Globalització, 2016, Barcelona. Il rapporto è scaricabile al seguente link: http://www.odg.cat/es/publication/colonialismo-energetico-acaparamiento-gas-UE-argeli.

2- Fratturazione idraulica o fracking è una tecnica che consiste nell’utilizzo della pressione di un fluido per creare una frattura in uno strato roccioso del sottosuolo. Il fracking è utilizzato anche per estrarre petrolio e gas con costi ambientali molto elevati.

3- Gas di scisto è il termine improprio utilizzato per il «gas da argille», ovvero gas metano estratto da giacimenti non convenzionali, gas intrappolato nella microporosità della roccia. Per l’estrazione sono necessari trattamenti ad alto impatto ambientale, come il fracking che può anche dare origine a terremoti. È una tecnica molto utilizzata negli Usa.




India: Water grabbing sul tetto del mondo


Gli stati himalayani sono determinati a sfruttare tutto il loro enorme potenziale idrico. Risulta infatti esponenziale l’aumento di richieste di sfruttamento della risorsa, sia da parte di imprese pubbliche (che ricevono fondi dalle grandi banche internazionali), che di imprese private. E le dighe, con il loro devastante impatto ambientale e sociale, si moltiplicano.

Enormi riserve idriche, ghiacciai, fiumi d’acqua abbondante e limpida, scarsa popolazione e poca industria: una ricetta perfetta per alimentare il nuovo grande gioco dell’Asia sulle risorse idriche. Cina e India si contendono uno dei beni più preziosi su quello che viene chiamato il «tetto del mondo», le montagne himalayane. Qui si concentrano le riserve di acqua dolce più vaste del globo terrestre e vi sgorgano i fiumi più importanti dell’Asia, il Brahmaputra, il Mekong, l’Indo e il Gange. Fiumi le cui acque, flora e fauna sono minacciate da inquinamento industriale, pesca sregolata, deforestazione e dalla costruzione di grandi infrastrutture, soprattutto dighe per la produzione di energia.

Il governo indiano e cinese si sfidano nello sfruttamento non solo delle acque del proprio territorio, ma anche di quelle dei paesi confinanti come il Nepal e il Bhutan. Un vero water grabbing (accaparramento idrico) fatto a colpi di trattati internazionali.

Da un lato ci sono i rappresentanti dei governi, dall’altro grandi imprese private o pubbliche costruttrici di infrastrutture idriche. Il tutto con la supervisione e il beneplacito delle istituzioni finanziarie nazionali e internazionali per lo «sviluppo», tra queste ultime la Banca Mondiale e la Banca Asiatica per lo Sviluppo.

Il ritorno di Banca Mondiale

Le priorità della finanza internazionale sembrano cambiate, dunque, dagli anni ’90, quando la Banca Mondiale aveva dimostrato interesse per le istanze dei diritti ambientali. Nel 1991, infatti, era stata la stessa Banca Mondiale a commissionare una valutazione sulla diga Sardar Sarovar sul fiume Narmada, ascoltando le proteste locali e la solidarietà internazionale.

L’ex membro del congresso Usa e alto funzionario dell’Onu, Bradford Morse, insieme all’avvocato canadese per i diritti umani Thomas Berger, viaggiarono nell’area per valutare l’impatto della diga sugli abitanti locali.

Il rapporto scritto dai due, noto come Morse Report, pubblicato nel 19921, rivolse pesanti critiche alla diga, promossa nel nome dello sviluppo e della riduzione della povertà. Puntò il dito sui maltrattamenti delle comunità indigene e sul fatto che i benefici economici attesi erano stati solo momentanei e non avevano favorito le comunità locali, mentre gli impatti ambientali e la frammentazione sociale cadevano sulle spalle dei soggetti più vulnerabili. Anche gli aiuti stanziati per «compensare» le famiglie danneggiate dalla diga erano risultati essere solo palliativi e avevano creato dipendenza economica tra coloro che prima potevano contare sulla propria terra e beni comuni gestiti dalla collettività.

In nome della sostenibilità

Il Rapporto Morse era stato il risultato di una lunga lotta da parte di movimenti sociali, in primis il Narmada Bachao Andolan (Movimento per la Salvezza della Narmada), e aveva portato la Banca Mondiale a ritirarsi dagli investimenti sulle grandi dighe.

Ora però il colosso finanziario fa finta di aver dimenticato e torna sui suoi passi. Nel 2013 ha rilanciato il water grab delle grandi dighe durante il «Fragility Forum» tenutosi a Washington, dichiarando che «l’idroelettrico a grande scala rappresenta una soluzione [al cambio climatico e alla povertà] per l’Africa, l’Asia Meridionale e il Sudest Asiatico». Nelle parole di Rachel Kyte, la vicepresidente della Banca per lo sviluppo sostenibile e influente voce dell’istituzione, «la scelta degli anni ’90 fu un errore»2.

I paesi «fragili» da soccorrere, in cui consolidare le economie garantendo generose infrastrutture, questa volta in nome della sostenibilità, sono tanti. Fra questi l’India, che gode di fondi diretti della Banca Mondiale e della sua branca asiatica, la Banca Asiatica per lo Sviluppo (Adb).

Il governo indiano appoggia pienamente il piano e non vede di buon occhio obiezioni in merito.

Per lo studioso indiano Ramachanda Guha, la lobby pro-idroelettrico ha avuto successo nell’eliminare le voci contrarie, inclusi gli studi ambientali scientifici esistenti, pur di non mettere a rischio lucrosi progetti3.

Sfruttare il più possibile

Gli stati himalayani, soprattutto Himachal Pradesh, Uttarakhand, Sikkim e Arunachal, sono determinati a sfruttare tutto il potenziale individuato. Risulta infatti esponenziale l’aumento di richieste di sfruttamento della risorsa idrica, sia da parte di imprese pubbliche (che ricevono fondi dalle grandi banche internazionali), che di imprese private grosse e piccole.

Per la geomorfologia delle strette valli himalayane, sono pochi i progetti che prevedono grandi laghi artificiali. Tuttavia, i cosiddetti progetti Run-of-River, cioè impianti a pompaggio o ad accumulazione, comportano lo scavo di numerose gallerie per le derivazioni d’acqua. Per scavarle, si ricorre, soprattutto nelle ore notturne, alla dinamite, e si sono registrati smottamenti sismici, innumerevoli crepe nelle case, prosciugamento di fonti d’acqua e importanti perdite nell’agricolura (soprattutto alberi da frutta) dovute alle polveri che si accumulano sulla terra e sulle foglie.

I nuovi progetti spesso non hanno un solido studio di fattibilità alle spalle. Secondo una fonte governativa, mentre una volta in Himachal Pradesh l’individuazione di un sito per un progetto idroelettrico prevedeva una visita in loco per considerare diverse variabili, ora si avvale della tecnologia remote sensing, attraverso satelliti e applicazioni cartografiche, per individuare i salti d’acqua. Molto spesso poi i permessi vengono concessi senza una visita sul luogo, che può essere ad esempio una vallata lontana e dalle strade non facilmente percorribili.

Il caso delle inondazioni dell’Uttarakhand

Per la fatalità della storia, nello stesso anno in cui la Banca Mondiale annunciava il suo ritorno nel grande giro d’affari delle dighe, una pesante pioggia di più giorni cadde sulla regione occidentale dell’Himalaya. Nello stato dell’Uttarakhand causò violente inondazioni e smottamenti del terreno. Fu il disastro «ambientale» più grave nel paese dopo lo tsunami del 2004. Era giugno, piena stagione turistica per i numerosi siti di pellegrinaggio hindu presenti nella zona. Ci volle molto tempo al governo per fare una stima delle vittime, che si aggira poco sotto le 6.000 e di cui si sono trovati pochissimi corpi.

Gli esperti climatologi ammisero che l’entità delle piogge era fuori dalla media stagionale, ma affermarono che il colpevole non si poteva cercare nel meterno. «Avete sentito alcuni arrivare a dire che è stato un omicidio. Ma io lo chiamo ecocidio», affermò Devinder Sharma del Forum for Biotechnology and Food Security alla Cnn. «La copertura forestale è stata ridotta terribilmente [per fare spazio a strade, linee di trasmissione e altre infrastrutture per le dighe], c’è una considerevole attività mineraria nella regione [soprattutto di estrazione di sabbie per cemento], e le strade sono costruite senza un piano ragionato. In più, i grandi progetti idroelettrici in varie fasi di costruzione sono nell’ordine delle centinaia, con i loro tunnel che sfregiano le montagne».

Vimal Bhai dell’organizzazione Matu Jan Sanghatan denunciò la situazione intorno alla diga di Tehri, la più alta di tutta la regione. Mentre ai tempi il governo e l’impresa pubblica che la gestisce, la Thdc, ne difendeva l’utilità per controllare inondazioni improvvise, ora si trovano con una infrastruttura danneggiata che rappresenta un rischio per la popolazione. In più, nei mesi immediatamente successivi al disastro, Thdc non volle diminuire l’altezza dell’acqua del lago e anzi chiese il permesso per aumentarne il livello e generare così maggiore elettricità.

L’urgenza di rivedere l’intera politica energetica

Dopo il disastro, la Corte Suprema dette immediatamente l’indicazione al Ministero dell’Ambiente di istituire una commissione d’inchiesta. Il documento finale dell’Expert Body (Eb) diretto dal Dr. Ravi Chopra e pubblicato nell’aprile successivo riconobbe la relazione diretta tra l’instabilità del terreno, le alluvioni e i progetti idroelettrici, e dichiarò chiaramente l’urgenza assoluta di fermare almeno 23 progetti e di rivedere profondamente l’intera politica energetica nella regione.

Il collettivo India Climate Justice ribadì che le cause erano state molteplici: eccessiva deforestazione che aveva creato instabilità del terreno e non permetteva l’assorbimento dell’acqua, turismo di montagna e traffico su strada sregolati, estrazione di sabbie dai letti dei fiumi, costruzioni inadatte senza regolari permessi e studi di hotel e altri edifici4.

Un concetto non condiviso e selvaggio di «sviluppo» per questa regione porta dunque inevitabilmente a politiche irresponsabili e complici. Il collettivo riaffermò che «questa tragedia è un crimine, perché i nostri legislatori e amministratori sono parte della grande ingiustizia climatica su scala globale, che minaccia, sfolla e uccide coloro che si trovano più impoveriti e marginalizzati».

La sconcertante perseveranza

Dopo la grande commozione e dolore provocati dalla tragedia, ciò che sconcerta è la perseveranza nelle stesse politiche energetiche e di gestione del territorio. E che non si limitano all’Uttarakhand.

Il vicino stato dell’Himachal Pradesh ha fatto dell’idroelettrico il fiore all’occhiello della sua promozione come green state, con una economia verde e con esclusiva produzione di energia rinnovabile. Tuttavia, anche qui si parla di centinaia di progetti in fase di pianificazione o costruzione, tra cui la più grande diga privata del paese, la Karchham Wangtoo5 dalla capacità installata di 1.200 Mw e di proprietà del colosso indiano Jindal Group.

Il vice chancellor dell’Università dell’Himachal Pradesh, prof. A. D. N. Bajpai ha messo in allerta per il rischio enorme a cui è esposto l’intero distretto del Kinnaur nel malaugurato caso di un terremoto nella regione, che è per altro dichiarata ad alto rischio sismico6.

Energia che non serve

Questo scenario risulta ancora più difficile da comprendere se si consultano i dati ufficiali, come ricordano organizzazioni quali Sandrp e il Manthan Centre. L’elettricità prodotta da queste grandi dighe non trova facilmente un acquirente, per il prezzo troppo alto o per l’eccessiva offerta, a seconda della stagione7.

Gli abitanti locali, soprattutto in Kinnaur, hanno lanciato lo slogan di una «no-go zone» per l’idroelettrico e difendono orgogliosamente la loro economia basata sull’agricoltura e sulla produzione di frutta. Si organizzano in comitati di supporto e in più occasioni le loro domande si sono unite a quelle dei lavoratori del cantiere, quando hanno incrociato le braccia per le condizioni di lavoro e l’insicurezza nell’escavazione dei tunnel, già costata la vita a un numero non registrato di lavoratori.

Nonostante in molti casi gli sforzi della resistenza non siano stati sufficienti, hanno alimentato una sempre maggiore coscienza della necessità di un cambio non solo nella tecnologia dei progetti. Poco a poco si diffonde una domanda più di fondo: per cosa viene usata questa energia e chi ne risulta beneficiato? Quali sono le altre tecnologie che si potrebbero utilizzare? Su quale scala? Quali sono le infrastrutture di cui davvero la gente locale ha bisogno, in un’ottica di decentralizzazione?

Anche se le risposte e le proposte alternative sembrano ancora lontane, spesso è proprio all’interno della resistenza che si schiudono le prime sementi di qualcosa di diverso, e la presa di coscienza ne è il primo fertilizzante.

Daniela Del Bene
Coeditrice di Ejatlas

Note

  • 1- Bradford Morse & Thomas R. Berger, Sardar Sarovar – Report of the Independent Review, reperibile in formato pdf nel sito ielrc.org.
  • 2- Howard Schneider, World Bank turns to hydropower to square development with climate change, «The Washington Post», 08-05-2013.
  • 3- Ramachandra Guha: Expediency trumps expertise, «The Gulf Today», 13-07-13.
  • 4- La dichiarazione si può leggere in Climate justice statement on the Uttarakhand catastrophe, «Sandrp. South Asia Network on Dams, Rivers and People», sandrp.wordpress.com, 25-06-2013.
  • 5- Il progetto Karchham-Wangtoo è la più grande infrastruttura idroelettrica dell’India in mano privata, del Jindal Group. Il gruppo austriaco Andritz ha partecipato con alcune componenti. Al momento 800 abitanti della zona hanno avviato un’azione legale per ottenere le compensazioni pattuite che non vengono rispettate.
  • 6- Rakhee Thakur, Mega projects endangering Himachal Pradesh, «The Times of India», 07-11-2015.
  • 7- Per informazioni più dettagliate: Ankur Paliwal, Drowned in power, «Down To Earth», downtoearth.org.in, 15-04-2014; e Hydropower in Himachal: Do we even know the costs?, «Sandrp. South Asia Network on Dams, Rivers and People», sandrp.wordpress.com, 04-10-2014.




La Costa d’Avorio in ostaggio /2


Da Dianra, nel Nord Ovest, dove i missionari lavorano per sanità e dialogo, a Grand Zattry e Sago, nel Sud Ovest, dove cercano di ampliare una scuola. Passando per Soubré, dove è in costruzione una grande diga, terminando con San Pedro e Abidjan, dove tonnellate di cacao rischiano di marcire sui camion all’entrata dei porti.

A Dianra, come a Marandallah, il dialogo interreligioso permea di sé tutta l’attività dei missionari. Questo implica un procedere lento, graduale, rispettoso delle differenze e capace di fare emergere ciò che accomuna. «È anche per questo», spiega padre Matteo Pettinari, «che prima di costruire una case de santé (piccolo centro sanitario) contattiamo le autorità di ciascun villaggio e organizziamo un incontro pubblico che coinvolga tutta la comunità. Durante l’incontro chiariamo che queste strutture fanno parte di un programma che le autorità locali della sanità pubblica hanno affidato al nostro centro di Dianra Village. Non si tratta, quindi, di costruire “la casa dei cristiani” ma di portare l’assistenza sanitaria al villaggio attraverso le regolari visite della nostra equipe mobile. Non solo: nell’incontro si cerca di ottenere dagli abitanti del villaggio l’impegno a collaborare con il nostro personale in modo che questo servizio rechi davvero beneficio».

In quel contesto rurale la gente tende a rimandare il momento in cui ricorrere alle cure mediche, finché non è chiaro che i rimedi tradizionali sono inefficaci e che le patologie si sono aggravate al punto da essere ormai invalidanti. Le donne devono chiedere il permesso ai mariti per essere dispensate dal lavoro nei campi e andare al centro di salute a farsi visitare, ad esempio durante la gravidanza, o a far visitare i bambini per scongiurare il rischio della malnutrizione. Creare sensibilità e consapevolezza è un lavoro lungo e delicato. Fare di corsa significa rischiare di offrire un servizio che poi nessuno usa.

«È interessante», prosegue Matteo, «come villaggi distanti pochi chilometri reagiscano in modi diversi: c’è una località nella quale non siamo riusciti a trovare un accordo, un’altra dove ci stiamo avvicinando a un’intesa e una terza in cui, al termine della riunione con la comunità, alcuni giovani avevano già scavato le fondamenta per la case de santé».

Quest’ultimo non è il solo esempio incoraggiante che il missionario cita. Mostra con evidente soddisfazione le foto di Sononzo Carrefour, altro villaggio che fa capo a Dianra, dove la chiesa e la moschea sono dello stesso colore, e ricorda: «L’anno scorso i musulmani di Sononzo hanno fatto una colletta per ridipingere la moschea e ci hanno proposto di dare il loro contributo per ridipingere anche la nostra chiesa. È stato un gesto davvero splendido, un atto di fratellanza che ci riempie di gioia e ci evangelizza».

Verso Sud, fra palma da olio e caucciù

Lasciando Dianra in direzione Sud gli alberi tornano lentamente ad essere verdi, segno che qualche sporadica pioggia – al Nord del tutto assente da mesi – ha lavato via dalle foglie la polvere rossa della stagione dell’harmattan1.

Grand Zattry si trova nel distretto di Bas-Sassandra, lungo la strada in parte asfaltata che collega il Nord a Soubré, cittadina a 130 chilometri dal mare. Ai lati della strada, mentre non vengono meno le piantagioni di cacao, spariscono quasi del tutto i fiocchi bianchi del cotone e i frutti arancioni dell’anacardio. Sono gli alberi di caucciù a dominare il paesaggio – ciascuno con il suo recipiente simile a un bicchiere legato sotto l’incisione nella corteccia dalla quale cola il lattice bianco – e le palme da olio, con i loro grappoli di frutti rossi adagiati dove la fronda si stacca dal tronco.

A Blesséoua, uno dei villaggi che la missione di Grand Zattry accompagna, la scuola primaria ha 458 allievi: troppi per le sei classi che fino a dicembre 2016 aveva a disposizione. Quasi ottanta bambini per aula sono davvero di difficile gestione, constata una maestra che si unisce alla riunione con il capo villaggio e altri responsabili della comunità che collaborano con padre James Gichane, missionario keniano a Grand Zattry. Per questo motivo il salone cucina che la generosità di una donatrice ha permesso di costruire nel 2016 è per il momento stato adibito ad aula. Nel frattempo, il Conseil Café-Cacao, l’ente pubblico che regolamenta la produzione e il commercio dei prodotti da cui prende il nome, sta finanziando la costruzione di altre tre classi. «Sono andato di persona alla sede del Conseil», spiega il capo villaggio, «per spiegare loro la situazione della scuola, e grazie a Dio mi hanno dato retta. Bisognava almeno aumentare il numero di aule, ma anche la mensa scolastica e i servizi igienici sono in pessime condizioni». Oltre al villaggio di Blesséoua, la scuola primaria serve diciassette campement (villaggi più piccoli e provvisori) dei dintorni, gli alunni vengono qui a piedi da cinque chilometri di distanza. La situazione di questa scuola, che è comune a molte altre nel paese, stride con le dichiarazioni d’intenti delle autorità pubbliche secondo le quali ogni classe dovrebbe avere non più di quaranta alunni.

Energia per un paese che vuol crescere

Per andare da Grand Zattry a Sago si passa da Soubré, città sulla quale gli occhi del Costa d’Avorio sono oggi puntati per via della costruzione di un’imponente diga che sfrutterà un dislivello naturale del Nawa, un affluente del fiume Sassandra, per produrre energia elettrica. Una volta ultimata, sarà la più grande diga del paese, con una potenza installata pari a 275 megawatt per una produzione annuale di 1.170 gigawatt ora.

L’opera, dal costo di 338 miliardi di franchi cfa (circa 515 milioni di euro), è finanziata all’85% dalla Cina (attraverso la banca Eximbank) e al 15% dalla Costa d’Avorio nel contesto della cooperazione sino-ivoriana; l’entrata in funzione è prevista per la fine del 2017, dopo cinque anni di lavori. Oggi la Costa d’Avorio ha una potenza installata di 1.975 megawatt forniti per tre quarti da centrali termiche (gas naturale e vapore) e per un quarto da centrali idroelettriche, e vende energia a Burkina Faso, Mali, Ghana, Togo e Benin. Il governo intende però raddoppiare la potenza prodotta entro il 2020 e ha pianificato una nuova centrale termica a gas a Songon, quartiere di Abidjan, e una a carbone a San Pedro, suscitando la perplessità per la contraddizione fra la scelta del carbone e la ratifica dell’Accordo di Parigi sul clima.

Sago: l’Africa occidentale in un villaggio

Lungo la strada verso Sago, villaggio a un’ottantina di chilometri dalla costa, è frequente vedere cartelli con il logo della Sipef – Società internazionale delle piantagioni e di finanza – un’agroindustria internazionale che opera nelle aree subtropicali fra cui la Costa d’Avorio. I cartelli recitano: Non au travail des enfants (no al lavoro dei bambini).

«È una campagna che va avanti da qualche anno», spiega padre Ramón, «nata come reazione al fenomeno dei bambini schiavi portati qui soprattutto dal Mali per lavorare nelle piantagioni di cacao».

Il tema ha cominciato ad essere noto all’opinione pubblica internazionale nei primi anni Duemila ma è probabilmente con documentari come il danese The Dark Side Of Chocolate2 che ha guadagnato maggiore visibilità. «Oggi», continua Ramón, «anche grazie a questa campagna, chi è a conoscenza di casi di sfruttamento li denuncia sapendo che, a differenza di un tempo, gli sfruttatori verranno puniti».

Quella del Bas-Sassandra è una zona con una notevole varietà etnica, dove ivoriani e stranieri vivono del lavoro nelle piantagioni o dei commerci che si svolgono nel grande mercato. «In dieci anni», spiega padre Silvio Gullino, missionario della Consolata attivo prima in Repubblica Democratica del Congo e, ora, uno dei decani della missione in Costa d’Avorio, «il villaggio è passato da quattromila a diecimila abitanti. Qui, assieme e agli autoctoni di etnia Godié, vivono Baoulé, Koulango, Abron, ma anche Mossi del Burkina Faso. Anzi, si può dire che siano rappresentati quasi tutti i paesi della Cedeao (Comunità economica degli Stati dell’Africa Occidentale): Togo, Benin, Senegal, Mali, Mauritania…».

Una cartina di tornasole di questa varietà è la messa domenicale nella chiesa di Sago, durante la quale le letture vengono fatte in cinque lingue. I cattolici a Sago sono una minoranza, precisa ancora padre Silvio, circa il dieci per cento della popolazione. Sei persone su dieci sono musulmane, il quindici per cento è cristiano di altre denominazioni e un altro quindici per cento pratica le religioni tradizionali.

La scuola primaria Notre Dame de la Consolata accoglie 250 alunni dai sei ai dodici anni; padre Celestino Marandu, missionario tanzaniano anche lui con diversi anni d’esperienza in Congo, è a Sago dal 2009 ed è il responsabile della scuola che, nel gennaio 2017, è stata una delle pochissime a non rimanere chiusa tre settimane per lo sciopero dei funzionari pubblici.

«Certo», osserva Celestino, «è giusto che gli insegnanti rivendichino il loro diritto a stipendi più alti e migliori condizioni di lavoro; ma qui è la scuola a pagare gli stipendi, regolarmente e senza contributi dal governo. Garantiamo ai docenti anche case ad affitti ragionevoli e un ambiente di lavoro organizzato dove possono segnalare, discutere e risolvere i problemi insieme alla dirigenza. E tutto questo per assicurare la cosa più importante: che i bambini abbiano un’istruzione davvero di qualità». Padre Celestino ha appena completato l’arredamento della sala e mensa scolastica finanziato grazie al contributo di alcuni donatori italiani. «L’ispettore regionale dell’insegnamento primario è venuto a visitare la scuola», racconta padre Marandu. «Alla fine ci ha fatto i complimenti per la mensa più bella e grande della regione del Gboklê».

Nell’immediato futuro padre Celestino ha in programma di terminare la recinzione per avviare l’orto che produrrà frutta e verdura per la scuola: «Senza recinto non si può coltivare, arriverebbero gli animali a devastare tutto». Vuole poi ristrutturare alcune delle case degli insegnanti, completare la case de santé della scuola per seguire i bambini anche dal punto di vista della sanità di base, ultimare il campo sportivo. «Il governo ha introdotto l’obbligo scolastico fino a 16 anni», riferisce il missionario, «ma serve anche un sistema uniforme ed efficace di controlli e sanzioni per chi non manda i figli a scuola. Qualcuno stima che i bambini di fatto non scolarizzati siano ancora almeno la metà».

San Pedro e Abidjan, cacao invenduto e grattacieli

L’aria impregnata dell’odore acre delle fave di cacao è forse uno dei tratti distintivi di San Pedro, insieme alle file di camion che trasportano, oltre al cacao, anche gli altri prodotti delle piantagioni ivoriane. Ma nell’inverno del 2016 nell’aria si respirava anche apprensione: 400 mila tonnellate di cacao erano bloccate nei porti ivoriani e cominciavano a marcire. Il Conseil Café-Cacao, riportava il quotidiano francese Le Monde3, aveva fissato per il 2016 il prezzo cosiddetto «a bordo campo» a non meno di 1.100 franchi al chilo, 1,67 euro. Gli esportatori devono vendere ad almeno 1.800 franchi (2,74 euro) per guadagnare qualcosa considerando anche i costi di manodopera e trasporto. Ma da agosto dell’anno scorso il prezzo del cacao sul mercato mondiale è diminuito del 25% e ora un chilo vale 1.300 franchi, poco meno di due euro. A febbraio, del fondo che il Conseil Café-Cacao ha a disposizione per rimborsare gli esportatori in questi casi nessuno aveva ancora visto un franco. E, spesso, i produttori ricevono il pagamento per il raccolto in parte alla consegna e in parte anche mesi dopo, perciò, se non arrivano prima i rimborsi agli esportatori per l’invenduto i coltivatori rischiano di non incassare nulla.

E se questo è il problema più immediato, non è però l’unico: la rivista Jeune Afrique4 riportava diverse testimonianze di addetti ai lavori secondo i quali la metà del cacao venduto come equo, solidale e sostenibile avrebbe avuto una certificazione fasulla. Questo tipo di cacao può essere venduto a un prezzo più alto di quello del cacao ordinario, perché, in teoria, ha costi di produzione maggiori dovuti a standard più elevati nel trattamento dei lavoratori e nei metodi di coltivazione. Dopo che i colossi del cioccolato, Mars e Lindt in testa, si sono impegnati ad arrivare entro il 2020 a comprare solo cacao certificato, questa fetta di mercato ha avuto un boom. Ma qualcosa non torna: la certificazione è un processo lungo e meticoloso, eppure nel 2015 un terzo del cacao ivoriano – cioè 600 mila tonnellate su un milione e 800 mila – risultava certificato. Troppo in troppo poco tempo, sostengono gli scettici. Alcuni operatori avrebbero fiutato l’affare e costituito delle cooperative intermediarie che comprano cacao ordinario al prezzo minimo, ottengono false certificazioni e rivendono il cacao come equo, facendo così una cresta che può arrivare a 170 Fcfa (18 centesimi di euro) al chilo. Il cacao, ricordava ancora Le Monde, genera due terzi dei posti di lavoro e dei redditi nel paese, la metà degli introiti delle esportazioni e il 15 per cento del Pil. È un settore con il potere di mettere in crisi l’intero paese.

 

A guardare le scenografiche luminarie delle feste scintillare sui vetri dei grattacieli del Plateau, il quartiere chic di Abidjan, a sentire i comunicati con cui le Nazioni Unite annunciano che la situazione è abbastanza stabile da ritirare la forza di pace5, o a leggere che il volume degli scambi di denaro via cellulare tocca i 25 milioni di euro al giorno6 non si direbbe che la Costa d’Avorio possa ripiombare nel caos. E il ricordo ancora vivo del conflitto, della paura costante, del paese spaccato a metà potrà aiutare a contenere le spallate di inizio anno. Ma certamente il 2017 sarà un banco di prova fondamentale per evitare sia un nuovo conflitto sia il cronicizzarsi di una latente, logorante instabilità.

Chiara Giovetti
(2 – fine)

Note

1- L’Harmattan è un vento secco e polveroso che soffia a Nordest e Ovest, dal Sahara al Golfo di Guinea, tra novembre e marzo. È considerato un disastro naturale (Wikipedia).
2- The Dark Side of the Chocolate – Il Lato Oscuro del Cioccolato – Italiano, 02 agosto 2014, canale Youtube «doppiatorianonimi».
3- Charles Bouessel, Comment la Côte d’Ivoire se retrouve avec 400 000 tonnes de cacao invendues sur les bras,
lemonde.fr, 16 febbraio 2017.
4- Charles Bouessel, Agriculture : la filière cacao envahie par la fraude à la certification, jeuneafrique.com, 3 febbraio 2017.
5- Carlverth Kouakou, Côte d’Ivoire : Les casques bleus quittent le pays à partir du 15 février, laseve.info, 10 febbraio 2017.
6- Hamsatou Anabo, Côte d’Ivoire: Entre 15 et 18 milliards CFA de transactions quotidiennes via Mobile Money, connectionivoirienne.net, 3 febbraio 2017.

 




Congo Brazzaville: non solo petrolio


Un paese semisconosciuto. Spesso confuso con il suo vicino, il più noto Congo RD. Ma è uno dei principali produttori africani di petrolio. E i rapporti con l’Italia sono molto stretti, da mezzo secolo. Non tra i popoli, ma tra i vertici e i tecnici delle imprese petrolifere. Cerchiamo di sapee di più.

Tra Italia e Repubblica del Congo c’è un’amicizia di lunga data. Il mastice che tiene uniti i due paesi è il petrolio. Dal 1968, l’Eni, la società italiana di idrocarburi, estrae greggio e continua a fare prospezioni nei fondali marini e sulla terra ferma della nazione africana. Non è un caso che il premier italiano Matteo Renzi nella sua prima visita in Africa, nel luglio 2014, abbia incluso una tappa proprio a Brazzaville, la capitale del Congo. E in quella visita si premurò di incontrare il presidente Denis Sassou Nguesso. Esiste quindi un solido sodalizio d’affari. Per noi italiani Brazza è un partner strategico, come lo sono Angola, Mozambico, Algeria, Nigeria e, un tempo, Libia.

Un mare di greggio

L’economia della Repubblica del Congo – anche chiamata Congo Brazza – dipende in gran parte dal petrolio. Il paese è uno dei cinque grandi produttori dell’Africa subsahariana (insieme ad Angola, Nigeria, Gabon e Mozambico). Secondo i dati foiti dal Fondo monetario internazionale, l’«oro nero» assicura l’80% delle entrate del bilancio statale. Il greggio viene estratto soprattutto da giacimenti offshore (cioè al largo delle coste), ma esistono riserve anche sulla terraferma, così come notevole è la presenza di sabbie bituminose dalle quali è possibile ricavare petrolio (sebbene con procedimenti molto inquinanti e costosi). Il Congo Brazza ha pure importanti giacimenti di gas che però non riesce a sfruttare appieno perché manca una rete di distribuzione (nonostante rappresentino un’ulteriore potenziale fonte di ricchezza).

«Il Congo – spiega Antonio Tricarico, analista dell’associazione Re:Common, che a più riprese si è occupato della situazione congolese – punta anzitutto allo sfruttamento dei giacimenti marini. E questo per due motivi: in primo luogo perché nei fondali congolesi il petrolio è abbondante e le riserve promettono bene, in secondo luogo perché i giacimenti petroliferi congolesi sono relativamente vicini alla costa e quindi più facilmente sfruttabili. Alcuni anni fa, quando il prezzo del greggio era abbastanza elevato, il Congo ha investito nello sfruttamento delle sabbie bituminose e dei biocombustibili. Il progetto però è rimasto limitato alla fase esplorativa, probabilmente perché non era più conveniente rispetto alla produzione offshore e sulla costa. Oggi il governo punta soprattutto sulla concessione delle tradizionali licenze di sfruttamento». Secondo l’Energy Information Administration (ente statistico sull’energia del governo Usa), il paese ha riserve di petrolio che ammontano a 1,6 miliardi di barili. Un patrimonio che potrebbe portare sollievo a quella ampia fascia (46,5%) di popolazione che vive ancora sotto la soglia di povertà e potrebbe garantire energia al 65% di congolesi che ancora vivono senza elettricità.

Sventola il tricolore

Questa ricchezza però fa gola a molti. E infatti sul territorio di Brazza operano compagnie statunitensi, francesi, portoghesi, angolane. E, come già detto, anche l’italiana Eni. La società di San Donato opera nella nazione africana da 48 anni. È impegnata sul fronte dell’estrazione di petrolio, del gas naturale e delle sabbie bituminose. Secondo quanto riporta il sito Eni (www.eni.it), nel 2015 in Congo sono stati estratti un totale di 103mila barili al giorno tra gas e petrolio, cioè poco meno di quanto si estrae in Nigeria (137mila barili) e più di quanto viene ottenuto dai pozzi in Angola (101mila). La produzione è concentrata nei giacimenti di Zatchi, Loango, Ikalou, Djambala, Foukanda e Mwafi, Kitina, Awa Paloukou, M’Boundi, Kouakouala, Zingali e Loufika. Proprio quest’anno, 2016, l’Eni ha aumentato la produzione e prevede di toccare i 14mila barili al giorno. L’attività degli italiani si è concentrata soprattutto sull’estrazione marina.

Il blocco Marine XII sembra quello più promettente: si stima che i vari giacimenti di quest’area abbiano riserve di gas e petrolio per circa 6 miliardi di barili. Ma le esplorazioni continuano e gli ingegneri del «Cane a sei zampe» pensano che altre risorse siano ancora disponibili. L’Eni inoltre è attiva anche nella produzione di corrente elettrica. Nel 2007 ha infatti siglato un accordo con Brazzaville per la realizzazione di centrali elettriche che utilizzano il gas flaring, cioè il gas associato all’estrazione di petrolio. Questo gas, invece di essere rilasciato nell’atmosfera (è molto inquinante), viene portato, attraverso un gas-dotto di 55 km, nell’area di Djeno dove sono state realizzate due centrali che producono energia.

«I rapporti tra Congo ed Eni sono ottimi – osserva Tricarico -. Una piccola curiosità: Claudio Descalzi, l’attuale amministratore delegato dell’azienda del “Cane a sei zampe”, ha fatto una parte importante della sua carriera proprio in Congo e si è sposato con una donna congolese. Al di là dei pettegolezzi, la società italiana, in questi ultimi anni, ha rafforzato la sua presenza nel paese africano che è diventato sempre più strategico per i piani alti di San Donato. Nei prossimi anni, se non nei prossimi mesi, l’Eni dovrebbe addirittura acquisire alcune delle licenze ora in mano a Total. Quest’ultima pare invece volersi progressivamente sganciare da Brazzaville. L’Eni è quindi un attore chiave nel paese ed è destinato a diventarlo sempre di più in futuro».

Petrolio opaco

Il settore petrolifero congolese però alimenta un sistema opaco, in cui è difficile definire con esattezza i confini tra la legalità e la complicità con un sistema politico non trasparente, e poco rispettoso delle procedure democratiche. La questione che ha destato maggiore perplessità negli osservatori è il decreto presidenziale (non ancora trasformato in legge) approvato nel 2014. Esso prevede l’obbligo di rinnovo delle concessioni petrolifere e, in tale contesto, la cessione di una percentuale che va dall’8 al 10% (in alcuni casi fino al 25%) delle concessioni a società congolesi. Ciò non esclude lo sfruttamento dei giacimenti da parte delle compagnie straniere, ma impone una presenza sempre più importante di società congolesi nel settore degli idrocarburi.

Nel 2014 l’Eni ha venduto proprie partecipazioni in quattro campi petroliferi a una società che si chiama Aogc (Africa oil & gas corporation). La notizia della cessione a Aogc è emersa durante l’assemblea degli azionisti dell’Eni il 13 maggio 2015. «La Aogc è stata proposta come partner da Eni o dal governo congolese?», ha chiesto Elena Gerebizza, azionista e rappresentante delle due Ong Global Witness e Re:Common. «Non siamo stati noi a sceglierla», ha risposto Claudio Descalzi. L’Aogc non è una società qualsiasi. Nel consiglio di amministrazione siedono Denis Gokana, consigliere del presidente Sassou Nguesso, e alcuni funzionari pubblici. Nel 2005 l’azienda è finita nel mirino dell’Alta corte di giustizia inglese che l’ha inserita in una lista di società offshore create per distrarre i ricavi petroliferi congolesi. Secondo una ricerca di Global Witness, la Aogc sarebbe anche servita per pagare i salati conti dello shopping parigino di Denis Christel, figlio del presidente Sassou Nguesso (spesso i dirigenti africani amano fare compere nelle capitali europee, ndr).

Ma quello dell’Aogc non è l’unico caso che desta perplessità. «Nel periodo 2003-2005 – continua Tricarico – esistevano in Congo varie società petrolifere che io definirei di facciata, perché prendevano appalti dalla società nazionale degli idrocarburi e poi utilizzavano i soldi a beneficio della famiglia presidenziale. In questi mesi, nella Repubblica di San Marino, l’intermediario francese Philippe Maurice Chironi sta subendo un processo per presunto riciclaggio di 70 milioni di euro – di cui circa 20 effettivamente sequestrati – riconducibili a persone legate al presidente del Congo Brazzaville, Denis Sassou Nguesso».

Il settimanale «l’Espresso» ha sollevato un altro caso delicato, quello del blocco Marine XII. Il regime di Nguesso ha posto una condizione per il rilascio della concessione – ha scritto il periodico -: l’Eni avrebbe dovuto cedere il 25% del blocco a un’azienda selezionata dal governo. La scelta è caduta sulla New Age, una società nata due anni prima su iniziativa dell’Och-Ziff Capital Management Group, il più grande hedge fund statunitense. «Per quello scambio con Eni – si legge su l’Espresso -, New Age ha detto di aver versato all’azienda guidata oggi da Descalzi 53 milioni di dollari. Il problema è che quel prezzo era equivalente a un terzo del valore reale della quota, secondo i calcoli della McDaniel Associates Consultants, società di consulenza citata dalla stessa New Age. Ovvero la quota azionaria è stata largamente sottopagata. La differenza, spiega l’Eni, dipende dal fatto che “non si è trattato di una vendita su base commerciale; New Age entrò rimborsando proporzionalmente le spese sostenute fino al momento dell’ingresso nella joint venture”. Sulle attività africane di Och-Ziff stanno indagando le autorità statunitensi. Né l’hedge fund né gli inquirenti hanno specificato su quali investimenti sono in corso gli accertamenti».

Dulcis in fundo, sempre «l’Espresso», ha denunciato l’esistenza nel paradiso fiscale delle British Virgin Islands di una società, la Elengui Limited, la cui direttrice e socia unica era Marie Madeleine Ingoba, moglie congolese di Claudio Descalzi. La società è stata chiusa proprio nei giorni in cui Matteo Renzi ha nominato Descalzi al posto di Paolo Scaroni (2014).

Perché la moglie dell’allora numero due dell’Eni ha creato questa società? Marie Madeleine Ingoba ha sostenuto che «la società era stata costituita al solo scopo di essere utilizzata per sviluppare un progetto immobiliare a Brazzaville, la ristrutturazione e l’ammodeamento di un hotel nella capitale congolese, che però non si è mai materializzato». La scelta di crearla in un paradiso fiscale è stata dettata dalla praticità – ha detto la signora Descalzi -, la registrazione alle British Virgin lslands era la soluzione più rapida e meno costosa. Ma, sempre secondo la signora Descalzi, la sua società non ha mai avuto alcun rapporto con Eni.

L’amicizia è una bella cosa, ma il rischio è che l’Italia sia diventata troppo amica del Congo.

Enrico Casale

 




Kenya lago Turkana vento di sviluppo


La zona intorno al lago Turkana è la più povera e lasciata a se stessa del Kenya. Da qualche anno a questa parte, però, qualcosa è cambiato: un giacimento di petrolio, il progetto dell’impianto eolico più grande d’Africa, la diga sul tratto etiope del fiume Omo, un enorme bacino sotterraneo d’acqua hanno portato l’area al centro dell’attenzione. E davanti a una sfida decisiva.

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Quando si cerca di descrivere Loiyangalani, villaggio «dalle molte piante» sulle rive del lago Turkana, è facile venire colti dall’ansia da prestazione. D’istinto, viene voglia di cercare una combinazione di parole originale, unica e definitiva per un posto che non ha niente di già visto, per un posto che somiglia solo a se stesso. Qualcuno parla di paesaggio lunare, altri dell’angolo remoto di mondo dove Dio ha accatastato tutti i sassi che erano avanzati dalla creazione, altri ancora di tempo sospeso, promemoria per un’umanità che dovrebbe ricordarsi da dove viene.

Forse l’unica operazione davvero onesta è quella della semplice elencazione: montagne di pietre nere, colline di roccia marrone, sabbia ocra, sassi bianchi, l’acqua del lago: turchese la mattina, verde petrolio a mezzogiorno, blu turbante di tuareg la sera. Donne turkana coperte di rosso e di collane di perline, pochissimi uomini, almeno durante il giorno, perché la gran parte sono fuori dal villaggio col bestiame. Capanne a forma di igloo di paglia gialla, ghiaia grigia, chiazze di erba cresciuta dove il sole s’è distratto, dimenticandosi di seccarla. Capre, cammelli, zebù, qualche asino. Le acacie, quelle sì identiche ovunque, capaci di crescere anche fra i sassi, testarde e indifferenti. L’antenna  bianca e rossa della rete cellulare, rare casette squadrate di cemento.

Un elenco, certamente non completo, per descrivere un luogo speciale.

Le piaghe: siccità, conflitti, analfabetismo

Quel che è certo, invece, è che la zona intorno al lago Turkana è la più povera del Kenya. Tanto per cominciare, è collegata malissimo con il resto del paese: da Nairobi a Loiyangalani, occorrono tre giorni di 4×4, due per i più audaci; gli abitanti della zona parlano di «andare in Kenya» quando si accingono a uscire dal loro distretto.

La parte a Ovest del lago, la Turkana County, e quella a Est, la Marsabit County, hanno tassi di povertà del 94 e del 91 per cento. Seicentomila persone vivono con meno di 1.562 scellini keniani al mese (circa 15 euro) nelle zone rurali, e 2.913 (circa 30 euro) nelle zone urbane. Con trenta gradi d’inverno e quarantacinque d’estate, frequenti ondate di siccità e qualche rara ma devastante inondazione, la popolazione della zona vive prevalentemente di pastorizia, integrata con la pesca. Il tasso di analfabetismo è intorno all’85 per cento (96 per le donne), quello di infezione da HIV oltre l’undici per cento, circa il doppio di quello nazionale. Gli scontri fra gruppi etnici, connessi principalmente ai furti di bestiame e alle conseguenti rappresaglie, non hanno mai assunto le dimensioni di un conflitto su ampia scala, ma hanno accompagnato la storia della convivenza nell’area da tempo immemorabile, con tutti i morti e i feriti che inevitabilmente si contano in un luogo dove anche una banale ferita come un taglio può essere fatale, vista la carenza di centri sanitari. Qualcuno calcola che ogni maschio, dai 17 anni in su, abbia un AK47 e il banditismo è un fenomeno tutt’altro che sconosciuto.

Questo è il contesto, già di suo non certo facile, sul quale si sono innestate negli anni Dieci di questo secolo una serie di scoperte e di eventi che mettono il Turkana davanti a un bivio: da una parte la strada del salto di qualità, dall’altra quella della distruzione senza appello.

Acqua che viene, acqua che va

Nel 2013 il governo del Kenya e l’Unesco hanno annunciato che la ricerca da loro condotta con finanziamenti giapponesi ha portato alla scoperta nella Turkana county (dall’altra parte del lago rispetto a Loiyangalani) di un enorme riserva sotterranea di acqua. Si tratta di due bacini, uno vicino alla città di Lotikipi e l’altro, molto più piccolo, a Lodwar (capitale della county e sede della diocesi). Solo Lotikipi dispone, a una profondità di circa trecento metri, di oltre duecento miliardi di metri cubi, pari a circa nove volte le riserve totali del Kenya. Lo sfruttamento delle risorse idriche, una volta portata l’acqua in superficie, sarebbe anche sostenibile, perché il bacino ha un rifoimento annuale spontaneo più che sufficiente – 3,4 miliardi di metri cubi – grazie all’acqua proveniente dalle montagne dell’Etiopia. A fronte di un consumo annuale di acqua pari a 2,7 miliardi di metri cubi all’anno per tutto il paese, la stima è che il bacino garantirebbe acqua all’intero Kenya per settant’anni.

Ma il condizionale è ancora d’obbligo. Intanto perché il trovare l’acqua e il renderla disponibile, con tutto l’investimento in perforazioni e infrastrutture connesso, sono due cose molto diverse. E poi perché nel marzo 2015 alcuni test su pozzi scavati a Lotikipi hanno rivelato che l’acqua è troppo salina per il consumo umano, almeno secondo il Rift Valley Water Services Board, e dovrebbe quindi subire un lungo e costoso processo di desalinizzazione. Altre fonti suggeriscono invece che i rapporti basati sui test sono troppo pessimistici, che in altri pozzi il grado di salinità sarebbe molto inferiore e che comunque l’acqua sarebbe adatta almeno per usi agricoli e per abbeverare il bestiame.

Mentre le ricerche per stabilire la fruibilità di quest’acqua sono ancora in corso, gli effetti di un altro mega-progetto idrico, stavolta in un paese confinante, rischiano invece di essere drammatici. La diga Gibe III sul fiume Omo, in Etiopia, è entrata in funzione lo scorso ottobre. Secondo Addis Abeba, la diga dovrebbe aumentare del 234 per cento la produzione elettrica etiope: 1.870 megawatt che andranno ad alimentare le ambizioni industriali nazionali e ad aumentare l’esportazione di energia all’estero. Regolando il flusso del fiume, inoltre, la diga servirà i progetti di irrigazione su larga scala che il governo etiope intende realizzare nella vallata dell’Omo.

Ma, avverte Survival inteational, l’Omo fornisce al lago Turkana circa il novanta per cento delle sue acque e l’irrigazione in Etiopia potrebbe ridurre della metà l’afflusso idrico facendo abbassare il Turkana di venti metri. Il danno per l’ecosistema sarebbe pesantissimo, inducendo non solo una drastica riduzione della disponibilità di pesce ma anche un inasprirsi della siccità che porterebbe a ulteriori conflitti, anche transfrontalieri, fra le migliaia di pastori della zona in cerca di acqua per gli animali.

Le promesse non mantenute del petrolio

A complicare ulteriormente il quadro è arrivata, nel 2012, la scoperta di un giacimento di petrolio – dalla capacità quantificata in seicento milioni di barili – fra Lokichar e Lodwar, nell’area a Ovest del lago.

La multinazionale anglo-irlandese Tullow Oil, insieme alla compagnia partner canadese Africa Oil e, più di recente, alla danese Maersk, prevede di cominciare lo sfruttamento commerciale dei pozzi nel 2020 ma, a dar retta al quotidiano online Business Daily, il governo keniano sta spingendo per anticipare i tempi. In ballo, funzionale all’esportazione di petrolio, c’è la costruzione dell’oleodotto Lapsset (Lamu Port Southe Sudan-Ethiopia Transport), che collegherebbe il porto di Lamu (sull’Oceano Indiano), alla città di Isiolo, nel centro del Kenya, per biforcarsi poi in due bracci, uno diretto in Etiopia e l’altro in Sud Sudan e Uganda.

Mentre la Tullow Oil si è affrettata fin dal 2012 a pubblicizzare sul proprio sito i progetti di cooperazione che sostiene nell’area del giacimento e a istituire borse di studio per studenti keniani, sul campo le difficoltà non hanno tardato a manifestarsi. In un articolo dello scorso luglio, l’Economist raccontava delle diffidenze fra le compagnie petrolifere, che lamentano la difficoltà a trovare localmente personale qualificato, e la comunità locale, che teme di essere «scippata» degli impieghi migliori a favore di personale proveniente da altre aree, e minaccia ricorsi contro i possibili danni ambientali.

Nel 2013, un gruppo di quattrocento lavoratori ha attaccato gli impianti di trivellazione chiedendo più lavoro e più benefici, mentre nel 2014 il crollo del prezzo del petrolio ha indotto un altro ridimensionamento, almeno nell’immediato, delle speranze delle popolazioni del Turkana: finché il greggio resta sotto i 70 dollari al barile, stimano gli esperti, non è conveniente continuare le operazioni di estrazione. E infatti la Tullow negli ultimi mesi ha decisamente spinto sul freno.

Il vento dello sviluppo

Se il petrolio frena, il vento accelera: il mega-progetto della wind farm, il parco eolico, sarà completato entro ottobre 2016, annuncia la Kenya Electricity Transmission Company (Ketraco), che sta supervisionando i lavori di costruzione. La Lake Turkana Wind Power Limited, consorzio titolare del progetto prevalentemente composto da aziende private nordeuropee, prevede di produrre i primi 50 megawatt a settembre, mentre i 310 megawatt totali dell’impianto a pieno regime saranno immessi nella rete elettrica kenyana entro luglio 2017.

Siamo ora sulla riva orientale del lago Turkana, a una quarantina di chilometri da Loiyangalani. Qui verranno installate 365 turbine con una capacità di 850 kilowatt ciascuna su una superficie di circa 160 chilometri quadrati, per un costo complessivo vicino ai 700 milioni di dollari: l’investimento privato più consistente nella storia del Kenya indipendente, capace di fornire al paese circa un quarto dell’energia di cui ha bisogno. Il Turkana è particolarmente indicato per lo sfruttamento dell’energia eolica, poiché il vento in questa zona permette di raggiungere un fattore di capacità – cioè il rapporto fra l’energia effettivamente prodotta e quella che l’impianto è capace di produrre in condizioni ottimali costanti – del 62 per cento, contro il 25-35 per cento degli altri impianti. La Banca Mondiale, all’inizio fra i sostenitori del progetto, si è sfilata nel 2012 dopo avere sollevato dubbi sulla capacità del sistema kenyano di assorbire davvero tutta quell’energia, sottolineando il rischio per i consumatori di pagare annualmente l’equivalente di cento milioni di dollari per elettricità di fatto non utilizzata.

Nessuno dei membri del consorzio, per la verità, ha fatto una tragedia del ritiro della Banca, anzi, pare che alla Ketraco qualcuno abbia perfino commentato: meglio così, tanto creava solo inutili ostacoli. Tanto più che, se ancora c’erano dubbi sull’affare rappresentato dal parco eolico, ci ha pensato Google a fugarli, buttando sul piatto quaranta milioni di dollari per riservarsi il 12,5 per cento delle quote una volta che l’impianto sarà funzionante. Il colosso statunitense ha così voluto ribadire il suo interesse per le energie sostenibili e, ovviamente, anche per l’opportunità di aumentare i propri clienti, dal momento che elettricità e Inteet vanno a braccetto.

Pro e contro

Anche nel caso del parco eolico non mancano le perplessità e i contrasti, a cominciare dalle difficoltà di comprensione del progetto da parte della popolazione locale nella fase iniziale delle consultazioni. In più ci sono anche ricorsi legali da parte dei rappresentanti comunitari contro le violazioni del diritto alla terra (soprattutto per garantire il diritto di pascolo) nelle aree dove saranno installate le turbine. A questo si aggiungono poi – come per gli impianti petroliferi – le aspettative non sempre soddisfatte delle comunità riguardo alla creazione di nuovi posti di lavoro (i locali non sono preparati per un lavoro così diverso dalla pastorizia e dalla pesca), l’arrivo di personale esterno e l’incremento del flusso turistico grazie a strade migliori, con tutto quello che ne consegue in termini di aumento dei prezzi, incidenza di malattie sessualmente trasmissibili e impatto complessivo su una comunità finora fortemente isolata.

Da ultimo, a complicare la situazione, ci sono i contrasti sulla spartizione dei benefici tra la Marsabit county (con i Turkana e altre etnie) e la Samburu county (prevalentemente Samburu) che condividono gli incerti confini proprio nell’area del wind park.

Progetti come questi, come minimo inducono un miglioramento dal punto di vista delle infrastrutture, a cominciare dalla costruzione delle strade e, come dice un  leader comunitario citato dal Guardian, «offrono ai bambini una scelta che i loro padri e nonni non hanno avuto». Ma è proprio su questo che si gioca la partita: se non ci sarà una chiara ed equa ripartizione dei benefici e un coinvolgimento reale delle comunità, il Turkana non sarà un modello di sviluppo per tutta l’Africa ma un incubo fatto di sfruttamento, devastazione degli ecosistemi e migrazione forzata di migliaia di persone verso le già affollate e dolenti periferie urbane.

Chiara Giovetti