Africa. Fame di energia


Anche in Africa la corsa alle energie rinnovabili è aperta. Il continente è il maggiore produttore al mondo di minerali necessari alla transizione verde. Solitamente sfruttati da altri. Intanto anche il nucleare si sta facendo strada. Il caso Rwanda.

Negli ultimi anni, molti Paesi africani – come diversi altri nel mondo – hanno iniziato a investire in una diversificazione delle proprie fonti energetiche, guardando sempre di più all’introduzione delle rinnovabili. Una decisione derivante, da un lato, dalla necessità di garantire una fornitura sicura e capillare di energia elettrica a cittadini e imprese e, dall’altro, dall’esigenza sempre più pressante di sviluppare politiche di adattamento e contrasto al cambiamento climatico.

A caccia di elettricità

In Africa subsahariana, la domanda di elettricità è in crescita, ma, secondo l’Agenzia internazionale dell’energia (organizzazione intergovernativa che coordina le politiche energetiche dei Paesi membri), circa 600 milioni di persone e 10 milioni di piccole imprese ancora non vi hanno accesso. La necessità di soddisfare questa richiesta sta quindi imponendo agli Stati del continente di ripensare il proprio mix energetico, introducendo nuove fonti. Per la generazione di elettricità, infatti, molti Paesi dipendono ancora da petrolio e gas naturale, i quali, oltre a inquinare, hanno spesso elevati costi di importazione per chi non li produce.

Nel mentre – di fronte all’accelerare del cambiamento climatico e alla crescente consapevolezza dell’irreversibilità dei suoi effetti -, crescono anche le pressioni occidentali sui Paesi del Sud globale affinché adottino politiche di adattamento e contrasto al cambiamento climatico. Nei fatti, questo vuol dire che regioni come l’Africa – l’area che in tutto il mondo emette la minore quantità di gas serra e che però, con Asia meridionale e America Latina, subisce la maggioranza degli effetti del cambiamento climatico – devono sviluppare e realizzare piani di transizione ecologica.

Al di là delle difficoltà economiche che molti Stati del continente affrontano per ottenere i fondi necessari a sviluppare queste politiche o per ripagare i tassi di interesse – spesso elevati – posti sui prestiti di Paesi occidentali e organizzazioni internazionali, lo sviluppo delle energie rinnovabili sta diventando un punto imprescindibile delle agende politiche di molti governi africani.

Nuclear power station, Koeberg, Western Cape, South Africa. (Photo by DR NEIL OVERY/SCIENCE PHOTO LIBR / NOY / Science Photo Library via AFP)

Ricchezza fatale

Poche aree del mondo si collocano al centro della transizione ecologica mondiale come l’Africa. Da un lato, il continente è ricco di risorse minerarie essenziali per la produzione di dispositivi come pannelli solari, auto elettriche e computer, tanto da essere al centro di una corsa all’accaparramento da parte di multinazionali e Stati stranieri, interessati a sfruttare il più possibile i suoi giacimenti (vedi box).

Dall’altro, l’Africa ha un potenziale di generazione di energie rinnovabili enorme. Ad esempio, il deserto del Sahara è l’area del mondo che riceve la maggiore quantità di sole in un giorno. I numerosi fiumi che attraversano tutto il continente permettono la produzione di energia idroelettrica, mentre nella zona della Rift Valley (Africa orientale) il calore del sottosuolo è utilizzabile per l’enegia geotermica.

Tuttavia, lo sfruttamento di queste fonti energetiche ha una doppia faccia. In Paesi dove la rete elettrica non è capillare e le aree rurali sono spesso tagliate fuori dalla fornitura nazionale, la possibilità di installare piccole unità di generazione elettrica (soprattutto pannelli solari, ma anche piccole centrali idroelettriche e pale eoliche) renderebbe intere comunità autonome. Dall’altro lato, però, i costi da sostenere sono consistenti e spesso improponibili per gli abitanti delle aree rurali. Inoltre, sovente l’installazione di questi impianti priva le popolazioni di aree di coltivazione o pascolo. Essi quindi dipendono da sussidi statali, investimenti e progetti stranieri per l’installazione e la messa in funzione delle infrastrutture necessarie per sfruttare il potenziale energetico del territorio circostante.

Attrazione nucleare

Tra tutte le fonti di energia, ce n’è una sempre più apprezzata in Africa, benché non sia tra quelle universalmente considerate come rinnovabili: il nucleare. La costruzione di centrali, anche solo in numero limitato, offrirebbe infatti la possibilità di produrre un’elevata quantità di energia, indipendentemente da stagione, momento della giornata e condizioni meteorologiche, a differenza di altre fonti rinnovabili. In più, secondo i governi di molti Paesi, nel lungo periodo, il nucleare garantirebbe una maggiore quantità di elettricità a costi minori rispetto alle fonti attualmente utilizzate e senza produrre emissioni di anidride carbonica. Inserito nel mix energetico, a fianco delle fonti rinnovabili, il nucleare permetterebbe quindi agli Stati africani di accelerare nella transizione ecologica, garantire elettricità a un maggior numero di abitanti del continente, supportare la crescita industriale e creare nuove opportunità lavorative.

Attualmente, tre Paesi – Namibia, Sudafrica e Niger – estraggono uranio in quantità tali da soddisfare il 18% della produzione mondiale. Ma giacimenti significativi – in alcuni casi già parzialmente sfruttati, in molti altri non ancora – si trovano anche in altri Stati come Botswana, Malawi, Mauritania, Tanzania e Zambia. Tanto che diversi Paesi hanno iniziato a muoversi concretamente per avviare la costruzione di siti nucleari. Ben presto, quindi, la centrale sudafricana di Koeberg – dotata di due reattori da duemila megawatt ciascuno – potrebbe non essere più l’unica nel continente.

Quarantacinque Paesi africani stanno cooperando con l’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea), l’organizzazione per lo sviluppo del nucleare con finalità civili che definisce i perimetri operativi e infrastrutturali affinché i programmi siano sicuri, protetti e sostenibili. L’obiettivo è accertarsi che la costruzione e attivazione delle centrali permetta di affrontare le priorità energetiche, sociali ed economiche degli Stati interessati, oltre a verificare il rispetto delle misure di sicurezza necessarie.

Più avanti è invece l’Egitto che a el-Dabaa ha già iniziato la costruzione del suo primo impianto. Composta da quattro reattori da 1.200 megawatt ognuno, la centrale è frutto della cooperazione de Il Cairo con Rosatom, azienda statale russa per lo sviluppo dell’energia atomica.

Infatti, diversi attori stranieri – sia Stati che imprese – stanno contribuendo a rendere sempre più attraente lo sviluppo del nucleare in Africa. Paesi come la Cina, ma ancor di più la Russia, sono protagonisti della corsa al nucleare nel continente.

Isolata a livello internazionale, Mosca mira a rafforzare i propri legami con diversi alleati – tra cui i Paesi africani -, e il nucleare è uno dei suoi tanti strumenti di cooperazione. Rosatom offre infatti contratti all-in-one (letteralmente, «tutto in uno») particolarmente apprezzati: l’azienda si occupa di tutte le fasi del progetto, dalla costruzione dell’impianto alla formazione dei lavoratori locali, dalla fornitura di uranio alla gestione delle scorie.

Gente in fuga in Congo Rd dopo scontri con l’M23 (legato al Rwanda) nella zona di Masisi, Nord Kivu. (Photo by Aubin Mukoni / AFP)

Il caso Rwanda

Uno dei Paesi africani che più sta investendo in energie rinnovabili è il Rwanda. Con l’obiettivo di raggiungere il 100% dell’elettrificazione nazionale nei prossimi anni, il Governo sta puntando sempre di più sullo sviluppo della rete elettrica, di sistemi autonomi di accesso all’elettricità per le comunità rurali e di fonti energetiche alternative a petrolio e gas.

Secondo il ministero rwandese dell’Infrastruttura, già nel 2018, il 53% dell’elettricità nel Paese proveniva da fonti rinnovabili, una cifra che tre anni dopo era cresciuta al 62%.

Nel 2022, metà della produzione energetica nazionale era soddisfatta dalla generazione idroelettrica, grazie a 37 centrali connesse alla rete statale e ad altri undici piccoli impianti che garantivano elettricità alle comunità rurali non toccate dalla fornitura nazionale. Tra queste comunità, diffusi sono i pannelli fotovoltaici, utilizzati soprattutto per sostenere l’irrigazione e l’illuminazione nei contesti agricoli. Mentre ancora poco sfruttato è il potenziale geotermico che in prospettiva potrà esserlo, dato che il Paese si colloca nella Rift Valley.

Interessi nucleari

E poi ci sono gli investimenti nel nucleare. Secondo quanto dichiarato da Fidel Ndahayo al momento della sua nomina a presidente del Consiglio rwandese dell’energia atomica, l’introduzione di questa tecnologia – applicabile in numerosi ambiti come medicina, industria e agricoltura – è un tassello fondamentale «per raggiungere la totale elettrificazione del territorio nazionale, soddisfare la domanda di energia dei cittadini, stimolare la crescita del settore industriale e sviluppare un’economia resiliente al cambiamento climatico».

Finanziamenti russi – arrivati grazie a un accordo di cooperazione tra Kigali e Mosca firmato nel 2018 e approfondito negli anni successivi – stanno supportando la costruzione e messa in funzione di un Centro per la scienza e la tecnologia nucleare, finalizzato allo studio e allo sviluppo del nucleare nel Paese.

Inoltre, un’intesa da 75 milioni di dollari siglata a settembre 2023 con Dual fluid energy, azienda canado-tedesca del settore, è finalizzata a sviluppare e testare in Rwanda un reattore dotato di una tecnologia innovativa, ritenuta più efficiente e sicura di quella tradizionale e in grado di produrre una quantità minore di scorie.

Nel quadro di quest’ultimo accordo, Kigali ha accettato di fornire sito e infrastrutture dove realizzare la sperimentazione, mentre Dual fluid energy si è assunta la responsabilità dell’implementazione tecnica del progetto e della formazione degli scienziati locali.

Il governo rwandese non nasconde la propria ambizione di diventare, nei prossimi anni, un punto di riferimento per lo sviluppo del nucleare in Africa. Invece di limitarsi a siglare accordi per la costruzione di centrali per la produzione di elettricità, la sua strategia mira alla ricerca e allo sviluppo di soluzioni innovative per il futuro. Se la sperimentazione di Dual fluid energy, infatti, dovesse concludersi con esito positivo (ci si aspetta che il reattore sia operativo nel 2026, mentre i test dovrebbero terminare nel 2028), oltre ad aggiungere questa tecnologia al mix energetico già esistente, il Rwanda si porrebbe come riferimento per la produzione e la diffusione dei nuovi reattori in Africa centrale, ma anche nell’intero continente.

Investimenti e rischi

Investire nel nucleare però non è esente da rischi, a maggior ragione in Paesi con un contesto sociale, economico e di sicurezza fragile. Diversi sono gli interrogativi, a partire dai costi elevati e dai tempi lunghi per la costruzione degli impianti, fino ad arrivare alla garanzia di sicurezza delle centrali e del territorio circostante.

La sola costruzione di un reattore da mille megawatt richiede generalmente cinque miliardi di dollari statunitensi e dieci anni, dal momento dell’approvazione del progetto a quello di inizio della generazione elettrica. Uno sforzo economico e di tempo non da poco che la maggior parte dei Paesi del continente non è in grado di sostenere autonomamente. Dunque, la necessità di prestiti o finanziamenti – spesso erogati con elevati tassi di interesse da altri Stati o organizzazioni internazionali – crea una dipendenza nei confronti dell’entità finanziatrice che si può protrarre per diversi anni.

A ciò si affiancano i timori sulla sicurezza degli impianti e del territorio circostante. Se, nel primo caso, l’auspicio è che vengano seguite le direttive dell’Aiea; nel secondo, la preoccupazione è maggiore. Molti Paesi, che stanno investendo nel
nucleare, o sono interessati a farlo, sono caratterizzati da una situazione sociale, politica e militare altamente instabile a causa della presenza di movimenti armati e tensioni sociopolitiche. Un’escalation di scontri nelle vicinanze di una centrale nucleare avrebbe effetti – potenzialmente – devastanti.

Senza dimenticare il rischio posto da eventi meteorologici estremi o disastri ambientali, sempre più frequenti a causa del cambiamento climatico. Se poi l’evento destabilizzante dovesse verificarsi in un Paese ad alta densità abitativa – come, ad esempio, il Rwanda, dove per ogni chilometro quadrato vivono 547 persone -, le ripercussioni rischierebero di essere drammatiche.

È per questo che diversi studiosi si chiedono se effettivamente il nucleare – tra tutte le fonti energetiche – sia la soluzione per l’energia africana. La risposta che finora si sono dati non è così certa. Ma i Paesi africani sembrano pensarla diversamente: per loro il nucleare è il futuro del continente.

Aurora Guainazzi

Impianto fotovoltaico da 50 Megawatt in Mauritania (Photo by MED LEMINE RAJEL / AFP)


Siglato un accordo Ue-Rwanda sui metalli strategici

Così si finanziano le guerre

Il 19 febbraio, l’Unione europea (Ue) e il Rwanda hanno siglato un accordo di cooperazione incentrato sui minerali essenziali per la produzione di molti dei dispositivi al centro della transizione ecologica. L’obiettivo dell’intesa è «rafforzare il ruolo del Rwanda nella promozione dello sviluppo durevole e delle catene di valore resilienti in Africa». Ovvero, si prevedono investimenti europei (realizzati nell’ambito del Global Gateway, la strategia dell’Ue per gli investimenti in settori critici) per lo sviluppo del settore minerario rwandese, con particolare attenzione a risorse come tantalio, stagno, tungsteno, oro, niobio, litio e terre rare. Nei fatti, l’obiettivo ultimo dell’Ue è garantirsi un approvvigionamento sicuro e durevole di minerali sempre più importanti per il futuro della transizione ecologica.

Ma buona parte delle risorse minerarie esportate dal Rwanda, in realtà, non è estratta nel Paese (i cui giacimenti sono limitati e poco sfruttati). Piuttosto, proviene dalle province orientali della Repubblica democratica del Congo (Rdc), dove la diffusa conflittualità e l’incapacità del governo centrale di essere presente efficacemente su tutto il territorio facilitano il contrabbando di minerali nei Paesi vicini, tra cui, il Rwanda. Flussi commerciali illegali che sono stati denunciati in rapporti delle Nazioni Unite e da organizzazioni come Global witness (un ente che analizza il legame tra conflitti e risorse). Proprio una recente indagine di Global witness ha evidenziato come, negli ultimi anni, solo il 10% dei minerali esportati dal Rwanda fosse stato realmente estratto nel suo territorio, mentre il restante provenisse dalla Rdc.

Non a caso, la reazione del governo congolese all’accordo è stata particolarmente dura. Kinshasa ha criticato l’Ue e denunciato che il Rwanda «non ha nel suo sottosuolo nemmeno un grammo di questi minerali». Invece, si appropria di quelli congolesi, grazie al contrabbando dei movimenti armati attivi nell’Est della Rdc e al saccheggio dei militari rwandesi presenti illegalmente nelle province orientali a supporto del Movimento del 23 marzo (M23). A inasprire ulteriormente la reazione di Kinshasa è stata anche la consapevolezza che l’accordo del 19 febbraio non è l’unica forma di collaborazione esistente tra Rwanda e Ue. Kigali è infatti un importante alleato politico, ma soprattutto militare dell’Occidente, tanto che Stati Uniti e Ue addestrano e riforniscono il suo esercito.

A questo proposito, un comunicato del Mouvement citoyen lutte pour le changement (Lucha), organizzazione della società civile congolese, denuncia che «i soldati rwandesi che l’Ue sta addestrando e finanziando probabilmente saranno mandati nella Rdc […] e che gli accordi minerari che l’Ue sta firmando saranno utilizzati per riciclare le risorse minerarie congolesi saccheggiate dall’esercito rwandese nella Rdc».

Una volta giunti a conoscenza dell’accordo, gli abitanti di Kinshasa hanno protestato di fronte alle ambasciate occidentali. Mentre a Goma, capitale del Nord Kivu, la notizia ha rinfocolato il persistente sentimento di malcontento nei confronti dell’Occidente (e dei caschi blu delle Nazioni Unite): molti abitanti sono scesi in strada, manifestando e bruciando le bandiere dei Paesi occidentali (in particolare di Francia e Stati Uniti) e del Rwanda.

A.G.

 




Piano Mattei, le condizioni per farlo funzionare


Il Piano Mattei per l’Africa, varato dal governo Meloni nel novembre del 2023 e lanciato con il vertice Italia – Africa a Roma lo scorso gennaio, sta suscitando molto dibattito in vari settori della società. Abbiamo provato a riunire alcuni punti di vista.

Il Piano Mattei per l’Africa, per ora, consiste in un decreto legge@ del novembre 2023, convertito in legge il 14 gennaio del 2024, e in un vertice internazionale tenutosi il 28 e 29 gennaio 2024 che lo ha lanciato davanti ai rappresentanti di 46 Paesi africani. Durante l’evento, la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, ha detto@: «L’Italia ha tutte le carte in regola per diventare l’hub naturale di approvvigionamento energetico per l’intera Europa: è un obiettivo che possiamo raggiungere se usiamo l’energia come chiave di sviluppo per tutti».

È a realizzare questo sviluppo che si rivolge il Piano, concentrandosi su «cinque priorità di intervento: istruzione e formazione; salute; agricoltura; acqua ed energia», intorno alle quali costruire una relazione di «cooperazione da pari a pari», non predatoria e non caritatevole, con i Paesi africani.

Il Piano, ha annunciato Meloni, potrà contare su una dotazione iniziale di oltre 5,5 miliardi di euro tra crediti, operazioni a dono e garanzie, dei quali circa 3 miliardi dal Fondo italiano per il clima e circa 2,5 miliardi dalle risorse della cooperazione allo sviluppo, oltre che sull’impegno del governo italiano a coinvolgere altri donatori e istituzioni finanziarie internazionali e a creare assieme a Cassa depositi e prestiti, entro il 2024, un nuovo strumento finanziario per agevolare gli investimenti del settore privato nei progetti del Piano Mattei.

In questa prima parte del 2024 è presto per dire se siamo davanti a un cambio di paradigma in grado di reimpostare le relazioni con l’Africa rendendole paritarie, a un’operazione di maquillage, o a una terza variante fra questi due estremi.

Fra le preoccupazioni principali emerse subito dopo il vertice c’era quella che la priorità di intervento relativa all’energia finisca per fagocitare tutte le altre e che si concentri sul gas e altri combustibili fossili invece che sulla promozione di energia da fonti rinnovabili. Altre perplessità sorgevano poi dalla poca chiarezza riguardo la dotazione finanziaria: che cosa significa, esattamente, che i 5,5 miliardi verranno destinati dal Fondo per il Clima e dalle risorse per la cooperazione? Verranno ridefiniti i Paesi prioritari per la cooperazione? Verranno spostati fondi, ne verranno aggiunti? O ci si limiterà a quello che il sito «info-cooperazione» ha definito re-branding, cioè l’apporre un’etichetta con il logo del Piano Mattei sulle iniziative già esistenti, senza però modificarne la sostanza@?

L’operazione più onesta, in attesa di risposte certe a queste – e molte altre – domande, è quella di spacchettare ciò che si sa del Piano e individuare le condizioni per le quali potrebbe funzionare. È in questo che si stanno cimentando le varie articolazioni della società, italiana e africana, che si aspettano di essere più coinvolte di quanto lo siano state finora nella definizione del Piano.

Campo di rifugiati nelal regione di Capo Delgado, Mozambico.

Che cosa ne pensano gli africani

Pochi giorni prima del vertice, infatti, la campagna Don’t gas Africa, che riunisce decine di associazioni della società civile africana, ha diffuso una lettera e un comunicato stampa@ per lamentare la mancata consultazione proprio di quelle organizzazioni che cercano di dar voce alle comunità nel continente, incluse quelle più marginalizzate. Secondo il responsabile della campagna, Dean Bhekumuzi Bhebhe, il Piano Mattei è «un simbolo delle ambizioni dell’Italia sui combustibili fossili» e «minaccia di trasformare l’Africa in un mero canale energetico per l’Europa», rinunciando a sostenere il continente in una equa transizione energetica verso le rinnovabili.

Durante il vertice, il presidente della Commissione dell’Unione africana, Moussa Faki Mahamat, ha poi usato parole di apertura ma anche di monito: dopo aver elencato le priorità africane – agricoltura, infrastrutture, ambiente, energia, sanità, istruzione, digitalizzazione – e le difficoltà che il continente deve affrontare per realizzarle – il peso del debito, il cambiamento climatico, l’estremismo violento e il terrorismo, l’instabilità, la mancanza di finanziamenti adeguati e i gravi errori di governance – ha commentato che il Piano Mattei, «sul quale avremmo voluto essere consultati, appare coerente» con le esigenze africane. «L’Africa è pronta a discutere i contorni e le modalità della sua attuazione», ha concluso Faki Mahmat, sottolineando però «la necessità di far corrispondere le azioni alle parole. Capirete che non possiamo accontentarci di promesse che spesso non vengono mantenute»@.

Maguga Dam in eSwatini

Che cosa ne pensa il mondo della cooperazione

Anche dalle parole di Ivana Borsotto, presidente della Federazione degli organismi di volontariato internazionale di ispirazione cristiana (Focsiv)@, emerge una complessiva apertura di credito nei confronti del Piano Mattei: «Che l’Africa sia messa al centro del dibattito è un fatto positivo, mai avvenuto prima, e nelle parole della presidente Meloni ci sono alcune prese di posizione importanti: ad esempio, ha riconosciuto che il nostro destino è legato intrinsecamente all’Africa e che il modello di relazione non deve essere paternalistico». Gli organismi di volontariato, sottolinea Borsotto, sostengono e praticano questo approccio da sessant’anni ed è senz’altro positivo che ora risuonino anche nel discorso della premier.

Ma ci sono delle condizioni, oggettive e misurabili, da soddisfare perché il Piano sia efficace: «La prima è che le risorse finanziarie siano adeguate e garantite nel tempo». Borsotto è anche portavoce della Campagna 070@ per innalzare allo 0,70% del prodotto nazionale lordo i fondi destinati allo sviluppo, in linea con gli impegni presi dall’Italia in sede Onu. Fa notare che nel 2022 l’Italia è arrivata a destinare lo 0,32%: circa 6,15 miliardi di euro, cioè meno della metà dei 13 miliardi necessari per raggiungere l’obiettivo.

Famiglia di pigmei nelal foresta a Bafwasende, Congo RD

La seconda condizione riguarda la «condivisione a livello europeo». Il Global Gateway, la strategia dell’Unione europea per sviluppare infrastrutture e servizi in tutto il mondo, ha un valore complessivo di circa 300 miliardi di euro e il suo pacchetto Africa-Europa prevede investimenti per 150 miliardi: «L’iniziativa italiana deve armonizzarsi con questi strumenti e risorse messi a disposizione dall’Ue». Considerando la scala di grandezza del piano europeo, del resto, non è pensabile che l’Italia possa risultare davvero incisiva se mira ad agire da sola.

La terza condizione è quella di «evitare il superamento operativo della legge 125/14» (che ha riformato l’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo, ndr): con questo, la presidente Focsiv si riferisce al fatto che il Piano Mattei prevede la creazione di una struttura di missione in capo alla presidenza del Consiglio, finanziata con 2,3 milioni di euro l’anno a partire dal 2024, che rischia di sovrapporsi all’operato dell’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo, entità già esistente, legata al ministero degli Esteri e incaricata, appunto, di coordinare le iniziative di cooperazione.

Nel suo intervento al vertice Italia – Africa, Giorgia Meloni ha annunciato come inclusi nel Piano Mattei nove progetti pilota in Marocco, Tunisia, Algeria, Egitto, Costa d’Avorio, Etiopia, Kenya, Repubblica del Congo e Mozambico: «Noi organizzazioni della società civile» aggiunge Ivana Borsotto, «attendiamo fiduciose anche di essere coinvolte nella definizione di questi progetti». E conclude: «La politica estera dice chi siamo e come vogliamo stare al mondo: ricordiamo allora che è la legge 125 stessa a indicare nella cooperazione allo sviluppo una parte integrante e qualificante della nostra politica estera».

Che cosa ne pensa il mondo missionario

Anche padre Giulio Albanese, missionario comboniano oggi direttore dell’ufficio per le Comunicazioni sociali e di quello per la Cooperazione missionaria tra le Chiese della diocesi di Roma, appare cauto ma possibilista: accoglie come positiva la dichiarata volontà del Piano Mattei di andare oltre l’approccio caritatevole, se con questo si intende il superamento di quella «carità pelosa» alla quale padre Giulio da anni rivolge dure critiche. Ma, constata il missionario, il piano Mattei per ora è un contenitore di buone intenzioni: occorrerà vedere come si concretizzerà e su quante risorse potrà effettivamente contare.

Riflettendo poi sull’apporto che potrebbe venire dal mondo missionario, padre Giulio ricorda che questo ha fatto «senz’altro progressi nell’allontanarsi da uno stile paternalistico e da un modello emergenziale per concentrarsi di più sullo sviluppo sostenibile». Ma resta una certa frammentazione, una difficoltà a parlare con una sola voce, e questo rischia di rendere meno efficace il contributo dei missionari nell’eventualità in cui il Governo li interpellasse per delineare i contenuti del Piano.

«È mancata una reazione compatta e incisiva da parte del mondo missionario», aggiunge padre Antonio Rovelli, missionario della Consolata in servizio alla Casa generalizia di Roma. In effetti, non risulta a chi scrive che gli organismi missionari abbiano preso posizione in modo unitario e ufficiale, mentre farlo avrebbe aiutato a dimostrare che il mondo missionario è consapevole della necessità di vigilare sulla formazione delle politiche che riguardano l’Africa e si sforza di inserirsi nel dibattito per contribuire a determinarle.

Nigeria. Disastri da petrolio nel delta del Niger. Foto Sosialistik Ungdom, common credits

Il ruolo delle imprese

Il cuore del Piano Mattei riguarderà l’ambito imprenditoriale. Questa la previsione di Mario Giro, membro della Comunità di Sant’Egidio e sottosegretario, poi viceministro, degli Esteri fra il 2013 e il 2018, riportata sul numero speciale di gennaio 2024 della rivista «Africa e Affari» dedicato al Piano Mattei@. Si tratterà, a detta dell’esperto, di soft loans, cioè prestiti a tassi agevolati rispetto a quelli di mercato, «che verranno usati tendenzialmente per le imprese come tentativi di fare equity», cioè acquisto di azioni, «e di comprare imprese o parti di imprese africane e sostenere imprese o joint venture di imprese africane».

Giro giudica «intelligente, lungimirante» da parte del Governo, lo sforzo di rafforzare le relazioni con il sempre più vivace settore privato africano: operazione che altri membri Ue portano avanti da anni. Ma non manca di porre alcune domande cruciali: «Chi applicherà la teoria? Chi acquisterà tutta o parte di un’impresa africana? […] Esistono in Italia consulenti che conoscono talmente bene l’Africa da poter segnalare per un dato Paese quali sono le dieci imprese da finanziare e quali altre invece è meglio lasciare perdere?».

Se non si pone attenzione a questi aspetti, conclude l’esperto, si finisce per finanziare i progetti delle banche di sviluppo: scelta lecita, ma – aggiungiamo – che condividerebbe lo stesso limite mostrato negli anni dalla cooperazione allo sviluppo, per la quale l’Italia ha spesso usato il canale multilaterale – cioè le agenzie internazionali – molto più di quello bilaterale, di fatto delegando ad altri il ruolo e l’incisività in politica estera che nelle dichiarazioni di intenti rivendica per sé@.

Chiara Giovetti

Campo di rifugiati a Cabo Delgado, Mozambico

 




Un’India troppo solare


Nella regione nord occidentale del Rajasthan i progetti di enormi parchi di pannelli solari provocano gravi conseguenze sociali e ambientali. Il governo centrale, quelli locali e le grandi aziende dell’energia le ignorano nonostante le mobilitazioni delle popolazioni.

Chi l’avrebbe mai detto che l’energia solare avrebbe potuto provocare seri problemi ambientali, sociali ed economici laddove ci si aspettava invece solo benefici?

Eppure, è quello che sta succedendo negli ultimi anni in diverse parti del mondo, tra cui molte regioni dell’India.

Testimonianze di giornalisti e abitanti del Rajasthan, dove si stanno costruendo molti parchi solari, ad esempio, aiutano a comprendere le condizioni e i meccanismi per i quali i progetti di energie rinnovabili non sono esenti da criticità e possono causare notevoli impatti socio-ambientali.

Un problema che dovrebbe interessare anche l’Italia e l’Europa, perché tra i maggiori investitori tramite le loro aziende elettriche a partecipazione pubblica.

L’impatto del solare

Quella solare è considerata una fonte imprescindibile di energia rinnovabile per le sue basse emissioni di CO2. Quando si parla, però, dell’anidride carbonica prodotta dal solare, non si considerano le emissioni provocate dall’estrazione dei materiali necessari (cfr. Daniela Del Bene, Miniere green, MC agosto-settembre 2021, p. 56) e nemmeno la perdita dei terreni utilizzati per i parchi solari, o l’abbandono di pratiche agricole e pastorizie che mantengono la biodiversità del territorio.

Ben conoscono questa problematica gli abitanti dello stato indiano del Rajasthan, molto noto per la meravigliosa architettura dei principati precoloniali, il vivace artigianato, le colorate città, o le escursioni sui cammelli nel deserto.

Proprio questi deserti sono stati considerati il luogo ideale da convertire in una gigantesca batteria di energia solare a beneficio dell’intero Paese.

Parco solare del villaggio di Nedan

Un’India sempre più solare

L’espansione di questa tecnologia è stata dichiarata imprescindibile dal governo di Narendra Modi, in carica dal 2014.

Già nel 2010, l’allora governo in carica aveva lanciato un piano che, secondo molti scettici, sarebbe stato irraggiungibile: la National solar mission. Il suo obiettivo era effettivamente ambizioso: installare 20 gigawatt (GW) di capacità elettrica da tecnologia solare entro il 2022.

Il programma ha raggiunto l’obiettivo con quattro anni di anticipo.

Dati i buoni risultati, il governo Modi ha fissato altri obiettivi, facendo del solare un pilastro di quella che considera un’India moderna e sviluppata.

Già nel 2015, in occasione della Cop21 di Parigi, il primo ministro presentò l’International solar alliance (Isa) con l’impegno di sviluppare 100 GW di progetti solari entro il 2022.

Benché questa volta il progetto si sia dimostrato effettivamente troppo pretenzioso, tuttavia durante il 2023 il Paese sta già raggiungendo i 70 GW di capacità solare, circa il 16% dell’energia totale generata in India.

Il settore è oggi in crescita, con ulteriori obiettivi fissati ai 280 GW da installare entro il 2030 che andrebbero a sommarsi ad altre rinnovabili per un totale di 500 GW di «energia pulita».

Parchi solari nel Rajasthan

Nel 2016, il ministero per le Energie nuove e rinnovabili (Mnre) dichiarò di avere individuato «grandi porzioni di terreno» per sviluppare 34 parchi solari per 20 GW di capacità, molti dei quali nello stato nordoccidentale del Rajasthan.

Nel corso degli anni, questa cifra è aumentata fino all’attuale normativa, la Rajasthan renewable energy policy, nella quale il governo statale ha fissato l’obiettivo di 90 GW di progetti di energia rinnovabile da sviluppare entro il 2029-30. Dei 90 GW, 65 deriveranno dal solare, 15 da fonti eoliche e ibride e 10 da impianti idroelettrici e di pompaggio e da sistemi di batterie per l’accumulo dell’energia.

Il ministero sta dando priorità ai grandi parchi solari chiamati Ultra mega solar plants, con capacità superiori a 0,5 GW. Essi, rispetto ai parchi più piccoli, hanno il vantaggio di ridurre costi e perdite di trasmissione. Inoltre, rendono più semplice l’acquisizione dei terreni e delle autorizzazioni per il cambio di destinazione d’uso della terra.

Ma chi decide quali porzioni di terreno sono disponibili per questi megaprogetti? Chi dichiara il cambio d’uso di un terreno? E poi, chi beneficia di questa elettricità, e per farne cosa?

Il governo centrale e quello statale hanno un ruolo chiave. L’autorità pubblica attrae gli investimenti privati, fornisce assistenza e facilita l’assegnazione dei «terreni governativi». Si tratta di terreni di proprietà pubblica sui quali contadini e pastori locali esercitano diritti d’uso consuetudinari e dai quali dipende il loro sostentamento.

Se invece i terreni individuati appartengono a dei privati, le aziende li prendono in affitto per una quota che per loro risulta irrisoria ma per la gente locale rappresenta una cifra altissima.

Le concessioni alle imprese normalmente sono di 25 anni.

Analizzando la mappa degli attori presenti oggi in Rajasthan si trovano i nomi delle più grandi aziende indiane dell’energia: Adani, Tata e Reliance; ma anche di aziende straniere, tra cui la francese Edf e la nostra Enel.

Nel caso di queste ultime, i loro investimenti sono ancora in una fase iniziale, per cui ciò che succederà intorno ai loro megaprogetti si vedrà nei prossimi mesi e anni. Tuttavia, bene farebbero a prendere in considerazione quanto avviene in altri casi simili e valutare se davvero quella degli Ultra mega solar plants sia una strada da percorrere per una transizione energetica sostenibile e giusta.

Un villaggio in conflitto

Nel 2015 Adani green energy e il governo regionale del Rajasthan, all’epoca nelle mani del partito conservatore Bjp (Bharatiya Janata party), hanno firmato un memorandum d’intesa «per sviluppare il Rajasthan come polo mondiale dell’energia solare» attraverso la costruzione di centrali nel deserto per 10 GW in dieci anni.

I progetti sono stati affidati alla Adani renewable energy park Rajasthan ltd (Areprl), una joint venture tra Adani e l’impresa statale Renewable energy corporation ltd (Rrecl).

Il più grande parco solare costruito da Areprl, il Fatehgarh solar park, si trova oggi vicino al villaggio di Nedan, nella parte occidentale dello Stato e, come si temeva, ha generato un importante conflitto con la popolazione locale.

Nel 2017, infatti, il governo ha cambiato la destinazione d’uso del terreno scelto per il megaprogetto da «agricolo» a «sterile». Tuttavia, la terra in questione – in un territorio dove le zone fertili sono rare e per questo preservate da usi industriali o costruzioni – non era affatto sterile, ma veniva tradizionalmente usata per la coltivazione, il pascolo e la celebrazione di rituali comunitari. Un territorio nel quale la popolazione locale, tra cui i dalit (storicamente conosciuti anche come «intoccabili» o senza casta) e gli adivasis (indigeni), aveva costruito un serbatoio d’acqua, una scuola, un tempio, e si prendeva cura di un oran, un luogo considerato sacro e di grande importanza identitaria. Gli oran sono spazi ricchi di biodiversità che comprendono spesso un corpo idrico. I pastori, da secoli, vi portano il bestiame al pascolo e vi organizzano incontri comunitari, feste e altri eventi legati ai ritmi agricoli.

Cause legali e marce

La popolazione si è dunque rivolta alla magistratura per opporsi a quello che considerava un accaparramento di terra illecito e illegale. Tuttavia, i risultati delle azioni legali sono stati discordanti.

Nel 2018, l’Alta corte del Rajasthan ha parzialmente accolto le argomentazioni degli abitanti dei villaggi e ha stabilito che una parte dell’area assegnata ad Adani fosse riportata a uso comunale. Nel 2020, una volta avviata la costruzione del parco, gli agricoltori hanno intentato un’altra causa contro la ridefinizione dei terreni come sterili. Il caso tuttavia è stato respinto. Nel 2021, è stata presentata una nuova causa d’interesse pubblico per annullare l’assegnazione di un altro lotto per un ulteriore ampliamento del parco solare che si sovrapponeva stavolta a un bacino idrografico ecologicamente sensibile. La petizione è stata nuovamente respinta dall’Alta corte del Rajasthan, e ai firmatari è stato ordinato di pagare 50mila rupie (615 dollari) di spese legali.

Gli abitanti del villaggio hanno inoltre denunciato tentativi di cooptazione da parte di uomini che hanno offerto loro un lavoro nella centrale elettrica in cambio della rinuncia alla causa legale. Una volta persa la causa, le offerte di lavoro sono state immediatamente ritirate.

Nel dicembre 2022, è stata organizzata l’Oran bachao yatra, una marcia che ha percorso 300 km e 40 villaggi nella regione di Jaisalmer per chiedere al prefetto la protezione degli oran.

Sumer Singh, un pastore e uno dei leader della marcia, ha dichiarato ai microfoni del giornale indiano The Hindu: «Lo sviluppo dovrebbe andare avanti, ma non in questo modo. Gli alberi vengono tagliati da un giorno all’altro. Alcuni di questi alberi hanno centinaia di anni. Che ne sarà di noi? Questo è il nostro sostentamento».

La povertà è il problema

Abbiamo intervistato la giornalista locale Ankita Mathur che lavora sulla questione. «La gente non è consapevole dell’importanza di questi pascoli. A lungo termine ne vedrà gli impatti, ma per ora si accontenta dei soldi che riceve. La povertà è il grande problema qui».

Ankita ci spiega l’interdipendenza tra l’impatto ambientale e quello socio economico di tali progetti. «L’area è una zona bharani, una terra dove la gente non coltiva grandi quantità di prodotti, ma dove, quando piove, cresce della vegetazione molto nutriente. Con i progetti solari le persone perdono questo raccolto, per piccolo che sia. Anche i frutti secchi selvatici (chiamati ker, sangri, fog, keep, khejri, e roheda), importanti come riserva di cibo durante la siccità, scompaiono».

La biodiversità, resa invisibile dalla narrativa della «terra sterile», dipende dall’interazione della vegetazione con la fauna locale. I terreni da pascolo, quelli cioè che non vengono coltivati e che spesso si presentano con dune di sabbia, sono l’habitat di animali come la volpe del deserto, serpenti, conigli, camaleonti, gatti, lucertole. Per costruire i parchi solari le dune vengono spianate distruggendo l’ambiente degli animali presenti ed eliminando la funzione naturale di barriera per il vento che porta la sabbia sui pochi terreni coltivati e irrigati, compromettendone il raccolto.

Potere e proprietà della terra

Ankita ci spiega che l’impoverimento delle famiglie nel Rajasthan rurale e le difficili condizioni climatiche spingono le persone ad accettare le offerte di acquisto delle imprese per il loro terreno. «Quando le persone hanno i soldi, migrano verso le città. Altre volte no, ma trovandosi con una quantità di denaro che non avevano mai visto prima, non sanno come gestirlo, e diventano perfetti consumatori: comprano auto e si godono la vita, per qualche tempo. Dimenticano come coltivare la terra e, in un ambiente così difficile, si arrendono facilmente. Con la diminuzione della terra disponibile per l’allevamento, la gente finisce il foraggio per i propri animali e deve comprarlo al mercato. Ma tanto, dicono, ricevono soldi dalla cessione dei loro terreni, quindi chi se ne importa? Molti agricoltori rinunciano ai loro animali perché non ne hanno più bisogno. Ora possono comprarlo, il latte, non serve mungere la propria mucca. Gli animali vengono abbandonati, soprattutto bufali, mucche, pecore, capre.

L’agricoltura in India non è un’attività redditizia e la gente, se non viene supportata, se ne va non appena ne ha la possibilità. Intanto, nei villaggi le persone influenti stanno concentrando su di sé il potere politico e la proprietà della terra.

Non dimentichiamo che in India i grandi proprietari terrieri sono solitamente politici, o entrano presto in politica. Si crea così un circolo vizioso che toglie mezzi di sussistenza alle persone e accumula ricchezze nelle mani di pochi. Questi pochi poi garantiscono la presenza indisturbata delle grosse aziende».

Risorse scarse, violenza in aumento

L’arrivo di queste imprese porta importanti cambiamenti e, con essi, dei rischi per la popolazione locale. «Capita che persone estranee entrino nelle comunità con i loro grossi veicoli e si fermino per qualche giorno. Ma qui il cibo e l’acqua sono scarsi, quindi la gente dei villaggi finisce per non averne abbastanza.

Nelle famiglie, i membri che danno in affitto o cedono la terra, o svolgono una mansione per l’azienda, si ritrovano con un’improvvisa disponibilità di denaro che non sanno gestire. Si danno spesso all’alcol, a droghe, e questo porta un aumento della violenza, ad esempio la violenza domestica, e quindi la disintegrazione delle famiglie».

Anche sulla sostenibilità delle politiche aziendali e della visione del Rajasthan come «batteria solare» dell’India, Ankita esprime perplessità: «Alcune aziende hanno promesso di piantare alberi per compensare la perdita dell’habitat locale. E dove li pianteranno? In un altro territorio. Una compensazione senza senso. C’è poi un problema serio con l’acqua: i pannelli solari devono essere puliti, perché qui abbiamo venti sabbiosi. Le imprese prendono l’acqua dall’unico canale che abbiamo, l’Indhira Gandhi, che è l’unica acqua potabile in Rajasthan.

Ci sono mesi nei quali non riceviamo nemmeno una goccia d’acqua dal canale. Le aziende pensano alla terra solo in termini monetari, e non capiscono come funzionano le cose qui. E poi, per cosa useremo l’energia prodotta? Questa energia è destinata a qualcos’altro, non certamente a noi».

L’abbaglio di una soluzione facile

Questioni e conflitti fondiari simili si stanno scatenando in tutta l’India. In alcune località, manifestanti e oppositori dei progetti, sentendosi abbandonati da magistratura e governo di fronte alle grandi multinazionali, attuano sabotaggi e danneggiamenti delle centrali.

Per questo motivo i memorandum d’intesa tra aziende e governo prevedono per i cantieri personale di sicurezza 24 ore su 24, telecamere a circuito chiuso, muri e recinzioni.

I megaprogetti «verdi» del Rajasthan diventano così enormi enclave militarizzate. Oltre al forte impatto ambientale, determinano una perdita di sovranità e autonomia alimentare per le comunità locali e un aumento della concentrazione di ricchezza e potere nelle mani di vecchie e nuove élite.

Questo modello di transizione energetica presenta sfide forse inaspettate. Ignorarle a causa di un abbaglio e un’ostinata fede in una soluzione facile capace di risolvere l’avidità energetica dell’India moderna potrebbe portare a circoli viziosi di ulteriore povertà e marginalità.

Daniela Del Bene

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Idrogeno in Amazzonia


Una centrale elettrica a idrogeno nel cuore della foresta pluviale guianese. In nome della transizione energetica si rischia di devastare l’ambiente e uccidere l’identità originaria dei popoli indigeni.

Transizione energetica, crisi climatica, green new deal e nuovi patti per il clima. Ne abbiamo sentite tante di possibili «soluzioni» e «politiche rivoluzionarie» da parte di governi e imprese per affrontare i problemi ambientali.

Una di queste è l’idrogeno, considerato una fonte energetica pulita e abbondante. Soprattutto se si tratta di idrogeno «verde», prodotto a partire da fonti rinnovabili. Ma è proprio così?

L’opposizione indigena

Nel momento in cui scriviamo, dall’altra parte dell’Oceano, presso il villaggio Prospérité, nella zona nord ovest della Guyana francese, quasi al confine con il Suriname, si stanno preparando azioni di protesta per fermare la distruzione di una vasta area di foresta pluviale destinata alla più grande centrale solare a idrogeno del mondo, la Centrale électrique de l’Ouest Guyanais (Ceog).

La popolazione indigena locale e molte organizzazioni della società civile hanno espresso a più riprese la loro opposizione al progetto, o almeno la loro perplessità sulla sua sostenibilità, ma le autorità lo hanno approvato ugualmente, e persino adoperato metodi repressivi per eseguire la deforestazione.

Un pezzo di Unione europea

La Guyana francese è un dipartimento d’oltremare della Francia, situato sulla costa settentrionale del Sud America.

Confinante con il Suriname a ovest e con il Brasile a est e a sud, la Guyana francese ha una popolazione di circa 300mila abitanti, la metà della quale vive nella capitale Caienna.

È la seconda regione più grande della Francia e la più grande regione ultraperiferica dell’Unione europea. Il 98,9% del suo territorio è coperto da foreste.

Il parco amazzonico presente sul suo territorio, che rappresenta il più grande parco nazionale dell’Unione europea, copre il 41% della superficie del Paese.

La centrale solare a idrogeno

Il progetto prevede la costruzione di una centrale solare collegata a un elettrolizzatore alcalino ad alta pressione da 16 Mw (megawatt) che divide l’acqua per produrre idrogeno. L’accumulo di energia avverrebbe durante il giorno e il suo sfruttamento durante la notte.

La capacità di stoccaggio, sotto forma di serbatoi di idrogeno, sarà di 128 Mwh (megawattora), che sarà convertita in elettricità da una cella a combustibile.

Secondo il progetto, la centrale potrà consegnare alla rete 10 Mw di giorno e 3 Mw di notte. Dovrebbe entrare in funzione nel 2024, e durerà 25 anni.

Il progetto fu presentato nel 2020 nei pressi del villaggio Prospérité da Meridiam, fondo d’investimenti vicino a Macron, Sara e Hydrogène de France.

La Ceog promette di ridurre le emissioni di CO2 e di porre fine alle frequenti interruzioni di elettricità nella zona con una fornitura stabile per 70mila persone, soprattutto alla vicina città di Saint Laurent du Maroni.

Perché le proteste?

Sembrerebbe un progetto buono e poco contaminante, ma i leader indigeni locali, conosciuti come yapoto, appartenenti alla popolazione dei Kali’na, l’hanno rifiutato fin dall’inizio.

La comunità di Prospérité che abita la terra interessata ha lottato per più di 30 anni per ottenere la tutela consuetudinaria del proprio territorio e la delimitazione di una Zona protetta a uso collettivo (Zduc, Zone de droit d’usage collectifs). Essa denuncia che la Ceog ha impiegato meno di un anno per ottenere i permessi necessari a disboscare 76 ettari di foresta per impiantare i pannelli solari.

Gli abitanti del villaggio temono che la costruzione del parco solare impedirà loro l’accesso a un vicino torrente, loro fonte d’acqua, e ai loro tradizionali territori di caccia e coltivazione.

Se questo dovesse accadere, il loro rapporto con la terra e la trasmissione delle pratiche tradizionali alle generazioni future verrebbero compromessi.

In sintesi, i Kali’na considerano il progetto come un attacco alla loro identità di popolo originario e al loro modo di vivere.

Distruggere la foresta significa per loro affermare l’oppressione della cultura occidentale sulle culture indigene.

Ascoltare la Terra

Nel dicembre scorso, «Reporterre», sito d’informazione indipendente sui temi ecologici con sede a Parigi, ha intervistato Roland Sjabere, lo yapoto di Prospérité, e il portavoce della Jeunesses autochtones de Guyane (Gioventù indigena della Guyana), Christophe Yanuwana Pierre, in occasione di una loro visita di denuncia in Francia.

Sjabere ha affermato di non volersi opporre allo «sviluppo» in quanto tale, ma di criticare piuttosto uno sviluppo frettoloso e orientato al profitto, «l’écolonialisme», l’ecocolonialismo, basato su infrastrutture giganti che non tengono conto della presenza dell’altro nei territori destinati alla loro costruzione.

Il popolo kali’na chiede che la centrale venga trasferita lontano dai loro insediamenti, o quantomeno che le autorità chiedano il consenso alla comunità indigena; ma l’azienda sostiene che i fondi sono già stati impegnati e che andrebbero persi se si dovesse sviluppare un nuovo progetto.

In sostanza, le decisioni sono già state prese senza le consultazioni che le convenzioni internazionali prevedono per i territori indigeni (ad esempio la 169 dell’Organizzazione mondiale del lavoro).

Nelle parole dei due leader intervistati da «Reporterre», il popolo kali’na ha «stretto un’alleanza con la foresta. Se essa è minacciata, noi dobbiamo aiutarla. Questa è la nostra missione in cambio della felicità che la foresta ci offre.

È una necessità per l’equilibrio della nostra comunità e della nostra civiltà. Non possiamo vivere senza la foresta. Le apparteniamo. Attaccandola, le autorità ci danneggiano. […] Sentiamo come una minaccia che aleggia perché i nostri territori spirituali sono colpiti.

Certo, abbiamo anche molti argomenti legali e razionali per lottare contro questi progetti aberranti, ma la nostra lotta è alimentata da molte altre cose, radicate nella nostra cultura. La Terra ci parla e noi dobbiamo imparare ad ascoltarla».

Associazioni in campo

La posizione delle popolazioni indigene viene sostenuta anche da gruppi di ambientalisti. Questi ultimi denunciano in particolare l’impatto sugli habitat di specie rare e in via di estinzione, come l’opossum d’acqua.

Nel febbraio 2022, le associazioni Maiouri nature guyane, Village Prospérité Atopo WePe, Kulalasi e l’Association pour la protection des animaux sauvages hanno intentato una causa contro le autorità della Guyana francese chiedendo la revoca della licenza ambientale per il progetto della Ceog, a causa della scarsa valutazione di impatti sulle specie minacciate.

Tuttavia, a luglio, il tribunale amministrativo del Paese ha confermato l’autorizzazione.

Una seconda causa, tuttora in esame, è stata intentata dagli abitanti del villaggio insieme all’Association nationale pour la biodiversité nel novembre 2022.

Dal canto loro, i promotori del progetto affermano che esso non minaccia la biodiversità o le pratiche tradizionali della popolazione locale e aggiungono che gli abitanti del villaggio sono stati debitamente consultati fin dall’inizio, e che è stato loro offerto il passaggio gratuito alle loro terre abituali e un progetto di sviluppo comunitario.

Tuttavia, esiste una forte asimmetria di potere tra i soggetti in causa che si esprime, ad esempio, nel fatto che tali consulte e i materiali informativi sono stati fatti in lingua francese, ignorando che essa non è la lingua madre degli abitanti locali.

Il riconoscimento della specificità dei gruppi umani e delle loro culture è un principio chiave della giustizia ambientale. La sua mancanza è una strategia molto diffusa nello sviluppo di infrastrutture e progetti estrattivi.

Nel caso della Ceog, l’impossibilità da parte delle comunità locali di comprendere i documenti disponibili ha portato alla firma di accordi indesiderati.

Ancora colonialismo

Oltre ai documenti non tradotti, le forti e ripetute pressioni sullo yapoto affinché accetti il progetto in cambio di una compensazione economica, sono metodi collaudati che fanno parte della lunga storia coloniale, non ancora finita, della Guyana francese: un territorio che subisce da secoli la spoliazione delle sue terre, lo sterminio dei suoi abitanti originari, la deportazione di schiavi, le piantagioni intensive, l’uso del suo territorio come colonia penitenziaria, le miniere, gli impianti industriali nel cuore della foresta.

Sui libri di storia si studia il colonialismo come una forma di dominazione oramai passata. Per gli abitanti della Guyana francese il colonialismo non è mai finito, lo vivono in un continuum storico nel quale cambia le sue vesti e il suo linguaggio, ma applica drammaticamente gli stessi meccanismi.

AmaZone a Défendre

La costruzione della centrale è iniziata nel settembre 2021. A gennaio 2023, sedici ettari erano già stati disboscati, con il taglio di numerosi alberi di valore spirituale per il popolo kali’na.

Nell’ultimo anno, a fronte della sordità delle autorità, la mobilitazione si è radicalizzata e ha adottato la nozione della zone autochtone à défendre (Zad), «zona indigena da difendere», coniata in Francia da comunità di agricoltori e attivisti in opposizione all’aeroporto di Notre-Dame-des-Landes nel 2010.

Il concetto di zone autochtone à défendre è stato, dunque, adattato al contesto guianese e modificato in AmaZone a Défendre.

Nell’intervista ai due leader, il sito «Reporterre» riporta: «Usiamo un linguaggio comprensibile in Francia per dimostrare che siamo determinati a difendere le nostre terre e a condurre una forte resistenza […]. I promotori del progetto della centrale si aspettavano che ci saremmo indignati solo con la bocca e con la parola. Credevano che noi indigeni fossimo deboli, incapaci di sollevarci. Noi dimostriamo loro il contrario. Ci opponiamo fisicamente con le nostre braccia, i nostri corpi, i nostri figli, le nostre famiglie e riusciamo a respingere le macchine. Le autorità hanno la polizia e l’amministrazione, noi abbiamo la nostra conoscenza ancestrale, il legame con la Terra e l’amore per i vivi. Sono forze da non sottovalutare».

Proteste e repressione

Nell’ottobre 2022 la protesta ha alzato i toni, spinta dalla mancanza di volontà politica per una negoziazione giusta.

Gli abitanti mobilitati contro il progetto hanno cercato di sabotare il magazzino delle attrezzature di costruzione con bombe molotov, e hanno costruito capanne nell’area destinata alla centrale.

I rifugi, alla stessa maniera di quelli impiantati dalle tante famiglie e attivisti francesi nella zona dell’aeroporto, vogliono ribadire il messaggio che la foresta è la loro casa e che sono determinati a non cederla.

La protesta ovviamente si è scontrata con l’apparato repressivo dello Stato. La polizia ha usato gas lacrimogeni sui manifestanti e ha arrestato due abitanti del villaggio, un ambientalista e persino Roland Sjabere, lo yapoto di Prospérité, prelevato dal villaggio all’alba e portato in custodia a 150 km di distanza, senza rispettare il suo diritto di parlare con la famiglia.

In risposta agli arresti, le famiglie hanno organizzato una mobilitazione molto più ampia per l’11 novembre 2022, invitando i sostenitori di tutta la Guyana francese ad «andare fino alle ultime conseguenze» per difendere Prospérité.

Con tristezza, ma determinazione, lo yapoto ha dichiarato di «non essere più per il dialogo» e ha ribadito la richiesta di uno spostamento equo del progetto.

Anche il presidente della Jeunesses autochtones de Guyane, ha risposto alla repressione della polizia: «Le persone chiedono rispetto, fanno valere i loro diritti millenari, ma sono considerate criminali. Abbiamo fatto il gioco dello Stato per un po’, ma se vogliono affrontare la resistenza, ci solleveremo. Siamo pronti a combattere».

La montagna d’oro

Oltre che con la Ceog, il popolo kali’na deve fare i conti anche con altri progetti industriali: enormi centrali a biomassa, siti di estrazione dell’oro, miniere come la Montagne d’Or, promossa dal consorzio russo-canadese della Columbus Gold e Nordgold. Riguardo quest’ultima, dopo forti opposizioni, nel 2019 il governo ha annunciato l’abbandono del progetto a causa della sua incompatibilità con i requisiti ambientali. Tuttavia, una miniera d’oro fa gola a troppi, e finché la Francia non tornerà a negoziare il codice minerario e non porrà dei limiti chiari su che cosa e dove può essere estratto, ogni progetto sarà soggetto a possibili riattivazioni.

La protesta arriva in Francia

La mobilitazione ha fatto appello anche alla Francia metropolitana. Il presidente del Ceog e fondatore di Meridiam è un uomo vicino a Macron. Una sua donazione alla prima campagna elettorale del presidente ha alimentato la preoccupazione per un possibile trattamento di favore nei suoi confronti da parte delle autorità francesi.

Per quanto riguarda Macron, recentemente è stato criticato per aver permesso la deforestazione dell’Amazzonia in Guyana mentre stigmatizzava sulla scena mondiale quella brasiliana con toni severi contro Bolsonaro.

Lo yapoto di Prospérité aveva già visitato Parigi ed era intervenuto alla manifestazione per la giustizia climatica durante la Cop 26 nel novembre 2021.

Una delegazione di Kali’na è stata invitata a presentare il proprio caso all’Assemblée nationale – il parlamento francese – lo scorso dicembre 2022.

Nel gennaio 2023, Jean-Luc Melenchon, leader del partito di sinistra La France insoumise, ha visitato il cantiere della Ceog in Guyana e ha dato il suo sostegno alla lotta per fermarne la costruzione.

In una tribuna di «Le Monde» indirizzata a Macron, una rete di associazioni indigene della Guyana e i loro sostenitori hanno chiesto che il progetto venga delocalizzato: «Questo progetto viola il nostro diritto a dare un consenso libero, preventivo e informato, protetto anche dal diritto costituzionale, all’informazione e alla partecipazione pubblica».

E hanno avvisato ulteriormente: «Vi ricordiamo che un fondo di investimento, prima di produrre elettricità, cerca di ottenere un profitto. Corriamo il rischio che quella che chiamate “transizione energetica” diventi solo una nuova schiavitù dei popoli e degli ambienti naturali».

Daniela Del Bene


ATLANTE DELLA GIUSTIZIA AMBIENTALE

Questo articolo fa parte di una collaborazione fra Missioni Consolata e l’Ejatlas (Environmental Justice Atlas) nell’ambito della quale portiamo a conoscenza dei nostri lettori storie e analisi riguardanti alcuni dei conflitti ambientali presenti nell’Atlante.
Per tutti i casi menzionati nell’articolo sono disponibili nell’Atlas le relative schede informative.
www.ejatlas.org
www.envjustice.org
http://cdca.it (atlante conflitti ambientali italia).




Marocco. Parola di Re


Sommario

Vista dall’alto di Chefchaouen. Foto Piergiorgio Pescali.

Viaggio nel paese maghrebino

Dio, nazione, re

Nonostante i progressi e la presenza di un islam relativamente moderato, il Marocco rimane un paese con gravi problemi sociali e strutturali. Tra cui un’agricoltura molto arretrata, un elevato tasso di disoccupazione giovanile e una dinamica politica limitata. Tutte le decisioni essenziali rimangono nelle mani di una sola persona, re Mohammed VI.

Questa mappa non include il Sahara occidentale nel territorio ufficiale del Marocco, come invece fanno molte altre.

Agadir. Appena esco dalla fusoliera dell’aereo della Royal Air Maroc, mi sorprendo nel sentirmi investito da una fresca brezza. «Il Grande Atlante ci protegge dalla calura proveniente dal deserto», mi spiega Kadhem, uno dei tanti venditori di souvenir che affollano il lungomare cittadino: «Appena ti dirigi nell’entroterra le temperature aumentano improvvisamente e allora sì, assaporerai la vera estate marocchina».

Mi godo la frescura serale all’ombra della collina su cui è scritto in arabo Allah, e-Watan, el-Malik (Dio, nazione, re), una triade che mi accompagnerà durante tutto il viaggio.

Posta sulla costa sudoccidentale del Marocco, Agadir non è una bella città: i turisti vi giungono per la sua spiaggia e gli alberghi di lusso, ma oltre a questo offre ben poco. Rappresenta comunque un buon inizio per assaporare lo spirito del Paese.

Nuovi quartieri continuano a espandere la città verso l’interno e i cantieri sorgono come funghi. L’amministrazione locale cerca di offrire nuove occasioni di intrattenimento, ma spesso questa volontà si scontra con una burocrazia bigotta e sclerotica. Me ne accorgo andando a visitare quella che viene spacciata come la medina (termine che indica la parte antica di una città araba, con vicoli e mura, ndr), ma che in realtà non è altro che una sorta di centro commerciale composto da una serie di negozi e ristorantini, costruito nel 1992 imitando regole architettoniche e costruzioni antiche.

Fare fotografie, mi dicono, è vietato e, nonostante abbia un’autorizzazione del ministero della Cultura, vengo informato che occorre un ulteriore consenso da parte dell’ufficio del governatore locale.

Molto più bella e tradizionale è invece Taghazout, un villaggio a una ventina di chilometri a nord di Agadir, le cui case bianche si abbarbicano su una collina che fronteggia una bella spiaggetta.

Il ministero del Turismo ha già adocchiato la zona che oggi, dopo essere stata frequentata da giovani in fuga da Agadir, è meta ambita di surfisti. Nei progetti delle autorità ci sono complessi alberghieri per 300mila turisti all’anno e, lungo la strada che congiunge Taghazout con Agadir, cartelloni pubblicitari di imprese di costruzioni invitano ad accaparrarsi lotti e case che sorgeranno su aree già fornite di corrente elettrica e impianti idraulici (in Marocco, prima delle case si predispongono i servizi). «La bellezza di Taghazout e della sua spiaggia forse verrà preservata, ma l’atmosfera rilassante e un po’ hippy che si respira scomparirà», lamenta Hassane, che fa parte di un gruppo ambientalista locale che si batte contro la costruzione selvaggia sulla costa. Ma Hassane è isolato: la maggior parte dei commercianti e degli albergatori della cittadina accoglie a braccia aperte lo sviluppo turistico. Taghazout è un po’ l’esempio di come stia cambiando il Marocco: in ogni città, da qui a Ouarzazate, da Marrakech a Tangeri, immense superfici di terreno aspettano di essere trasformate in nuovi quartieri residenziali.

La bella piazzetta di el-Hauta a Chefchaouen, nota come «la città azzurra» per la colorazione delle sue case. Foto Piergiorgio Pescali.

Lo sviluppo da oggi al 2035

Il rinnovamento del parco immobiliare è uno dei punti del programma del Nuovo modello di sviluppo che intende riformare l’economia sulla base di una crescita atta a migliorare le condizioni di vita di una popolazione di 38 milioni di persone che, secondo le Nazioni unite, ha raggiunto un Indice di sviluppo umano (Hdi) di medio livello.

Le nuove abitazioni garantiranno non solo migliori condizioni di vita, ma anche un utilizzo più oculato dell’energia e delle fonti naturali, in particolare dell’acqua, elemento sempre più prezioso, soprattutto nei paesi dove l’incremento demografico si accompagna a una concentrazione urbana sempre più problematica.

Sanità, scuola e assistenza sociale sono i tre grandi temi oggi rincorsi da un paese che, entro il 2035, vorrebbe raggiungere l’ambizioso obiettivo di avere l’economia più avanzata del continente africano. Per questo punta al raddoppio del Pil in una dozzina d’anni con una crescita annua del 5-6% e al rafforzamento dell’istruzione scientifica al fine di orientare l’80% della forza lavoro verso il comparto della transizione energetica.

Nel febbraio 2020 è stata lanciata la campagna Generazione verde 2020-’30 che ha come linee guida la creazione di un ceto medio agricolo migliorando le condizioni economiche di circa tre milioni di contadini e delle loro famiglie. Al tempo stesso, si cerca di aumentare di un milione di ettari la quantità di terreno destinato a uso agricolo formando 150mila giovani nel settore.

Il piano ha già però subito delle battute d’arresto, sia per la pandemia, che ha contratto l’economia di un 6,3% nel 2020 (compensata da una crescita del 7,4% nel 2021), sia per la prolungata siccità che ha colpito i raccolti riducendoli del 17,3% rispetto all’anno precedente. A questi due aspetti si è aggiunta la guerra in Ucraina con il blocco delle importazioni di grano. Nel 2022, la Banca mondiale ha stimato solo all’1,2% la crescita del Pil marocchino e, secondo la Fao, la crisi ha messo in difficoltà il 28% della popolazione.

Per far fronte al crollo della produzione, Rabat ha stipulato accordi con Francia e Canada, da cui importerà grano e frumento, due dei cereali fondamentali di cui si compone la dieta non solo dei marocchini, ma di gran parte del Maghreb.

La bassa meccanizzazione agricola e l’arretratezza delle infrastrutture costringono il 39% dell’intera forza lavoro marocchina impiegata nei campi a produrre solo il 14% del Pil del Paese.

I giovani, appena possono, cercano di trasferirsi in città, dove in molti vanno a ingrossare le file dei disoccupati (il 22% dei giovani tra i 15 e i 24 anni non lavora), o cercano di emigrare verso l’Europa.

Per limitare questa emorragia di forza lavoro giovane, si stanno sviluppando nuove iniziative in cui le cooperative hanno un ruolo importante. Luc Fougère, direttore del Riad Angsana di Marrakech, ha creato alcune realtà tra le più vivaci della zona. «Invece di trasferire giovani marocchini nelle coltivazioni europee, abbiamo deciso di trasferire le coltivazioni in Marocco». E così nel suo albergo ristorante vengono serviti piatti che utilizzano ingredienti provenienti da realtà locali cofondate da Fougère stesso: miele, olio, frutta, verdura, anziché essere importati da migliaia di chilometri di distanza, ne percorrono solo pochi dalle campagne attorno alla città.

Nel suk di Marrakech. Foto Piergiorgio Pescali.

Un miliardario come primo ministro

Nell’incertezza economica, che risale a ben prima della pandemia, ma che il coronavirus ha contribuito ad aggravare e le recenti vicende internazionali a far esplodere, la prima a vacillare è stata la classe politica. Le elezioni del 2021, subito dopo le riaperture dal Covid, si sono trasformate in un terremoto che ha causato il tracollo dei partiti tradizionali: il Partito della giustizia e dello sviluppo (Pjd, Parti de la justice et du développement), che ha guidato tutti i governi del Paese dal 2011 sull’onda delle Primavere arabe, è stato spazzato via dall’elettorato perdendo 112 dei suoi 125 seggi al parlamento.

Conservatore, portatore di un’ideologia islamista moderata, il Pjd era riuscito a convogliare il profondo malcontento popolare emerso nelle proteste del 2010 anche grazie al leader d’allora, Abdelilah Benkirane, un politico che rappresentava sia le istanze di un’identità islamica all’interno della nazione, sia quelle progressiste. Le sue critiche nei confronti del re Mohammed VI, assieme all’incapacità di dare risposte alle richieste di riforme sociali che erano state i cavalli di battaglia con cui aveva sconfitto gli avversari, gli sono costate carriera e governo.

Netta è stata, invece, la vittoria del Raggruppamento nazionale degli indipendenti (Rni, Rassemblement national des indépendants), guidato dal miliardario Aziz Akhannouch. Dal 7 ottobre 2021, l’uomo è anche primo ministro in un governo di coalizione con il Movimento popolare e l’Istiqlal.

L’Rni, il cui originario orientamento socialdemocratico è stato soppiantato da un indirizzo più liberale e più vicino agli ambienti industriali, è stato fondato nel 1978 dall’allora primo ministro Ahmed Osman, cognato di re Hassan II, padre dell’attuale monarca. L’appoggio al partito da parte della Casa reale non è mai venuto a meno anche a causa della partecipazione di membri della famiglia negli affari di Akhannouch, dal 2016, anno in cui il miliardario ha preso le redini dell’Rni. Oggi Akhannouch è amministratore delegato (Ceo) del gruppo Akwa, il principale conglomerato marocchino impegnato in diversi settori, in particolare nel campo energetico (petrolifero e gas). Sue sono le stazioni di servizio Afriquia, la compagnia Maghreb Oxygène, la rete di distribuzione di gas e Gpl Afriquia Gaz e Le Vie Eco, il più diffuso settimanale marocchino.

Questa concentrazione di potere economico e mediatico non sembra causare turbamento nella maggioranza dell’elettorato. Secondo il rapporto 2021 di Reporter senza frontiere (Rsf), il Marocco sarebbe al 136° posto nella classifica della libertà di stampa su 180 paesi presi in esame. Nove dei 36 editori che detengono i media più influenti, appartengono alla famiglia reale, mentre gli altri sono proprietà di pochi uomini d’affari.

Nel suk di Marrakech. Foto Piergiorgio Pescali.

Le riforme di Mohammaed VI

È anche vero che il Marocco, più degli altri paesi del Maghreb, è riuscito a smorzare il malcontento popolare emerso dalle Primavere arabe con un miglioramento delle condizioni sociali e democratiche nella nazione.

Merito anche dell’attuale re Mohammed VI, secondogenito di Hassan II, salito al trono dopo la sua morte nel 1999. L’attuale re, formato nelle scuole europee, dove ha ottenuto una laurea e un PhD in diritto internazionale, ha saputo coniugare il classico bastone con la carota.

Nel primo quinquennio di regno, il monarca ha ammesso che, durante il potere del padre, fossero stati commessi abusi sui diritti umani, che l’ingerenza reale nella politica fosse troppo pronunciata e che le misure economiche costringessero una grossa fetta della popolazione a umilianti sacrifici.

Di fronte alle proteste che hanno sconvolto il Marocco nel 2011, invece di rispondere con il pugno di ferro, come è avvenuto in altri paesi, è apparso alla Tv promettendo «una riforma costituzionale» che «avrebbe allargato le libertà individuali e collettive e rafforzato i diritti umani».

Mohammed VI ha mantenuto gran parte delle sue promesse: ha formalmente equiparato donne e uomini garantendo gli stessi diritti civili e sociali, ha elevato il berbero a lingua ufficiale assieme all’arabo, ha limitato il potere politico del monarca che perde la carica di primo ministro il quale, a sua volta, è una persona scelta tra i deputati del partito vincitore delle elezioni e non più una figura nominata a piacere dal sovrano.

La figura del re desacralizzata, tuttavia rimane inviolabile e continua a non essere passibile di critica e questo limita enormemente il grado di mobilità e indipendenza politica del Paese. Non potendo opporsi al suo volere (il re rimane anche il capo delle forze armate e il massimo leader politico con potere pressoché assoluto), i partiti preferiscono adattare i loro programmi alla linea dettata da Mohammed VI piuttosto che rischiare la ghettizzazione o, peggio, lo scioglimento proponendo azioni radicali. Questo ha ultimamente creato malumori negli ambienti più laici e progressisti del Paese anche perché, nonostante le promesse di consolidamento dei diritti umani, in realtà questi sono sempre più erosi.

Il 13 febbraio 2023, anniversario della Primavera araba in Marocco, migliaia di persone sono scese in piazza per protestare contro il carovita che sta falcidiando il potere d’acquisto di intere famiglie. Le proteste sono state organizzate dalla Cdt, la Confederazione democratica del lavoro, l’organizzazione sindacale più potente del Paese.

A queste proteste il governo ha cercato di rispondere siglando una serie di accordi che, oltre a confermare i sussidi alimentari per le fasce più deboli, hanno anche aumentato i salari minimi.

Un’artigiana locale prepara l’olio di argan. Foto Piergiorgio Pescali.

Essere donna in Marocco

Il fermento della società marocchina, favorito anche dalla vicinanza all’Europa e da un islam moderato che ha sempre rifiutato modelli integralisti, ha aiutato anche l’emancipazione femminile. Lungo la strada che conduce a Essaouira, incontro decine di cooperative gestite da donne che producono prodotti derivati dell’argan.

«Contribuendo alla finanza familiare, la donna acquista un ruolo più importante anche nella famiglia», mi dice una delle ragazze della cooperativa Marjana. Come altre sparse per il Marocco, queste cooperative stanno contribuendo a dare il giusto peso alle donne del Paese, anche se sono spesso soggette a critiche da parte degli ambienti femministi più radicali: «All’inizio, la loro nascita ha contribuito ad aiutare le donne a emanciparsi, ma oggi molte cooperative usano questa narrativa per sfruttare le lavoratrici. A fronte di prodotti venduti a prezzi esorbitanti ai turisti, le donne che vi lavorano hanno paghe inferiori anche della metà di quelle che verrebbero date agli uomini», mi dice Khnata, della organizzazione Union de l’action féminine.

Vista dall’alto della conceria Chouara, una delle più famose di Fès. Foto Piergiorgio Pescali.

La questione migratoria e gli accordi con la Spagna

La crisi economica, che si è aggiunta alla voglia dei giovani marocchini di migliorare il proprio status cercando lavoro all’estero, ha fatto confluire le contestazioni anche sulla questione migratoria, a sua volta collegata alle relazioni internazionali tra Rabat e Madrid.

Da parte sua il Marocco, in particolare dal 2000, ha cambiato profondamente la propria politica migratoria, anche perché da paese di migrazione si è trasformato principalmente in paese di transito per migliaia di cittadini dell’Africa subsahariana che cercano di entrare in Europa. Fino al 20 novembre 2003 i regolamenti che gestivano l’immigrazione in Marocco risalivano all’età coloniale. Non si parlava di stati o nazioni indipendenti, ma di colonie, protettorati, zone di influenza. La nuova legge regola le condizioni di accesso al Paese, sancisce punizioni severe non solo verso i trafficanti di esseri umani, ma anche verso le vittime, gli immigrati irregolari o chi tenta di valicare i posti di frontiera di Ceuta e Melilla senza i documenti in regola.

I diritti dei richiedenti non sono tenuti in considerazione. Le organizzazioni non governative che agiscono nell’ambito sociale e nel campo migratorio hanno più volte denunciato la repressione del governo nei confronti di quelle persone che, sfruttando la vicinanza geografica con la Spagna, tentano di entrare nelle enclave di Ceuta e Melilla. L’ultima è avvenuta il 24 giugno 2022, quando circa duemila africani hanno cercato di scavalcare il muro che separa Melilla. Cinquecento sono riusciti ad aprire un varco alla frontiera ed entrare nell’area, territorio spagnolo.

Il primo ministro iberico, il socialista Pedro Sánchez, ha ringraziato il governo marocchino in un’intervista al programma Hoy por hoy, di radio Cadena Sur, aggiungendo che gli incidenti non erano stati causati dalle forze marocchine e spagnole, ma da organizzazioni di trafficanti di esseri umani e da reti malavitose.

Quello tra Rabat e Madrid è uno degli accordi più importanti stipulati dal paese africano. Il patto fa del Marocco un paese filtro per l’emigrazione africana in cambio dell’accoglienza, da parte della Spagna, di decine di migliaia di lavoratori marocchini stagionali (impegnati per lo più nelle raccolte agricole). Madrid ha il diritto di rimpatriare i clandestini maggiorenni lasciando a Rabat la responsabilità di rimandare gli immigrati che non hanno passaporto marocchino nei loro paesi d’origine.

Gli accordi tra le due capitali sono ritenuti così importanti che subito dopo ogni elezione, il primo ministro spagnolo si reca a Rabat per presentarsi alle autorità del Paese.

Se i trattati sulla migrazione favoriscono chiaramente la Spagna (e l’Unione europea), il Marocco li usa come arma per imporre la sua politica a livello internazionale, in particolare sulla spinosa questione, non ancora risolta, del Sahara occidentale (ex spagnolo, ndr).

Nell’aprile 2021 Brahim Ghali, leader del Fronte Polisario (organizzazione per l’autodeterminazione del Sahara occidentale, ndr), è stato ricoverato a Saragozza per essere curato dal Covid. Per ritorsione, nello stesso periodo, il Marocco ha accolto il politico indipendentista catalano Carles Puigdemont sospendendo al tempo stesso i controlli alla frontiera di Ceuta per 48 ore e consentendo il passaggio di 8mila migranti. Il governo spagnolo si è così trovato ad affrontare la peggiore crisi migratoria dal 2005, quando il tentativo di diversi migranti di forzare il blocco di Ceuta costò la vita a 18 di loro. A farne le spese sono state soprattutto le isole Canarie, una delle porte d’entrata in Europa, dove sono stati allestiti in fretta e furia nuovi campi di accoglienza. Qui sono state registrate violazioni dei diritti umani, con migranti trattenuti nei porti per diverse settimane.

I rapporti tra i due paesi si sono ristabiliti quando Pedro Sánchez ha licenziato la sua ministra degli Esteri Arancha Gonzalez Laya, che aveva garantito l’accesso in Spagna di Brahim Ghali.

La spiaggia e la cittadella fortificata (Kasbah des Oudaias) a Rabat. Foto Piergiorgio Pescali.

Israele tra Algeria e Marocco

Molto complicati sono i rapporti con la vicina Algeria, paese che ospita cinque campi di indipendentisti del Sahara occidentale, territorio che il Marocco considera proprio (articolo a pagina 46). In tutto sono circa 174mila i rifugiati saharawi. Il conflitto è, per il momento, a bassa intensità, ma l’Algeria potrebbe sfruttare l’impasse rifornendo di armi il Polisario per indebolire Rabat, specialmente dopo il caso Pegasus che ha fatto perdere le staffe al governo di Algeri.

Pegasus è un software prodotto dall’israeliana Nso che sarebbe stato utilizzato dai servizi segreti marocchini per spiare, oltre a giornalisti, attivisti nel campo dei diritti umani e organizzazioni marocchine considerate troppo eversive, anche 6mila politici, uomini d’affari, giornalisti, militari, funzionari e diplomatici algerini.

L’Algeria, che con il Marocco ha già diversi contenziosi aperti, non ha digerito il ristabilimento delle relazioni diplomatiche tra Rabat e Tel Aviv avvenuto il 10 dicembre 2020, lo stesso giorno in cui gli Usa hanno riconosciuto al Marocco il diritto di sovranità sul Sahara occidentale (strana coincidenza, visto che Rabat si ostina a dire che i due eventi non sono in alcun modo correlati).

La riapertura delle sedi diplomatiche nei rispettivi paesi ha inasprito i rapporti con l’Algeria che, il 24 agosto 2021, ha deciso di rompere le relazioni diplomatiche con Rabat.

Del resto, i rapporti tra i due paesi non sono mai stati idilliaci in quanto entrambi vogliono diventare la nazione guida del riscatto africano e del

Maghreb. Per perseguire questo obiettivo di leadership, nel 2017 il Marocco è rientrato nell’Unione africana (Ua) dopo esserne uscito nel 1984 perché essa aveva accettato come membro la Repubblica democratica araba Saharawi (autoproclamata dal Fronte Polisario per il Sahara occidentale, ndr).

Le due capitali si imputano a vicenda la responsabilità di alimentare l’estremismo sui propri territori. Le forze di polizia e di controterrorismo marocchine hanno 50mila agenti ausiliari che controllano il territorio impedendo la nascita e il proliferare di movimenti terroristici. Tra il 2002 e

il 2017, secondo fonti ufficiali marocchine, sarebbero stati sventati 352 attacchi e scoperte e smantellate 172 cellule terroristiche.

L’Algeria, da parte sua, accusa il Marocco di appoggiare il movimento estremista islamico Rachad e il Mak (Movimento per l’autodeterminazione della Cabilia, regione algerina). A inasprire le divergenze tra Rabat e Algeri hanno contribuito diversi fattori, tra cui l’aperto appoggio dato da Omar Hilale, rappresentante permanente del Marocco presso le Nazioni unite, al «popolo cabilo [che] merita di godere il diritto all’autodeterminazione», ma soprattutto la normalizzazione dei rapporti diplomatici con Israele, definito da Algeri «entità sionista» che avrebbe compiuto «incessanti atti ostili» contro il Paese.

Nel 2021 l’Algeria ha chiuso le valvole del gasdotto Maghreb-Europe e ha iniziato a far passare il gas verso la Spagna attraverso il gasdotto Medgaz, che collega direttamente l’Algeria alla nazione iberica, evitando di attraversare il territorio marocchino. Israele è anche presente, in collaborazione con la Russia, nell’accordo siglato il 12 ottobre 2022 per lo sviluppo del settore nucleare tramite la collaborazione in 14 aree di interesse. Oltre che impianti per la produzione di energia da fissione, saranno costruiti impianti di desalinizzazione, acceleratori di particelle, depositi di scorie nucleari e verranno effettuate ricerche minerarie per sfruttare l’uranio presente nel sottosuolo. Questi progetti andranno ad aggiungersi al reattore di ricerca di Maamora, oggi in funzione per la produzione di isotopi a scopo medico.

La rete (avvolgente) della Cina

In tutte queste iniziative di sviluppo, si sta inserendo prepotentemente la Cina, la quale ha sempre elogiato la stabilità politica del Marocco. Le Primavere arabe qui non hanno avuto gli effetti destabilizzanti che hanno avuto in altre nazioni e il rientro di Rabat nell’Unione africana, ha indotto Pechino ad approfondire i legami per poter sfruttare la diplomazia marocchina come grimaldello per entrare nel continente.

Sebbene il Marocco non abbia mai avuto stretti rapporti con il paese asiatico, nel gennaio 2022 è stato firmato un accordo – il primo nell’area nordafricana – riguardante il progetto Belt and Road (la moderna via della seta, ndr). L’alleanza economica prevede 80 progetti cinesi in campo scientifico, agricolo, scolastico e della finanza, tecnologia, sicurezza, industria, salute, ricerca e sviluppo e trasporti. La costruzione del ponte Re Mohammed VI che, con i suoi 952 metri sarà il ponte a campata unica più lungo d’Africa e la realizzazione di una ferrovia ad alta velocità che collegherà Marrakech con Agadir, la quale si affiancherà al treno ad alta velocità che dal 2018 collega Casablanca a Tangeri (350 km), sono alcuni dei programmi più ambiziosi della collaborazione sino-marocchina.

Nel campo degli scambi culturali è in programma anche l’apertura nel Paese di tre uffici dell’Istituto Confucio.

A differenza di altre nazioni africane dove la Cina è già presente, la moderna struttura industriale e logistica marocchina ha permesso a Pechino di concludere accordi per agganciarsi alle strutture già esistenti e integrarli senza prevedere la costruzione da zero di nuovi impianti e progetti. Questo permetterà al Marocco di mantenere una posizione di controllo sugli investimenti e di direzione degli stessi formando delle partnership privilegiate con i cinesi.

Gli spazi di intervento sono ampi: gli investimenti cinesi in Marocco ammontano oggi a 1,26 miliardi di dollari, mentre il commercio bilaterale nel 2020 è arrivato a registrare scambi per 4,76 miliardi.

Un’inezia, se si confrontano a quelli di paesi come la Francia e gli Emirati arabi uniti, che assieme raggiungono i tre quarti degli investimenti totali stranieri in Marocco, ma Rabat vede nella Cina un’opportunità per diversificare i propri legami con l’estero e sganciarsi dall’orbita europea, francese in particolare.

Eppure, è proprio questa caratteristica, la forte presenza francese nel tessuto economico marocchino, che ha trasformato il Paese in un mercato assai appetibile per le compagnie cinesi. Queste vedono nella mediazione marocchina un modo indiretto per entrare nel mercato europeo evitando eventuali contrasti e tensioni politiche con Parigi e Bruxelles mettendo al sicuro quelle aziende cinesi che hanno integrato la loro produzione con industrie francesi fuori dall’Unione europea.

Un esempio di questa cooperazione è la Nanjing Xiezhong, che ha concluso un accordo con la Renault per fornire l’impianto di aria condizionata agli automezzi prodotti nel suo stabilimento da 15 milioni di dollari di Kenitra, mentre, sempre nella città marocchina sull’Atlantico, la Citic Dicastal fornirà, ancora alla Renault, componenti di alluminio per le sue auto.

Tra i progetti più corposi vi sono quelli della casa automobilistica Byd (Built your dreams), che ha in programma la costruzione di uno stabilimento per macchine elettriche, mentre nel 2019 la China communications construction company ha firmato un contratto da 10 miliardi di dollari per edificare la Mohammed VI Tanger tech city, un hub tecnologico che ospiterà 200 aziende cinesi e sarà abitata 300mila persone al fine di sfruttare manodopera a basso costo abbinata alla vicinanza geografica con l’Europa.

L’alleanza tra Pechino e Rabat permetterà al Marocco di diventare la nuova economia trainante nordafricana, ma rischia anche di aumentare i contrasti con i paesi del Maghreb, in particolare dopo il ristabilimento dei rapporti diplomatici con Israele. L’attuale governo marocchino e quelli che gli succederanno dovranno, quindi, giocare una partita molto delicata per non esporsi al rischio di emarginazione da un consesso regionale e internazionale sempre più fluido.

Piergiorgio Pescali

Papa Francesco e re Mohammed VI alla cerimonia della firma nel palazzo reale di Rabat il 30 marzo del 2019. Foto Vatican Media – AFP.

La moschea di Casablanca. Foto Matteo Imperiali – Pixabay.

Umma calcistica

Bandiere rosse sventolate da donne, uomini e bambini, tutti con un enorme sorriso stampato sul viso. Era dicembre quando gli emigrati marocchini di tutta Europa – in tutto sono oltre quattro milioni di persone – sono scesi nelle strade e nelle piazze per festeggiare la propria nazionale di calcio, prima squadra africana e araba a raggiungere una semifinale ai mondiali. Un evento a suo modo storico che ha riempito d’orgoglio un paese e un popolo spesso umiliati. Una festa durata però lo spazio di qualche giorno. Poi, la realtà è tornata a dettare l’agenda.

Negli stessi giorni delle finali dei mondiali del Qatar sono, infatti, esplosi gli scandali noti come «Qatar gate» e «Marocco gate»: mazzette date a vari rappresentanti del Parlamento europeo per influenzare le decisioni riguardanti i due paesi. Sui servizi di intelligence del Marocco è anche caduta l’accusa di aver utilizzato

Pegasus, il software di spionaggio sviluppato dall’azienda israeliana Nso Group, per spiare uomini politici (forse anche il presidente francese Macron), giornalisti, oppositori sgraditi.

Se confermata, si tratterebbe di una notizia nella notizia. Marocco e Israele, infatti, non avevano rapporti ufficiali fino ai cosiddetti «accordi di Abramo», sottoscritti (sotto la spinta di Washington) il 10 dicembre del 2020.

I numeri sono da plebiscito russo o cinese. Secondo le statistiche ufficiali, in Marocco, su una popolazione totale di 38 milioni, il 99 per cento è di fede islamica. Si tratta di un islam sunnita aderente alla scuola malikita (corrente che allarga le fonti del diritto islamico). Quello marocchino è un islam moderato. Ciò non significa che l’estremismo sia completamente assente dal paese. La storia racconta di un attentato a Casablanca nel 2003 (con 45 morti) e di uno a Marrakech nel 2011 (18 morti).

La popolazione cristiana è stimata in circa 40mila persone (30mila cattolici).

Papa Francesco ha visitato il paese maghrebino nel marzo 2019, accolto dal sovrano marocchino, re Muhammad VI, sul trono dal luglio 1999. Dal novembre 2020, i Missionari della Consolata operano a Oujda, città nell’estremo orientale del paese, a circa 15 chilometri dal confine con l’Algeria e circa 60 a sud del Mediterraneo.

I primi marocchini arrivarono in Italia negli anni Settanta, epoca che segna l’inizio dell’immigrazione dai paesi non europei. Oggi, quelli in regola sono circa 400mila, costituendo la prima comunità di stranieri extra Unione europea. Su quasi 3,3 milioni di stranieri non comunitari presenti in Italia, l’11,8% proviene dal Marocco. La metà di loro è residente in tre regioni del Nord: Lombardia, Emilia Romagna e Piemonte (infografica a lato).

Nel rapporto La comunità marocchina in Italia (2021) del ministero del Lavoro, si legge: «Il radicamento della comunità marocchina nel tessuto sociale italiano è reso evidente anche dall’ampio coinvolgimento nei matrimoni misti, per i quali la comunità in esame risulta prima, tra le principali non comunitarie».

Eppure, nonostante i numeri, la storia e una fede islamica più tollerante, nei loro confronti non sono scomparsi sentimenti di razzismo, più o meno palesi. Ne Il razzismo spiegato a mia figlia Tahar Ben Jelloun, forse il più celebre tra gli scrittori marocchini, dà una definizione tanto sintetica quanto incontrovertibile: «Il razzismo è ciò che trasforma le differenze in disuguaglianze». Le differenze sono tante, ma arricchenti. «Spesso – ha scritto il professor Mohammed Hashas – è difficile per un marocchino definirsi perché ci tiene a mantenere quella molteplicità di ricchezze che lo contraddistingue, una liasion tra la cultura e l’identità amazigh (berbera, ndr), araba, africana, mediterranea e internazionale».

Paolo Moiola

Una tifosa di Casablanca durante una partita della nazionale marocchina ai mondiali di calcio del Qatar (14 dicembre 2022). Foto Thomas Coex – AFP.

Noor e i parchi solari

La ricerca di fonti energetiche a basso impatto ambientale è stata inserita nel Nuovo modello di sviluppo del Marocco tanto che, secondo i piani, entro il 2030 la metà dell’elettricità generata nel Paese proverrà da fonti rinnovabili. E qui entra in gioco il Sahara occidentale, ricco di sole e vento.

Gli impianti solari in costruzione nella regione sud sahariana forniranno il 30% dell’energia prevista dal piano marocchino.

A oggi esistono cinque parchi solari, di cui quattro appartenenti alla Nareva, la compagnia energetica proprietà al 100% della Sni (Société nationale d’investissement), una holding di proprietà della famiglia reale che opera nel campo finanziario, bancario, alimentare, delle telecomunicazioni e dell’energia rinnovabile.

Nel Sahara hanno investito anche compagnie straniere, tra cui la Siemens gamesa renewable energy, spin-off della Siemens tedesca che fornisce turbine agli impianti eolici marocchini nell’ex colonia spagnola.

La volontà di avviare con decisione la transizione energetica è testimoniata dal Noor («luce» in arabo), il più grande impianto solare termodinamico (Concentrated solar power, Csp) al mondo che ha richiesto un investimento di 9 miliardi di dollari parzialmente finanziati per 435 milioni dal Climate investment funds, 700 milioni dall’Afdb (African development bank) e 3 miliardi dalla Banca mondiale. Situato a Ghessat, nella provincia di Ouarzazate, copre un’area di 2.500 ettari che gode di una quantità di irraggiamento solare tra le più intense al mondo, 2.635 kwh/m2/anno.

Una volta completato, il Noor consentirà di ridurre le emissioni di carbonio di 770mila tonnellate all’anno (240mila tonnellate risparmiate dall’impianto Noor I Csp e 533mila tonnellate risparmiate dal Noor II e Noor III) e si svilupperà su quattro complessi solari con una capacità combinata di 2 Gw: il Noor I Csp, che ha batterie di stoccaggio a sali fusi con capacità di accumulo di tre ore; il Noor II Csp e Noor III Csp, con batterie di stoccaggio di sette ore e l’impianto fotovoltaico Noor IV. Il tutto verrà gestito dalla Nomac, sussidiaria della Acwa e della Masen (Moroccan agency for solar energy).

Pi.Pes.

Il conflitto per il Sahara occidentale

Una famiglia del Sahara occidentale fotografata da uomini della Minurso. Foto Martine Perret – UN Photo.

Sabbia negli occhi

Già protettorato spagnolo, dal 1976 Rabat considera la regione un proprio territorio. Al momento, l’indipendenza del popolo dei Saharawi, reclamata dal Fronte Polisario di Brahim Ghali, pare una chimera.

Nel Sahara occidentale, il Marocco ha messo a segno il suo principale successo internazionale, avendo inglobato la parte controllata dalle sue truppe (l’80 per cento dell’intero territorio) con il nome di Province meridionali per un totale di circa 190mila km2 su cui vive una popolazione di 500mila abitanti. Sempre più istituzioni internazionali mostrano cartine del Marocco con la regione meridionale già inclusa (tra queste il Comitato europeo delle regioni, l’ambasciata Usa in Marocco, il sito della Cia, The World Factbook).

Apparentemente arido e senza risorse, il Sahara occidentale è in realtà un forziere di fosfati, garantendo il 70% della produzione mondiale di questo minerale essenziale per l’industria agricola, mentre le acque antistanti le coste sahariane forniscono il 78% del pescato nazionale. Con una tale ricchezza, in tempi di crisi come quelli attuali in cui il controllo delle materie prime per l’agricoltura è strategico, la destabilizzazione della regione non è vista con favore dalla comunità internazionale.

Commemorazione del trentennale della Repubblica Saharawi (2006). Foto Jaysen Naidoo.

Il Marocco e la Repubblica del Saharawi

Quello del Sahara occidentale è un problema che si trascina dal 7 novembre 1975, quando re Hassan II organizzò la Marcia verde durante la quale 350mila marocchini attraversarono il confine con la regione, protettorato spagnolo dal 1884 (il cosiddetto Sahara spagnolo), per rivendicare il diritto di Rabat sul territorio. Era una chiara violazione del verdetto emesso il 16 ottobre 1975 dalla Corte internazionale di giustizia, in cui si affermava che Marocco e Mauritania «non hanno alcun vincolo di sovranità territoriale sul territorio del Sahara occidentale» e che la popolazione saharawi era «in modo schiacciante» a favore dell’indipendenza. La Spagna, che stava attraversando un difficile periodo di transizione, pieno di incognite dopo la morte del dittatore Francisco Franco (20 novembre 1975), anziché contrastare la Marcia verde entrando in conflitto con Rabat, preferì abbandonare la colonia lasciando che Mauritania e Marocco se la spartissero. Il Fronte Polisario (Frente popular de liberación de Saguía el Hamra y río de Oro), appoggiato dall’Algeria, si oppose a questa soluzione, autodichiarando la fondazione della Repubblica democratica araba del Saharawi e continuando la lotta per l’indipendenza, già iniziata nel 1973 contro la Spagna.

Nel 1979 la Mauritania si ritirò dalla sua parte del Sahara occidentale, affermando che la questione doveva essere risolta come un problema di decolonizzazione. La guerra di liberazione del Fronte Polisario continuò contro il solo Marocco, obbligando migliaia di saharawi a migrare a Tindouf, in Algeria.

Nel 1980 il Marocco iniziò a costruire una linea di divisione fisica lunga 2.700 chilometri (il cosiddetto Berm, o muro di sabbia) che lasciò al popolo saharawi solo un terzo del territorio reclamato.

Furono proposti anche diversi tentativi di raggiungere un’intesa, ma tutti fallirono.

Incontro ufficiale tra il presidente sudafricano Cyril Ramaphosa e Brahim Ghali (a sinistra), a Pretoria (2018). Foto GCIS.

L’intervento delle Nazioni Unite

Nel 1991, Marocco e Polisario raggiunsero un accordo per il cessate il fuoco stabilendo una zona cuscinetto controllata dal contingente Onu del Minurso (United Nations mission for the referendum in Western Sahara) in attesa di un referendum che avrebbe deciso il futuro del territorio e della nazione saharawi. Il referendum non ebbe mai luogo e al suo posto Rabat presentò nel 2006 un piano che avrebbe garantito un governo autonomo saharawi sotto la sovranità marocchina. La proposta, che ebbe l’appoggio statunitense e l’apprezzamento delle Nazioni Unite, venne rifiutata dal Polisario.

La situazione del Sahara occidentale rimase nel limbo delle azioni internazionali sino all’agosto 2017, quando il presidente tedesco Horst Köhler venne nominato inviato speciale dell’Onu.

Fu sotto la conduzione di Köhler che Polisario, Marocco, Algeria e Mauritania iniziarono promettenti negoziati. Le iniziative del nuovo inviato speciale vennero accolte positivamente anche dagli Usa che, assieme alla Francia, proposero un documento che il Polisario interpretò come un appoggio al Piano di autonomia proposto dal Marocco nel 2006. In più, lo stesso documento accusava il Polisario di aver violato il cessate il fuoco nell’area di Guerguerat (estremo sud del Sahara occidentale) chiedendo di dislocare la funzione amministrativa della Repubblica democratica araba del Saharawi a Bir Lehlu, località nel nord est della regione.

I negoziati iniziarono a Ginevra nel dicembre 2018 con un primo successo del Marocco, che riuscì a portare al tavolo delle trattative, oltre al Polisario, anche Algeria e Mauritania, che invece avevano sempre preferito evitare di essere coinvolte nella questione.

Le improvvise dimissioni di Köhler, avvenute il 22 maggio 2019 per ragioni di salute, misero le trattative in stallo. La ricerca di un nuovo inviato speciale dell’Onu non trovò concordi i due principali attori: la proposta del Polisario di cercare tra le diplomazie scandinave il sostituto di Köhler trovava l’opposizione del Marocco, che considerava quei paesi troppo inclini ad appoggiare le rivendicazioni saharawi.

Da parte sua, lo stesso António Guterres, Segretario generale dell’Onu, faticò non poco a trovare candidati internazionali, visto che la causa del Sahara occidentale non è popolare, non porta consenso internazionale, è per lo più una causa sconosciuta ed economicamente non paga. Solo il 6 ottobre 2021, Guterres riuscì a nominare l’italiano Staffan de Mistura come inviato speciale per il Sahara occidentale.

Il vuoto di potere servì a Rabat per promuovere l’apertura di consolati stranieri nel Sahara occidentale. Sono 26 oggi gli Stati che hanno una rappresentanza a El Aaiun o a Dakhla, le due principali città della regione.

Un mezzo di Minurso nel Sahara occidentale. Foto Martine Perret – UN Photo.

La fine del cessate il fuoco

Tra ottobre e novembre 2020, l’interruzione della strada asfaltata del Guerguerat causata da manifestanti nazionalisti saharawi con l’appoggio del Polisario ha indotto il Marocco a mobilitare le proprie truppe all’interno dell’area, una zona cuscinetto controllata dalle truppe del Minurso. L’azione, provocata anche dal disinteresse dell’Onu che non è intervenuta con l’auspicata decisione per riportare la tranquillità nella regione, ha indotto il Polisario a dichiarare terminato il cessate il fuoco che durava da tre decenni, riattivando i suoi contatti diplomatici all’estero e coordinando i militanti nei cinque campi profughi che sorgono in Algeria.

La latitanza delle Nazioni Unite, sommata al peso sempre più importante assunto dal Marocco nell’economia mondiale, ha indotto gli Stati Uniti a riconoscere, il 10 dicembre 2020, la sovranità di Rabat sul Sahara occidentale suscitando le proteste di Russia e Algeria. La prima ha contestato la mossa di Trump come violazione del diritto internazionale, la seconda ha criticato Usa e Marocco di aver barattato il diritto di autodeterminazione dei saharawi con la normalizzazione diplomatica con Israele. Biden che, in un primo tempo, aveva criticato la mossa del suo predecessore ha fatto buon viso a cattivo gioco: il segretario di Stato Usa, Antony Blinken, dopo aver incontrato il ministro degli Esteri marocchino, Nasser Bourita, ha ammesso che il piano di autonomia proposto dal Marocco «rappresenta un potenziale approccio per soddisfare le aspirazioni del popolo del Sahara occidentale».

Ad aggravare la precaria situazione venutasi a creare per il Polisario, sempre più abbandonato a sé stesso nel contesto internazionale, vi sono le accuse di nepotismo, corruzione e violenze sessuali provenienti dalla stessa organizzazione indipendentista. Il 12 ottobre 2022, dopo aver negato per anni ogni coinvolgimento nelle violazioni dei diritti umani accadute nei campi profughi, alla fine la leadership saharawi ha ammesso le proprie responsabilità portando la Saharawi association for the defence of human rights a chiedere alla Corte spagnola di aprire un’inchiesta approfondita sull’operato di Brahim Ghali, il settantenne presidente dell’autoproclamata Repubblica democratica araba del Saharawi.

Piergiorgio Pescali

Paesaggio sahariano vicino a Awsard. Foto Martine Perret – UN Photo.

Il peso dei fertilizzanti

La guerra ucraina ha aggiunto alla crisi del grano anche quella dei fertilizzanti, visto che la Russia ne è il maggiore esportatore e da essa l’Uione europea dipende per il 30% del suo fabbisogno.

Dopo Russia, Cina e Canada, il Marocco è il quarto esportatore di concimi al mondo. Il principale produttore nazionale è l’Office chérifien des phosphates (Ocp) che, con 21mila dipendenti in 12 filiali nei paesi africani, è la maggiore multinazionale marocchina. Nel 2020 ha registrato ricavi per sei miliardi di dollari e l’Unione europea è il suo terzo mercato mondiale. La Ocp ha previsto per il 2022 un aumento della sua produzione di fosfati del 10% (1,2 milioni di tonnellate).

Nel 1976 la compagnia ha acquisito la miniera di Phosboucraa nel Sahara occidentale, nelle cui viscere sarebbe contenuto il 2% delle riserve di fosfato del Marocco. Secondo la stessa Ocp, il 100% dei profitti sono reinvestiti nella regione attraverso la Fondazione Phosboucraa che ha avviato diversi programmi di sviluppo, tra cui la creazione di Technopole Forum El Oued, una città di 600 ettari a 18 km da Laayoune che, una volta ultimata, dovrebbe offrire un centro di ricerca e sviluppo per studiare l’ambiente sahariano, un centro di supporto per lo sviluppo economico del Sahara occidentale, un centro culturale, servizi sociali. Ma l’industria dei fosfati è anche estremamente energivora: per produrre la quantità di fertilizzanti oggi commercializzata dalla nazione africana, il Marocco deve spendere il 7% della sua produzione energetica totale e destinare l’1% delle sue riserve idriche.

Il fertilizzante più diffuso è il fosfato di ammonio (Dap) che è prodotto da acido fosforico e ammoniaca. L’ammoniaca si produce in una reazione tra azoto e idrogeno, due elementi la cui produzione è estremamente energivora e il cui prezzo dipende quindi (almeno per l’80%) dal costo del gas naturale. Già alla fine del 2021 l’aumento del costo dei gas ha fatto levitare i prezzi dell’ammoniaca da 110 dollari per tonnellata a mille.

Per diminuire le importazioni di ammoniaca necessarie per la produzione di fertilizzanti (Ocp importa tra 1,5 e 2 milioni di tonnellate di ammoniaca per anno), l’Office chérifien des phosphates nel 2018 ha concluso un accordo di cooperazione con il tedesco Fraunhofer institute per sviluppare un progetto per produrre idrogeno verde a Ben Guerir (Sahara occidentale) assieme all’Iresen (Moroccan institute for research in solar energy and new energies).

Nel frattempo, l’invasione russa dell’Ucraina ha peggiorato la crisi alimentare nel paese, dove la gravissima siccità sta facendo il resto. Già durante l’estate del 2021 il prezzo del grano tenero era aumentato a 270 dollari/ton rispetto al 2020 (più 22%) e a 389 dollari/ton all’inizio di marzo 2022.

Pi.Pes.

Uomini al lavoro in una conceria di Fès. Foto Neverlan-Pixabay.

Hanno firmato il dossier:

Piergiorgio Pescali
Ricercatore e consulente in ambito nucleare, è giornalista e scrittore. Da molti anni è uno dei più assidui collaboratori della rivista Missioni Consolata.

a cura di Paolo Moiola giornalista redazione MC.

In uno stretto vicolo del suk di Marrakech. Foto Piergiorgio Pescali.




Messico. Costruendo Autonomia


Il modello di sviluppo dominante opera con mega progetti che distruggono territori e modi di vita originari. Le comunità locali sono al lavoro per costruire un modello alternativo di gestione dell’energia. L’esempio della città di Cuetzalan.

«Cosa ti dice oggi il tuo cuore?», mi saluta Ivan. È un mattino di novembre, siamo nel bar Tosepan Kajfen nel centro di Cuetzalan del Progreso.

Il saluto di Ivan, tradotto letteralmente dalla lingua nahuatl della Sierra Nordorientale dello stato di Puebla, in Messico, corrisponde al nostro «buon giorno».

Il Nahuatl è una delle lingue principali di questo territorio, i cui abitanti appartengono in gran parte ai popoli Masewal-Totonaku e mestizos (meticci)1.

Cuetzalan ne è una delle principali cittadine, con il suo centro storico dalla pavimentazione in pietra, il tiangui (mercato) domenicale, il palo della danza de los voladores di fronte all’enorme chiesa, anch’essa in pietra, e le sue abbondanti piogge che durante tutto l’anno alimentano la rigogliosa vegetazione della regione.

Mi trovo in una terra generosa, nella quale si coltiva e si commercia caffè, cannella, pepe nero, e si fabbricano cesti e altri prodotti di jonote e tessuti elaborati al telar de cintura.

 Minacce e resistenza

Questa terra ha anche una lunga storia di custodia e di resistenza da parte dei suoi abitanti.

Da decenni, infatti, diversi megaprogetti minacciano il territorio, la cosmovisione autoctona, le identità, le pratiche culturali delle comunità indigene, gli agroecosistemi locali delle milpas, l’acqua e la foresta.

Negli ultimi venti anni ci sono stati molti conflitti. Una resistenza che non si limita all’opposizione, ma difende i modelli alternativi di vita, pianificati e gestiti dalla popolazione locale in armonia con un paradigma culturale e spirituale che rispetta il territorio e il suo benessere, in favore di tutti i suoi abitanti.

 

il malinteso sviluppo

L’anno decisivo fu il 2008, quando la Commissione nazionale per lo sviluppo dei popoli indigeni (Cdi – Commisión nacional para el desarrollo de los pueblos indígenas) annunciò l’attuazione di un progetto turistico nella parte alta del comune, sulla Sierra de San Manuel.

Il piano, sostenuto dal governatore dello stato di Puebla, si poneva l’obiettivo di attrarre capitali privati, nazionali ed esteri, allo scopo di creare imprese turistiche in undici comuni della regione, in aree particolarmente attrattive per il loro valore paesaggistico e ambientale.

Il progetto riguardante Cuetzalan prevedeva la costruzione di capanne, hotel e di una scuola alberghiera nella quale gli «indigeni locali» sarebbero stati formati per prestare servizi turistici (poco pagati).

Fin da subito il progetto destò dubbi per gli incerti benefici che avrebbe portato a livello locale e per la mancata partecipazione degli abitanti nella sua pianificazione.

Durante i lavori, poi, le famiglie cominciarono a notare contaminazione di calce, fango e cemento nell’acqua dei loro rubinetti. Il sistema idrico del municipio, amministrato in maniera autonoma dai comitati territoriali dell’acqua, infatti, stava subendo le conseguenze del progetto che, oltre a essere stato imposto, era stato fin da subito mal gestito con disprezzo per la salute degli abitanti e gli ecosistemi locali.

Pianificazione ecologica

Le comunità non rimasero a guardare. Nel 2009, in collaborazione con accademici e accademiche della Buap (Benemérita universidad autónoma de Puebla), esse cominciarono a sviluppare un modello di pianificazione territoriale basato sulle conoscenze, la cosmovisione e le esigenze di indigeni e mestizos locali.

Nel dicembre 2010, il modello elaborato venne pubblicato sulla «Gazzetta ufficiale» come «Programma di pianificazione ecologica territoriale» (Poet – Programa de ordenamiento ecológico territorial) del comune di Cuetzalan.

Il Poet prevedeva limitazioni ai «progetti di sviluppo» e alla costruzione di infrastrutture energetiche. Da quel momento, i progetti consentiti sarebbero stati solamente quelli pianificati e pienamente giustificati dai bisogni della popolazione locale.

Difesa di vita e territorio

Per dare seguito alla nuova modalità di gestione del territorio, si costituì il Comitato di pianificazione territoriale integrale (Cotic), composto principalmente da organizzazioni sociali, comitati dell’acqua, produttori di caffè e pepe, artigiani, associazioni di difesa dei diritti umani, associazioni di donne, nonché dai residenti di Cuetzalan e da autorità municipali, statali e federali.

Le decisioni relative a qualsiasi piano o progetto per il territorio vengono da allora discusse nell’amplissima Assemblea in difesa della vita e del territorio che normalmente si riunisce nel centro di Cuetzalan ed è riuscita a raccogliere fino a 4mila persone. Quest’ampia partecipazione e il reale controllo del processo di decisione da parte delle organizzazioni locali, fa del Poet un esempio unico nel paese e un punto di riferimento e ispirazione per altre esperienze simili.

Proyectos de Muerte

Cuetzalan

L’articolazione della popolazione locale in comitati e associazioni, e la lunga esperienza di collaborazione comunitaria e cooperativista che caratterizza il municipio, facilitarono la creazione di un fronte di resistenza allo sfruttamento del territorio e di vigilanza sui progetti infrastrutturali in campo energetico e minerario.

Alcuni dei casi più significativi di programmi di «sviluppo» nocivi, hanno portato alla distruzione di sorgenti d’acqua per la costruzione di un’autostrada da parte del ministero dei Trasporti, al tentativo di costruzione di due grandi magazzini che avrebbero messo a repentaglio il commercio locale (uno del gruppo Walmart e l’altro di Coppel), a quattro dighe idroelettriche sul fiume Apulco, a giacimenti di gas e petrolio, e ad attività di fracking (estrazione di petrolio tramite frantumazione delle rocce, ndr).

Accanto al Cotic, un altro comitato si creò proprio in risposta all’industria estrattiva, il Concejo Tiyat Tlali en defensa de la vida y el territorio, con compiti di sorveglianza e denuncia di opere e progetti contrari a quanto previsto dal piano regolatore.

Questi progetti sono chiamati dai loro oppositori proyectos de muerte, perché chiaramente contrari alla cura e riproduzione della vita e delle sue basi ecologiche, alle pratiche agroecologiche e alla convivenza di tutti gli esseri viventi, delle generazioni attuali e future.

Molti di essi furono fermati. Tra i più recenti, possiamo ricordare le concessioni minerarie revocate dalla Corte suprema nei primi mesi del 2022 a causa della non conformità di tali progetti con la legislazione vigente. La revoca delle concessioni ha colpito gli investimenti della multinazionale canadese Almaden Mineras, che intendeva estrarre oro e argento dal territorio del municipio di Ixtacamaxtitlán, e del Grupo Ferro Minero, che aveva tre progetti in Cuetzalan del Progreso, Tlatlauquitepec e Yahonáhuac.

Energia, tema chiave

Un altro anno decisivo per Cuetzalan, questa volta in relazione ai megaprogetti elettrici, fu il 2015. La Commissione federale dell’elettricità (Cfe), società statale incaricata di produrre e vendere energia elettrica, aveva promosso lo sviluppo della linea ad alta tensione (di seguito Lat2) tra Teziutlán II e Papantla, passando per Ayotoxco de Guerrero e Cuetzalan. Nella zona Nord Est di quest’ultima sarebbe stata costruita una sottostazione elettrica.

Il Cotic, tramite studi specializzati, dimostrò che la stazione non rispondeva alla domanda di energia di Cuetzalan e della regione, bensì a quella dell’industria che si stava preparando nello stato e in tutto il paese.

Gli abitanti del municipio scoprirono così che il loro territorio era strategico per l’interconnessione di diverse linee elettriche che avrebbero fornito energia allo sfruttamento minerario del territorio e al fracking.

«Da quel momento abbiamo capito che dovevamo affrontare il tema energetico in chiave di autonomia locale, altrimenti sarebbe stato inutile opporsi ai megaprogetti. Dovevamo dimostrare che un altro modello è possibile e che le comunità lo possono gestire», mi spiega Leo Durán, della cooperativa Tosepan. «Così abbiamo deciso che l’energia doveva diventare un settore chiave di trasformazione comunitaria».

La Lat, tra le altre cose, avrebbe danneggiato irrimediabilmente un’importante area di acque sorgive, protetta e conservata nel tempo dalle comunità locali, comportando impatti irreversibili su una vasta area di piantagioni di caffè e di altri prodotti che rappresentano il sostentamento di numerose famiglie.

Inoltre la Lat avrebbe messo a rischio l’habitat di specie uniche e il sistema di orientamento dell’ape melipona, responsabile dell’impollinazione di tutte le coltivazioni e delle specie silvestri. La produzione di miele, fonte di reddito soprattutto per apicoltrici donne, si sarebbe interrotta.

La deforestazione, infine, avrebbe provocato la destabilizzazione dei pendii portando il rischio di frane disastrose.

La linea s’interrompe a Cuetzalan

Per queste ragioni, il 19 novembre 2016, il popolo Masewal-Totonaku e i mestizos, tramite un’azione nonviolenta, dichiarò la sua ferma opposizione alla linea ad alta tensione, affermando il diritto dei popoli indigeni alla libera autodeterminazione tutelato dal secondo articolo della Costituzione messicana.

In grande numero, gli abitanti del municipio si recarono nell’area di costruzione della sottostazione e impedirono fisicamente la ripresa dei lavori mediante un lungo, deciso e pacifico sit in. Dopo più di un anno di accampamento e turni di guardia degli abitanti di Cuetzalan e dei municipi vicini, le autorità comunali si videro obbligate a ritirare la licenza di costruzione della sottostazione elettrica in programma.

Criminalizzazione e repressione violenta

Nonostante la cancellazione del progetto, la criminalizzazione e la violenza contro gli oppositori della Lat non si fece aspettare. Nel febbraio 2018, otto rappresentanti di organizzazioni della regione furono accusati (e poi assolti) del reato di «impedimento» all’esecuzione di un’opera pubblica. Il 14 maggio 2018 fu assassinato Manuel Gaspar Rodríguez, membro del Miocup (Movimiento independiente obrero campesino urbano popular) che già aveva ricevuto molteplici minacce di morte per la sua opposizione alla centrale.

Il suo nome, così, si aggiunse a quelli delle molte persone che nel mondo scompaiono per la difesa e la cura del loro territorio.

Un altro membro di Miocup, Antonio Esteban Cruz, era stato già ucciso nel giugno del 2014 per la sua opposizione alle dighe idroelettriche (Vedi Daniela del Bene, Uomini e terra sotto attacco, MC giugno 2021).

Nel marzo di quello stesso 2018, un commando armato sparò a un camion su cui viaggiavano membri della Tosepan. Successivamente, il centro di formazione della cooperativa fu dato alle fiamme mentre alcuni suoi membri vi lavoravano.

Il 18 marzo 2021, la Commissione nazionale per i diritti umani (Cndh) emise la raccomandazione numero 9/2021, chiedendo alle autorità competenti di effettuare una riparazione completa del danno subito dalle persone criminalizzate per la protesta a Cuetzalan.

Energie alternative

L’opposizione alla centrale rappresentò il ripudio popolare al piano estrattivista della regione.

L’Assemblea in difesa della vita e del territorio invitò le persone a disconnettersi dai cavi dei «progetti di morte» e ad appropriarsi di tecnologie alternative per la produzione di energia e per la riduzione del consumo.

«Durante il sit in, si erano organizzati laboratori e discussioni sul tema energetico, e alcuni giovani avevano insegnato alla comunità il funzionamento delle energie alternative, in particolare quella prodotta con pannelli solari», mi racconta doña Rufina che gestisce la piccola struttura di ricezione turistica Hotel Taselotzin insieme alle altre donne della cooperativa Maseualsiuamej Mosenyolchicauanij (che in nahuatl significa «donne indigene che lavorano insieme e si sostengono a vicenda»).

Non era infatti più sufficiente opporsi ai megaprogetti, ma era giunto il momento di costruire alternative in armonia con la cosmovisione e l’idea stessa di vita dignitosa e sana propria degli abitanti della regione.

Le comunità organizzate nell’assemblea annunciarono in particolare l’intenzione di camminare verso un modello energetico che contribuisca al buen vivir, al yeknemilis in Nahuatl.

Photo by Pablo Rebolledo on Unsplash

Codice Masewal

Dal 2015 al 2018, una riflessione collettiva coordinata da organizzazioni locali come l’associazione di donne Maseualsiuamej Mosenyolchicauanij, l’Unione delle cooperative Tosepan Titataniske e altre, portò alla stesura del Codice Masewal: sognando i prossimi 40 anni, nel quale si dettagliano dieci linee strategiche per la costruzione del «Yeknemilis dei popoli Masewal, Tutunakú e i mestizos della Sierra Nord orientale di Puebla».

Tra queste, la linea strategica dell’autonomia energetica portò all’installazione di pannelli fotovoltaici nelle sedi di ricezione turistica gestita dalle stesse organizzazioni locali, tra cui l’Hotel Taselotzin, varie strutture della cooperativa Tosepan, e alcune case della vicina comunità di Xocoyolo.

L’installazione degli impianti fotovoltaici beneficiò della collaborazione della cooperativa Onergia, con sede nella città di Puebla. Essa, dal 2017, si occupa anche di sviluppare processi formativi su energie rinnovabili e cooperativismo rivolti ai giovani.

Furono inoltre realizzate mappature e inchieste per conoscere i livelli di povertà energetica nelle comunità della regione.

Infine, la progettazione e realizzazione di impianti fotovoltaici adattati alle condizioni meteorologiche locali e al materiale da costruzione, come il bambù, disponibile nella zona.

Autonomia energetica

Dal 2016 a oggi si sono tenute molte formazioni in campo energetico alle famiglie e alle organizzazioni di Cuetzalan per la buona manutenzione dei pannelli solari. L’obiettivo è di fornire conoscenze e autonomia nella loro manutenzione.

Nel 2020, fu sviluppato un percorso di consolidamento della nuova cooperativa locale Tonaltzin, composta da un gruppo di dieci giovani che fornisce servizi elettrici e di riparazione rivolti principalmente alle comunità di Cuetzalan.

Nel 2021, la cooperativa Tosepan e altri partner ottennero un finanziamento del Consiglio scientifico nazionale (Conacyt) per un progetto denominato «Energia per il Yeknemilis nella Sierra Nord orientale di Puebla».

Comunità locali, organizzazioni e accademici lavorano ora insieme per costruire un modello alternativo di gestione dell’energia, a partire dal riconoscimento e dalla valorizzazione della cosmovisione comunitaria e contadina, che contribuisca a vivere secondo il Yeknemilis.

L’Assemblea per la difesa del territorio ha intanto cambiato il suo nome in Asemblea para los planes de vida en el territorio, un nome che sottolinea la necessità non solo di difendere le basi della vita ma anche di costruire collettivamente meccanismi che garantiscano una vita sana e dignitosa, coerente e in armonia con la cosmovisione locale, in un territorio sano.

L’energia come diritto collettivo e bene comune è solo una parte di questo progetto, ed è tanto centrale quanto lo è l’acqua, la terra, la cultura e la madrelingua, il rispetto intergenerazionale e di genere, la dialettica tra il sapere locale e quello scientifico e tecnologico.

Un processo di difesa della vita e di costruzione di saperi e di alternative concrete che sta già ispirando altre comunità e di cui abbiamo tutti e tutte estremo bisogno.

Daniela del Bene


Note:

1- Cuetzlan del Progreso è un comune situato nella Serra Nord orientale dello stato di Puebla. Il comune fa parte di un vasto territorio in cui i popoli Masewal, Tutunaku e i mestizos (meticci) convivono insieme da molte generazioni. Nel caso del comune di Cuetzalan del Progreso, la popolazione è prevalentemente indigena di lingua nahuatl e si identifica come masewalmeh, che letteralmente si potrebbe tradurre come «donne e uomini liberi, orgogliosi della propria identità e del proprio territorio».
Le comunità tutunaku vivono generalmente in zone più isolate rispetto al centro urbano. Il concetto di «mestizos» si riferisce alle famiglie miste o che non si riconoscono propriamente indigene.

2- La Lat consiste nell’installazione, esercizio e manutenzione di una linea di trasmissione ad alta tensione, della potenza di 115 kilowatt (Kw), a doppio circuito, della lunghezza di 10.171,63 metri. La traiettoria del progetto inizierebbe all’incrocio con una linea esistente (Papantla Power-Teziutlán II), e finirebbe sotterranea presso la futura sottostazione elettrica, nel Nord Ovest della città di Cuetzalan, vicino alla strada statale 575. Entrambi i progetti sono stati promossi dalla Commissione Federale d’Elettricità, sostenendo i benefici che porterebbero alla popolazione della zona. Tuttavia, esiste una triste correlazione tra lo sviluppo della Lat e gli altri megaprogetti in corso di attuazione nella Sierra Norte di Puebla, tra cui l’idroelettrico, il minerario e l’estrazione di idrocarburi.

Video:

La Energía de los Pueblos su Youtube.

Link

Per tutti i casi menzionati nell’articolo sono disponibili nell’Atlas le relative schede informative.
www.ejatlas.org
www.envjustice.org
http://cdca.it (atlante conflitti ambientali italia).




Le nuove energie dell’Africa


Prima volontario, poi esperto in micro impresa e console onorario. Dopo quattro decadi e mezzo di lavoro nell’Africa più povera, Paolo Giglio si toglie qualche sassolino dalla scarpa. Spiega perché la cooperazione non funziona, e propone soluzioni.

«Sono accettabilmente vivo. L’anno prossimo avrò 70 anni, devo prepararmi». Esordisce così Paolo Giglio, piemontese di Cascinette d’Ivrea (To), che vive e lavora nel Sahel da 45 anni. Ci conosciamo oramai da alcuni decenni, dalla fine del secolo scorso. Volontario, cooperante, console onorario d’Italia in Niger, ma anche sperimentatore senza sosta di nuove tecniche su energie alternative e agricoltura, che devono però essere sempre adattate al contesto saheliano. Paolo è anche Cavaliere Ufficiale dell’Ordine al merito della Repubblica italiana.

La sua parlata chiara e schietta è intervallata da qualche battuta e, ogni tanto, dalla sua tipica «grassa» risata, quasi a volere sdrammatizzare temi che sono pesanti come macigni.

Paolo ha attraversato la storia della cooperazione allo sviluppo dai suoi inizi a oggi: «La cooperazione è sempre peggio – ci dice in collegamento da Niamey, Niger -. Oramai i progetti hanno solo amministratori, perché di tecnici non c’è più bisogno. Se una saldatura è fatta male, nessuno la va a guardare, ma se la fattura è sbagliata, allora sei fregato».

Così, l’anno scorso, ha voluto raccogliere alcuni suoi scritti – sì, Paolo sa anche scrivere – e, insieme all’amico Stefano Bechis, agronomo, docente all’Università di Torino, esperto di energia solare per l’agricoltura e compagno di mille progetti, ha pubblicato il volume «Nuove energie per l’Africa», uscito in italiano e francese, per l’Harmattan.

Chiediamo a Paolo il perché di questo libro. «Arrivai in Alto Volta (poi Burkina Faso, nda) il 22 marzo del 1973. Sono passati un po’ di anni e mi sono detto che certe idee bisogna dirle, proporle. Poi magari non verranno accettate, ma pazienza, occorre farlo».

Arrivato in Africa che non aveva ancora 21 anni, era uno dei primi obiettori di coscienza riconosciuti dalla legge italiana del 1972 e faceva il servizio civile sostitutivo di quello militare. Era con la Ong Lvia che in quegli anni muoveva i primi passi. «Poi la cosa mi è piaciuta e mi sono fermato. Altri che hanno svolto il servizio nel mio stesso periodo, non sono mai più tornati. All’inizio ho fatto tanti errori, ma ho anche imparato molto. Purtroppo, quello che vediamo noi adesso è che i giovani arrivano e dopo un anno pensano di avere risolto tutti i problemi».

Paolo ha visto passare, e spesso ha accolto, generazioni di volontari, cooperanti, esperti. Gli chiediamo cosa è cambiato nell’approccio al volontariato internazionale. «Negli anni ‘70 arrivavamo senza una formazione specifica – io, ad esempio, sono maestro – e allora cercavamo di imparare. Osservavamo il paese per capire. Adesso lo prendono come un mestiere qualsiasi. Ma se uno non ci crede almeno un po’, in questo campo i risultati non possono esserci».

Paolo non è benevolo con i finanziatori. «I tecnocrati europei, non lo fanno apposta a dire stupidaggini, ma ne sono convinti. Ci sono cose (nella cooperazione, nda) che vanno completamente al di fuori della realtà del paese. Negli obiettivi dei progetti, ad esempio, leggiamo sempre le stesse frasi, come il discorso di aiutare gli ultimi. Poi, nella realtà, con le procedure che ci sono attualmente, vengono aiutati gli intermediari, che sono già ricchi, e non i più poveri».

Paolo da molto tempo spinge sulla micro imprenditorialità locale, tema di cui è stato antesignano e al quale sono oggi arrivati tutti i principali finanziatori, come Unione europea e Cooperazione italiana. Ma anche qui, c’è qualche problema di approccio. «Come scegliamo le microimprese da appoggiare? Loro (i finanziatori, nda) vogliono che si faccia sulla base di un business plan. Ma qui in Niger l’84% della popolazione non sa né leggere né scrivere, come si fa? Si deve fare un’analisi di fattibilità e opportunità con le persone, andandole a trovare, nei quartieri, nei villaggi. E non, ad esempio, invitandoli in venti in una sala a seguire un seminario, come si fa spesso». Paolo ha una massima che lo guida sempre: «Siamo noi che dobbiamo adattarci alla situazione e non la situazione che deve adattarsi a noi».

Contadino pompa acqua nel sistema di irrigazione,comune di Gouna, Zinder, Niger

Adattarsi alla povertà

Nel suo libro, il console propone delle soluzioni. Intanto scrive che ha osservato un adattamento della gente alla povertà, perché non si può lottare eternamente contro una situazione, allora ci si adatta. «Quelli che possono uscire da questa situazione sono coloro che non hanno niente da perdere, quelli che sono già emarginati a causa della tradizione ancestrale, ovvero giovani e donne. Quello che io propongo è di “selezionare chi spicca”, non in base alla carta geografica o al reddito, come spesso fanno i progetti, ma identificando chi ha già iniziato, senza aiuti esterni, una certa attività. Queste persone potrebbero farcela, allora vale la pena aiutarli». L’appiattimento di una data popolazione sulla povertà e sugli aiuti forniti dall’esterno sono una costante nelle aree con economia di sopravvivenza.

«Un aspetto che è migliorato rispetto al passato, è che noi tendiamo a lavorare attraverso gli eletti locali (sindaci, ecc.). Questi, soprattutto in area rurale, hanno interesse che le cose funzionino, sia perché sono del posto, sia perché sperano di essere rieletti. Lavorare con i funzionari statali, invece, è più complicato, perché, che lavorino o no, lo stipendio lo portano a casa. Ma questo è così in tutti i posti del mondo».

«La Cooperazione internazionale è sempre più lontana dalla realtà», aggiunge ancora il veterano. «Ad esempio, dicono che ci sono troppi bambini in Niger e bisogna sensibilizzare. Ma se un contadino non ha dieci figli che, quando sarà vecchio, gli daranno di che vivere, come farà? Qui, su 22 milioni di abitanti, i pensionati sono settemila, e tutti della funzione pubblica».

Altra regola d’oro di Paolo Giglio: le tecnologie utilizzate nei progetti devono essere il più possibile riparabili localmente. Questo, oltre che a far funzionare le cose, fa girare l’economia locale.

E qui si torna agli artigiani, visti come microimprenditori del settore privato.

«Bisogna lavorare con gli artigiani, sedersi con loro, discutere di quello di cui hanno bisogno e cercare di aiutarli a quel livello».

«Ma i donatori hanno bisogno di quelli che sanno parlare bene, per farsi pubblicità e usarli in quei seminari e simposi che non servono a niente. Ci sono imprese che vincono premi, ad esempio sull’energia solare, ma non hanno mai posato un pannello solare».

Un esempio molto semplice: «Le donne che fanno da mangiare per strada a Niamey (capitale del Niger). Tutte insieme hanno un giro d’affari che supera quello della più grossa società del Niger. Ognuna di loro riesce a far credito a 10-12 funzionari i quali pagano solo a fine mese, quando ricevono lo stipendio. Loro dovranno andare a comprare la materia prima a credito, perché non hanno liquidità. Il loro beneficio è inoltre piccolissimo. Se si desse loro un micro credito, potrebbero raddoppiare il loro margine di guadagno, perché non pagherebbero il credito sulle materie prime. Queste donne non possono riempire dei documenti e non hanno il tempo di seguire dei seminari. Se non lavorano, non mangiano».

Una nuova borghesia

Paolo Giglio, nel suo libro, parla della necessità di una nuova borghesia per trainare lo sviluppo del paese. «In questi paesi ci sono i grossi commercianti, pieni di soldi, e i funzionari, ovvero gli impiegati pubblici. Non c’è nulla in mezzo che produca qualcosa. Si tratta di pura compravendita. Produrre qualcosa, anche fuori dal campo agricolo e zootecnico, è possibile. Anche se lo spazio si è ristretto, in quanto il mercato è invaso di prodotti cinesi, di cattiva qualità, ma di costo imbattibile. Bisogna appoggiare fabbri, falegnami, affinché non siano sempre i più poveri. Che possano comprarsi una casa, produrre manufatti concorrenziali e creare lavoro». Giglio parla di una classe media produttiva, oggi inesistente. Appoggiando la creazione di questa classe, si indurrebbe sviluppo economico nel paese.

Energia dell’Africa

Perché il libro di Giglio e di Bechis si intitola «Nuova energia per l’Africa»? Tolto il fatto che entrambi lavorano da molto tempo con la tecnologia solare, soprattutto per il pompaggio di acqua dai pozzi (l’acqua è il bene più importante nei paesi del Sahel), e che nel libro c’è un lungo capitolo che ne spiega l’impiego, le nuove energie per Paolo sono qualcosa di più profondo: «Intendo l’energia che la gente può mettere a disposizione per cambiare le cose. Sono quelli che bisogna appoggiare con i progetti di sviluppo. Faccio l’esempio di una ragazza che si è messa a produrre un certo tipo di borse e ha dato lavoro a sessanta donne rurali. Questo è un esempio virtuoso, di quelli da appoggiare».

Bisogna fare poi molta attenzione alle pressioni sociali che i nostri artigiani possono avere. Se ad esempio si viene a sapere che una micro impresa funziona bene, subito ha addosso frotte di famigliari che chiedono un aiuto, e l’impresa fallisce.

Un’altra problematica che affligge il Sahel da una decina di anni è la sicurezza. Come abbiamo già scritto in vari articoli, tutta l’area è territorio di diversi gruppi jihadisti internazionali, dai quali il Niger non è esente. Per chi segue progetti di sviluppo è diventato molto difficile andare sul campo, nei villaggi e nei luoghi nei quali le attività sono realizzate. «È un ulteriore blocco alla cooperazione di prossimità, soprattutto per i giovani che arrivano. È diventato quasi impossibile andare sul terreno. Ma se si facesse un po’ di prevenzione, con progetti in certe aree, come le periferie urbane, magari si riuscirebbe a salvare qualcosa. Voglio dire che se ai piccoli banditi dai una pompa solare, magari tornano a coltivare. Ovviamente non riusciamo a influire, invece, sul terrorismo».

Migrazione reciproca

Paolo fa una proposta molto operativa e provocatoria per incentivare luso della terra in questi paesi. Attirare giovani imprenditori agricoli europei a installarsi nei paesi del Sahel, in modo da assumere gente e insegnare loro certi mestieri. «È una proposta originale. Non si tratta di nuovi coloni, ma piuttosto di migrazione nelle due direzioni. Penso a microimprese europee che possono aiutare lo sviluppo di questi paesi. Sovente lo sviluppo non è fatto da soli autoctoni, che hanno più blocchi sociali, ma da un giusto mix di locali e stranieri con competenze. Ad esempio, a Niamey, lungo il Niger, sono i Burkinabè che hanno fatto gli orti per primi. Poi i nigerini hanno copiato». E conclude: «Se sono non sposati magari si sposano e restano, altrimenti, se se ne vanno, non possono certo portarsi via la terra».

Marco Bello

Giovani contadini dissodano la terra, sito di Gandou (Gouna), Niger


Come burocrazia e procedure uccidono l’aiuto allo sviluppo

La cooperazione che inganna

Parlando di Unione europea, le agevolazioni della Politica agricola comune (Pac), con 386 miliardi di euro in 7 anni (33% del budget dell’Unione europea), sono destinate per l’80% al 20% delle imprese agricole europee più importanti.

Eurostat indica che nel 2015 sui 22,3 milioni di micro imprese dell’economia europea (settore finanziario escluso) il 92,7% erano imprese con meno di 10 addetti, rappresentando quasi il 30% dei posti lavoro dell’Unione. E ricevevano pochissime agevolazioni.

Lo stesso capita con i progetti di aiuto ai paesi poveri. La stragrande maggioranza dei cosiddetti donatori istituzionali (ad esempio l’Unione europea, l’Agenzia italiana per l’aiuto allo sviluppo…) ha creato delle procedure talmente complicate che i destinatari «piccoli» non riescono ad adeguarsi. Sono quindi i grandi a vincere le commesse e a fare le realizzazioni come intermediari, a carpire gran parte della torta.

Molti affermano che, per esempio, nelle colture orticole ci sono troppi intermediari fra il coltivatore e il cliente. E si inizia a parlare di «distanza zero», situazione nella quale il produttore vende direttamente al consumatore.

Anche nei progetti di sviluppo bisognerebbe tornare alla distanza zero, o quasi, in modo che l’intermediazione fra il donatore e il beneficiario finale sia meno ingombrante possibile. Bisognerebbe poi favorire i progetti eseguiti attraverso strutture locali no profit presenti nella zona d’azione, le quali possono tessere dei legami duraturi nel tempo con i beneficiari finali.

Con la cooperazione stiamo veramente aiutando i poveri? Attualmente no. La maggior parte dei donatori ha intriso il proprio approccio di una burocrazia tale che lo scavatore di pozzi del villaggio non ha nessuna possibilità di ottenere la commessa per fare un pozzo nel suo villaggio, cosa che permetterebbe di dare lavoro e arricchire un pochino la comunità.

Si parla di trasparenza perché sono state introdotte gare di appalto anche per i piccoli contratti, come se gli appalti potessero evitare le «indelicatezze». Non le evitano per niente. Queste pesanti procedure proteggono dei tecnocrati incompetenti che sanno accumulare giustificativi, ma non saprebbero controllare se il pozzo è a modo, se una saldatura è ben fatta o se la manutenzione della tecnologia introdotta può essere fatta localmente. Questo «protegge» anche molti cooperanti, che non vogliono più lavorare sul terreno con delle esecuzioni in regia (tramite coordinamenti dei diversi attori, ndr) dove bisogna sudare sotto il sole per seguire il lavoro quotidianamente. Questi stessi cooperanti si adattano troppo facilmente alle regole burocratiche che permettono loro di restare confinati in uffici climatizzati.

Il Niger ha bisogno di una riforma agraria e non di parole e di carte. Il paese ha bisogno di orticoltura e di trasformazione / valorizzazione della produzione e non di burocrazia, procedure e quadri di concertazione.

L’Ufficio internazionale del lavoro (Ilo) indica che più del 90% dell’economia africana è informale. L’Istituto nazionale della statistica del Niger (Ins), valutava nel 2018 il Pil del Niger in 3.628 miliardi di franchi cfa (circa 5,5 miliardi di euro) di cui 3.429 miliardi (circa 5,2 miliardi di euro) prodotti dal settore informale, cioè il 94,5%.

Non dico certo che l’economia debba restare informale. Ma per spingere le micro imprese a formalizzarsi bisognerebbe incoraggiarle e non reprimerle. Escluderle non significa spingerle a mettersi in regola, è proprio il contrario. Soltanto affidando delle commesse al fabbricante di pozzi del villaggio gli si può chiedere in cambio di mettersi in regola. Non includere l’economia informale nei progetti di sviluppo significa anche partecipare alla distruzione degli equilibri sociali del villaggio, cioè di coloro che si vorrebbero aiutare.

Infine gli uffici che operano i controlli dei fondi stanziati fanno il loro lavoro con i paraocchi senza commuoversi minimamente se gli ultimi non sono stati presi in conto. Se così non fosse aggiungerebbero ai loro rapporti di analisi almeno delle critiche costruttive. Questi controllori esigono, nel rispetto delle procedure imposte, un numero di documenti cartacei talmente importante che i progetti di sviluppo ormai devono assumere più amministratori che tecnici. Il risultato finale è quello di avere molta documentazione in regola, ma meno pozzi e meno fondi per i beneficiari, mentre negli obiettivi del progetto di sviluppo c’era scritto «dare lavoro alle classi disagiate», «aiutare gli ultimi», «diminuire l’emigrazione».

Il sistema dunque è ingannatore e sembra instaurato per aiutare i ricchi.

Non stupitevi perciò quando gli abitanti dei villaggi, gli ultimi, quelli che non ce la fanno più, scappano verso l’Europa o sostengono silenziosamente dei movimenti estremisti.

Paolo Giglio




Miniere «green»

testo di Daniela del Bene |


La domanda di minerali per la produzione di pannelli solari aumenterà di più del 300% entro il 2050. L’estrazione di cobalto, litio e terre rare per pale eoliche, batterie e veicoli elettrici crescerà a tassi senza precedenti. Viaggio nelle nuove miniere.

In un contesto internazionale di grandi incertezze e sfide sociali ed economiche, la questione ambientale ed energetica si impone come un’asse centrale di possibile cambiamento. Non solo per l’evidenza dei cambiamenti climatici, ma anche perché le risorse energetiche su cui è basata la società industriale sono sempre più scarse e di difficile accesso.

Come risposta alle attuali sfide energetiche, da anni si stanno studiando alternative basate sulle fonti cosiddette rinnovabili: dal solare fotovoltaico all’eolico, passando per varie altre tecnologie e per l’efficienza energetica.

Queste alternative, per importanti e imprescindibili che siano, hanno alimentato un clima di generale (ed eccessivo) ottimismo che sta scoraggiando una riflessione critica. Pur essendo necessario continuare a far ricerca sulle fonti rinnovabili, dobbiamo affrontare alcuni temi di fondo.

Black Rock Solar’s first photovoltaic array was 90 kilowatts to power the school buildings in Gerlach, Nevada.

Tre temi ineludibili

La mole attuale di consumo mondiale di energia e di materie prime sta provocando un livello irreversibile d’inquinamento, di emissioni di gas serra e di degrado di ecosistemi. Questo mette a repentaglio le basi stesse della vita. La crescita economica infinita messa in relazione con i limiti biofisici «finiti» della Terra è dunque il primo tema di fondo da affrontare, come da anni sostiene il movimento per la decrescita e studiosi di tutto il mondo.

Il secondo tema è l’insufficienza delle fonti rinnovabili: anche se riempissimo di pannelli solari o pale eoliche tutti gli spazi disponibili, non potremmo comunque raggiungere l’attuale livello di energia generata dai combustibili fossili.

Il fisico spagnolo Antonio Turiel dell’Istituto de ciencias del mar di Barcellona, lo scrive nel suo libro Petrocalipsis: un sistema basato sulla crescita infinita non si può adattare alle rinnovabili. Esse producono energia in modo intermittente (solo quando c’è luce, o soffia il vento, etc); producono solo elettricità (che costituisce il 20% dell’energia totale che include il carburante per il trasporto o l’energia termica) e, infine, hanno un potenziale limitato: se tutti i governi del mondo si accordassero per consumare solo energia rinnovabile, questa coprirebbe appena il 30% del fabbisogno.

Il terzo tema da affrontare si riferisce alla quantità di energia e materiali necessari per la fabbricazione di pannelli solari e turbine. Da dove li prendiamo? Qual è il costo di estrazione? Quali sono gli impatti ambientali e sociali? Chi gestisce l’infrastruttura per la loro estrazione e lavorazione? I materiali sono solo in parte riciclabili e già sono sorti grandi cimiteri di pale eoliche. Cosa faremo di pannelli e pale dopo la loro vita utile?

Mutanda mining – RD Congo

Energia post Covid

I diversi piani di recupero promossi dall’Unione europea e da altre economie energivore come Stati Uniti, India, Cina, per affrontare la crisi economica post pandemia, stanno sostenendo con ingenti fondi progetti «green», tra cui le rinnovabili su grande scala e la conversione del trasporto verso mezzi elettrici.

Questi piani nascono dall’illusione di tornare alla famosa «normalità di prima», cioè ai livelli di consumo pre-pandemia, e omettono di considerare alcuni «dettagli» importanti, come il fatto, ad esempio, che il territorio occupato per il solare o l’eolico viene tolto ad altre funzioni, come la produzione agricola. Attualmente, infatti, è più remunerativo dare in affitto un campo a imprese di energia rinnovabile che coltivarlo.

La produzione energetica rischia, dunque, di mettere a repentaglio la già martoriata attività agricola e la nostra capacità di nutrire la popolazione. Quali saranno le conseguenze per le famiglie e le piccole imprese agricole? Quale sarà lo stato di salute del territorio tra vent’anni, quando la vita utile di questi mega progetti giungerà alla fine?

Secondo la rivista «Bloomberg new energy outlook», l’energia eolica e solare coprirà il 56% della produzione di elettricità entro il 2050. Secondo la Banca mondiale, la domanda di minerali per la produzione di pannelli solari aumenterà di più del 300% entro il 2050, mentre l’estrazione di cobalto, litio o terre rare per pale eoliche, batterie e veicoli elettrici aumenterà a tassi senza precedenti.

Questa tendenza già si registrava prima del Covid-19. Tuttavia, ora, le grandi imprese dell’energia si stanno accaparrando i fondi per la ripresa a un ritmo fuori controllo, e ciò impedisce una reale riflessione di fondo, cosa che sarebbe necessaria in ogni società democratica.

Miniere in fermento

L’attività mineraria in tutta la sua storia ha sempre provocato impatti ambientali e sociali negativi, tuttavia, oggi, le esplorazioni avvengono su scala più grande, controllata da imprese transnazionali che ne ricavano un profitto molto più elevato dei costi che sostengono, e con un livello di impatto ambientale incomparabile con quello di decenni fa.

Sono tristemente famose le miniere di oro, rame, carbone, bauxite sparse in Sud America, India, Filippine, Sudafrica, e in molti altri paesi. Ma la corsa all’accaparramento di minerali strategici «per la transizione energetica» sta portando all’apertura di nuove miniere, come quelle in Congo Rd e in Spagna.

Il cobalto del Congo Rd

La miniera di Mutanda, in Congo Rd, è attualmente la più grande produttrice mondiale di cobalto.

Si trova nella provincia di Lualaba, nel mezzo dell’area protetta di Basse-Kando.

La legge del paese vieta ogni nuova attività economica nelle aree protette, ma in questo caso non è stata rispettata. La prima impresa a esplorarla fu la congolese Gécamines negli anni ‘80. Dal 2013, la maggior parte delle operazioni sono controllate dalla svizzera Glencore Plc.

Diversi episodi associano le operazioni di Glencore in Congo all’inquinamento del suolo e dell’aria. Uno di questi è avvenuto tra luglio 2013 e settembre 2014, quando alcune sostanze tossiche hanno contaminato circa ventiquattro ettari di terreni nelle vicinanze, proprietà di ventisei famiglie di Moloka.

Ancora oggi è possibile vedere l’inquinamento del suolo dalle immagini satellitari. La vegetazione è completamente scomparsa e non ricresce nulla.

Le uniche azioni intraprese da parte di Glencore, dopo quattro anni dalle prime denunce, sono state quelle di ripiantare alcuni alberi (che si sono ammalati) e risarcire le ventisei famiglie con un totale di 65.330 dollari, una cifra ridicola a fronte della perdita dei mezzi di sussistenza.

Vision of the area Paumo-Banda_ Sud Isiro in Alto Conso in RD Congo, dove si vedere la foresta progressivamente distrutta dalle miniere illegali di coltan (da Google Earth)

Contaminazioni

Il Congo Rd è il paese con la maggior riserva di cobalto conosciuta. Essa fornisce circa la metà della produzione mondiale, e questo a scapito delle comunità locali e degli ecosistemi del paese, in modo simile a quanto accade per il coltan nel Kivu.

L’African resources watch (Afrewatch) e l’Associazione per lo sviluppo delle comunità del Lago Kando (Adclk) hanno lavorato per diffondere la loro preoccupazione per le violazioni dei diritti umani e per l’inquinamento nell’area di Mutanda.

Un altro episodio di contaminazione è avvenuto nella notte tra il 16 e il 17 aprile 2017, un gasdotto è esploso rilasciando un acido tossico. Ancora una volta, gli agricoltori che vivevano vicino alla miniera sono stati colpiti e le loro terre distrutte. Da queste terre, le tossine sono entrate nel fiume Luakusha che sfocia nel lago Kando. Il disastro, quindi, non ha riguardato solo i terreni direttamente contaminati, ma anche l’attività di pesca, l’agricoltura della zona che dipende dalle acque del lago per l’irrigazione, e i cittadini in generale che non hanno più avuto accesso all’acqua potabile.

I residenti hanno iniziato ad avere anche problemi di salute.

La risposta della società mineraria è stata quella di spargere la calce nell’acqua per ridurne l’acidità, ma non è stata sufficiente. Inoltre, le comunità sono state escluse completamente dal processo decisionale.

Per quanto riguarda le condizioni dei lavoratori della miniera, molti lamentano orari troppo lunghi, scarsa retribuzione degli straordinari, discriminazione tra dipendenti congolesi e di altri paesi, e la mancanza di sindacati. I dipendenti hanno anche sollevato preoccupazioni riguardo ai materiali tossici con cui devono lavorare e alle poche misure di protezione adottate.

Mutanda non è l’unica miniera di cobalto nella provincia di Lualaba. Il deposito di Tenke Fungurume, ad esempio, è sfruttato da una compagnia cinese. Anche qui i problemi legati all’inquinamento, alla mancanza di trasparenza e comunicazione con la popolazione, la contaminazione di fonti d’acqua, l’abbandono di famiglie sfollate in tende per oltre due anni senza soluzioni abitative, e la precaria situazione dei lavoratori sfruttati, hanno portato a proteste che sono state represse con violenza, causando anche alcuni morti.

Il caso spagnolo

La domanda di metalli non spinge solo sulle frontiere estrattive dell’Africa o dell’America Latina, ma apre nuove aree di sfruttamento anche «a casa nostra».

Nella zona Sud Occidentale della Spagna, nella comunità autonoma dell’Estremadura, a 800 metri dal centro di Cáceres, città di 96mila abitanti, dichiarata patrimonio dell’umanità nel 1986 dall’Unesco, la società Tecnología extremeña del litio Sl, vuole realizzare una miniera di litio a cielo aperto.

La società è una filiale della joint venture promossa dalle società Valoriza Minería (una sussidiaria di Sacyr Sa) e Plymouth minerals Ltd (che ha cambiato nome in Infinity lithium corporation). Il suo progetto di 412 ettari (estendibile a 1.175) prevede una zona di estrazione di 1.100 metri di diametro e 500 di profondità, un impianto di arricchimento con forno per la tostatura acida, una vasca di evaporazione per il lavaggio dei minerali e 290 ettari di suolo per depositare i residui.

La miniera sorgerà nell’area naturale della Sierra de la Mosca, nella Valle di Valdeflores, un’area ad alta biodiversità di grande valore ecologico e sociale.

Dal punto di vista ambientale, questa catena montuosa collega spazi naturali protetti di grande importanza, è un corridoio ecologico fondamentale per gli ecosistemi della zona. Da un punto di vista sociale e culturale, essa ospita il santuario della Virgen de La Montaña (a 500 metri dalla prevista fossa della miniera), è una zona ricca di sentieri per l’escursionismo ideali per attività ambientali ed educative.

La zona ha un’economia tradizionale (frutteti, oliveti, mandorleti, bestiame, apicoltura e produzione di legna da ardere) e una massa forestale di boschi e prati mediterranei che costituiscono il polmone verde di Cáceres.

zona mineraria nel Sud della RD Congo tra le cittadine di Kiala, Kolwezi e Komoto (da Google Earth)

Batterie per l’Europa

Dietro il progetto della miniera di Valdeflores, si muovono interessi geopolitici per ridurre la dipendenza dell’Unione europea (Ue) dall’importazione di litio. L’Ue è il terzo consumatore mondiale dopo la Cina e gli Usa di questo minerale, per ora estratto principalmente in Australia e Sud America.

Per questo motivo, nel 2017 è stata creata la European battery alliance (Eba) per realizzare una catena strategica per le batterie in Europa che comporterà progetti di estrazione del litio anche in Portogallo, Svezia, Finlandia, Repubblica Ceca, e la costruzione di nuove fabbriche di batterie in diversi paesi, principalmente per gli impianti di assemblaggio di veicoli elettrici già esistenti o pianificati in Europa.

Un accordo firmato tra la società Infinty lithium e Eit inno energy, la piattaforma di investimento pubblico-privata promossa dalla Commissione europea per un finanziamento di 800mila euro destinati alla prima fase del progetto e all’assistenza tecnica per ottenere i 300 milioni necessari per il resto del progetto, testimoniano la grande pressione per l’apertura di questa miniera.

A sostegno degli interessi geopolitici, si fa sempre più forte la retorica ambientale che parla di «mineria verde» o di «climate smart». Un esempio ne sono le dichiarazioni del vicepresidente della Commissione europea Maroš Šefčovič che definiscono «ammirevole» il progetto minerario di Valdeflores.

«Salva la montagna»

I probabili impatti negativi del progetto hanno risvegliato un processo molto interessante di organizzazione cittadina nella popolazione di Cáceres preoccupata per la minaccia al territorio, alla salute e alla ricchezza bioculturale.

A partire dal 2017 si sono tenuti i primi incontri informativi della piattaforma cittadina «Salva la montagna di Cáceres». È iniziata una raccolta di firme e il primo percorso escursionistico a Valdeflores è stato realizzato per informare le persone e divulgare i valori del luogo. Nel corso dei tre anni successivi sono stati prodotti numerosi documenti sui rischi del progetto, video, mappe e manifesti.

Tutti questi materiali sono serviti come base per numerosi dibattiti, workshop, incontri di quartiere. Si è denunciata la vicinanza della miniera alla zona abitata, all’impianto di depurazione dell’acqua (solo 300 metri), all’ospedale e al campus universitario. Si è dato l’allarme circa il probabile impatto sulla salute delle polveri sottili e dei gas tossici prodotti dall’impianto di trasformazione, l’impatto sulle falde acquifere e sulle altre fonti d’acqua.

Grazie a questo lavoro, si sono scoperte molte irregolarità dell’impresa per ottenere permessi, insolvenze finanziarie e studi d’impatto ambientale molto carenti. Si sono così iniziate cause legali che hanno messo in luce una lista di illeciti e azioni compiute dall’impresa senza i dovuti permessi, come l’apertura di una via e l’abbattimento di alberi.

Il Comune di Cáceres, in un consiglio comunale del 2018, ha votato contro il progetto e contro le modifiche al piano generale municipale che erano state sollecitate dall’impresa.

Sono state inviate anche denunce alla Banca europea degli investimenti e alla Commissione europea.

Durante questi anni di mobilitazione, si sono stretti legami con altre realtà che affrontano problematiche simili in Spagna, come con il collettivo ContraMinAcción della Galizia.

Cambiare strada

Dall’Italia e dall’Europa, in molti guardiamo da lontano ciò che avviene lungo le frontiere dell’estrattivismo nel resto del mondo; ora è probabile che quegli scenari si faranno sempre più vicini.

Davvero vogliamo continuare a replicare lo stesso schema di sfruttamento, a scapito della base stessa della nostra vita?

Perché non cogliamo l’occasione per riprendere quei punti profondi di riflessione, a cominciare dal settore energetico, e non pensiamo a come ridurre i consumi, come risparmiare suolo dalla cementificazione, come rendere più resilienti i nostri territori, rigenerare i suoli, le acque, le foreste, come creare sinergie tra il settore agricolo ed energetico, e come rilocalizzare produzione e consumo energetico?

Non ci sono formule magiche, e non è neanche detto che questo basti a evitare scenari climatici molto difficili, ma ormai indietro non si può tornare. Possiamo solo cambiare direzione.

Daniela del Bene




La vita sospesa di Fukushima

testo di Piergiorgio Pescali |


Oltre alle radiazioni scaturite dall’incidente nucleare del 2011, la popolazione e il territorio di Fukushima hanno dovuto sopportare alte dosi di disinformazione. Anche per questo la rinascita è difficile.

Quest’anno il Giappone ricorda il decimo anniversario di tre eventi che hanno condizionato la politica e l’assetto sociale dell’intera nazione. Alle 14.46 dell’11 marzo 2011, un terremoto di magnitudo 9.0 sconvolse le regioni orientali affacciate sull’Oceano Pacifico. Una cinquantina di minuti dopo, una serie di ondate alte tra i tre e i quattordici metri, raggiunse le coste del Tohoku penetrando per diversi chilometri nell’entroterra, e devastando ciò che il sisma non era riuscito a distruggere. Le vittime furono ventimila, il 92% delle quali causate dallo tsunami.

Le due centrali nucleari di Fukushima gestite dalla Tepco (Tokyo electric power company), la più grande compagnia elettrica della nazione, furono inondate dalla marea che invase le stanze dove erano collocati i generatori di emergenza.  Senza elettricità, le pompe non riuscirono a immettere l’acqua di raffreddamento nei reattori i quali iniziarono a surriscaldarsi. La situazione fu riportata sotto controllo a Fukushima Daini (Fukushima 2), ma a Fukushima Daiichi (Fukushima 1) tre dei sei reattori subirono una parziale fusione del nocciolo liberando radioisotopi, in particolare xeno-133, iodio-131, cesio-134, cesio-137, tellurio-132, stronzio-90 che si sparsero nell’ambiente.

I venti trasportarono tra il 70 e l’80% della radioattività sulle acque dell’oceano antistanti la centrale, mentre il restante 20-30% si depositò su una lingua di terra che si incuneò per circa quaranta chilometri nell’entroterra.

Un accumulo di sacchi contenenti terreno contaminato dalle radiazioni della centrale di Fukushima. Foto Piergiorgio Pescali.

Troppe falsità

Migliaia fra artigiani, agricoltori, pescatori rimasero senza lavoro e l’agricoltura della zona, settima tra le prefetture del Giappone in termini di produzione totale, ma seconda per prodotti biologici, si afflosciò.

Il riso e le pesche «made in Fukushima», un tempo vanto della provincia e famosi in tutto l’arcipelago, rimasero a marcire nei campi. Sebbene la radioattività controllata per ogni lotto di raccolto, dopo il primo anno di picco, fosse scesa sotto i livelli di guardia, i consumatori erano oramai sfiduciati, da una parte dalle troppe bugie e verità nascoste del governo e della dirigenza Tepco, dall’altra dalle campagne antinucleari e ambientaliste di alcune associazioni che lanciavano allarmi preoccupanti sullo stato della radioattività. C’era chi, inventando dati e interviste, descriveva una Tokyo deserta e terrorizzata, e chi preconizzava un Giappone per la maggior parte inabitabile, dove l’intera popolazione dell’arcipelago sarebbe stata costretta a trasferirsi nelle poche aree salvatesi dalla nube radioattiva.

Dalla parte opposta, le organizzazioni pro-nucleare e la Tepco, guidate dal governo di Naoto Kan, l’allora primo ministro giapponese del Partito democratico, cercavano di minimizzare i pericoli, assicurando che la popolazione non correva alcun rischio, e che la situazione era sotto controllo. Chi aveva ipotizzato il pericolo di fusione dei reattori (come realmente accadde) venne immediatamente destituito.

In questa guerra sull’informazione, nessuno dei due eserciti aveva la piena ragione dalla sua parte e, come spesso accade nei conflitti, la popolazione civile fu quella che subì le maggiori conseguenze.

Le divergenze non si limitavano a mettere a confronto chi era pro o contro il nucleare, ma si trasmettevano trasversalmente tra chi vedeva messo in pericolo il proprio lavoro di una vita e chi soffiava sul fuoco per meri interessi economici o ideologici. Agricoltori che avevano lottato in tempi non sospetti contro la presenza delle centrali atomiche, si trovarono all’improvviso a contestare gli stessi movimenti antinucleari che propagandavano la propria azione pubblicando rapporti allarmistici, raffazzonati e zeppi di dati privi di fondamento scientifico, illustrati con fotografie falsificate. In questo scenario surreale, Fukushima tentava di rimettersi in piedi.

Oggi, a distanza di dieci anni, si può dire che vi sia riuscita, almeno in parte.

La difficile rinascita

Dal 2014 le zone interdette alla popolazione sono state ristrette sempre più, ed oggi l’area di evacuazione totale si è ridotta a 337 km2 rispetto ai 1.653 km2 del 23 aprile 2011. Al contempo, la popolazione evacuata è scesa da 165mila (maggio 2012) a 37mila (novembre 2020). Le ultime zone riaperte, alla fine del 2020, sono quelle di Futaba, Tamioka e Okuma, tra le più colpite in quei tragici giorni del marzo di dieci anni fa.

Nonostante circa un milione di cittadini e 443mila imprese abbiano ottenuto o stiano ottenendo rimborsi per un totale equivalente a 76 miliardi di euro, le difficoltà a cui vittime e residenti devono far fronte sono ancora evidenti.

E sono problemi che non possono essere risolti con alcun tipo di indennizzo economico.

Anni e anni di sradicamento dalle proprie comunità, dalla terra natia, di convivenza con estranei in case di fortuna che impedivano una pur minima privacy, la consapevolezza di non potere più lavorare come prima, l’emigrazione verso altre prefetture con la conseguente frammentazione delle famiglie, hanno trasformato Fukushima in un baratro psicologico per molte delle vittime.

Un terremoto, uno tsunami, per quanto devastanti e terribili possano risultare, lasciano la speranza della ricostruzione. Al contrario, le invisibili particelle radioattive sprigionatesi da una centrale nucleare, spazzano anche questa eventualità. Non basta più solo ricostruire. Bisogna rivoltare il terreno, raschiare centinaia di chilometri quadrati di superficie, ripulire il suolo, filtrarlo, ridistribuirlo. E il sale marino, che ha impregnato i campi, li ha inariditi diminuendo la fertilità, sconvolgendo l’equilibrio chimico che rendeva così preziosi e unici i raccolti.

Radiazioni e tumori

Gli studi dell’Unscear – United Nations scientific committee on the effects of atomic radiation – confermati anche da altre ricerche scientifiche, affermano che la dose effettiva di radiazioni assorbita dalla popolazione che viveva nelle zone contaminate durante l’incidente è stata inferiore a 10 mSv (millisievert; il «sievert» misura gli effetti provocati dalla radiazione su un organismo), una quantità paragonabile alla dose radioattiva naturale annua assorbita in media dai giapponesi.

Tra i tipi di cancro sensibili alle radiazioni, solo quello riconducibile alla tiroide, causato dallo iodio-131, può essere imputabile con relativa certezza a Fukushima. Per tutte le altre insorgenze tumorali non possono essere tratte conclusioni certe sulla correlazione con le radiazioni rilasciate. Questa forte ambiguità causale aggiunge un altro elemento di scontro scientifico nell’ambito medico riguardante gli incidenti nucleari.

Nel giugno 2011 è iniziato un programma di monitoraggio sanitario trentennale a cui partecipano più di due milioni di cittadini giapponesi, 360mila dei quali di età inferiore a 18 anni. L’obiettivo è quello di monitorare l’andamento dei tumori tiroidali. Nel marzo 2020 la prestigiosa rivista Nature ha pubblicato i primi risultati della ricerca stabilendo la bassa incidenza dei casi di cancro alla tiroide a Fukushima correlati al contenuto di iodio-131 nel suolo e nell’aria.

È comunque difficile convivere con l’incertezza di cosa riserverà il domani: le radiazioni possono manifestare i loro effetti anche a distanza di anni e questa «vita sospesa» influisce pesantemente nei rapporti interpersonali, sia in famiglia che in società.

Specialisti misurano le radiazioni attorno alla centrale di Fukushima. Foto Susanna Lööf / IAEA Imagebank.

Dalla terra al mare

Non sono solo gli agricoltori e gli artigiani a soffrire per l’incidente di Fukushima. I pescatori delle coste limitrofe alla centrale hanno subito perdite e devastazioni altrettanto pesanti. Il Grande terremoto del Giappone orientale e il successivo tsunami hanno danneggiato circa 29mila pescherecci, circa il 10% della flotta totale giapponese, e 319 porti. Nella sola prefettura di Fukushima sono state 873 le imbarcazioni danneggiate.

A causa dei venti, la maggior parte delle radiazioni fuoriuscite dalle Unità 1, 2, 3, 4 di Fukushima Daiichi sono state sospinte sull’oceano portando la Fukushima fisheries cooperative association a vietare la pesca nelle acque antistanti la centrale tra il marzo 2011 e il giugno 2012. Successivamente le attività sono state gradualmente riaperte, ma ancora oggi il pescato totale è il 10% di quello antecedente il disastro nucleare.

Anche in questo caso, come avviene per i prodotti agricoli e pastorizi, tutta la merce è analizzata per misurare la quantità di radionuclidi contenuta. La fetta di mercato nazionale (pari all’1% del totale) che occupavano i pescatori della prefettura prima dell’incidente nucleare è stata riempita da altre comunità e sarà difficile che possa essere riconsegnata alle cooperative di Fukushima. Per sopravvivere ci si è affidati al senso di comunità: come è successo tra i piccoli coltivatori, anche i pescatori hanno potuto contare sulla solidarietà dei concittadini che nei periodi più critici hanno acquistato i prodotti invenduti permettendo una difficile sopravvivenza.

Esperti raccolgono campioni d’acqua nelle acque di mare antistanti la centrale nucleare. Foto NRA / IAEA Imagebank.

Lo sversamento delle acque

Ora però un altro pericolo si sta profilando all’orizzonte. Un pericolo più concettuale che reale: l’annunciato sversamento delle acque di contenimento radioattivo nell’oceano. Per evitare che il «corium» (la massa altamente radioattiva di combustibile nucleare fusa durante l’incidente ed oggi solidificatasi) liberi radioisotopi nell’aria, viene insufflata acqua nei reattori 1, 2 e 3. Successivamente, questa acqua è filtrata e depurata da tutti i radioisotopi tranne per il trizio, un isotopo radioattivo dell’idrogeno difficile e costoso da eliminare. Ad oggi circa 1,24 milioni di tonnellate di acque sono immagazzinate in 1.061 serbatoi e ogni giorno se ne aggiungono 160 tonnellate. L’Iaea (International atomic energy agency) prevede che la capacità di stoccaggio si esaurirà nel 2022, ed entro tale data bisognerà decidere come smaltire se non tutta, almeno parte dell’acqua. Già nel 2013, dopo che le prove per eliminare il trizio erano fallite, il governo aveva avvisato che, tra le opzioni considerate, quella dello scarico in mare era la più probabile compatibilmente con la sicurezza ecologica e l’economicità dell’operazione. Nel 2020 la decisione finale è stata accolta con preoccupazione non solo dalle associazioni ambientaliste, che hanno riproposto la visione apocalittica di un oceano Pacifico radioattivo e privo di vita, ma anche dai pescatori locali, preoccupati più per l’impatto negativo di tanto clamore sui consumatori che per l’effettivo inquinamento provocato dal trizio.

Il rilascio programmato delle acque ha una tempistica che durerà tra i sette e i trentatré anni (la durata dipende dal limite di radioattività massimo che si vuole raggiungere e dall’anno in cui si inizierà a sversare l’acqua) e comunque è stata scaglionata in modo da non superare mai il limite imposto dalla legge giapponese. Tenendo conto che la contaminazione da trizio nelle acque da versare in mare è di circa 1 PBq (da 0,5 MBq/l a 4 MBq/l)  e che nei complessivi 1,3 milioni di metri cubi di acqua da scaricare sono presenti in totale circa tre grammi di trizio, è stato calcolato che, se l’intera quantità di acqua oggi presente nei serbatoi venisse scaricata nel giro di un solo anno, l’impatto nelle acque marine sarebbe di 0,00081 mSv/anno. Ben poco se paragonati ai 360 TBq/anno di trizio rilasciato tra il 2008 e il 2011 dalle sole centrali giapponesi o alla quantità di trizio scaricata nelle acque marine da altri impianti nucleari sparsi per il mondo.

Il futuro del nucleare in Giappone

Il disastro di Fukushima accese il dibattito sul futuro energetico del Giappone. L’autosufficienza energetica nazionale, che nel 2010 era pari al 20,3% di cui la quasi totalità proveniente dal settore nucleare, nel 2013, dopo la chiusura dei reattori, era scesa al 6,6% per risalire al 9,6% nel 2017 a causa della parziale ripresa dell’attività atomica e dell’aumento dell’utilizzo delle fonti rinnovabili, potenziate dai forti incentivi concessi dal governo e dal sensibile miglioramento delle tecnologie dedicate a questo campo di sviluppo.

Già alla fine del 2012, quando Shinzo Abe succedette a Yoshihiko Noda alla guida del governo del Giappone, fu chiaro che il nucleare avrebbe avuto ancora un futuro nella politica energetica giapponese. Un futuro incerto e di transizione, in linea con il modello descritto dall’Ipcc (International panel on climate change), ma che lasciava spazio all’energia atomica almeno fino al 2050 secondo i piani del primo ministro per ottemperare anche agli obiettivi di riduzione dell’80% delle emissioni di CO2 che la nazione si è proposta di raggiungere entro quella data.

All’inizio del 2021, secondo l’Iaea, in Giappone sono di nuovo operativi trentatré reattori nucleari che generano una capacità totale di 31.679 MWe pari al 7,5% dell’energia totale prodotta nella nazione. Due reattori, che aggiungeranno un totale di altri 2.653 MWe, sono in fase di costruzione, mentre sono stati chiusi definitivamente ventisette reattori.

La disastrosa condotta dei governi che hanno gestito l’incidente nucleare di Fukushima (in particolare quello di Naoto Kan), si ripercuote ancora pesantemente nell’opinione pubblica giapponese: solo l’1,9% dà credito al governo e ancora meno (1,2%) all’industria nucleare. Il motivo è da ricercarsi nella reticenza da parte di queste due entità nazionali (governo e industria) nel dare notizie veritiere alla popolazione, nell’insufficiente preparazione del personale, nella condotta della dirigenza delle compagnie energetiche e nelle numerose bugie rilasciate sia dagli apparati governativi che dai vari protagonisti privati sul pericolo radioattivo e sul modo con cui è stata gestita l’emergenza.

Nel 2019 un grosso scandalo che ha coinvolto la Kansai electric power company (Kepco), membri della prefettura di Fukui, del Partito liberaldemocratico e dello stesso ex sindaco di Takahama, ha sconvolto, se mai ce ne fosse stato bisogno, ancora una volta l’industria nucleare nipponica.

Lo scandalo ha riportato alla ribalta i loschi interessi del «villaggio nucleare» nazionale, un problema già più volte sollevato da numerosi gruppi antinucleari e che viene spesso associato alla mancanza di controlli adeguati nel campo della sicurezza all’interno delle centrali.

Proprio questo sistema perverso e pericoloso avrebbe dovuto mettere in guardia i vari dicasteri preposti alla sorveglianza nucleare, cosa che in Giappone non è avvenuta ed è uno dei motivi per cui oggi molti cittadini si sentono defraudati della propria sicurezza.

È anche per questo che i giapponesi faranno fatica ad accettare un ritorno al nucleare che sembra oramai già deciso

Piergiorgio Pescali

Archivio MC

● Piergiorgio Pescali, Atomi di pace, atomi di guerra, dossier, agosto-settembre 2018;
● Piergiorgio Pescali-Mirco Elena-Tiziano Tosolini, Giappone. Viaggio nel disastro nucleare, dossier, dicembre 2015.

Esperti della IAEA in visita alla centrale di Fukushima. Foto Greg Webb / IAEA Imagebank. 




Viaggio in Norvegia: le scelte di Oslo

La ricetta norvegese


Testo e foto di Piergiorgio Pescali


Da molti anni la Norvegia si situa ai primi posti nella classifica dell’Indice di sviluppo umano. I suoi abitanti – poco più di 5 milioni – hanno un’elevata qualità della vita. Il Fondo sovrano norvegese – che gestisce i corposi proventi del petrolio – è ricchissimo, ma anche attento all’etica dei propri investimenti. Nonostante tutto questo, ci sono questioni aperte. Per esempio, anche a queste latitudini i problemi ambientali sono in rapido aumento. Inoltre, i norvegesi stanno cercando di porre un freno all’immigrazione, anche premiando partiti populisti anti immigrati. La ricetta complessiva rimane buona, ma oggi il paese deve trovare risposte adeguate alle nuove sfide.

«Guarda la mappa della Norvegia: un pugno con un dito indice che si allunga verso nord, quasi come a voler toccare l’inviolabile, le terre ostili che si frammentano nel Finnmark». Morten Andreassen mi mostra la cartina della Norvegia mentre è seduto su un masso addentando con gusto un panino. Sta studiando per ottenere un Master in Scienze della globalizzazione e sviluppo sostenibile all’Ntnu, l’Università norvegese di Scienze e tecnologia di Trondheim, l’istituto scientifico più prestigioso del paese dalle cui aule sono usciti cinque premi Nobel. Ogni anno l’Ntnu organizza il Big Challenge Science Festival, uno dei simposi scientifici più seguiti al mondo in cui, per quattro giorni, scienza e spettacolo si mischiano in una serie di eventi memorabili coinvolgendo moltissimi dei duecentomila abitanti di Trondheim e trasformando questa cittadina in una capitale della cultura scientifica, umanistica e artistica.

L’atmosfera tranquilla, ma al tempo stesso pregna di stimoli intellettuali di Trondheim, associata all’eccellente livello di insegnamento impartito nell’Ntnu ha fatto sì che i suoi ricercatori e studenti siano contesi da compagnie e centri di ricerca di tutto il mondo: «Potenzialmente abbiamo un tasso di disoccupazione inferiore allo zero», scherza Magnhild, la ragazza che viaggia con Morten.

Lei, dopo la laurea, è tornata a Tromso, la cittadina dove è nata, per lavorare in una compagnia che si occupa di energie rinnovabili. Magnhild è andata a Oslo a trovare la famiglia di Morten e quest’anno hanno deciso di tornare a Trondheim percorrendo a piedi i 643 chilometri del «Sentiero di Sant’Olav» (foto alle pagine 41-42), il cammino di pellegrinaggio che, partendo dalla Vecchia Chiesa di Aker ad Oslo termina alla cattedrale di Nidaros, dove nell’XI secolo fu sepolto Olav Haraldsson (995-1030), il Rex Perpetuus Norvegiae e patrono della nazione (nonché santo e martire per la Chiesa cattolica).

«Non siamo credenti, anzi siamo atei convinti, ma abbiamo approfittato di trascorrere quattro settimane a stretto contatto con la natura per raccogliere dati sui cambiamenti climatici per le nostre ricerche».

Il Sentiero di Olav, l’università di Trondheim, la passione di Morten e Magnhild per la natura – espressione del friluftsliv[1] che accomuna i norvegesi – e il rispetto verso l’ambiente sono le basi da cui parto per cercare di comprendere quale possa essere stata la chiave che ha portato, in pochi decenni, un popolo povero e circondato da una natura ostile ad occupare oramai da diversi anni, le prime posizioni nelle statistiche dell’Indice di sviluppo umano[2].

Una tigre in Norvegia: la città contro la natura

La statua della tigre che ruggisce – realizzata da Elena Engelsen e dal 2000 posta fuori dalla stazione ferroviaria di Oslo – è forse l’emblema di una città e una nazione che sta cambiando più velocemente di quanto vorrebbe. L’artista voleva rappresentare la vivacità e lo sviluppo della Tigerstaden, la città della tigre, il soprannome con cui oggi è conosciuta Oslo, ma a molti norvegesi il felino ricorda i versi scritti nel 1870 dal poeta Bjornstjerne Bjornson, premio Nobel nel 1903 e autore delle parole dell’inno norvegese, il quale contrapponeva l’immagine pericolosa, violenta e aggressiva della città a quella bucolica, pacifica e genuina della campagna[3].

Sicuramente ai turisti orientali che sempre più numerosi affollano la capitale norvegese, quella statua ricorderà le «tigri asiatiche», le quattro economie dell’Asia (Singapore, Taiwan, Hong Kong e Corea del Sud) che negli anni Novanta bruciavano le tappe dello sviluppo crescendo a dismisura sino a diventare il simbolo di quella riscossa asiatica che, più tardi, avrebbe trovato nella Cina la sua locomotiva.

L’economia norvegese non viaggia quanto le tigri asiatiche (ormai anch’esse sedate) ma la crescita del Pil continua ad aggirarsi attorno ad un onorevole 2% ed Oslo – con circa 700mila abitanti – è considerata la città che si espande più velocemente tra le capitali dell’Europa[4].

Definire la capitale della Norvegia una bella città è una forzatura e il paragone con le «colleghe» scandinave è impietoso: la sua storia è sempre stata offuscata dalle più regali Copenaghen e Stoccolma, i cui regni si sono succeduti pressoché ininterrottamente alla guida della Norvegia dal IX secolo al 1905, quando la nazione trovò la sua indipendenza. Città prettamente operaia e industriale, Oslo non ha certo la grazia di Bergen o il fascino dell’art nouveau di Alesund. Al contrario, la città, che riacquistò il nome originario solo nel 1925 abbandonando il toponimo di Christiania affibbiatole dal re di Danimarca Cristiano IV, è sempre stata quella descritta, con un misto di sagacia e melanconia, da Luigi Di Ruscio, il poeta-operaio emigrato dall’Italia nel 1957 e morto ad Oslo nel 2011: «Poi ci sono i lunghi inverni gelati con le giornate cortissime e le lunghissime notti, le nevi che persistono per mesi e alla fine da bianche che erano diventano nere ed Oslo diventa la città dalla neve nera»[5].

Eppure, l’amministrazione locale è riuscita a realizzare quello che, sino a pochi anni fa, sembrava impossibile: conferire una fisionomia e una personalità unica alla metropoli. Sapendo di non poter competere sul piano monumentale e storico con altri centri scandinavi ed europei, si sono scelti altri campi per rendere Oslo città appetibile al turismo e alla finanza: l’architettura moderna, la cultura e la natura. Gli amministratori norvegesi, con la collaborazione di architetti provenienti da tutto il mondo, hanno trasformato una città anonima e grigia in un interessante esperimento di design urbanistico quasi senza stravolgerne l’assetto storico e valorizzando gli edifici esistenti. Le gru che si innalzano da numerosi quartieri stanno rivoluzionando lo skyline di Oslo che, dal 2020 si doterà di nuovi spazi abitativi, finanziari e culturali offrendo a turisti e abitanti un nuovo volto, più moderno e accattivante.

Accanto all’Opera House stanno sorgendo centri residenziali e lavorativi hi-tech: il Barcode, il Sorenga, il Museo Munch, la Biblioteca nazionale, mentre nell’Aker Brygge tra pochi mesi verrà inaugurata l’immensa Galleria nazionale che si affiancherà al Nobel Peace Centre. Al tempo stesso i polmoni verdi, vero vanto del rispetto ambientale di cui si fregia la città, sono stati mantenuti. Un efficiente e relativamente poco costoso sistema di mezzi pubblici collega 24 ore su 24, sette giorni su sette, anche i quartieri più periferici. In meno di un’ora è possibile raggiungere piste da sci, rifugi immersi nella natura, sentieri montani lasciando la propria auto nel garage. Oslo non è bella, ma è sicuramente la città ideale in cui vivere.

Le sfide ambientali: cambiamento climatico, petrolio, disboscamento, turismo

Quello norvegese è tradizionalmente un popolo culturalmente coeso, che ha fatto del rispetto per la natura uno dei suoi cavalli di battaglia.

«Se chiedi ad un turista medio cosa vorrebbe vedere andando in Norvegia ti risponderebbe “i fiordi”; un turista un po’ più accorto aggiungerebbe Capo Nord o Lofoten. Pochi si aspettano di vedere città come Oslo o Stavanger» mi spiega Gunn Wadzynski, attivista ambientalista di Greenpeace, che poi continua: «Lo stereotipo della Norvegia è che sia un territorio selvaggio, inesplorato, incontaminato e, soprattutto, non inquinato. Purtroppo, la realtà sta cambiando molto velocemente: l’ambiente soffre sempre di più e non solo per i cambiamenti climatici, ma anche per lo sfruttamento che noi norvegesi operiamo sul nostro territorio».

Ogni anno dieci milioni di turisti arrivano in Norvegia, di cui tre milioni su navi da crociera ed oramai il 4,2% del Pil dipende dal loro[6].

L’aumento del turismo è sicuramente una delle cause del degrado ambientale, ma il danno più evidente è dovuto ad un fattore esterno – i cambiamenti climatici mondiali – e uno interno, il continuo dissanguamento delle risorse naturali, causato in particolare dall’estrazione petrolifera e dal disboscamento.

Nel 2016 la temperatura media nelle Svalbard, il piccolo arcipelago situato più a settentrione del paese, è stata di 6,6°C superiore a quella normale[7]. Anche se i dati relativi a questa statistica sono stati contestati da molti ricercatori in quanto basati su una rilevazione effettuata presso l’aeroporto di Longyearbyen e quindi falsati dal microclima esistente in quella specifica parte dell’isola, è un dato di fatto che la coltre di ghiaccio in tutto il Circolo polare artico si sta assottigliando[8].

Per contrastare l’aumento di temperatura, la Norvegia si è data come obiettivo di ridurre entro il 2030 le emissioni di CO2 del 40% rispetto al 2005.

Uno studio preliminare ha individuato che il 74% delle emissioni di gas serra proviene da due settori: trasporti e agricoltura[9]. È quindi in queste due attività che il governo ha cercato di intervenire con più incisività.

Tra il 1990 e il 2013 sono stati disboscati 140mila ettari di foresta, cosa che ha contribuito per il 4-5% dell’emissione della CO2. Il 33% della deforestazione è stato effettuato per costruire nuove strade, ferrovie e abitazioni, l’11% per linee elettriche e impianti sciistici e il 31% per usi agricoli[10].

«Il 21% dell’abbattimento avviene prima che l’albero raggiunga lo stadio V, la fase oltre la quale il fusto ha ormai sorpassato il tasso di massimo assorbimento di anidride carbonica ed è pronto per la sostituzione», specifica Sigurd Sivertsen, del dipartimento di ingegneria ambientale all’Ntnu[11].

Durante il XX secolo la Norvegia ha implementato una politica di rimboschimento e nei prossimi anni le foreste piantate negli anni Cinquanta e Sessanta raggiungeranno la loro completa maturazione con una diminuzione del tasso di assorbimento di CO2. Per ripristinare la fotosintesi clorofilliana necessaria per mantenere l’equilibrio naturale, nel 2013 la Norwegian environment agency ha proposto la riforestazione di 100mila ettari di terreno per i successivi venti anni che, una volta completata, potrebbe rimuovere 1,8 milioni di tonnellate annue di CO2 nel 2050[12].

Per accelerare l’accrescimento del tronco fino ad un 10-15%, i laboratori di ricerca norvegesi hanno sviluppato un programma di modificazione genetica che, sommato alle tecniche di inseminazione, potrebbe permettere di stare al passo con il programma di assorbimento dei gas serra senza aumentare la superficie boschiva del paese.

Naturalmente questa tecnica invasiva ha riscontrato l’ostilità di numerose organizzazioni ambientaliste: Turid, dell’associazione radicale (e per molti versi cospirazionista) Green Warriors di Bergen afferma che «Il 75% dei nuovi semi utilizzati per la sostituzione degli alberi abbattuti in Norvegia sono geneticamente modificati. In questo modo le politiche ambientaliste del nostro paese sono un palliativo per permettere comunque alle compagnie che contribuiscono all’aumento delle temperature mondiali di continuare a operare le loro politiche distruttive». La critica di Turid ha un fondo di verità, ma la realtà norvegese ci offre una visione molto più variegata che è osservata con interesse da molti attori internazionali: nel 2015 le energie rinnovabili rappresentavano il 46% dell’energia totale fornita al mercato norvegese. Certamente la bassa densità di popolazione e la ricchezza del territorio (il 40% dell’energia utilizzata è idroelettrica[13]) gioca un ruolo determinante nel successo del modello Norvegia, che comunque è ancora lontana dall’escludere le fonti fossili dalla sua dipendenza energetica (il petrolio fornisce il 36,8% dell’energia e il gas naturale il 18,2%[14]).

Al tempo stesso l’utilizzo di fonti naturali permette alla nazione di avere un prezzo al consumatore tra i più bassi in Europa nonostante una tassazione del 38%: 38 euro/MWh (megawattora) contro i 54 euro/MWh che paga un italiano[15].

Così, nonostante un norvegese consumi 5,20 «Tonnellate di petrolio equivalente» (Tep) ogni anno contro una media europea di 4,11, l’impatto ambientale diretto è inferiore rispetto ai cittadini del Vecchio continente[16].

Elettrico sì, ma senza incentivi

Una delle principali azioni espresse dal governo di Oslo per contenere e ridurre l’impatto ecologico nella nazione è stata quella di sostenere l’uso dell’auto elettrica (Ev) mediante un programma di incentivi statali, introdotti sin dalla fine degli anni Novanta per aiutare lo sviluppo della Kewet, una macchina elettrica prodotta da una fabbrica danese che nel 1998 era stata venduta alla norvegese Elbil Norge As[17]. Nel 1997 le macchine Ev[18] hanno ottenuto l’esenzione completa dai pedaggi stradali, nel 1999 dal pagamento dei parcheggi (dal 2017 la gratuità è a discrezione di ogni municipalità), dal 2001 l’esenzione dell’Iva e dal 2009 vengono trasportate gratuitamente sui traghetti.

Qualcosa però sta cambiando anche nel paese: nel 2018 il 31,2% delle nuove auto vendute in Norvegia era Ev e Phev (auto ibride)[19], con queste ultime in costante ascesa[20]. Lungi dal rappresentare una coscienza ecologica popolare, le auto Ev vengono comprate per una questione economica più che ambientale: il 63% dei norvegesi che hanno un’auto completamente elettrica ha anche una seconda auto ibrida o a combustibile fossile.

I motivi sono diversi: in primo luogo lo sviluppo del sistema delle colonnine di ricarica che, pur essendo il più capillare d’Europa, è ancora insufficiente per rendere indipendente la circolazione sull’intero territorio. Al 2 aprile 2019 in Norvegia vi erano 12.612 ricariche (di cui 2.361 a carica veloce, 616 dedicate alla Tesla supercharges[21]); un incremento importante rispetto al 2011 (allora c’erano 3mila colonnine), ma che non segue quello delle vendite e questo ha disincentivato l’acquisto di auto esclusivamente Ev[22].

In secondo luogo, gli incentivi funzionano da motore per chi deve usare l’auto su strade a pedaggi e su traghetti: la più alta concentrazione di auto elettriche al mondo la si trova a Finnoy, un’isola di fronte a Stavanger. Qui il pedaggio del tunnel che connette l’isola alla terraferma costa 150 nok sola andata: un sondaggio della Neva (Norwegian Electric Vehicle Association) ha constatato che gli acquirenti hanno comprato le Ev per non pagare il pedaggio (300 nok al giorno).

Tutto questo, però ha un costo che comincia a diventare troppo ingente per l’economia norvegese: l’Istituto per l’Economia dei trasporti nel 2015 ha stimato che i mancati introiti per lo stato erano pari a 4 miliardi di nok, ancora sostenibili per l’economia norvegese, ma dovranno essere ben presto rivisti. Per ora il governo ha stabilito che le agevolazioni per l’acquisto di auto elettriche verranno mantenute fino al 2020 anche per permettere, entro quella data, alla città di Oslo di rispettare il programma di eliminare completamente i trasporti pubblici a carburante fossile utilizzando solo quelli elettrici.

Le prime voci di dissenso verso questa politica si fanno già sentire dagli scranni dell’opposizione parlamentare: «Non possiamo continuare a finanziare le macchine elettriche», dice Andreas Halse, portavoce per l’ambiente del Partito labourista. Anche le compagnie navali hanno cominciato ad alzare i toni della protesta, così come le società che gestiscono le infrastrutture stradali.

Paradossalmente gli stimoli economici hanno avuto un effetto deleterio sulla circolazione: oltre a non eliminare le macchine a combustibile fossile, disincentivano l’uso dei mezzi pubblici.

Oggi, dunque, il governo si trova di fronte al dilemma su come rendere il mercato delle auto elettriche appetibile al consumatore senza dover offrire promozioni.

Socialità e risparmio energetico

La Norvegia sta cercando di far fronte all’emissione di gas serra anche affrontando la questione del costo della vita che rende problematico per le giovani generazioni l’affrancamento dalle famiglie.

L’affitto medio mensile di un monolocale in centro a Oslo costa circa 1.000 euro, mentre l’acquisto varia da 4.000 euro al metro quadro per un appartamento fuori dal centro a 6.000 euro al metro quadro in centro[23]. Un salasso anche per uno stipendio medio norvegese che si aggira sui tremila euro netti al mese[24].

Dal 2020 le nuove costruzioni dovranno essere energeticamente completamente autonome così da risparmiare, entro il 2030, dieci TWh (terawattora) di consumo, mentre verrà vietato l’uso di riscaldamento fossile per tutti i restanti edifici (attualmente solo il 20% del parco immobiliare è dotato di riscaldamento con energia rinnovabile). Queste direttive (costose e impegnative) hanno indotto gli architetti norvegesi a cercare soluzioni alternative trovandole nelle abitazioni collettive, edifici in cui si cerca di coniugare l’indipendenza del nucleo famigliare con il taglio dei costi e la diminuzione dello spreco energetico. Il co-housing o collective-housing non è una novità nei paesi nordici essendo già praticato negli anni Settanta-Ottanta, ma con l’arrivo del benessere e della ricchezza era andato via via scomparendo. L’esigenza di una propria vita privata è stata preservata garantendo ad ogni famiglia un proprio spazio indipendente e riservato, mentre ci si affida alla gestione collettiva per quelle attività prettamente socializzanti, come una stanza comune per la mensa, le attività ricreative, il giardino.

Una trappola per l’anidride carbonica

Il governo, però, non si affida solo ai singoli cittadini per combattere l’effetto serra: dagli anni Ottanta la nazione ha intrapreso un percorso di ricerca e sviluppo nel campo del Ccs (Carbon capture and storage, Cattura e stoccaggio del carbonio), un processo che, dopo aver liquefatto l’anidride carbonica la inietta in una trappola geologica dove viene stoccata per centinaia di anni. È un metodo utilizzato per ridurre la quantità di CO2 liberata nell’aria, tanto che Oslo ha individuato nel Ccs una delle cinque priorità per contenere l’aumento di CO2 entro il 2030, ma il processo ha anche diverse problematiche evidenziate dagli ecologisti: il gas, che viene iniettato in sacche di terreno cavo (spesso dopo avere estratto petrolio o gas naturale), potrebbe liberarsi improvvisamente a seguito di terremoti avvelenando e asfissiando gli esseri viventi che stanno nelle immediate vicinanze.

Gli scienziati e tecnici norvegesi stanno sfruttando due siti offshore adatti al Ccs: Sleipner and Snøhvit, in cui la CO2 è insufflata a migliaia di metri di profondità (800-1.000 metri a Sleipner e 2.000 metri a Snøhvit), mentre un terzo giacimento esaurito (Troll, nel Mare del Nord) ha avuto il benestare del governo per il suo sfruttamento lo scorso gennaio[25]. «Sino ad oggi sono stati immagazzinati 21 milioni di tonnellate di CO2», spiegano alla Gassnova, l’azienda leader nella ricerca e sviluppo del Ccs, la cui esperienza ha permesso di esportare le tecniche Ccs maturate in Norvegia in diversi paesi (Cina, Indonesia, Sud Africa, paesi del Golfo Persico) e iniziare una collaborazione con molte istituzioni internazionali.

I centri di ricerca Ccs sono tre: il Tcm (Technology Centre Mongstad), Climit e il Norwegian Ccs Research Centre (Nccs). Tra questi il Tcm, operativo dal 2012, è il più grande al mondo ed è di proprietà di un consorzio di aziende guidate dalla Gassnova (77,5%), Equinor (7,5%), Shell (7,5%) e Total (7,5%)[26].

Il peso del petrolio sul Pil norvegese

In tutto questo bel programma ambientale il petrolio continua ad occupare una posizione rilevante nell’economia e nelle società norvegesi. Lungi dall’esserne indipendente, la Norvegia è ancora fortemente vincolata alle fonti fossili che contribuiscono per il 12% al Pil, per il 13% agli introiti erariali del governo centrale, per il 37% alle esportazioni e per il 21% agli investimenti nonostante la produzione sia diminuita del 40% rispetto al 2001 (due milioni di barili al giorno nel 2017 rispetto i 3,4 del 2001, ma nel frattempo la produzione di gas naturale è salita a 120 miliardi di metri cubi all’anno)[27]. E con riserve stimate in 90 miliardi di barili l’economia norvegese e i 200mila lavoratori impiegati nel campo petrolifero possono guardare con relativa tranquillità il proprio[28].

L’industria petrolifera norvegese è tra le più efficienti del mondo e viene vista come modello per altre economie.

Ogni anno si concedono licenze per esplorazioni già in atto e ogni due anni vengono messe all’asta licenze per esplorazioni in nuovi giacimenti. Nel maggio 2016 sono state vendute dieci licenze a tredici compagnie. Alla fine del 2015 la Equinor possedeva 259 licenze, mentre altri cinquantatré operatori ne avevano 182[29].

L’obiettivo a medio-lungo termine del governo non è solo quello di evitare il più possibile l’utilizzo delle fonti fossili nell’ambito nazionale, ma anche di rendersi paese trainante verso un programma etico e ambientale che coinvolga tutto il globo che escluda, nel limite del possibile, lo sfruttamento di energie provenienti da combustibili a base di carbonio.

L’industria petrolifera norvegese ha iniziato a decollare nel 1971, quando la Phillips Petroleum Company cominciò a sfruttare il giacimento di Ekofisk, nel Mare del Nord. Da allora l’oro nero ha rappresentato il carburante che ha alimentato lo sviluppo economico e sociale della nazione la quale, sebbene già relativamente più ricca rispetto al resto dell’Europa, ha cominciato letteralmente a essere inondata di denaro.

L’esportazione dell’oro nero frutta ogni anno alle casse di Oslo 210 miliardi di nok, ma la ricchezza derivata dall’estrazione off-shore non è mai stata ostentata dai protagonisti norvegesi che, in questo senso, si distinguono nettamente dai concorrenti arabi e asiatici.

A differenza della pacchianeria e della ridondante esibizione di questi ultimi, le compagnie petrolifere norvegesi si sono sempre distinte per il loro basso profilo comunicativo e la loro propensione sociale. L’esempio più evidente è visibile nell’eleganza e la linearità dell’enorme sede della Equinor, l’ex Statoil[30], la più grande e facoltosa azienda petrolifera del paese con un fatturato di 61 miliardi di dollari. L’edificio, a basso impatto ambientale, sorge a Fornebu, alla periferia di Oslo ed è stato costruito ad un costo di 1,5 miliardi di nok tra il 2009 e il 2012 dallo studio di architettura A-lab, lo stesso che ha realizzato l’avveniristico Barcode che si affaccia sul fiordo di Oslo[31].

Il Fondo pensioni norvegese, potenza finanziaria alla ricerca dell’etica

L’edificio della Statoil è l’esempio con cui la Norvegia ha amministrato i ricavi derivati dall’esportazione del petrolio. Sin dagli anni iniziali dello sfruttamento dei pozzi, il ministero delle Finanze pubblicava il documento «Il ruolo dell’attività petrolifera nella società norvegese» in cui si avanzava la domanda su come dovessero essere utilizzati i proventi dell’estrazione petrolifera[32].

Nel 1990 è stato fondato il Fondo petrolifero e il 1° gennaio 1998 lo stesso ministero ha affidato alla Banca di Norvegia la gestione delle azioni con la clausola che non si dovesse utilizzare una quantità di denaro superiore ai proventi degli investimenti, stimato nel 3% del capitale di 900 miliardi di euro distribuito in 73 paesi e in 9.158 compagnie[33].

Vi sono delle guide etiche che escludono dagli investimenti da parte del Fondo le ditte responsabili di violazioni di diritti umani, produzione di alcuni tipi di armamenti, produzione di tabacco, di carbone, inquinamento[34].

Così sono bocciate ditte come la Philip Morris, la Posco, Rio Tinto, la Loockheed Martin Corp. (ma la Norvegia è partner nella produzione dell’F-35[35]). Nel solo 2018 sono state escluse dal fondo ditte come l’Aecom, la Bae System, la Fluor Corp., l’Huntington Ingalls Industries Inc. (impegnate nella produzione di armi nucleari), la polacca Atal SA, la cinese Luthai Textile (violazione diritti umani), la Evergreen Marine Corp. Taiwan, Korea Line Corp., Precious Shipping Pcl, Thoresen Thai Agencies (violazione diritti umani e inquinamento ambientale), l’Evergy Inc. la PacifiCorp, Tri-State Generation and Transmission Association, Washington H. Soul Pattinson & Co Ltd (produzione di carbone), l’Halcyon Agri Corp. (inquinamento ambientale), la JBS South Africa (corruzione)[36].

Nel 2017 la Banca di Norvegia ha invitato il ministero delle Finanze a rivedere gli investimenti del Fondo pensioni consigliando di escludere azioni derivate da collocamenti petroliferi. Il consiglio del gestore è stato recepito dallo Storting[37] il quale ha deciso di eliminare 134 compagnie che hanno interessi nell’industria di esplorazione e estrazione petrolifera per un totale di settanta miliardi di nok.

Le critiche, però non mancano, a partire dalle organizzazioni anti Nato, che contestano il coinvolgimento norvegese nel progetto F-35, a compagnie private che si occupano di fondi d’investimento, come la Storebrand Asa, la principale agenzia norvegese che amministra 70 miliardi di dollari affidati da 1,2 milioni di norvegesi.

Jan Erik Saugestad, vice presidente della Storebrand Asa, è critico verso il pacchetto di investimenti effettuati dal Fondo nazionale. Secondo lui il Fondo dovrebbe impegnarsi con più incisività a convincere le compagnie petrolifere a promuovere maggiormente le tecnologie per energie rinnovabili escludendo completamente quelle che hanno ancora attività nel settore dei combustibili fossili. Nel suo ultimo rapporto, la Storebrand Asa ha individuato una lista di società su cui ha deciso di non investire[38].

Per la verità la lista è molto simile a quella del Fondo governativo, dato che la stessa Storebrand non esclude a priori queste società, ma solo quelle che, nel loro portafoglio, hanno guadagni provenienti da attività considerate critiche per l’ambiente superiori a una certa percentuale (ad esempio esclude compagnie che hanno entrate superiori al 5% in tabacco, al 25% in attività collegate al carbone, 20% in attività collegate a sabbie bituminose)[39].

La Storebrand, inoltre, ha recentemente accusato alcune compagnie petrolifere di boicottare le politiche di energie rinnovabili investendo milioni di dollari per impedire o rallentare la successione delle energie alternative da quelle petrolifere. Tra le società accusate vi sono la Bp (53 milioni di Usd – dollari Usa – annui per boicottare queste politiche), la Shell (49 milioni Usd), Exxon Mobil (41 milioni Usd), Chevron (29 milioni Usd), Total (29 milioni Usd). I metodi utilizzati dalle imprese includerebbero pressioni su politici, amministrazioni locali e sull’opinione pubblica[40].

Il rapporto della Storebrand, però, contrasta nettamente con quello di altre agenzie. La Reuter ha recentemente pubblicato una ricerca da cui si evince che le compagnie petrolifere, con in testa la Shell, hanno investito circa tre miliardi di dollari in acquisizioni di energie rinnovabili negli ultimi cinque anni, mentre uno studio della WoodMackenzie, una società di ricerca e consulenza energetica, ha evidenziato che Total, Shell e Equinor sono tra le compagnie petrolifere che investono maggiormente in energie rinnovabili. La sola Equinor investirà in questo settore entro il 2020, il 25% del suo budget di ricerca[41]41.

È stata ancora la Equinor ad aver sviluppato l’Hywind Scotland Pilot Park, il primo centro di produzione eolica mobile off-shore che si trova a venticinque chilometri dalle coste scozzesi di Peterhead, nell’Aberndeenshire. L’Hywind è un complesso di sei turbine eoliche con una capacità energetica di 30 MW (megawatt). Secondo la Windeurope, la Equinor fornisce con i suoi impianti eolici il 7% dell’intera capacità energetica eolica prodotta in Europa nel 2018[42].

La Norvegia e l’ondata migratoria: l’affermazione dei partiti populisti

Con la scoperta del petrolio in Norvegia sono iniziati ad arrivare immigrati estranei alla cultura scandinava: erano pachistani, iugoslavi, maghrebini che non hanno fatto fatica a essere assorbiti nella nascente industria petrolifera. Al tempo stesso, però, la caduta del Muro di Berlino, le crisi politiche ed economiche dell’Europa dell’Est, accompagnate dagli sconvolgimenti militari ed etnici del Centro Asia, Vicino Oriente e Africa hanno messo la Norvegia di fronte a un’ondata migratoria che ha contribuito a sviluppare scetticismo nei confronti all’Unione europea e sospetto verso i nuovi arrivati.

All’inizio del 2018 su 5.400.000 abitanti 746.700 erano immigrati stranieri a cui vanno aggiunti 170mila nati da genitori stranieri[43]43. In totale gli immigrati sono il 17,3% della popolazione e contribuiscono per il 58% all’incremento demografico della nazione[44].

«Il petrolio è stata la fortuna e, al tempo stesso, la sfortuna della Norvegia», sentenzia Bente, una ragazza di Tromso la quale ritiene, come molti suoi connazionali, che il paese dovrebbe porre un freno all’immigrazione.

Questa percezione è stata cavalcata con successo dai partiti populisti di destra e antieuropeisti, in particolare dal Partito del progresso (FrP, Fremskrittspartiet)[45] che, nato nel 1973 come movimento liberista per l’alleggerimento della tassazione con il nome di Anders Lange’s Party for a Drastic Reduction in Taxes, Fees and Public Intervention («Partito di Anders Lange per una drastica riduzione delle tasse e dell’intervento pubblico»), nel 1989, sotto la guida di Carl Hagen si è trasformato in partito anti-immigrati. Dal 2013 l’FrP, oggi capeggiato da Siv Jensen[46], è entrato a far parte della coalizione di governo guidata da Erna Solberg, del Partito conservatore (chiamato «Høyre», destra).

Da allora l’FrP, che nelle ultime elezioni parlamentari del 2017 ha ottenuto un consenso del 15,2%, ha sempre guidato il ministero della Giustizia, pubblica sicurezza e immigrazione (Mgpsi) gestendo la politica migratoria della Norvegia. Tutti i sondaggi effettuati dagli anni Novanta che chiedevano quale partito avesse la migliore politica migratoria, hanno visto la netta prevalenza del Partito del progresso. Uno dei politici più popolari nel paese è Sylvi Listhaug, ministro dell’Immigrazione fino al 2018, la quale ha dato una svolta alla politica norvegese definendo «tirannia del buonismo» l’approccio europeo verso l’immigrazione e dichiarando che sarebbe stato più cristiano e ragionevole aiutare più gente possibile nei loro paesi attraverso programmi di aiuto.

Per la verità la stretta sulla migrazione non è prerogativa solo della destra: il primo passo in questo senso è stato fatto dal governo laburista di Gro Harlem Brundtland che con l’Immigration Act del 1988 ha gettato le basi per un maggiore controllo frontaliero, facili respingimenti e rimpatri forzati.

Dove nasce la strage di Utoya

L’attentato di Anders Breivik del 22 luglio 2011, che colpì gli uffici del governo e poi portò alla strage di Utoya, non attenuò l’ondata di risentimento anti immigrati che, anzi, si andò rafforzando anche con l’aiuto di una classe intellettuale aggressiva e critica nei confronti della politica nazionale ed europea. Le idee di Peder Are «Fjordman» Nostvold Jensen che avevano nutrito la mente di Breivik sono oggi rappresentate da scrittori come Kent Andersen, che nel 2011 tacciò il Partito laburista di kulturquislinger («traditore della cultura norvegese») affermando che il governo aveva trasformato la Norvegia in una «Disneyland multiculturale»[47].

Tra i politici di destra si è fatto largo anche il concetto di Eurabia, mutuato dai libri di Bat Ye’Or (soprannome di Gisèle Littman) e di Bruce Bawer[48]. Secondo questa teoria l’Europa sarebbe al centro di una manovra islamico-progressista-comunista il cui fine ultimo sarebbe quello di trasformare il continente in una colonia islamica con l’aiuto della stessa Unione europea. Nel 2009 Per-Willy Amundsen, ministro della Giustizia tra il dicembre 2016 e il gennaio 2018, dichiarò che i musulmani sarebbero diventati la maggioranza in Norvegia entro un ventennio.

Nonostante la Norvegia non abbia aderito all’Unione europea, il paese ha comunque condiviso la Convenzione di Dublino generando critiche da parte di quella fetta di popolazione che vorrebbe un isolamento maggiore della propria nazione.

L’immigrazione: numeri e problemi

La Norvegia di oggi è dunque molto distante da quella che nel 1921 ha visto l’esploratore Fridtjof Nansen diventare il primo Alto Commissario per i rifugiati nella Lega delle Nazioni. Dall’inizio del nuovo secolo i governi che si sono succeduti alla guida del paese (qualunque fosse il loro orientamento) hanno adottato la politica della qualità piuttosto che della quantità accettando solo un determinato numero di migranti economici in base alle proprie esigenze e disponibilità di mercato del lavoro, scolastico e abitativo. Il parlamento ogni anno stabilisce un numero massimo di rifugiati che possono essere accolti nel paese, mentre il ministero della Giustizia, pubblica sicurezza e immigrazione (Mgpsi) identifica i paesi di provenienza e la tipologia di rifugiati escludendo a priori coloro che hanno comportamenti e attitudini indesiderate o problemi di tossicodipendenza.

Così nel 2018 il 28% delle domande d’asilo politico è stato respinto (in totale gli immigrati nello stesso periodo sono stati 49.800[49]) mentre 6mila persone senza permesso legale sono state espulse, di cui 5.400 costretti a rientrare a forza nei loro paesi d’origine (4mila per aver commesso un crimine[50]).

Una politica che rigetta l’idea che molti hanno di una Norvegia come paese aperto e accogliente verso chi cerca asilo. L’atteggiamento oggi prevalente è quello utilitaristico mischiato alla retorica dell’«aiutiamoli a casa loro». I migranti economici sono accuratamente scelti tra coloro che dimostrano di essere professionalmente preparati a svolgere determinati lavori perché, come ha detto nel giugno 2018 l’allora ministro dell’Immigrazione Tor Mikkel Wara: «L’immigrazione va a beneficio della comunità solo sino a certi livelli e certe composizioni. Lavoratori con competenze professionali, provenienti da società con valori moderni e liberali, con competenze che sono richieste dal nostro mercato del lavoro sono utili. Ma i benefici si tramutano in danni per i loro stessi paesi, se questi lavoratori professionalmente validi lasciano la loro terra, privando la loro stessa società di elementi validi»[51].

«La vita di famiglia perde ogni libertà e bellezza quando si fonda sul principio dell’io ti do e tu mi dai», scriveva il norvegese Henrik Ibsen[52].

Così la politica migratoria norvegese è dettata da due fattori: la consapevolezza che il welfare ha risorse limitate, ma al tempo stesso il diritto degli immigrati di godere degli stessi diritti e opportunità dei cittadini norvegesi. «Questo è il punto che ci distanzia da altri paesi dell’Europa», spiega Roger Jensen, teologo e direttore del Centro di pellegrinaggio del sentiero di Sant’Olav, a Oslo. «A differenza della Svezia e della Danimarca, che hanno ghettizzato gli immigrati, noi li abbiamo accolti e li abbiamo aiutati a inserirsi nella società diminuendo i fattori di rischio criminalità».

Un’affermazione, quella di Jensen, che non incontra l’appoggio di parte degli abitanti delle periferie cittadine.

In effetti, visitando alcuni quartieri di Oslo, sembra di sentire il già citato Luigi di Ruscio quando scriveva «Ovunque l’ultimo / per questa razza orribile di primi / ultimo nella sua terra a mille lire a giornata / ultimo in questa nuova terra / per la sua voce italiana / ultimo ad odiare / e l’odio di quest’uomo vi marca tutti / schiodato e crocifisso in ogni ora / dannato per un mondo di dannati»[53].

Nel sito document.no, uno dei tanti critici nei confronti dell’immigrazione e che raccoglie le idee degli intellettuali vicini al FrP, sono apparsi diversi articoli sulle baby gang. Un’area particolarmente critica è Drammen, un quartiere dormitorio alla periferia di Oslo dove opererebbero sette bande giovanili in cui «la maggior parte dei componenti è immigrata»[54].

È stato anche criticato il logo stilizzato di Oslo, dove, secondo il sito document.no, «non rimane molto né di St. Hallvard né del simbolismo cristiano (…) così i nostri nuovi connazionali (immigrati e musulmani, ndr) possono identificarsi con il nuovo simbolo. Nessuno si potrà offendere per un logo così anonimo»[55].

Per chi rimane: integrazione e diritti

Dalla fine degli anni Novanta si è introdotto l’obbligatorietà di partecipare a programmi di insegnamento della lingua e della conoscenza culturale, storica e sociale della Norvegia e nel dicembre 2018 il governo ha lanciato il programma Integration through education and competence il cui principale obiettivo è inserire gli immigrati nel mondo del lavoro e nella società attraverso l’istruzione pubblica, il lavoro, l’integrazione sociale e l’educazione civica.

Le nuove regole implementate dal governo impongono agli immigrati dei doveri tra cui la frequenza gratuita a 175 ore di scuola di lingua norvegese e a 50 ore di studi sociali, mentre ai rifugiati politici in possesso di un diploma scientifico e tecnologico dei corsi professionali che li indirizzino verso il mercato del lavoro. A tutti gli immigrati, dopo la schedatura e il test obbligatorio Tbc viene offerto un alloggio temporaneo (nel settembre 2018 c’erano circa 4mila residenti, nel 2016, 13.400). Una persona che aiuta uno straniero a entrare illegalmente in Norvegia rischia fino a tre anni di prigione, mentre chi sfrutta l’immigrazione per profitto rischia fino a sei anni. In cambio agli stranieri vengono garantiti gli stessi diritti dei norvegesi.

Ognuna delle 422 municipalità della Norvegia ha diritto di decidere il numero di rifugiati che ritiene di poter accogliere ogni anno. Nel 2018 meno di 250 municipalità hanno offerto la loro disponibilità (136 in meno rispetto al 2017). Il governo concede ai comuni una somma di denaro per ogni rifugiato accolto per 5 anni (nel 2018 era di circa 80.000 euro per ogni adulto e 75.000 per altri adulti famigliari[56]).

Dopo tre anni di soggiorno nel paese senza aver commesso crimini, dopo aver passato un test di lingua A1 (che richiede tra le 300 e le 600 ore di lezione a carico dell’utente) e uno di storia e legislazione norvegese, il candidato può ottenere la residenza permanente, mentre per la cittadinanza occorre risiedere ininterrottamente nel paese per sette anni senza aver commesso reati gravi e passare il test di lingua A2.

Le politiche di integrazione, da qualunque parte le si guardi, sembra comunque stiano funzionando: nonostante quello che molti esponenti della destra xenofoba vanno dicendo e scrivendo, il rispetto tributato dalla società norvegese verso culture provenienti dall’esterno è contraccambiato dall’amore per la nuova patria da parte degli immigrati. Lo dimostra anche un recente rapporto compilato da Statistics Norway in cui si evidenzia che il 76% dei figli di immigrati che sono nati in Norvegia parlano il norvegese oltre alla lingua dei genitori, ma la quasi totalità degli immigrati di seconda generazione sente come propria nazione e cultura più la Norvegia che il paese dei loro padri.

La lezione che la Norvegia può darci è quella di un paese che, in cambio del rispetto reciproco, è possibile che culture tanto diverse in ambito storico, politico, geografico, religioso possano convivere e progredire per lo sviluppo di una sola comunità dalle mille sfaccettature.

Piergiorgio Pescali


Note

[1] Il friluftsliv è l’abitudine dei norvegesi a spendere il proprio tempo libero all’aria aperta.

[2] Undp, Human Development Indices and Indicator, 2018 Statistical Update: Table 1, pag. 22 e Table 2, 1990-2017 pag. 26.

I versi di Bjornstjerne Bjornson sono tratti da Sidste Sang (L’ultima canzone): «Una volta ho sentito di una festa in Spagna: / Un cavallo brado venne lasciato libero nell’arena, / poi una tigre fuori dalla sua gabbia / si aggirò un po’ intorno di soppiatto, / poi si pose sulla pancia».

[4] Statistics Norway, Economic Survey 2019/1 – Economic Development in Norway, Main economic indicators 2007-2022, pag. 31.

[5] Luigi Di Ruscio (Fermo 1930 – Oslo 2011), La neve nera.

[6] Innovation Norway, Key Figures for Norwegian Tourism 2017, The importance of tourism for Norway, pag 6; pag 10; pag. 30.

[7] Nordli et al. (2014). Long-term temperature trends and variability on Spitsbergen: The extended Svalbard Airport temperature series, 1898-2012, Polar Research (http:// dx.doi.org/10.3402/polar.v33.21349).

[8] Norwegian Polar Institute, SvalGlac: Sensitivity of Svalbard glaciers to climate change, 2010-2016.

[9] Statistics Norway, citato. Vedi anche:
https://www.pre-sustainability.com/news/updated-carbon-footprint-calculation-factors.

[10] Norwegian Ministry of Climate and Environment, Norway’s Climate Strategy for 2030: a transformational approach within a European cooperation framework (2016-2017), 16 giugno 2017, pag. 104.

[11] In Norvegia gli alberi sono suddivisi in cinque categorie dalla I alla V. Solo quando le piante raggiungono la V categoria l’assorbimento di gas serra diminuisce repentinamente e sarebbe quindi necessaria la sostituzione.

[12] Miljødirektoratet, Statens landbruksforvaltning og Nibio (2013) Planting av skog på nye arealer som klimatiltak [Afforestation of new areas as a climate mitigation measure], M26-2013.

[13] International Energy Agency, Energy Policies of IEA Countries, Norway 2017 Review, 2017, Capitolo 8. Renewable Energy, §Supply and Demand – Renewable energy in the TPES, pag. 126.

[14] International Energy Agency, Energy Policies of IEA Countries, Norway 2017 Review, 2017, 1. General Energy Policy, §Key data (2015 estimates) pag. 15.

[15] European Commission, Directorate General for Energy, Quarterly Report on European Electricity Markets, DG Energy, Vol 11, issue 1, first quarter of 2018, Capitolo 2, pag.7.

[16] International Energy Agency, Key world energy statistics 2018, Selected indicators for 2016, pp. 29-33.

[17] Oggi la Kewet e la sua successiva evoluzione, la Buddy, sono scomparse dal mercato. Avevano un’autonomia massima di 150 km, erano piccole, ospitavano al massimo tre adulti, non avevano bagagliaio e somigliavano ad un Sulky, una minicar squadrata degli anni Ottanta.

[18] Ev, «Electric vehicle», veicolo completamente elettrico che si differenza dal Phev, «Plug-in Hybrid Electric Vehicle», veicoli elettrici ibridi.

[19] https://ofv.no/bilsalget/bilsalget-i-2018

[20] International Energy Agency, Energy Policies of IEA Countries, Norway 2017 Review, 2017, citata, pp. 52-53.
L’ibrido (Phev) rappresenta il 40% delle auto elettriche vendute nel 2018, nel 2016 era il 35%.

[21] https://info.nobil.no/eng

[22] La direttiva europea consiglia una colonnina di ricarica ogni 10 Ev; in Norvegia la proporzione è di 0,65 colonnine/Ev.

[23] https://www.numbeo.com/cost-of-living/country_result.jsp?country=Norway

[24] https://www.numbeo.com/cost-of-living/country_result.jsp?country=Norway

[25] https://www.gassnova.no/en/the-government-has-granted-permission-for-co2-storage-in-the-north-sea

[26] http://www.tcmda.com/en/About-TCM/Owners/

[27] International Energy Agency, Energy Policies of IEA Countries, Norway 2017 Review, 2017, pag. 9

[28] Il Mar del Nord ha il 51% delle riserve petrolifere, il Mar di Norvegia il 23% e il Mar di Barents il 26%. Dal 2009 l’estrazione di petrolio del Mare del Nord è diminuita del 7%, mentre nel Mare di Barents è aumentata del 7%. La Norvegia aveva nel 2016 80 campi di produzione petrolifera off-shore: 62 nel Mare del Nord, 16 nel Mare di Norvegia e 2 nel Mare di Barents.

[29] International Energy Agency, Energy Policies of IEA Countries, Norway 2017 Review, 2017, pag. 66.

[30] Statoil è diventata Equinor il 15 maggio 2018 con la fusione della Statoil con la Norsk Hydro. Il principale azionista è il governo norvegese (67,0%).

[31] A-lab, Statoil Regional and International Offices, §Fakta.

[32] Hillmar Rommetvedt, The Rise of the Norwegian Parliament, Ed. Frank Cass and Company Limited, Londra, 2003, pp. 189-190.

[33] https://www.nbim.no/en/

[34] Guidelines for observation and exclusion of companies from the Government Pension Fund Global.

[35] https://www.f35.com/global/participation/norway

[36] Norge Bank Investment Management, Responsible Investment Government Pension Fund Global, 2018 – Divestments, §Ethical exclusions, p. 113.

[37] Il parlamento norvegese.

[38] Storebrand, Sustainable investments in Storebrand Q4 2018, Companies that Storebrand does not invest in.

[39] https://www.storebrand.no/en/sustainability/exclusions

[40] Niall McCarthy, Oil And Gas Giants Spend Millions Lobbying To Block Climate Change Policies [Infographic], Forbes, 25/03/2019

[41] https://www.reuters.com/article/us-shell-m-a/shell-buying-spree-cranks-up-race-for-clean-energy-idUSKBN1FF1A8; vedi anche:
https://www.theguardian.com/business/2017/nov/28/   shell-doubles-green-spending-vo ws-halve-carbon-footprint
https://energypost.eu/how-attractive-are-renewables-for-oil-companies/

[42] Windeurope, Offshore Wind in Europe-Key and trend statistics 2018, Capitolo 3 – Industry Activity and Supply Chain, §3.2 Wind Farm Owner, febbraio 2019.

[43] worldpopulationreview.com/countries/norway-population/

[44] Espen Thorud, membro OECD, Expert Group on Migration on Norway, Immigration and Integration 2017-2018, 2018, pag. 38 e pag. 6. – Al 31 dicembre 2017, in Italia la popolazione straniera residente era di 5.144.440 su un totale di 60.483.973 abitanti pari all’8,50% (fonte Istat).

[45] Il FrP rifiuta l’etichetta di partito populista.

[46] Siv Jensen è anche ministro delle Finanze nell’attuale governo Solberg

[47] http://www.aftenposten.no/meninger/kronikker/Drom-fra-Disneyland-6270375.html

[48] Ye’or Bat, Eurabia. Come l’Europa è diventata anticristiana, antioccidentale, antiamericana, antisemita, Lindau, Torino 2007. Vedi anche: Bruce Bawer, While Europe Slept: How Radical Islam is Destroying the West from Within, Random House, 2006.

[49] Espen Thorud, citato, pag. 10.

[50] Espen Thorud, citato, pag. 7.

[51] EMN Norway Conference, Challenges – introduction by Tor Mikkel Wara, Oslo, 21 giugno 2018.

[52] Henrik Ibsen, Casa di bambola.

[53] Luigi di Ruscio, Ovunque l’ultimo.

[54] https://www.document.no/2019/03/30/gjenger-gjor-drammen-til-et-helvete-pa-jord/

[55] https://www.document.no/2019/03/31/ny-logo-for-oslo-kommune/

[56] Espen Thorud, citato, pag. 32.