Non tutti i debitori sono eguali


Tutti i paesi sono indebitati. Al Nord come al Sud del mondo. Eppure, le conseguenze del debito sono molto diverse. Per pagare i creditori i paesi poveri non forniscono ai propri cittadini neppure i servizi minimi di salute e istruzione.  Oppure, semplicemente, falliscono. Come sta accadendo.

Tutti i governi del mondo sono indebitati, quelli ricchi più di quelli poveri, ma i primi se ne preoccupano di meno perché sono capaci di farcela meglio. Secondo il Fondo monetario internazionale (Fmi), a fine 2021, il debito pubblico complessivo ammontava a 90mila miliardi di dollari. Una somma enorme, che non dovrebbe far dormire la notte se pensiamo che tocca a noi cittadini restituirla. Eppure, impallidisce se la mettiamo a confronto con l’intero debito che grava sul mondo. Questo perché, oltre agli stati, anche le famiglie e le imprese hanno i loro debiti che, messi assieme a quelli pubblici, a fine 2021 ammontavano a 235mila miliardi di dollari. Di questi quelli riconducibili ai governi rappresentano solo il 38%.

Il debito pubblico dei paesi ricchi

Il Fondo monetario internazionale suddivide il debito pubblico mondiale in due gruppi: quello dei paesi avanzati e quello dei paesi emergenti e in via di sviluppo. I paesi avanzati comprendono una quarantina di stati, che complessivamente ospitano un miliardo di persone (12,5% della popolazione mondiale), a cui è garantito un reddito medio pro capite di 55mila dollari l’anno. I paesi emergenti e in via di sviluppo rappresentano gli altri 160 stati che, complessivamente, ospitano sette miliardi di persone (87,5% della popolazione mondiale), che vive con un reddito medio pro capite di 7mila dollari l’anno. Il 68% del debito pubblico mondiale è a carico dei paesi avanzati. Fra essi il più indebitato in termini assoluti sono gli Stati Uniti che, a fine 2022, avevano un debito pubblico pari a 31mila miliardi di dollari. Ma in termini relativi, ossia in rapporto al Prodotto interno lordo (Pil), il debito pubblico più alto del mondo è quello giapponese pari al 227% del Pil, mentre quello statunitense è al 124%. Quanto all’Italia, il suo debito pubblico al 31 dicembre 2022 era attestato a 2.764 miliardi di euro pari al 145% del Pil. Fra i paesi emergenti, quello col debito pubblico più alto è la Cina, con 10mila miliardi di dollari, all’incirca un terzo di tutto il debito di questa parte di mondo.

In media, i paesi avanzati hanno un debito pubblico pari al 111% del proprio Pil. Quelli in via di sviluppo solo il 67% del loro Pil. Una diversità di carico che emerge anche dal debito pro capite. Su ogni abitante della parte ricca del mondo grava una quota di debito pubblico media pari a 67mila dollari. Sugli abitanti del resto del mondo, invece, gravano solo 4.400 dollari. Eppure la condizione di questi ultimi è assai peggiore dei primi perché le conseguenze del debito non dipendono solo dal suo ammontare, ma da varie altre variabili sintetizzabili in tre punti: verso chi è stato contratto il debito, con quale valuta, con quale capacità fiscale.

La questione del debito. Foto rupixen.com – Unsplash.

Le banche centrali e la creazione di moneta

Partendo dal primo punto, «verso chi», le possibilità sono due: verso soggetti interni o verso soggetti esteri. Nel primo caso la situazione è molto più gestibile e leggera che nel secondo. Si veda, come esempio, il Giappone che, pur avendo il debito pubblico più alto del mondo, non crea eccessivi allarmismi perché esso è essenzialmente verso i propri cittadini e verso la propria banca centrale. Quest’ultima, per statuto, deve collaborare in maniera stretta con il governo e deve assisterlo nelle sue esigenze finanziarie se necessario concedendogli anche prestiti tramite emissione di nuova moneta. Ad oggi il 43% del debito pubblico giapponese figura come debito verso la Banca centrale del Giappone e ha la caratteristica di poter essere definito un «debito non debito» perché, pur esistendo da un punto di vista contabile, non sortisce alcun effetto da un punto di vista pratico.

Tutti i paesi del Sud del mondo dispongono di una banca centrale, che magari ha anche il compito di colmare i deficit di bilancio creati dal proprio governo. Ma va precisato che l’intervento della banca centrale può andare a segno senza contraccolpi soltanto se attuato in paesi economicamente forti. Se si immette nuovo denaro in paesi con una struttura produttiva fragile, l’effetto più probabile è l’inflazione, ossia la crescita dei prezzi. Semplicemente perché l’apparato produttivo non riesce a rispondere alla nuova ondata di domanda provocata dall’emissione di nuova moneta. Un esempio è l’Argentina. Nel 2020 il governo di Fernandez decise di effettuare spese a debito con emissione di nuova moneta, ma nell’agosto 2022 dovette cambiare politica per un’inflazione che aveva raggiunto il 100%.

 

Tra prestiti interni e prestiti esteri

L’alternativa è il ricorso ai prestiti di origine interna o di provenienza estera. Quelli di origine interna sono in valuta locale e possono venire dai risparmi dei cittadini o dal sistema bancario locale.

Il Fondo monetario internazionale stima che il 30% del debito pubblico dei paesi emergenti è detenuto dalle banche locali. Con differenze che possono essere molto ampie fra paese e paese. Ad esempio, in Uruguay le banche private detengono appena il 10% del debito pubblico, in Cina l’80%. Dati altrettanto particolareggiati sugli altri creditori locali, purtroppo, non circolano, per cui non è possibile tracciare un quadro preciso sulla composizione dei creditori interni dei governi del Sud.

Invece, esistono statistiche molto accurate sul debito verso soggetti esteri, evidentemente perché ci riguarda. Infatti, si tratta di debito contratto verso le nostre banche, i nostri governi, i nostri investitori e verso i guardiani dell’ordine economico internazionale, ossia il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale. Una quota controllata a vista dalle nostre istituzioni timorose di perdite, ma mai persa di vista neanche dai governi del Sud considerato che deve essere restituita in dollari, euro e altre valute estere che non possiedono, o possiedono in maniera molto limitata.

Cumulativamente i governi del Sud del mondo sono indebitati verso il resto del mondo per 5.200 miliardi di dollari, all’incirca il 15% del proprio debito complessivo. Ma, oltre ai governi, anche imprese, banche e altri soggetti privati del Sud del mondo sono indebitati con soggetti esteri, per cui il debito complessivo dei paesi emergenti verso l’estero ammonta a 9mila miliardi di dollari secondo la Banca mondiale, a 11mila, secondo la conferenza su commercio e sviluppo delle Nazioni Unite (l’Unctad).

foto-Frantisek Krejci-Pixabay

Le conseguenze della esportazione di capitali

In ogni caso, tutti concordano nel riconoscere che è difficile tracciare una linea di demarcazione netta fra debito estero di tipo pubblico e debito estero di tipo privato, perché qualsiasi pagamento da effettuare in valuta estera, presuppone riserve in dollari o in euro che tocca ai governi garantire. Per questo assumono grande importanza eventuali squilibri che si vengono a creare con l’estero in ambito commerciale.

Un esempio è il Malawi, che nel 2022 ha visto balzare la quota di entrate pubbliche destinate al servizio del debito estero dal 5% al 44%, come conseguenza dell’enorme quantità di debito in dollari contratto dalle banche locali per coprire i costi di importazione di prodotti vitali.

Oltre che dai maggiori costi per le importazioni, le riserve di valuta estera possono essere corrose anche da altre operazioni come i prestiti richiesti da banche e imprese locali per il perseguimento dei propri fini. Senza dimenticare i capitali trafugati all’estero non sempre sottobanco, ma a volte legalmente, come mostra il caso argentino. Nel 2018-2019 in Argentina il governo Macrì legiferò a favore della libertà di esportazione di capitali che provocò al paese uno squilibrio nei conti con l’estero per decine di miliardi di dollari. Un deficit a cui venne posto rimedio tramite un prestito di 40 miliardi di dollari ottenuto dal Fondo monetario internazionale.

Un’operazione a favore delle classi più ricche fatta sulle spalle di tutta la comunità, perché ora tocca al popolo argentino ripagare il debito verso il Fondo.

Oltre che dalle scelte compiute da governi e soggetti economici, il debito verso l’estero risente molto di tutto ciò che si muove  sullo scacchiere internazionale. Basta un’inversione di marcia nell’andamento economico, l’alterazione di prezzo di beni strategici, la variazione dei tassi di interesse da parte delle grandi economie, e il debito verso l’estero si può fare più leggero o più pesante.

Secondo la Banca mondiale, dal 2010 al 2021 il debito estero complessivo dei paesi emergenti è più che raddoppiato, passando da 4mila a 9mila miliardi di dollari. E se, nei primi anni, l’aumento era imputabile al maggiore dinamismo degli operatori economici del Sud, che si affacciavano sulla scena internazionale per ottenere maggiori prestiti a scopi produttivi, dal 2019 l’aumento è imputabile a fenomeni mondiali che si sono mossi per conto proprio. Primo fra tutto la recessione mondiale da Covid che ha provocato una riduzione delle esportazioni del Sud con conseguente riduzione degli introiti in valuta estera. E se nel 2021 c’era stata una ripresa, nel 2022, due fatti nuovi hanno riportato i paesi del Sud del mondo nella tormenta.

Per primo, l’aumento dei prezzi delle derrate alimentari e dei prodotti energetici, come conseguenza della guerra in Ucraina. Per secondo, l’aumento dei tassi di interesse a seguito di un cambio di politica delle banche centrali occidentali che ormai avevano come principale obiettivo il contenimento dell’inflazione.

È stato per il convergere di questi due fenomeni che la situazione debitoria del Sud del mondo verso l’estero si è fatta particolarmente critica soprattutto per i paesi più fragili e più dipendenti dall’estero.

L’Egitto, ad esempio, nel corso del 2022 ha bussato sia alle porte degli Emirati arabi uniti che del Fondo monetario internazionale per ottenere in prestito alcuni miliardi di dollari utili a fronteggiare l’aumento dei prezzi dei cereali acquistati sul mercato mondiale. Un nuovo debito ottenuto a condizioni più svantaggiose per effetto dell’aumento dei tassi di interesse a livello internazionale.

I creditori del Nord e il servizio del debito

Nel 2021, la somma inviata dai governi del Sud del mondo ai vari creditori del Nord per interessi sul debito è ammontata a 115 miliardi di dollari. Nel 2010 ammontava a 47 miliardi di dollari. Quindi, in dieci anni, l’aumento è stato del 144%. Se poi agli interessi aggiungiamo la quota restituita come capitale, troviamo che la somma complessiva inviata dai governi del Sud ai creditori del Nord, ammonta, nel 2021, a 400 miliardi di dollari.

Come dire che, in quest’anno, il Sud del mondo ha destinato al servizio del debito il 14,3% delle proprie entrate pubbliche, mentre nel 2010 ne destinava solo il 6,8%. Il calcolo è dell’organizzazione britannica Jubilee Campaign, che però avverte come esistano ampie differenze tra paese e paese.

In Sri Lanka, ad esempio, il servizio del debito estero assorbe il 60% delle entrate pubbliche, nello Zambia il 45%, in Angola il 33%, in Mozambico il 25%. Tutti paesi incapaci di garantire ai propri cittadini i servizi minimi di tipo sanitario ed educativo. E, tuttavia, ormai incapaci di onorare i propri impegni anche nei confronti dei creditori, considerato che Sri Lanka, Ghana e Zambia hanno già dichiarato fallimento.

Vari altri paesi rischiano di seguire la stessa sorte, per cui lo stesso Fondo monetario internazionale chiede di intervenire per alleggerire la situazione debitoria del Sud del mondo. Che tradotto significa disponibilità dei creditori ad annullare almeno parte del debito. Ma l’impresa non si presenta facile considerato che il 63% del debito estero dei governi del Sud è verso banche e altri soggetti privati a cui nessuno vuole porre regole.

Francesco Gesualdi

foto-QuinceCreative-Pixabay

 




Nemici ieri, partner oggi


Le tensioni tra Washington e Pechino spingono i paesi asiatici a schierarsi. In Vietnam i segni della guerra con gli Usa, conclusa nel 1975, sono talvolta ancora visibili, ma i rapporti con la Cina non sono mai stati distesi. E anche il principale fornitore di armi, la Russia, sta dando forfait. Così Hanoi guarda sempre più oltre il Pacifico.

«Guarda, è quello che rimane della Città proibita purpurea». Thang punta il dito e nella sua voce fin lì squillante e divertita subentra una punta di tristezza. Aveva 8 anni quando, nel 1968, l’antica capitale di Hue divenne il teatro di una delle più lunghe e sanguinose battaglie della guerra del Vietnam. Compresa la cittadella imperiale, simbolo della dinastia Nguyen, che era riuscita a unire da nord a sud il territorio vietnamita dopo tanti infruttuosi tentativi.

Hue si trova nel Vietnam centrale, a pochi chilometri dall’antica zona demilitarizzata tra l’allora Vietnam del Nord e Vietnam del Sud.

La cittadella era stata danneggiata una prima volta nel 1947, quando i francesi avevano preso d’assedio la città occupata dai Viet Minh (Lega per l’indipendenza del Vietnam, ndr): molte delle strutture principali erano state colpite. Ancora peggiori furono le conseguenze di quanto accadde tra il 31 gennaio e il 2 marzo del 1968, settimane in cui l’antica capitale e la sua cittadella contenente edifici e opere di valore inestimabile divennero l’epicentro del conflitto.

L’Esercito popolare del Vietnam e i soldati Viet Cong (termine dispregiativo con cui erano chiamati i guerriglieri del Fronte di liberazione nazionale, ndr) arrivarono a conquistare la maggior parte della città. L’ordine era quello di distruggere l’apparato amministrativo del Vietnam del Sud e punire spie e reazionari. Quelli identificati vennero portati fuori dalla città per essere «rieducati». Pochi avrebbero fatto ritorno. Quelli ritenuti colpevoli dei «crimini» più gravi furono processati e giustiziati.

Gli Stati Uniti prepararono il contrattacco, ma alle truppe venne ordinato di non bombardare la città per paura di distruggere i numerosi edifici storici, nonché per rispetto nei confronti dello status religioso di Hue, dove ancora oggi sorgono, lungo il fiume dei Profumi, le celeberrime e lussuose tombe degli imperatori. Dopo settimane di combattimenti casa per casa, proprio la cittadella divenne il fronte di combattimento. I Viet Cong occuparono diversi edifici e installarono dei cannoni anti aerei sulle torri esterne. I sudvietnamiti riuscirono comunque a entrare nel sito, sostenuti dai bombardamenti americani, ai quali era stato infine dato il via libera. Alcuni di questi colpirono direttamente edifici in cui erano piazzati cecchini rivali. I combattimenti avvennero tra giardini, fossati e padiglioni. Si arrivò a sparare anche alle porte del palazzo imperiale, dove si erano rifugiati i Viet Cong. Molte delle mura e delle porte vennero ridotte a poco più che macerie. Dei 160 edifici originari, solo 10 siti principali sono rimasti in piedi dopo la battaglia.

Circa 100mila persone furono sfollate dalla città, dove lungo le strade rimasero insepolti centinaia di cadaveri. Le vittime furono numerose: morirono 216 militari statunitensi e 421 soldati sudvietnamiti, e poco meno di cinquemila militari da entrambe le parti restarono feriti.

La battaglia causò la morte di circa quattromila civili. Tra questi, anche alcuni familiari di Thang, che oggi accompagna i turisti in ciclorisciò tra le mura della cittadella. «Ho perso i miei zii e uno dei miei cugini. Era tremendo, eravamo tutti senza acqua e non sapevamo dove andare o dove trovare rifugio. Avevamo paura sia dei nordvietnamiti che cercavano le presunte spie, sia delle bombe degli americani», racconta. «Mi fa impressione leggere che la battaglia è durata circa un mese. Quando ero piccolo ero convinto che fosse durata molto di più, quasi come un’intera epoca della mia vita».

I segni della guerra

Osservando le grandi porte d’ingresso, il sontuoso palazzo Dien Tho e il laghetto pieno di carpe del padiglione Truong Du è difficile credere che questa enorme cittadella sia, suo malgrado, anche uno dei simboli della violenza del conflitto. Eppure, guardando bene, i segni di quella battaglia sono ancora presenti.

Ci sono quelli visibili a occhio nudo, nonostante i decenni di ricostruzione che hanno reso la città una popolare attrazione turistica. Diversi fori di proiettile sono ancora lì in alcune parti delle mura della città, mentre al museo storico e rivoluzionario sono esposti diversi cimeli militari, tra cui un carro armato M48 Patton e un aereo da attacco leggero A-37 Dragonfly della Marina statunitense.

E poi ci sono i segni non visibili agli occhi, ma percepibili attraverso ragione e sentimenti. «Meglio di tanti altri, qui conosciamo che cosa significa subire le devastazioni della guerra», sospira Ngoc, celando per un momento il sorriso mai interrotto durante tutta la cena presso il suo ristorante di cucina locale. «Per questo ora siamo preoccupati da quanto sta succedendo in Ucraina, ma anche e soprattutto dalla tensione tra Stati Uniti e Cina». Suo malgrado, Hue è stata uno dei principali campi di battaglia (indiretti) tra le due superpotenze e l’Unione Sovietica durante la guerra fredda. Ora il timore è che l’assenza di dialogo tra Washington e Pechino porti a una nuova epoca di divisioni in blocchi, costringendo i vari paesi asiatici a scegliere da che parte stare. Una scelta che Hue, il Vietnam e in generale tutto il Sud Est asiatico non vorrebbero compiere.

Proprio il caso del Vietnam è forse il più emblematico dell’intera regione. Il paese ha conosciuto la colonizzazione occidentale e combattuto l’America, ma ha anche vissuto sotto la dominazione cinese per oltre mille anni, tra il terzo secolo avanti Cristo e il decimo secolo dopo Cristo, per restare poi a lungo uno stato tributario dell’impero cinese e subire diverse altre invasioni di cinesi e mongoli. Ancora oggi, le iscrizioni dei palazzi della cittadella imperiale di Hue sono in caratteri cinesi.

I vicini scomodi

Nonostante la vicinanza politico ideologica, i rapporti tra Repubblica popolare cinese e Repubblica socialista del Vietnam non sono mai stati del tutto distesi. Nel 1979 ci fu anche una guerra durata un mese, risultato della tensione per il sostegno di Hanoi all’Unione Sovietica (in un momento di grande contrasto con Pechino che si stava aprendo agli Usa) e dell’invasione vietnamita della Cambogia, causa della deposizione dei Khmer Rossi, tradizionali alleati della Cina.

Oggi i rapporti politici tra i due partiti comunisti sono cordiali. E i rapporti commerciali tra i due paesi sono floridi.

Ma questa cordialità si tesse su uno sfondo sempre più evidente di tensioni per alcune dispute territoriali sul Mar Cinese meridionale, intorno ai due arcipelaghi Spratly e Paracelso. A quest’ultimo è dedicato un museo nella città marittima di Da Nang, circa 100 chilometri a sud di Hue. Tre piani di esposizione per raccontare la storia di quelle che qui vengono chiamate isole Hoang Sa (letteralmente «sabbia gialla») e rivendicare su di esse la sovranità vietnamita, che trova spazio anche in alcune mappe esibite in altri musei della zona.

Dall’apertura nel 2018, circa la metà dei suoi visitatori sono stati studenti che, attraverso mappe, fotografie e altri documenti, apprendono la versione ufficiale di Hanoi, secondo cui le isole sono del Vietnam e non della Cina. È una questione seria e molto attuale, tanto che l’anno scorso è stata vietata la distribuzione del blockbuster americano Uncharted, perché un frammento di due secondi mostra l’immagine di una mappa che recepisce tutte le rivendicazioni territoriali cinesi.

Il capo del dipartimento del cinema, chiamato a censurare i prodotti culturali non in linea con la sicurezza nazionale, ha spiegato il divieto di distribuzione del film citando una «immagine illegale dell’infamante linea dei nove tratti».

Acque contese

All’esterno del museo di Da Nang si trova il peschereccio 90152 TS. Affondato nel 2014 durante uno scontro con una nave di sorveglianza marittima cinese vicino alle isole Paracelso, il suo equipaggio è stato salvato da un’altra barca vietnamita. Un episodio che ha segnato molto i rapporti bilaterali degli ultimi anni, simboleggiando anche la differenza di capacità navali e militari dei due paesi. In quell’occasione, infatti, la nave cinese più grande e con scafo in acciaio ha sopraffatto quella vietnamita più piccola e in legno. La Cina sostiene che la nave vietnamita avesse «molestato» un peschereccio cinese.

D’altronde, le acque contese tra Pechino e Hanoi sono ricche di risorse naturali (cfr MC, giugno 2014). Tanto che al loro interno il governo vietnamita ha assegnato concessioni petrolifere ad aziende nazionali e straniere. Anche se di recente il governo ha dovuto accettare di pagare circa un miliardo di dollari a due compagnie petrolifere internazionali (la spagnola Repsol e la Mubadala degli Emirati arabi uniti) dopo aver annullato le loro operazioni nel Mar Cinese meridionale in seguito alle crescenti manovre militari della Cina. Hanoi ha spesso avanzato rimostranze per delle esercitazioni militari svolte all’interno di un’area che il governo vietnamita ritiene come parte della sua zona economica esclusiva, non riconosciuta da Pechino.

Guardare altrove

Il Vietnam è uno dei paesi che meno si è espresso pubblicamente sulla guerra in Ucraina. Ma forse è tra quelli che guarda con maggiore preoccupazione alle sue conseguenze. Anche perché il Vietnam forse più di chiunque altro rischia una sorta di «accerchiamento», confinando non solo con la Cina ma anche con Cambogia e Laos, vale a dire i due paesi della regione maggiormente inseriti negli ingranaggi di Pechino.

Il premier cambogiano Hun Sen, che si appresta a vincere le ennesime elezioni senza rivali a luglio (la rivista è stata chiusa prima della data elettorale, ndr), sembra peraltro disposto a garantire accesso alle navi cinesi nella base militare di Ream. Come altri paesi vicini il Vietnam teme un potenziale crescente allineamento tra Cina e Russia. Sinora, infatti, Hanoi aveva sapientemente dosato i rapporti con Pechino e Mosca sfruttando le evidenti asimmetrie della loro relazione.

Se la Cina è da tempo il primo partner commerciale del Vietnam, la Russia è sempre stata il primo fornitore di componenti militari. Dal 2000 al 2021, l’80 per cento delle armi acquistate dal Vietnam provenivano da Mosca. A fine 2021, i governi dei due paesi hanno siglato un nuovo accordo per espandere ulteriormente la cooperazione militare. Ma la guerra in Ucraina sta rendendo più complicato per il Cremlino continuare a garantire le esportazioni nel settore della difesa. Tanto che Mosca starebbe già riportando a casa armi promesse a partner regionali come Myanmar e India, ritardando consegne ad Hanoi e non solo.

US Secretary of State Antony Blinken (L) meets with Vietnam’s Communist Party General Secretary Nguyen Phu Trong at the Communist Party of Vietnam Headquarters in Hanoi on April 15, 2023. (Photo by Andrew Harnik / POOL / AFP)

Ecco allora che il Vietnam è costretto a guardare altrove. E quell’altrove possono essere gli Stati Uniti che, dopo un embargo decennale, sono pronti a rifornire di componenti militari anche Hanoi. Negli scorsi mesi, si è svolta la più grande missione «di sistema» di aziende americane in Vietnam di sempre. Presenti anche Lockheed Martin e Boeing, che gestiscono contratti milionari per spedire elicotteri e droni armati.

Il segretario di Stato Antony Blinken ha partecipato alla posa della prima pietra della nuova ambasciata americana ad Hanoi, che diventerà una delle sedi diplomatiche con l’edificio più costoso dell’Asia. Non solo. Joe Biden ha telefonato a Nguyen Phu Trong, segretario generale del Partito comunista, proprio nel giorno dell’apertura del suo secondo summit della democrazia, invitandolo a Washington. Un atto inusuale, visto che solitamente la Casa Bianca si confronta con il presidente vietnamita, una figura più cerimoniale. Trong ha, invece, accentrato molto il potere, sbaragliando tutti i rivali interni al Partito con la feroce campagna anticorruzione della «fornace ardente». Tanto da ottenere uno storico terzo mandato, rompendo il vincolo dei due mandati introdotto da Le Duan, ancora prima che lo facesse Xi Jinping in Cina.

Fabbriche hi tech

Da ultimo, proprio il presidente Nguyen Xuan Phuc è stato costretto alle dimissioni da un’inchiesta giudiziaria che lo ha lambito ed è stato sostituito da Von Van Thuong, fedelissimo di Trong. Ma tutto questo non sembra essere un problema per Usa e occidente, che hanno individuato proprio nel Vietnam la base perfetta per spostare linee di produzione in uscita dalla Cina, nel tentativo di «riduzione del rischio» di esposizione al mercato della Repubblica popolare.

Si tratta di un fenomeno incentivato dagli accordi di libero scambio sottoscritti da Hanoi con Unione europea e Regno Unito. Ma anche dagli effetti collaterali delle tensioni tra Pechino e Washington. Negli ultimi anni, sempre più colossi digitali americani e loro fornitori (tra cui Apple) hanno messo radici in Vietnam. Comprese fabbriche ad alto valore tecnologico. Tutti segnali di un rapporto che potrebbe presto conoscere un rafforzamento anche a livello politico difensivo. Ciò non significa che il Vietnam verrà «arruolato» dagli Stati Uniti nella loro strategia di «contenimento» della Cina. Hanoi proverà a continuare a mantenere la sua cosiddetta diplomazia del bambù. Piantato solidamente nel terreno, ma agile nel flettersi secondo il vento.

Così il Vietnam cerca di restare in piedi e navigare le acque agitate della contesa tra le super potenze. D’altronde, qui più che altrove, forse si spera che il confronto non si tramuti mai in conflitto. «Anche perché in caso contrario sappiamo già chi ne pagherà subito le conseguenze», dice Thang, abbassando il dito che indicava ciò che resta della Città proibita purpurea di Hue.

Lorenzo Lamperti




«Sbilanciamoci» anche noi

Ogni anno, negli splendidi ambienti di Villa d’Este di Cernobbio, sul lago di Como, si svolge il Forum internazionale Ambrosetti dedicato ai grandi temi globali e all’economia. Da tempo (la prima edizione fu nel 2003), la campagna «Sbilanciamoci!» organizza in contemporanea un forum alternativo, chiamato «contro Cernobbio» o «altra Cernobbio», in cui i temi dell’economia sono affrontati da punti di vista «altri», diversi, quando non opposti, da quelli del Forum Ambrosetti.

Tutto normale fino allo scorso 28 luglio quando gli organizzatori di Sbilanciamoci! hanno saputo che il loro controforum («La strada maestra. Ambiente, diritti, lavoro, pace: la nostra Costituzione»), in calendario per l’1 e 2 settembre, è stato vietato dal comune di Cernobbio per «motivi di ordine pubblico». Come se economisti, attivisti, volontari di Sbilanciamoci! fossero dei pericolosi sovversivi.

«È una decisione gravissima: lede l’articolo 17 (diritto di riunione) e l’articolo 21 (diritto d’espressione) della Costituzione repubblicana», ha scritto Giulio Marcon, portavoce di Sbilanciamoci!, la campagna che raggruppa 51 organizzazioni e reti della società civile italiana – tra esse Pax Christi, Mani Tese, Nigrizia, Altreconomia, Emergency, Medicina democratica, Legambiente, Wwf – impegnate sui temi della spesa pubblica e delle alternative di politica economica.

Quest’anno Cernobbio ospiterà – come sempre – il Forum Ambrosetti, ma non quello di Sbilanciamoci!, che dovrà spostarsi a Como. Una brutta pagina per la democrazia italiana si sta però trasformando in una pubblicità gratuita, benvenuta e – soprattutto – meritata per Sbilanciamoci!, che dal 1999 si impegna a favore di un’economia di giustizia e di un nuovo modello di sviluppo fondato sui diritti, l’ambiente, la pace.

La campagna Sbilanciamoci! produce studi alternativi, accurati e affidabili che sono scaricabili gratuitamente dal sito web dell’associazione (sbilanciamoci.info). Questa è l’occasione giusta per visitare quel sito, scaricare quei lavori (ad esempio, la Controfinanziaria 2023), leggerli con attenzione e, possibilmente, aiutare a diffonderli o a migliorarli. Perché forse, un giorno, quei sogni diverranno realtà.

Paolo Moiola

Villad’Este-Cernobbioa-Como-foto-Aleks-Marinkovic-Unsplash




Le banche e la lezione dimenticata


Non si è verificato un crollo come quello del 2008, ma la paura c’è stata. Oggi come allora, il terremoto è partito dal fallimento di alcune banche Usa, arrivando fino al cuore della «mitica» Svizzera. Ed è facile prevedere che non sarà  l’ultima volta, a meno che…

Nel marzo 2023, il sistema bancario è tornato a fare parlare di sé mettendo tutti in fibrillazione. Il pensiero è andato immediatamente alla crisi che, nel 2008, fu causata dallo stesso comparto e che rapidamente si propagò al mondo intero. Come allora, anche questa volta lo scossone è partito dagli Stati Uniti e, di nuovo, è stato generato da errori bancari amplificati dalle logiche di mercato e dalle speculazioni finanziarie.

Se una piccola banca

Nel 2008, la bufera era partita da un intero comparto: quello specializzato nei mutui sulla casa. Questa volta l’epicentro è stato una banca di dimensioni modeste dedicata alle imprese ad alta tecnologia. Non a caso il suo nome è Silicon Valley Bank (in sigla Svb), ricordando che Silicon Valley è il nome dell’area industriale della California che ospita tutte le principali imprese specializzate nell’economia digitale.

Fondata nel 1983 per iniziativa di un paio di esperti bancari, Svb era nata con lo scopo di concedere prestiti alle start-up, ossia alle aziende di nuova formazione dedite alla produzione di tecnologie e servizi innovativi. Una delle regole imposte dalla banca alle imprese a cui concedeva prestiti, era l’obbligo di aprire un conto corrente. Questa regola, associata alle politiche perseguite dalla Banca centrale statunitense, aveva favorito una crescita importante dei depositi di Sbv, che però, in seguito, come vedremo, si sarebbero trasformati in un boomerang.

Il punto da cui partire è che il ricorso al debito da parte delle imprese non segue le stesse logiche di quello delle famiglie. Nelle famiglie il debito è sempre finalizzato a una spesa specifica: l’acquisto di una casa, di un’automobile, di mobili o elettrodomestici. Nelle imprese, invece, l’indebitamento segue anche logiche finanziarie come l’obiettivo di assicurarsi della liquidità da mettere da parte o la tentazione di speculare sull’esistenza di tassi di interesse diversificati.

Il dollaro rimane la valuta mondiale di riferimento. Foto SK-Pixabay.

La speculazione sui tassi d’interesse

Fatto sta che, dopo il 2008, quando le banche centrali di tutti i più importanti paesi industrializzati abbassarono i tassi di interesse e aumentarono la massa di denaro in circolazione, molte imprese ne approfittarono per accumulare riserve monetarie. In altre parole, si indebitavano, approfittando delle condizioni favorevoli, non per affrontare spese specifiche, ma per incamerare denaro da mettere da parte o per effettuare investimenti finanziari che garantissero un tasso di interesse più alto di quello pagato. E, per assicurarsi lunghi tempi di restituzione, non rastrellavano i prestiti tramite il sistema bancario, ma quello finanziario, ossia il sistema delle borse che permette di ottenere prestiti dalla vendita di obbligazioni che generalmente prevedono tempi lunghi di restituzione. Così si sono avuti anni in cui le imprese prendevano soldi dai soggetti che operavano nelle borse e ne depositavano una buona parte nelle banche. Il che spiega perché, fra il 2010 e il 2020, il sistema bancario ha conosciuto un boom di depositi, come conferma il caso Svb che li ha visti passare da 4 miliardi di dollari nel 2006, a 189 miliardi nel 2021. Come tutte le banche, anche Svb ha usato parte dei soldi ricevuti per concedere prestiti alle imprese. Ma un’altra parte la investiva, ossia la dava in prestito a grandi entità, ad esempio lo stato, tramite l’acquisto di obbligazioni. Una forma di investimento molto praticata dal sistema bancario, non solo perché ritenuta sicura in quanto i colossi, specie gli stati, difficilmente falliscono, ma anche perché, in caso di bisogno, permette di rientrare facilmente in possesso del proprio denaro. Le obbligazioni, infatti, hanno la caratteristica di poter essere cedute ad altri in qualsiasi momento, secondo il prezzo corrente. Per di più quelle emesse da entità particolarmente forti come gli stati, hanno il vantaggio di poter essere utilizzate come collaterale, ossia come garanzia, nel caso in cui si abbia bisogno di ottenere un prestito. Evenienza, questa, che ricorre di continuo nel caso delle banche, che si fanno costantemente prestiti fra loro per esigenze di cassa. Ma solo dietro fornitura di garanzie ossia depositando obbligazioni o altri titoli che la banca creditrice può vendere nel caso in cui quella debitrice non restituisca le somme nei tempi pattuiti.

Anche Svb aveva fatto il pieno di titoli emessi dal governo statunitense e tutto è andato bene finché le banche centrali hanno continuato con la loro politica di bassi tassi e alta quantità di moneta in circolazione. Nel corso del 2022 il vento è, però, mutato a causa dell’inflazione tornata a fare capolino. Per arginarla, le banche centrali, prima fra tutte quella statunitense, hanno deciso di frenare l’emissione di denaro e, soprattutto, di innalzare i tassi di interesse. È stata proprio questa nuova politica a provocare la frana che ha travolto Svb, tramite una serie di effetti paradosso.

Quando una banca fallisce

In via di principio l’aumento dei tassi di interesse è conveniente per le banche perché permette di concedere prestiti a tassi più elevati. Ma il rovescio della medaglia è che, contemporaneamente, si attivano fenomeni che possono ledere la loro stabilità. Nel caso della Svb i fatti avversi sono stati due: l’aumento dei prelievi da parte dei correntisti e la svalutazione dei titoli detenuti. Il primo fenomeno è stato provocato dal fatto che l’aumento dei tassi di interesse non stimolava più i correntisti di Svb a indebitarsi in borsa per ottenere liquidità. Ora preferivano affrontare le proprie esigenze prelevando i soldi che avevano accumulato in banca sui propri conti correnti. In effetti, già nel 2022 Svb aveva subito un calo dei depositi del 5%. Contemporaneamente, la banca californiana cadeva vittima del secondo fenomeno: l’aumento dei tassi di interesse aveva, infatti, costretto il governo degli Stati Uniti ad applicare rendimenti più alti sui titoli di nuova emissione. Il che faceva perdere valore ai titoli in circolazione che garantivano tassi di interesse più bassi. Un po’ come succede nel mercato dell’auto: quando compaiono modelli nuovi, quelli vecchi perdono immediatamente valore perché più nessuno li vuole. Lo stesso è successo a Svb che si è ritrovata nel cassetto una montagna di titoli svalutati. Tant’è che l’8 marzo 2023, nel tentativo di fare cassa, ha venduto titoli di stato precedentemente acquistati per 21 miliardi di dollari incassandone però solo 19. È stato l’inizio della fine perché i titoli rappresentano il capitale di una banca: se si svalutano questi, l’intera banca perde valore. Una situazione che mette in moto un meccanismo fallimentare che si autoalimenta. Sentendo che la propria banca non se la passa bene, i correntisti si affrettano a ritirare i propri depositi temendo di perderli. Ma così facendo accelerano il rischio di fallimento, perché nessuna banca è in grado di rifondere i propri correntisti se si presentano in massa. Così, il 9 marzo, quando è stata presa d’assalto dai suoi correntisti, intenzionati, in una sola mattina, a prelevare qualcosa come 42 miliardi di dollari, Svb è stata costretta ad abbassare la saracinesca. Il 10 marzo le autorità finanziarie hanno decretato il suo fallimento e l’hanno messa in vendita.

Il 27 marzo è stata acquistata da First Citizens Bank e il caso si è chiuso. Anche se, nel frattempo, anche Signature Bank, un’altra banca regionale statunitense, è fallita.

Franchi svizzeri: anche la Svizzera – nella primavera 2023 – ha avuto problemi con le proprie banche. Foto Claudio Schwarz-Unsplash.

Intanto, in Svizzera…

Il problema, però, era che anche al di qua dell’Atlantico si stavano accumulando nubi sul sistema bancario. Di scena era niente po’ po’ di meno che Credit Suisse, un colosso da 50mila dipendenti che gestiva una ricchezza valutata attorno ai 1.300 miliardi di dollari. Purtroppo per questa, stavano venendo al pettine una serie di scandali e notizie di mala gestione che minavano la sua reputazione fino ad indurre un numero importante di clienti a ritirare i propri depositi. Già negli ultimi mesi del 2022 le ricchezze affidate alla banca si erano assottigliate di 119 miliardi, tant’è che attorno al 10 marzo 2023, al fine di tamponare le perdite, il colosso era stato costretto a rivolgersi alla Swiss National Bank per ottenere un prestito da 54 miliardi di dollari. Se dagli Stati Uniti non fossero arrivati segnali inquietanti riguardanti il sistema bancario, forse le autorità svizzere avrebbero preso altro tempo per vedere se Credit Suisse ce l’avesse fatta da sola a superare le proprie difficoltà. Ma il fallimento delle due banche americane aveva creato nervosismo nel mondo finanziario e c’era il timore che si potessero verificare iniziative di rappresaglia capaci di far traballare l’intero sistema bancario. È risaputo, infatti, che il mondo della speculazione dispone di mezzi per guadagnare anche sul crollo dei prezzi e quando decide di farlo mette in atto una serie di operazioni che creano sfiducia attorno alla preda designata, condizione per ottenere il crollo dei prezzi su cui è stato scommesso. Più tardi si sarebbe saputo che manovre del genere erano avvenute perfino attorno a Deutsche Bank, ed è stato così che, per evitare il divampare di un fuoco indomabile in un settore chiave della propria economia, il 19 marzo le autorità svizzere hanno preferito agire d’anticipo facendo acquistare Credit Suisse dal colosso Usb, la più grande banca del paese. Poche settimane dopo, nel mese di aprile, negli Stati Uniti un’altra banca regionale, la First Republic, ha alzato bandiera bianca, ma senza effetti di sistema perché nel giro di poco è stata acquistata da JP Morgan, una delle più grandi banche al mondo. E poiché non sono seguiti altri fallimenti, si è considerato concluso il mini terremoto bancario della primavera 2023.

I motivi delle crisi bancarie

Gli analisti si stanno ancora confrontando sulle cause delle crisi bancarie, riconducibili, schematicamente, a tre grandi ambiti. Il primo riguarda le lacune legislative. Secondo molti esperti, i controlli sulle banche non sono abbastanza stringenti, mentre sono ammesse forme di gestione azzardate che amplificano il rischio di bancarotta. Il secondo  aspetto è l’eccessiva libertà lasciata alla speculazione di fare il bello e il cattivo tempo, attraverso manovre che, a seconda delle convenienze, fanno oscillare artificiosamente il valore delle banche ora verso l’alto, ora verso il basso, condizionando il clima di fiducia nei loro confronti. Il terzo aspetto riguarda le politiche delle banche centrali. Secondo molti analisti, le banche centrali non avevano motivo di alzare i tassi di interesse in maniera così repentina ed elevata. L’intento dichiarato è stato la lotta all’inflazione, ma secondo il pensiero di molti si è trattato di una misura sbagliata. L’aumento dei tassi di interesse trova giustificazione quando i prezzi sono spinti verso l’alto da un eccesso di domanda di beni. In tal caso la manovra può funzionare perché l’aumento del costo del denaro riduce gli acquisti a debito. Ma l’inflazione di oggi è dovuta all’aumento di prezzo dei prodotti energetici, per cui non serve a niente frenare la domanda. L’effetto che ne può derivare è la stagflazione, un male addirittura peggiore di quello che si intende combattere perché la stagflazione è la persistenza dell’inflazione con l’aggiunta della recessione.

Sedi bancarie. Foto Miquel Parera – Unsplash.

La funzione delle banche

Verosimilmente si può concludere che l’aumento dei tassi d’interesse da parte delle banche centrali è stato l’aspetto contingente che ha fatto da detonatore a una situazione perennemente a rischio di esplosione. Oggi le banche non sono più pensate come soggetti che fanno da tramite fra chi risparmia e chi ha bisogno di soldi, ma come macchine congegnate per permettere ai loro azionisti e agli speculatori di potersi arricchire con qualsiasi mezzo. La soluzione sarebbe il ritorno alla funzione sociale delle banche, ma a quel punto dovremmo rimettere in discussione tutto: compiti, vigilanza e proprietà.

Francesco Gesualdi

 




Cina: esempio per l’Africa?


La Cina ha lanciato nel 2013 la Nuova via della seta, un progetto di cooperazione economica a livello planetario. E l’Africa è un continente chiave. Sia perché ha grandi riserve di materie prime, sia perché, con la sua popolazione giovane, è un mercato in espansione e la futura fabbrica del mondo. La strategia dell’impero di mezzo sta cambiando. E un libro ci rivela come.

«Nell’ultimo anno, a causa della guerra in Ucraina, l’aspetto politico della strategia cinese è emerso in maniera preponderante, ancora più di quello economico. Quello dei rapporti tra Cina e Africa mi sembra un argomento importante, anche per l’Italia, per cui ho deciso di approfondirlo». Chi parla è Alessandra Colarizi, sinologa e analista, con una grande esperienza, tra l’altro, come autrice per testate italiane ed estere, su questioni cinesi. Alessandra ha vissuto diversi anni in Cina, dove ha iniziato, nel 2016, a fare parte del collettivo «China Files» (vedi in fondo a questo testo), per poi diventarne coordinatrice editoriale.

Si è specializzata sui rapporti tra la Cina e i paesi membri della Belt and Road initiative (Bri, detta anche la nuova via della seta), affrontando prima la questione dell’espansionismo cinese in Asia centrale e poi, in tempi più recenti, in Africa. È da questo interesse che nasce «Africa rossa», il suo ultimo libro.

Il volume presenta un vasto studio delle relazioni tra l’impero di mezzo e il continente africano, a partire da alcuni aneddoti storici, tracciando il percorso degli ultimi decenni, fino ad arrivare a descrivere come la strategia si è modificata, e si sta muovendo.

«Africa rossa» è un testo notevole, che ha il pregio di tentare un approccio a 360 gradi della questione. Si consideri, inoltre, che in Italia mancava un approfondimento sul tema da diversi anni.

Leggendolo si scopre che la Cina, dal 2009, è diventata il primo partner commerciale del continente, e che nel 2021 l’interscambio ha raggiunto i 254 miliardi di dollari. La Cina detiene il 14% del debito sovrano dell’Africa.

Abbiamo avuto un colloquio online con Alessandra Colarizi, per parlare di questo suo lavoro.

The 26th Chinese medical team to Benin/Handout via Xinhua (Photo by Ai Fumei / XINHUA / Xinhua via AFP)

Retorica cinese

La Cina si è sempre posta, rispetto ai paesi africani, su un piano di uguaglianza: ex colonizzati, tutti paesi emergenti, sebbene sia la seconda economia mondiale. Ma il rapporto è, indubbiamente, asimmetrico.

«È una contraddizione in termini quella cinese. Il Paese compie piccoli gesti che mettono in mostra l’intenzione di porsi in modo diverso dall’Occidente. Caso simbolo è quello delle Comore, (stato indipendente composto da tre piccole isole nel canale di Mozambico, ndr), dove la Cina ha aperto un’ambasciata, e dove recentemente si è recato il ministro degli Esteri cinese.

Questo mostra una certa sensibilità della Cina. Penso, inoltre, che il comportamento dell’Occidente faccia gioco della strategia cinese. C’è molto risentimento verso alcuni paesi ex colonizzatori. Se ci fosse un comportamento diverso, l’attenzione degli stati africani verso la Cina forse sarebbe minore.

È chiaro che, nell’atteggiamento cinese, c’è molta retorica, ma allo stesso tempo, la strategia è portata avanti con i fatti. Ovvero: attenzione diplomatica, seguita da investimenti».

Alessandra ricorda che ci sono alcune questioni trascurate nel rapporto Cina-Africa: «Poi si può passare sopra ad alcune problematiche. Penso a quelle culturali, alla scarsa accettazione reciproca dal punto di vista umano, agli attacchi razzisti contro i cinesi presso alcune miniere in Africa, o dei quali sono stati vittime gli studenti africani in Cina. Sono problemi giganteschi, che però sono insabbiati a causa di un interesse maggiore».

Per decenni in Africa hanno avuto influenza quasi esclusiva i paesi ex colonizzatori (Francia, Regno Unito, Portogallo), con l’aggiunta di Usa e Urss durante la guerra fredda. Da una ventina di anni a questa parte, invece, gli attori in campo si sono moltiplicati. Oltre alla Cina, è presente con un certo peso la Turchia, e poi l’India, le monarchie del Golfo (come Qatar ed Emirati arabi uniti), e infine la Russia di Putin con una presenza di tipo militare non ufficiale (cfr. MC novembre 2022). Ogni paese con un approccio diverso.

Colarizi scrive in Africa rossa: «Per Washington l’Africa continua ad avere le sembianze di un ring da cui buttare fuori le sfidanti – Cina e Russia – accusate di agire con intenzioni predatorie». Le chiediamo se tra queste potenze straniere, che si incrociano in Africa, ci possa essere anche collaborazione, oltre che competizione.

«Ufficialmente la Cina promuove la cooperazione nei paesi terzi, come è scritto nel memorandum sulla Bri, firmato dall’Italia nel 2019. Aveva invitato Francia e Germania a portare avanti progetti insieme. La Cina collabora con realtà occidentali fino dai primi anni ‘90, in alcuni settori dello sviluppo.

Nel momento in cui gli Usa e l’Europa spingono per dei progetti che prenderebbero il posto della Cina, e non sono aperti a investimenti cinesi, allora diventa una competizione».

«Per quanto riguarda i rapporti con le potenze emergenti, come Russia ed Emirati arabi, non c’è una grossa contrapposizione ed è bassa la possibilità che gli interessi entrino in conflitto. Questi due paesi sono focalizzati sul settore della sicurezza, nel quale la Cina sta aumentando la propria presenza con l’export di armi, ma con un interesse più rivolto all’aspetto economico che a quello militare. Quando estende le sue relazioni sul piano militare, lo fa con programmi di formazione, e solo in rapporti ufficiali. Non vedo possibilità di scontro.

L’elemento Russia è particolare, perché sappiamo che opera non solo attraverso canali ufficiali. Ci sono stati episodi recenti che hanno coinvolto anche dei cinesi, come le morti nella Repubblica Centrafricana (il 19 marzo scorso, 9 cinesi lavoratori di una miniera sono stati giustiziati; ribelli centrafricani e gruppo Wagner si rimbalzano le accuse, ndr). Questi potrebbero essere un elemento destabilizzante, che la Cina non vede con favore».

Quando ci sono elementi d’instabilità, la Cina non è mai contenta. «Con la Russia ci sono anche tentativi di cooperazione a livello ufficiale (in Africa): ci sono foto ricordo di diplomatici dei due paesi in ambasciate africane. C’è poi l’altra dimensione, la questione dei mercenari russi, nella quale non è ben chiaro dove sia il confine tra lecito e illecito.

Con gli Usa, in questa fase, non mi pare ci possano essere grandi cooperazioni».

(Photo by Tang ke / ImagineChina / Imaginechina via AFP)

Mercenari cinesi

Parlando di sicurezza, lo studio di Colarizi riporta che l’84% dei progetti della Bri è a rischio medio alto, con attacchi di varia natura al personale, e rischi di terrorismo islamista. Gran parte dei paesi africani, infatti, ha visto negli ultimi vent’anni aumentare notevolmente la propria insicurezza interna. Tutto ciò crea grossi problemi agli interessi della Cina nel continente. Inoltre: «La vocazione cinese è mantenere la stabilità».

Scopriamo da Africa rossa che anche l’impero di mezzo ha i suoi contractors: «Secondo il

think tank americano Carnegie endowment for international peace, Beijing DeWe Security Service e Huaxin Zhong An Security Group da sole controllano 35mila contractors in 50 nazioni africane». Però, ci dice Colarizi: «I contractors privati cinesi, hanno un ruolo marginale, non possono usare armi da fuoco, sono impiegati in ruoli di consulenza, supporto tecnico e prevenzione dei rischi. Interessante è una cooperazione che si sta attivando con le forze di polizia e sicurezza, a livello di addestramento e fornitura di equipaggiamento».  La sinologa ci spiega inoltre che il governo cinese ha lanciato la Global security initiative. La seconda di tre iniziative, dopo la Global development initiative e prima della Global civilization initiative di pochi mesi fa. «Si tratta di slogan, di iniziative multilaterali che vorrebbero dare un aspetto più pacifico e bonario alla Cina. Ma si basano su principi generici e sono vaghi».

Soft power dalla grande muraglia

Chiediamo all’autrice l’importanza del soft power (cioè l’abilità di guadagnare consenso internazionale grazie all’appeal culturale e valoriale, anziché attraverso la coercizione, dalla definizione del politologo statunitense Joseph S. Nye Jr., riportato da Colarizi, ndr) cinese sul continente .

La domanda che si pongono i governanti cinesi è: come accrescere il favore delle popolazioni locali nei confronti della Cina?

«Mi sembra che, al momento, il soft power sia più evidente nella sua versione tradizionale, ovvero borse di studio per attrarre giovani africani nel Paese asiatico. È il metodo migliore e più efficace per tentare di avere un impatto forte sulle generazioni future.

A livello di prodotti culturali, la Cina non ha un’industria cinematografica in grado di competere con quella statunitense o sudcoreana, anche se ci sono stati alcuni prodotti più fortunati, ma senza una grande espansione.

C’è il settore controverso della cooperazione mediatica, per la quale sono stati siglati contratti che fanno trasferire le notizie della Xinhua (agenzia stampa ufficiale di Pechino, ndr) direttamente sui media africani, senza che ci possa essere un filtro da parte di giornalisti locali. Ma non tutti i lettori sono in grado di capire qual è la propaganda».

Ci sono anche i social media, che in Africa sono molto diffusi, come ad esempio il cinese Tiktok.

«Sì, ma non so quanto impatto abbia sulla popolazione locale. C’è stato il fenomeno degli influencer cinesi che risiedono in Africa, e fanno vedere la vita dal posto sui social. In Cina sono abbastanza popolari, ma non ho un riscontro su cosa succeda in Africa».

Una nuova strategia

Si assiste, mette in evidenza Africa rossa, a un’evoluzione strategica della presenza cinese in Africa.

Fino a un decennio fa si trattava prevalentemente di costruire infrastrutture e invadere il mercato di manufatti cinesi in sovraproduzione, facendosi pagare in materie prime da portare in patria per alimentare l’industria. Questo approccio ha creato un forte indebitamento degli stati africani, che per motivi diversi, tra i quali l’instabilità sociopolitica, hanno difficoltà a pagare.

Oggi si tratta di esportare il modello cinese, che prevede, tra l’altro, la creazione di Zone economiche speciali (Zes, aree con facilitazioni legislative e fiscali, create per attrarre investimenti stranieri) come quella di Shenzhen.

Fondamentale è questo passaggio del libro: «Abbiamo visto la Cina, riconoscendo se stessa nell’Africa, tende a replicare quanto già collaudato con successo durante il proprio percorso di crescita e sviluppo. Lo ha fatto in passato con la realizzazione di infrastrutture di trasporto in cambio di materie prime. Ci ha riprovato in seguito coniugando la costruzione di aree residenziali, Zes e distretti industriali. Il tutto con l’obiettivo di creare un ecosistema urbano integrato per risolvere il grande dilemma: a differenza della versione cinese l’urbanizzazione africana non è stata accompagnata da uno sviluppo industriale in grado di sostenere la crescita economica del continente. Per porre rimedio, negli ultimi dieci anni lo sviluppo di Zes e parchi industriali è diventato uno dei pilastri della collaborazione sino africana, con un focus particolare sul settore manifatturiero e il trasferimento di tecnologia. Nel 2020 erano già 25 le zone di cooperazione economica istituite dalla Cina e potenzialmente capaci di elevare il continente da fornitore di commodities a esportatore di prodotti industriali».

La svolta

«In Africa – ci spiega Colarizi – il prezzo della mano d’opera è ancora basso, mentre in Cina è in aumento. Inoltre, nell’ultimo anno è stato firmato un accordo per abbattere le tariffe doganali di molti prodotti da diversi paesi in via di sviluppo.

I leader cinesi stanno puntando sul settore agricolo, perché sanno che l’Africa ha un grande potenziale, che si può sviluppare. Stanno investendo in formazione, export di macchinari che possono aiutare i paesi del continente a rendere più produttive le coltivazioni. È anche il settore sul quale hanno ricevuto richieste da parte degli africani».

L’export africano, soprattutto di prodotti alimentari, è dunque aumentato verso la Cina, e si tratta di un’inversione di tendenza, segno di un grande cambiamento.

Colarizi: «Recenti dati sull’export cinese verso paesi emergenti, dicono che c’è un aumento del 30% di semilavorati, che vengono poi utilizzati nel manifatturiero. Questo da l’idea che ci sia l’intenzione di rafforzare lo sviluppo industriale».

Allora la Cina è un esempio per i paesi africani? «C’è l’intenzione da parte della Cina di replicare il proprio modello, anche se io non ci vedo un tentativo di imposizione dall’alto. Piuttosto una proposta. È come se i cinesi dicessero: “il nostro modello ha funzionato da noi, però non è detto che funzionerà da voi. Seguite il vostro percorso, trovate la vostra strada, sperimentate e non è escluso che ce la farete”».

Marco Bello

Ponte Generale Seyni Kountché, realizzato dai cinesi, inaugurato nel 2022, Niamey, Niger. Foto Marco Bello

 Cina-Africa su MC

China Files

  • È un collettivo di giornalisti, sinologi ed esperti di comunicazione specializzati in affari asiatici. Nata a Pechino nel 2008 come agenzia stampa focalizzata sulla Cina si è ampliata fino a coprire l’intera Asia. Ha già collaborato con MC.
  • Alessandra Colarizi, tra l’altro, cura la rubrica Africa rossa, per aggiornare sulle dinamiche tra Cina e i paesi del continente.
  • www.china-files.com

 

 

 




La fine dell’acqua


Consumi eccessivi, inquinamento, cambiamenti climatici. L’acqua è una risorsa sempre più scarsa. Già oggi, oltre due miliardi di persone non ne dispongono a sufficienza. Senza immediati cambi di direzione la situazione è destinata ad aggravarsi.

Fino a ieri ci preoccupavamo per la fine del petrolio, oggi ci preoccupiamo per la fine dell’acqua. Con una differenza: i servizi resi dal petrolio possono essere sostituiti da altre risorse, quelli forniti dall’acqua sono unici.

Secondo il World resources institut (wri.org),17 nazioni, ospitanti un quarto della popolazione mondiale, si trovano in una condizione di altissimo livello di stress idrico, in quanto agricoltura, industria e abitazioni assorbono ogni anno più dell’80% dell’acqua disponibile. Fra essi la Tunisia, la Turchia, perfino la Spagna. Altri 40 paesi, che ospitano un altro terzo della popolazione mondiale, sono ad alto livello di stress idrico, in quanto consumano più del 40% delle loro disponibilità di acqua. Fra essi anche l’Italia, gli Stati Uniti, l’Australia, la Cina, l’India. In conclusione, metà della popolazione mondiale vive una severa scarsità d’acqua per almeno una parte dell’anno.

Visibile o nascosta

Di per sé l’acqua è una risorsa rinnovabile che, in teoria, non dovrebbe scarseggiare. Ma, come ogni altra risorsa, ha anch’essa i suoi ritmi e le sue regole che, se violate, mandano in crisi l’intero equilibrio. Quando parliamo di acqua dolce il nostro immaginario corre ai fiumi e ai laghi, ma il 99% dell’acqua dolce presente sul nostro pianeta è nascosta: per il 69% si trova nelle calotte polari e nei ghiacciai di montagna, ed è praticamente inutilizzabile. Un altro 30% si trova nel sottosuolo, ed è da lì che estraiamo gran parte dell’acqua che consumiamo. Ad esempio, le acque sotterranee forniscono il 49% di tutta l’acqua impiegata a livello mondiale per usi domestici e il 25% di quella utilizzata per l’irrigazione dei campi. Anche in Italia le acque del sottosuolo giocano un ruolo fondamentale, dal momento che forniscono l’85% dell’acqua potabile.

Anche sotto il Sahara esistono vaste riserve di acqua fino a ora inutilizzate perché poste a grande profondità. La loro formazione risale a migliaia di anni fa quando, per varie ragioni, rimasero intrappolate in mezzo a strati di materiali impermeabili. Per questo sono dette falde fossili che né crescono né diminuiscono di livello in quanto prive di comunicazione con la superficie terrestre. Quelle che invece utilizziamo per i nostri consumi, oltre a trovarsi a minori profondità, hanno una conformazione geologica che permette il loro continuo ricarico con acque di superficie, siano esse piogge o acque percolanti da fiumi e laghi. Ma i tempi di ricarica solitamente sono piuttosto lenti, per cui bisogna fare molta attenzione a quanta acqua si preleva. Quanto ai fiumi e ai laghi, i tempi di ricarica sono più veloci ma, in caso di fenomeni meteorologici avversi, la loro situazione può farsi critica da un mese all’altro perché il loro livello è direttamente dipendente dalla quantità di piogge che cadono e da come si comportano le nevi.

Oggi la sete di acqua da parte dell’umanità è più che raddoppiata rispetto agli anni Sessanta come conseguenza dell’aumento della popolazione e del desiderio di crescita economica. E mentre l’agricoltura assorbe il 70% di tutta l’acqua prelevata, e l’industria il 19%, anche l’acqua consumata in ambito domestico sta crescendo considerevolmente.

Secondo il World resources institut dal 1960 al 2014 l’aumento sarebbe stato del 600%, pur registrando ancora due miliardi di persone senza accesso ad acqua sicura e quattro miliardi di individui senza adeguati servizi igienici. Foto di un mondo attraversato da disuguaglianze a ogni livello. Tant’è che, mentre in America il consumo medio di acqua in ambito domestico è di 370 litri pro capite al giorno e in Europa di 124 litri, in Africa subsahariana arriva a malapena a 15 litri.

La siccità si espande e aggrava. Foto Jody Davis-Pixabay.

Inquinamento e clima

Il consumo è solo uno degli aspetti che incidono sulla disponibilità di acqua. Un altro è l’avvelenamento di fiumi, laghi e falde. Al primo posto sul banco degli imputati c’è il nostro assetto produttivo, sia di tipo industriale che agricolo. Un dossier pubblicato nel 2020 da Legambiente, dal titolo «H2O la chimica che inquina l’acqua», rivela che, dal 2007 al 2017, in Italia è stato immesso nei corpi idrici un totale di ben 5.622 tonnellate di sostanze chimiche riconducibili a metalli pesanti, sostanze organiche clorurate e pesticidi. Non c’è regione d’Italia che non abbia da raccontare la propria storia di avvelenamento. Il rapporto di Legambiente ne cita 46 relative agli ultimi 30 anni. Di particolare peso l’inquinamento da pesticidi (erbicidi e antiparassitari) che, essendo cosparsi direttamente sui suoli e nell’aria, finiscono più facilmente nei corsi d’acqua e nelle falde, grazie alla percolazione e all’effetto dei venti.

L’indagine condotta dall’Ispra nel 2020 su 4.388 punti di campionamento, ha trovato la presenza di pesticidi nel 55,1% delle acque superficiali monitorate e nel 23,3% delle acque sotterranee. Le sostanze rinvenute sono 183, rappresentate per la maggior parte da erbicidi. Fra essi anche l’atrazina, proibita già dal 1992, a dimostrazione di come gli inquinanti persistano a lungo nell’ambiente.

Intanto nuove minacce si affacciano all’orizzonte. In particolare la contaminazione da microplastiche che non riguarda solo i mari, ma anche i fiumi e le falde sotterranee. A questo riguardo la legge non ha ancora assunto iniziative significative forse perché non sa cosa fare.

Tuttavia, la minaccia di ultima generazione che più preoccupa si chiama cambiamenti climatici. Com’è noto, a causa dell’accumulo di anidride carbonica in atmosfera provocato dal nostro consumo eccessivo di combustibili fossili e dal numero spropositato di allevamenti animali che rilasciano enormi quantità di metano, negli ultimi 100 anni si è avuto l’aumento della temperatura terrestre di 1,1 gradi centigradi con ripercussioni sui venti, sugli spostamenti di aria fredda e aria calda e quindi sulle piogge. Nel 2015 tutti i paesi del mondo firmarono lo storico accordo di Parigi per impegnarsi ad agire per non fare crescere la temperatura terrestre oltre il grado e mezzo centigrado. Ma, a distanza di sette anni, non si vedono ancora passi significativi ed è alta la paura che il limite venga oltrepassato facendo avverare ciò che i climatologi hanno sempre pronosticato. Ossia il verificarsi di eventi estremi con zone del mondo che andranno incontro a inondazioni per eccesso di piogge e zone che invece andranno incontro a processi di desertificazione per assenza di precipitazioni. La zona del Mediterraneo, assieme all’Africa subsahariana e a vaste aree delle Americhe, sono le aree in cui le piogge si diraderanno sempre di più, come del resto l’Italia sta già sperimentando.

Senza pioggia, senza neve

L’Istat certifica che, nel 2020, la precipitazione totale annua nei capoluoghi di provincia è stata pari a 769 mm, in media 94 mm in meno sul valore medio 2006-2015. Differenze negative si registrano in 79 città con in testa Napoli (meno 423,5 mm), Catanzaro (meno 416), Pordenone (meno 401,3).

Sull’arco alpino, sopra il nord est e sulla pianura Padana, non cade seriamente acqua da oltre due anni. Nell’inverno appena trascorso la neve si è ridotta del 75% rispetto alla media degli ultimi dieci anni. Le temperature medie si sono alzate di oltre tre gradi e i ghiacciai si stanno squagliando.
Secondo il Comitato glaciologico italiano, negli ultimi 50 anni la superficie dei ghiacciai del nostro paese ha registrato una perdita del 30% con gravi conseguenze per la ricarica dei fiumi, soprattutto durante la stagione estiva. In questo 2023, già a febbraio, il Po ha registrato un calo della portata del 70% a causa della riduzione massiccia di piogge.

Di fronte ai problemi di difficile soluzione, la politica ha la tendenza a mettere la testa sotto la sabbia e, quando proprio deve fare qualcosa, si limita ad aspetti contingenti. Ad esempio, nell’aprile 2023, di fronte a una crisi idrica che aveva già procurato milioni di euro di danni all’agricoltura, il governo italiano ha deciso di intervenire nominando un commissario straordinario fondamentalmente incaricato di aumentare le riserve ripulendo dighe e invasi di acqua. E volendosi spingere un po’ più in là, attivando altri desalinizzatori oltre quelli già esistenti. Ma basterà? E soprattutto: funzionerà? La ripulitura degli invasi non aumenta la disponibilità di acqua, piuttosto cerca di evitare carenze catastrofiche durante i mesi più siccitosi. Quanto ai desalinizzatori, essi aumentano senz’altro la disponibilità d’acqua, ma a quale costo? Per togliere il sale dall’acqua marina ci vuole energia elettrica, una risorsa energetica a cui si fa sempre più riferimento per qualsiasi tipo di attività: non solo l’illuminazione, l’alimentazione di elettrodomestici e delle attività industriali, ma anche il funzionamento dei computer, il riscaldamento, la mobilità. Un’energia elettrica che dovremo ottenere esclusivamente da fonti rinnovabili, ossia sole e vento, se non vorremo finire travolti dai cambiamenti climatici o vivere nell’incubo degli incidenti nucleari. Ma riusciremo a produrne abbastanza per un fabbisogno che cresce?

In Europa l’energia elettrica da sole e vento rappresenta appena il 22% del totale, dunque c’è ancora molta strada da fare anche solo per sostituire i consumi attuali. E quanti pannelli e quante pale eoliche serviranno quando l’energia elettrica dovrà sostituire anche il gas e la benzina che utilizziamo per il riscaldamento domestico e per i motori delle nostre auto? Nel caso dei desalinizzatori, poi, c’è anche il problema dei sali che accumulano dietro di sé. Dove buttarli? In mare è la prima risposta. Ma per quanto tempo vorremo continuare a fare scelte di cui non conosciamo gli effetti nel lungo periodo? Evidentemente, la lezione dei cambiamenti climatici non ci ha ancora insegnato nulla.

Il ghiacciaio del Denali in Alaska. Anche qui i ghiacciai sono in ritirata. Foto Joris Beugels-Unspash.

L’acqua persa per strada

In ogni caso, prima di scomodare il mare, faremmo bene a recuperare l’acqua che perdiamo. Quella delle tubature idriche, prima di tutto. L’Istat certifica che, a causa di tubature fatiscenti, in Italia perdiamo il 42,2% di tutta l’acqua immessa in rete. Il volume di acqua disperso nel 2020 soddisferebbe le esigenze idriche di oltre 43 milioni di persone per un intero anno. Secondo studi citati dall’Istituto Ambrosetti, l’ammodernamento del sistema idrico italiano richiede investimenti per 65 miliardi di euro, ma il Pnrr ne ha stanziati solo 2,9.

Fra le acque che perdiamo non dobbiamo dimenticare quelle piovane che scivolano sui nostri tetti e finiscono nelle fogne. Si tratta di enormi masse di acqua che potremmo recuperare dotando le case di cisterne. Una pratica che sta tornando in uso in vari paesi europei come mostrano i casi di Germania, Francia, Austria. Acqua utilizzata per annaffiare i giardini, per lavare le auto, ma anche per gli scarichi dei Wc.

Va comunque tenuto conto che nessun rimedio rispetto all’acqua può prescindere da un altro imperativo che è quello di ridurre, ricordandoci che consumiamo acqua non solo quando ci laviamo o cuciniamo, ma anche quando ci nutriamo, ci vestiamo, ci illuminiamo. Ci vogliono 1.500 litri di acqua per ottenere un etto di carne di manzo, 2mila litri per una maglietta di cotone, 14mila litri per un paio di stivali in cuoio. Se mettiamo insieme tutta l’acqua che sta dietro a ciò che consumiamo viene fuori una media giornaliera di 5mila litri al giorno pro capite per noi abitanti dell’emisfero benestante.

Il dopante della tecnologia

Dunque, l’acqua si salva anche accettando di produrre e consumare di meno in ogni ambito del nostro vivere civile. Ma da quest’orecchio non ci sentiamo, non solo perché siamo attaccati a un’idea di benessere che si misura solo in termini di consumi, ma anche perché la crescita è il motore di questo sistema, non solo da un punto di vista economico, ma anche sociale come mostra il tema dell’occupazione.

Non volendo affrontare il vero nocciolo della questione, ci arrampichiamo sugli specchi della tecnologia ormai elevata a livello di idolo: desalinizzare l’acqua marina, sequestrare l’anidride carbonica, riprodurre il sole in laboratorio.

Ma la tecnologia da sola non ci salverà. Al contrario, rischia di diventare il dopante che ci conduce alla morte. Meglio accettare il senso del limite e cominciare a chiederci come riorganizzarci in modo da garantire una vita dignitosa a tutti utilizzando meno risorse possibile, producendo meno rifiuti possibile e lavorando quanto basta. Dobbiamo affrettarci, il tempo stringe.

Francesco Gesualdi

In Italia, le tubature idriche sono un anello debole della distribuzione dell’acqua: troppo perdite. Foto Daniel Kirsch-Pixabay.

 




La società-supermercato: lavora, guadagna, spendi


Nelle società attuali, il baratro della povertà è sempre incombente. Per tutti. Una possibile soluzione sarebbe il reddito universale. Tuttavia…

Nella società del supermercato, la possibilità di sprofondare nella povertà è sempre in agguato. Per tutti. Basta una ristrutturazione, una delocalizzazione, una recessione mondiale e tutto vacilla. In particolare vacillano i posti di lavoro che rappresentano la base della sopravvivenza per la maggior parte della popolazione.

Il discorso è vecchio: da quando l’economia è finita sotto il dominio dei mercanti, che hanno assunto anche il ruolo di produttori, è stato fatto ogni sforzo per espropriare le persone di qualsiasi modo di provvedere a se stesse, in modo da costringerle a non avere altra soluzione se non quella di vendere il proprio lavoro in cambio di un salario. Così è stata costruita la società del supermercato che funziona secondo l’imperativo: «lavora, guadagna, spendi».

Profitti e guerra tra poveri

Le imprese hanno un rapporto di odio con il lavoro perché esso è un diretto antagonista dei profitti. Per questo, fin dal sorgere della rivoluzione industriale le imprese si sono organizzate per abbattere il costo del lavoro, attraverso la doppia strategia dell’eliminazione e della riduzione: l’eliminazione del lavoro umano; la riduzione dei salari. La politica dell’eliminazione passa dallo sviluppo tecnologico con l’obiettivo di avere una predominanza della macchina sull’umano fino a creare linee produttive totalmente gestite da robot. La politica della riduzione salariale è più articolata e arriva fino a comprendere truffe, angherie, eversione contributiva. In questo, l’Italia è maestra: il 10,5% della ricchezza prodotta annualmente è ottenuta in nero.

L’arma prediletta per vincere la partita della riduzione salariale è però l’innesco della guerra tra poveri. Considerandolo una merce al pari di un cavolo o di un cappotto, il sistema pretende che anche il lavoro umano sia sottomesso alla legge della domanda e dell’offerta. Di qui l’interesse affinché il numero di persone che chiede lavoro sia sempre più alto dei posti disponibili. In altre parole, il mercato ha interesse a mantenere cronicamente un alto tasso di disoccupazione. I sindacati lo sanno: quando fuori dalle fabbriche c’è una lunga fila di persone che chiedono di essere assunte, non c’è nessuna speranza di far crescere i salari che anzi scenderanno. E se, fino a ieri, la strategia per creare disoccupazione era l’automazione, con la globalizzazione si è aggiunto

il trasferimento della produzione in altri paesi. Approfittando di un mondo terribilmente disuguale a causa di iniquità secolari, le imprese hanno cominciato a trasferire le produzioni meno qualificate e a più alta intensità di mano d’opera in paesi dove i salari sono dieci, venti, addirittura trenta volte più bassi che nei vecchi paesi industriali. E mentre in Europa, America del Nord, Giappone, si andavano perdendo milioni di posti di lavoro, un nuovo tipo di concorrenza si è impadronita del mondo. È la concorrenza fra lavoratori: i cinesi contro gli indonesiani, i bengalesi contro i cambogiani, gli italiani contro i polacchi, tutti contro tutti in un’assurda corsa al ribasso per accaparrarsi i pochi posti disponibili. Con grande soddisfazione della classe padronale che ora ha buon gioco a ricattare i lavoratori più pretenziosi, tacciandoli addirittura per privilegiati.

L’incubo della povertà. Foto Alĕs Kartal – Pixabay.

Da diritto a privilegio

La trasformazione dei diritti in privilegi è forse la forma più raffinata di manipolazione lessicale attuata dall’1% dell’umanità per soggiogare il restante 99%.

I risultati li conosciamo. Mentre in Italia la disoccupazione è attestata all’8% e quella giovanile attorno al 24%, la stabilità del lavoro non esiste più. Il contratto a tempo indeterminato è diventato un sogno irraggiungibile che in ogni caso deve prima passare per le forche caudine di innumerevoli contratti temporanei che permettono alle imprese di sbarazzarsi di chiunque provi a rivendicare i propri diritti. È tornato il lavoro a cottimo, il lavoro a chiamata, il subappalto, il falso lavoro autonomo che libera le imprese committenti dall’obbligo dei versamenti assicurativi e contributivi. In conclusione, se un tempo i poveri erano essenzialmente i senza lavoro, oggi se ne trovano tanti che, statisticamente parlando, sono classificati come occupati. Sono i cosiddetti «working poors», persone povere nonostante lavorino. Una definizione coniata dall’Organizzazione internazionale del lavoro negli anni Novanta per denunciare il lavoro malpagato nel Sud del mondo, che oggi, però, coinvolge anche il mondo ricco, con tassi preoccupanti.

I criteri di misurazione della povertà tengono conto di vari aspetti, fra cui il salario orario, le ore di lavoro, il carico familiare, per cui fornire un indicatore semplificato di livello di povertà è praticamente impossibile. Tuttavia, un rapporto del ministero del Lavoro, pubblicato nel novembre 2021, informa che, in Italia, un quarto dei lavoratori ha una retribuzione individuale bassa e più di un lavoratore su dieci si trova in situazione di povertà (cioè, vive in un nucleo con reddito netto equivalente inferiore al 60% della mediana). A questo va aggiunto che, secondo l’Istat, in Italia 8,8 milioni di individui (14,8% della popolazione) sono classificati come «poveri relativi», cioè hanno un livello di consumo inferiore al 50% della media nazionale. Di questi, oltre la metà (5,6 milioni di individui) sono addirittura «poveri assoluti», ossia non riescono a soddisfare neanche i bisogni fondamentali.

Contro la povertà

Questi dati ci dicono che urgono interventi contro la povertà che, a mio avviso, debbono muoversi su tre piani.

Il primo è quello del «tamponamento»: chi non dispone dei mezzi per vivere deve essere soccorso in maniera appropriata dalla struttura pubblica che deve organizzare l’aiuto in una logica di redistribuzione. Paolo Acciari e altri ricercatori hanno appurato che, in Italia, la quota di ricchezza privata posseduta dal 50% più povero (circa 25 milioni di individui) è retrocessa  dall’11,7%  nel 1995 al 3,5% nel 2016. Nello stesso periodo la quota dell’1% più ricco è salita dal 16% al 22% con beneficio soprattutto per lo 0,01% posto all’apice della piramide, appena 5mila individui, che hanno visto la propria quota crescere dall’1,8% al 5% del patrimonio totale. Tradotto in termini monetari, ciascuno di loro è titolare di un patrimonio medio pari a 83 milioni di euro, un valore 473 volte più alto della media nazionale.

Uno stato serio tiene l’attenzione costantemente puntata sul livello delle disuguaglianze e interviene tramite il fisco, il sostegno ai più poveri e il rafforzamento dei servizi, per riequilibrare le cose. In Italia le risorse per soccorrere i più poveri ci sono. Bisogna semplicemente avere il coraggio di andarle a prendere dove si trovano, ossia nelle tasche dei ricchi. Molto spesso, invece, si preferiscono fare operazioni stile capitalismo compassionevole che soccorre i poveri tramite l’apertura di nuovo debito pubblico. Esattamente come hanno fatto gli ultimi governi che hanno finanziato il reddito di cittadinanza a debito, ossia buttando il peso finanziario sulle spalle delle generazioni future. Scelta «vigliacca» di chi non vuole inimicarsi nessuno e governa alla giornata senza un progetto di società di lunga durata.  Dopo il soccorso, deve venire il sostegno all’autonomia e se decidiamo che la via dell’autosostentamento è quella del lavoro salariato, allora bisogna intervenire affinché il lavoro sia dignitoso. Non può essere, come succede oggi, che al senza reddito sia imposto l’accettazione di qualsiasi lavoro, qualcunque esso sia, sotto minaccia di sospensione di ogni forma di assistenza. Questa politica non fa altro che perpetuare la povertà. Al senza reddito bisogna offrire delle proposte di lavoro, ma deve trattarsi di lavoro dignitoso. Ecco perché il secondo piano di intervento di lotta alla povertà è l’imposizione alle imprese di nuove regole in materia di assunzione, di licenziamento, di tutela delle libertà sindacali e anche di salario minimo. In Italia abbiamo retribuzioni contrattuali, quindi legali, anche di cinque euro l’ora e chiunque le percepisca è condannato alla povertà, anche se lavora a tempo pieno. Dunque, va fissata per legge una soglia di salario minimo, sufficiente, come dice l’articolo 36 della Costituzione, ad «assicurare al lavoratore e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa».

Contemporaneamente, bisogna intervenire per ridurre, per legge, l’orario di lavoro, in modo da ripartire fra tutti il lavoro esistente. Le macchine stanno espellendo persone dai posti di lavoro e se di lavoro ne serve di meno dobbiamo ridurre la giornata lavorativa in modo da includere tutti. Keynes lo aveva già detto quasi cento anni fa. Tuttavia, sta crescendo anche il movimento di chi vorrebbe ripartire il reddito anziché il lavoro.

L’incubo della povertà. Foto Wilhan José Gomes – Pixabay.

Il reddito universale

È la proposta del reddito di base universale: un assegno dello stesso importo staccato a favore di tutti, vita natural durante, indipendentemente dall’età, dal sesso, dalla situazione occupazionale e perfino dalla ricchezza. Una proposta che ha il merito di dichiarare tutti i cittadini uguali perché riconosce a tutti il diritto di ricevere un minimo vitale senza dover fornire nessuna altra giustificazione se non quella di esistere. Positiva anche perché porrebbe fine all’apartheid nei confronti dei lavori domestici e di cura della persona, che oggi non hanno alcuna considerazione sociale. Per di più potrebbe operare miracoli sul piano della qualità della vita, sia per la ritrovata sicurezza nei confronti della precarietà generata dal mercato, sia per la recuperata libertà di poter dedicare del tempo allo studio, al fai da te, alle relazioni affettive e sociali.

Il reddito di base potrebbe però essere letale per le casse pubbliche. È stato calcolato che, per garantire in Italia un reddito universale di 10mila euro all’anno, una cifra di poco superiore alla linea della povertà relativa, non a tutti, ma ai soli maggiorenni, ci vorrebbero 480 miliardi di euro, l’85% delle entrate tributarie. Che significherebbe la scomparsa dello stato come agente economico, col risultato di una società più insicura perché lascerebbe i cittadini soli di fronte ai bisogni fondamentali che non possono essere affrontati individualmente: alloggio, istruzione, sanità, infrastrutture. La conclusione sarebbe che chiederemmo allo stato di immolarsi sull’altare di un’azione redistributiva a esclusivo vantaggio del mercato, perché avremmo cittadini con più capacità di consumo individuale, ma totalmente sprovvisti di solidarietà collettiva, con grande gioia di banche e assicurazioni.

Servizi pubblici gratuiti

Personalmente, piuttosto che inseguire sogni impossibili, preferirei utilizzare le risorse disponibili per rafforzare i servizi pubblici da garantire gratuitamente a tutti. Non solo istruzione e sanità, ma anche acqua, energia, alloggio, trasporti. Una scelta che avrebbe un doppio vantaggio: per la sicurezza delle persone, e per l’occupazione. Per la sicurezza, perché quando si ha la garanzia dei bisogni fondamentali, non serve molto altro denaro per vivere. Per l’occupazione perché per produrre servizi serve personale. Il che smonta lo stereotipo secondo il quale solo le aziende private creano occupazione. In realtà, se la comunità si convincesse che è suo dovere garantire i bisogni fondamentali a tutti, diventerebbe il più importante motore di lavoro. La conclusione è che, se la comunità decidesse di diventare imprenditrice di se stessa per i bisogni fondamentali dei cittadini, libererebbe tutti dalla povertà e offrirebbe a tutti un’occupazione garantita.

Francesco Gesualdi




Niger: la via dei giovani africani


Niger, Niamey, micro entreprise Nutrisat, de Esther Dossa Godo

Sommario

Niger, Niamey, micro entreprise Sonix automobile de Abdoul-Razak Halidou Moussa.

Introduzione: Nuove speranze per l’Africa

Mentre in Niger (e nel Sahel) la situazione economica e sociale si deteriora, le forze vive della nazione si organizzano e creano lavoro per sé e i loro coetanei.

Il Niger è uno dei paesi più poveri del mondo (secondo i parametri delle Nazioni Unite), ma è diventato anche uno snodo strategico fondamentale, per Europa e Africa. I migranti da Africa dell’Ovest e Africa centrale convergono qui, e tentano l’attraversamento del Sahara passando da Algeria o Libia, diventando merce di traffico per gruppi più o meno armati. In Libia i migranti sono incarcerati e torturati, in Algeria spesso arrestati ed espulsi, abbandonati in pieno deserto, in Niger, appena oltre frontiera.

Il Niger è anche incastrato in un’area a elevata instabilità. Mali, Burkina Faso, Ciad, sono oggi paesi diretti da giunte militari. La Nigeria è il gigante africano più problematico a livello sociale.

In quest’area combattono e occupano porzioni di territorio gruppi armati appartenenti a diverse galassie jihadiste: Al Qaeda, Stato Islamico, Boko Haram (vedi bibliografia sul sito MC). L’Unione europea e i suoi paesi membri firmano accordi con il governo del Niger (un tempo sconosciuto, oggi ben noto a Bruxelles e alle cancellerie occidentali), e inviano truppe, blindati, elicotteri, soldi.

Ma in questo dossier è un’altra la storia che vogliamo raccontare. È quella di giovani africani che, consapevoli di non trovare un impiego nel loro paese, si inventano loro stessi un lavoro. Diventano imprenditori, sovente con un approccio «green» rispettoso dell’ambiente, come solo i giovani sanno fare. Tutti con una grande passione, e un sogno che spinge per realizzarsi. Spesso hanno successo e riescono pure a dare lavoro a loro coetanei. Ci raccontano come sono nate le loro imprese, i primi passi e le difficoltà. E quali sono i loro piani per il futuro.

Che sia questa la via per l’Africa?

Ma.Bel.

Niger. Niamey. micro entreprise Yalis, de Blandine Akitan

Niger: Migranti, militari, jihadisti. la situazione

Il dialogo contro le armi

Crocevia di flussi migratori, terra di scorribande jihadiste, il Niger vede aumentare la presenza di eserciti stranieri (formali e non) sul suo territorio. Paese strategico, cerniera tra l’Africa continentale e gli stati sulla sponda del Mediterraneo, è corteggiato da Unione europea e alcuni suoi paesi membri, tra i quali l’Italia. Ma c’è chi dice: non è l’opzione militare che risolverà la crisi.

Atterriamo a Niamey nel pomeriggio. Per la prima volta, uscendo dall’aereo, non mettiamo il piede direttamente sul suolo africano. L’aeroporto internazionale Diori Hamani, vetrina per il viaggiatore, è oggi completamente nuovo. Una manica chiusa ci porta dall’aereo alla moderna struttura. Manchiamo dal Niger da tre anni e il nuovo edificio ci sorprende. Per fortuna, appena fuori ritroviamo il colore ocra della sabbia e degli edifici, le auto scarburate, gli asini che tirano carretti, e uomini e donne nei vestiti locali a prova di calore. Gli odori e la temperatura ci riportano velocemente a qualcosa di noto.

Il Niger occupa una superficie di 1,2 milioni di chilometri quadrati (quattro volte l’Italia), incastonati tra Sahel e Sahara, dei quali la maggior parte sono prateria arida e deserto. La popolazione, di circa 20 milioni, vive prevalentemente in una fascia a Sud del paese, lungo le frontiere con il Burkina Faso e la Nigeria, e nel tratto in cui scorre il grande fiume Niger.

Secondo l’indice di sviluppo umano del Programma nelle Nazioni Unite per lo sviluppo (che misura speranza di vita, educazione e livello economico), il Niger ha sempre occupato uno degli ultimi tre posti della graduatoria. Nel 2020 era l’ultimo su 191 paesi, l’anno dopo è stato «superato» da Ciad e Sud Sudan, salendo al terzultimo posto. Indici, non assoluti, che però ci danno un’idea grossolana del posizionamento di un paese a livello mondiale.

Sicurezza, sempre meno?

Eppure, in questi anni qualcosa è cambiato, oltre all’aeroporto. I gruppi armati della jihad islamista, che pure erano già sul terreno, oggi sono più vicini alle città e la loro presenza si sente.

Il 9 agosto 2020 in un attacco nei pressi di Kouré, il parco delle giraffe a circa 50 km da Niamey, sono morti sei ragazzi francesi, di età compresa tra i 25 e i 30 anni, operatori dell’Ong Acted, e due nigerini, l’autista di Acted, e il presidente delle guide turistiche. Dopo il massacro, il paese è stato dichiarato «zona rossa» in ambito umanitario, e gli spostamenti via terra sconsigliati o proibiti da ambasciate e Ong.

Oltre questo attacco di livello superiore, in quanto verso stranieri, la situazione si è notevolmente degradata a spese della popolazione locale.

Lungo la strada principale verso il Burkina Faso, a Ovest, si sono verificati diversi attacchi nei confronti dei civili, che fuggono dai villaggi e si radunano in alcune città.

Anche la strada che porta in Mali, a Nord Ovest, nella regione di Tillaberi, è diventata molto insicura perché teatro di frequenti blitz dei terroristi, che sconfinano dai paesi vicini e attaccano posizioni militari e villaggi.

Nell’estremo Est del paese nella regione di Diffa, invece, è sempre attivo il gruppo Boko Haram (cfr MC gennaio 2021), sulla frontiera quadrupla con Nigeria, Ciad e Camerun. Sebbene si sia diviso in più fazioni e abbia perso, al momento, aggressività.

Niger, Niamey, micro entreprise Nutrisat, de Esther Dossa Godo

Cosa fa la Chiesa

Ci troviamo nell’arcidiocesi di Niamey che si estende per circa 200 chilometri quadrati nell’Ovest del paese. «Il grande problema che abbiamo nell’arcidiocesi di Niamey sono gli sfollati, la gente che scappa dalla zona di Tillaberi (area detta delle tre frontiere, tra Niger, Mali e Burkina Faso, ndr) e anche da Torodi e Makalondi (lungo la strada verso il Burkina Faso, ndr).

I jihadisti arrivano con le moto, ammazzano, bruciano, e costringono la gente ad andarsene. Così sono migliaia che lasciano i propri villaggi e si raggruppano in luoghi più sicuri cercando di andare verso la capitale. Ad esempio, a Makalondi ce ne sono molti accampati come si può». Chi ci parla è don Giuseppe Noli, missionario fidei donum dell’arcidiocesi di Milano, da otto anni presente nel paese. Lo incontriamo nel cortile della sede diocesana, dove si sta svolgendo una chiassosa festa della minoranza anglofona, in gran parte di origine nigeriana.

«Agli sfollati manca cibo, acqua, e anche la casa. La Chiesa cerca di fare qualcosa, dare un minimo di assistenza e risolvere i bisogni di base. Inoltre c’è il problema delle scuole chiuse, alcune oramai da oltre un anno, sempre a causa degli attacchi. Così la Chiesa organizza dei corsi per i bambini fuggiti dai loro villaggi».

Don Giuseppe ci parla dell’impegno di monsignor Laurent Lompo, arcivescovo di Niamey, noto ai lettori di MC (intervista su MC aprile 2019): «Il vescovo è molto attivo sull’emergenza sfollati, e ha due punti a suo favore: è nigerino, per cui parla molte lingue locali ed è ascoltato; è libero, nel senso che non dipende da fondi statali, ma cerca finanziamenti all’estero per la diocesi. Inoltre, è una persona che parla chiaramente, senza paura».

Don Giuseppe ci esprime il suo sconcerto: «Non si capisce che strategia ci sia dietro il modo di operare dei gruppi armati, è distruttivo e non sembra che porti a qualcosa».

Eserciti stranieri

Intanto si rafforza la presenza militare straniera nel paese. Sono infatti diversi gli eserciti presenti in Niger, con la missione di lottare contro il terrorismo jihadista.

Recentemente, anche il contingente principale della missione francese Barkhane e di quella europea Takuba, di stanza in Mali da 10 anni (la prima, chiamata inizialmente Sérval), si è trasferita in Niger, perché non «gradita» all’attuale giunta militare maliana.

All’aeroporto c’è anche una base dell’esercito Usa, che, tra l’altro, impiega droni pilotati da remoto per combattere contro Boko Haram nell’Est del paese. È presente un contingente tedesco, con uomini e mezzi blindati. E, dal 2018 c’è anche una missione militare italiana, attualmente di circa 200 unità (cfr. MC marzo 2018).

Dal 2012, inoltre, è presente Eucap Sahel Niger, missione civile di esperti delle forze di polizia di paesi europei, con la missione di formare le forze di sicurezza nigerine allo scopo di combattere il terrorismo. La missione è stata recentemente prolungata fino al settembre 2024. È composta da un centinaio di esperti e ha una dotazione di 72 milioni di euro.

Una nuova missione, l’Eumpm (Missione di partenariato militare della Ue), è stata istituita dal Consiglio europeo il 12 dicembre scorso, nell’ambito della Politica di sicurezza e di difesa comune (Psdc) «per sostenere il Niger nella lotta contro i gruppi terroristici armati […] rafforzerà la capacità delle forze armate del Niger di contenere la minaccia, proteggere la popolazione e assicurare un ambiente sicuro e protetto, nel rispetto del diritto in materia di diritti umani e del diritto internazionale umanitario», si legge sul comunicato stampa. Il suo mandato durerà tre anni con un budget previsto di 27,3 milioni di euro.

Insomma, un bel po’ di militari stranieri – e di personale dei servizi segreti dei diversi paesi – che capita di incrociare nei locali di Niamey.

Combattere il terrorismo

«Tutti questi eserciti stranieri stanno perdendo il loro tempo e i loro soldi. Farebbero meglio ad andarsene», ci dice Moussa Tchangari, leader della società civile e fondatore di Alternative espaces citoyens, che incontriamo nel suo ufficio di Niamey. «La gente non vede in cosa siano efficaci, perché non hanno dato risultati, infatti i gruppi jihadisti stanno progredendo. La popolazione vede forze militari straniere, ben equipaggiate, ma non vede cosa fanno. Allora può addirittura pensare che i paesi che le inviano siano dietro a tutto quello che sta succedendo. Purtroppo, è un’idea che sta prendendo terreno. Non solo qui, ma anche in Mali e in Burkina Faso.

L’errore fondamentale del governo e dei suoi partner stranieri è di pensare che si possa risolvere il problema del terrorismo con la forza. Partendo da questa idea sbagliata, chi governa ha accettato che venissero eserciti stranieri. Questi sono venuti, perché pensano che la soluzione sia militare, ma anche perché la vedono come un’opportunità. Ma se vieni con uomini e mezzi e non porti risultati, il rischio è un effetto boomerang». Questo è quanto sta succedendo, e si inizia a percepire la diffusione di un sentimento antiimperialista in generale, a fianco di quello antifrancese storico (dovuto alla colonizzazione).

«La colonizzazione stessa è finita perché le grandi potenze non potevano preservare la loro egemonia con la forza delle armi. Sono stati vinti dai popoli colonizzati che non avevano eserciti potenti. L’errore fondamentale è credere che la soluzione sia militare, e trascurare tutte le altre opzioni».

Niger, Niamey, micro entrepreise RAM’s transformation, de Ramatou Chaibou.

Dialogo, non armi

Secondo Tchangari, i gruppi armati jihadisti sono attori politici, e «il loro obiettivo è prendere il potere». La soluzione per risolvere la crisi, secondo lui, starebbe nel riuscire a intavolare un dialogo con loro: «Se non vuoi la guerra, l’unico modo per risolvere la situazione è la discussione. Si parla con chiunque, quindi si può discutere anche con questi qui, che sono in maggioranza originari di quest’area. In ogni caso, si dovrà arrivare a farlo. Speriamo che, quando si farà, non sia troppo tardi e che non abbiano guadagnato troppo terreno».

Tchangari analizza la situazione sul campo sulla base delle sue informazioni: «D’altronde il popolo discute con loro. Siamo noi delle élite, gente di città, che ha studiato, che abbiamo problemi. La gente dei villaggi fa accordi locali con i gruppi armati. Succede in Mali e in Burkina. Qui capita che un gruppo jihadista controlli un territorio, metta delle tasse, mantenga la sicurezza, permetta agli autobus di circolare». Su questo aspetto abbiamo anche altre testimonianze a conferma: controlli di documenti di passeggeri di minibus, non da parte delle forze dell’ordine, ma di miliziani.

«Pensate che quello che vogliono fare sia un problema per il popolo? Se prendiamo un ladro gli tagliamo un braccio, se vediamo qualcuno che fa adulterio lo lapidiamo, se chiudiamo i bar, se le donne devono portare il velo, e nelle scuole si separano maschi e femmine, tutto questo, per la gente ordinaria fa parte in qualche modo della loro visione. La differenza tra il popolo e i gruppi armati, è che questi ultimi vogliono imporlo con la forza a tutti, mentre il nigerino medio pensa che sia bene, ma non vuole imporlo ai vicini».

Chiediamo allora perché ci sono i massacri e la gente scappa. «Non è sistematico. L’idea dei jihadisti criminali che vanno da un villaggio all’altro uccidendo non è la realtà. Se avessero fatto così, avrebbero fallito da tempo. Sono attori politici, che possono uccidere, ma fanno anche attenzione. In alcuni luoghi hanno commesso violazioni dei diritti, ucciso. Ci sono motivi: presenza di milizie di autodifesa, rifiuto della loro autorità. Quando andate a chiedere alla popolazione: chi vi fa più paura incontrare? L’esercito o i jihadisti? Spesso rispondono: l’esercito».

Strade migranti

Niger, Niamey, fromagerie A’masi, de Ami Issoufou Bickou

La migrazione rimane un tema caldo in Niger, per autorità locali e paesi stranieri. Tchangari ci parla della situazione attuale. Il Niger è ancora il crocevia principale dei flussi dell’Ovest e del Sud, verso Nord: Libia e Algeria, e quindi coste del Mediterraneo. Anche questo è un motivo della presenza militare europea sul suo territorio. «I numeri non sono cambiati negli ultimi anni. Ci sono ancora molte ragioni che spingono la gente a muoversi. Chi viene da Nigeria, Mali o Burkina Faso, parte a causa dell’insicurezza. Ma le motivazioni sono anche altre e i movimenti sono tanti. In generale sono le difficili condizioni economiche o sociali che spingono la gente a partire, ma non è solo materiale la motivazione alla migrazione. C’è gente che si muove perché pensa che sia bene cambiare ambiente, anche culturale. Pure dal paese più ricco la gente migra, va altrove per fare altre cose.

Penso che sia impossibile trovare il modo di tenere la gente a casa loro e fare sì che non parta».

Al momento di salutarci Moussa Tchangari ci accompagna nel cortile della sede di Alternative. Qui vediamo molti giovani indaffarati. Sono ragazzi e ragazze che seguono diverse formazioni, ci spiega il nostro interlocutore: «È bene dare quesat possibilità, ma non basta. Quello che facciamo noi non è niente rispetto alla massa dei giovani che hanno bisogno. Potrebbe diventare un’alternativa solo se si facesse su larga scala».

Marco Bello

Niger, Niamey, micro entreprise Nutrisat, de Esther Dossa Godo

Esther: donna, madre, imprenditrice

La regina della moringa

Dopo dieci anni di lavoro per altri, Esther decide di fondare la propra impresa. Si butta sul settore benessere e bio, diventa esperta di erbe e lancia prodotti innovativi. Oggi impiega sette persone e ha aperto un negozio senza aiuti esterni.

Siamo in un quartiere centrale di Niamey, su una strada di terra, non certo commerciale. Arriviamo a una boutique con insegne di colore verde e rosso. A fianco a un logo ben studiato, nel quale appare una figura umana (rossa) accanto a una foglia (verde), c’è scritto: «NutriSat», e sotto «production de produits agroalimentaires pour le bien etre de la famille» (produzione di prodotti agroalimentari per il benessere della famiglia). Un pannello più in basso elenca i prodotti che si possono reperire: «Tisane, infusioni, spezie, succhi naturali, miele puro».

Entriamo. Nel negozietto ci accoglie una giovane donna, vestita in abiti sgargianti di taglio africano e buona fattura. Non porta il velo, come invece la maggior parte delle donne del Niger che hanno superato gli otto, nove anni di età. «Sono Esther Dossa Godo, ho 34 anni e quattro figli. Sono nata e cresciuta a Niamey, ma i miei genitori sono migrati dal Benin. Ho studiato marketing e gestione d’impresa e ho lavorato per 10 anni presso privati, prima di decidere di creare la mia impresa», ci racconta Esther seduta alla sua scrivania, mentre di fronte la sua assistente si occupa della contabilità.

«Il settore che mi è subito interessato è quello della trasformazione agroalimentare di erbe per il benessere, e l’approccio “bio”. In un periodo della mia vita sono stata poco bene, e le tisane di erbe mi hanno molto aiutata. Così nel 2018 ho iniziato a provare la produzione artigianale di tisane, e l’anno successivo ho registrato la mia impresa NutriSat».

Esther ci racconta le difficoltà, avute come donna e come imprenditrice: «Siamo in Sahel, ci sono molti vincoli sociali ed economici sulle donne. Il nostro ruolo è visto come aiuto dell’uomo, in casa per cucinare, occuparsi dei figli. Quando una donna vuole affermarsi come leader o come imprenditrice si deve confrontare con diversi impedimenti a livello sociale. Io ho dovuto impormi, anche con la mia famiglia».

Niger, Niamey, micro entreprise Nutrisat, de Esther Dossa Godo

Prodotti naturali

L’elemento base utilizzato da NutriSat è la moringa. Un albero, originario dell’India, che si sta diffondendo rapidamente in Africa, e ha molte proprietà benefiche come integratore alimentare biologico: antiossidante naturale, ricco di vitamine, proteine e calcio. «Trasformiamo le foglie di moringa per farne la polvere che si mette sui cibi, e tisane di diverse qualità. Adesso stiamo studiando un prodotto nuovo da lanciare sul mercato: il succo di moringa.
Realizziamo inoltre prodotti a base di spezie, zenzero, curcuma, polvere di baobab e miele.

NutriSat non ha campi di moringa, ma siamo in partenariato con dei produttori locali e prendiamo da loro la nostra materia prima. Per loro è diventata una fonte sicura di reddito. Attualmente trasformiamo 200 chili di foglie a settimana.

Vorrei far notare che abbiamo portato una rivoluzione nella filiera della moringa. In Niger è un ingrediente di cucina e abitualmente è consumata insieme a un alimento, ma noi l’abbiamo trasformata per presentarla sotto forma di tisana. Questa è stata un’innovazione».

Esther ci tiene a dire che NutriSat punta al riconoscimento bio: «Con i produttori facciamo delle sensibilizzazioni sull’uso dei concimi e i loro effetti indesiderati, e privilegiamo il fatto che i prodotti siano trattati in modo naturale, senza pesticidi chimici. I prodotti sono bio, ma stiamo aspettando una certificazione ecocert».

Generare lavoro

Esther ci spiega che NutriSat impiega oggi sette persone, compresa la fondatrice. Ci sono dei ragazzi che si occupano della trasformazione, e altri che fanno la produzione e vendita. «Sono giovani senza formazione, noi abbiamo insegnato loro un mestiere che gli permette di avere un reddito sicuro.

Oltre a loro, abbiamo dei collaboratori: giovani che vengono a prendere i prodotti per andare a venderli. Alla fine della giornata tornano, ci danno il costo del prodotto venduto e ricavano il loro beneficio. Distribuiamo poi nei negozi che prendono i prodotti e hanno un loro guadagno».

Niger, Niamey, micro entreprise Nutrisat, de Esther Dossa Godo

Una finestra di visibilità

«All’inizio non avevamo il nostro punto vendita, e ci siamo chiesti come fare. Montavamo un banchetto allo stadio Seyni Kountché, dove vanno gli sportivi ad allenarsi. Abbiamo offerto delle degustazioni, e così ci siamo creati una clientela. Quindi abbiamo iniziato a vendere sui social

network e abbiamo creato una boutique virtuale, oltre a quella fisica mobile, che allestivamo tutti i giorni allo stadio».

Parte del ricavato ha poi permesso a Esther di costruire la boutique fissa dove ci troviamo: «Interamente fatta reinvestendo fondi dell’impresa – dice con orgoglio -. L’abbiamo lanciata a febbraio 2022».

NutriSat ha anche iniziato a distribuire tramite alcune farmacie partner, che ora sono una decina.

Ci sono poi delle piccole boutique, specializzate nella vendita di prodotti bio o naturali, che ci distribuiscono. «Stiamo andando nei paesi confinanti, e stiamo proponendo i nostri prodotti ad alcuni supermercati. Inoltre, partecipiamo alle fiere internazionali in Africa dell’Ovest, per presentare i nostri prodotti e farli degustare. Quando i clienti apprezzano, indichiamo loro il punto vendita presente nella loro città.

Oltre a questo, facciamo del porta a porta. Con i nostri giovani, andiamo nelle imprese per proporre dei prodotti e spiegarne i benefici».

Chiediamo a Esther un messaggio per i ragazzi che vorrebbero seguire la sua strada: «Non bisogna scegliere di fare gli imprenditori avendo come primo obiettivo i soldi. Se lo fate, non riuscirete. Andate con la passione, fate quello che vi appassiona e a quel punto riuscirete».

Marco Bello

I succhi di Blandine

Niger. Niamey. micro entreprise Yalis, de Blandine Akitan

A rriviamo alla periferia di Niamey. Lungo una strada sterrata ci aspetta una signora ben vestita, davanti a un cancello di metallo. Entriamo in un piccolo cortile con poche piante. Sulla destra uno spazio di pochi metri quadri coperto da una tettoia. Vi vediamo una cucina a gas e alcuni contenitori di metallo.

Ci aspetta una ragazza vestita all’africana, con un sorriso particolare.

«Mi chiamo Blandine Akitan e sono nata a Niamey. Sono la promotrice della micro impresa Yalis succhi naturali», ci dice subito molto soddisfatta. «Mia madre mi ha sempre insegnato che bisogna lavorare duro per prendere in mano la propria vita.

Quando ero piccola, vendevo caramelle in strada, così mi sono subito fatta una mentalità  commerciale. Da giovane studentessa, nel tempo libero vendevo succhi prodotti da altri, ma poi ho pensato a diventare io stessa imprenditrice».

Era il 2019 e Blandine aveva 28 anni, quando ha dato forma alla sua idea.

«Si tratta di una start up e, al momento, ci lavoriamo io, mia madre e mio fratello. Trasformiamo tutto quello che è frutta e verdura in succhi naturali. Facciamo anche dei mix tra frutti e verdure diversi. La gente ama queste bevande, prive di conservanti, che fanno bene alla salute. Ma la prima difficoltà che abbiamo incontrato è stata la loro conservazione.

Mia zia è stata in Burkina Faso a seguire alcune formazioni e le hanno insegnato delle tecniche. È così che abbiamo imparato a fare la pastorizzazione. Oggi produciamo i nostri succhi qui e li commercializziamo in tutto il Niger. Li mandiamo in diverse città con gli autobus di linea, ben imballati in casse».

Un’altra problematica è stata l’approvvigionamento dei contenitori: «Le bottigliette sono riciclabili, ma in Niger non le troviamo. Le facciamo arrivare dal Benin. Così anche i tappi a corona. Mentre le etichette si troverebbero, ma costano più care. Ora, alcuni clienti, ci hanno chiesto i tappi a vite, e vediamo come organizzarci».

La Yalis, attualmente, nel piccolo spazio che ha a disposizione, produce tra i 45 e i 60 pacchi da 24 bottiglie ogni settimana. Con il desiderio di aumentare il volume: «I nostri clienti sono alberghi, ristoranti e privati che organizzano cerimonie varie, come matrimoni, battesimi, incontri tra amici e tornei sportivi».

Questa piccola impresa famigliare ha grandi ambizioni: «Vogliamo ingrandirci, produrremo in locali più grandi che stiamo sistemando, li attrezzeremo con strumenti di trasformazione più moderni e acquisteremo un mezzo per le consegne in città. L’idea è poi vendere anche in altri paesi della regione».

Blandine ci lascia un messaggio per i più giovani, che sono interessati a iniziare un’attività: «Questa è una terra vergine per la nuova imprenditoria. Quello che i giovani cercano all’estero, si trova già qui in Niger. C’è la terra da coltivare, ci sono molti prodotti da trasformare. Con molta tenacia e coraggio, insieme cambieremo della nostra società».

Ma.Bel.

Niger, Niamey, fromagerie A’masi, de Ami Issoufou Bickou

Ami e Aicha: dalla tradizione ai supermercati

La via del formaggio

Ami viene da una famiglia di veterinari. Ha studiato diritto e marketing, ma decide di fondare la propria impresa. Sceglie il settore caseario e ha in programma una forte espansione.

Niamey. Arriviamo in un quartiere ai limiti della città, dove si trovano grandi case con ampi cortili e terreni non edificati pieni di immondizia e sacchetti di plastica.

Entriamo in una di queste abitazioni, dove ci accolgono due giovani donne. Siamo nella sede di Amansi, micro impresa produttrice di formaggio.

Le due donne, velate con hijab, ci ricevono con un largo sorriso. La responsabile prende la parola: «Mi chiamo Ami Bickou. Sono nata nel 1990 a Tanout, dove il deserto incontra la savana, nel Niger profondo. La mia è una famiglia di veterinari, per questo motivo conosco gli animali e il latte. Dopo gli studi in diritto e marketing, iniziare a lavorare era complicato. Per questo motivo ho scelto di fare l’imprenditrice e mi sono interessata al settore caseario, nel quale avevo già qualche competenza e alcuni contatti. Ho iniziato nel 2020 e oggi siamo in tre: io, la mia assistente, Aicha, qui presente, e un collaboratore».

Ci raccontano che producono tre tipi di formaggio, dei quali uno fresco, un formaggio peul (etnia di allevatori, ndr) e un altro tradizionale, chiamato «chuku», molto consumato nella zona.

La produzione la fanno in una piccola costruzione con il tetto di lamiera, in un angolo del cortile, nella quale ci sono tutte le attrezzature di Amansi.

Arriva un uomo con un bidone di latte sulla bicicletta e lo passa ad Aicha che lo filtra accuratamente. Poi le due donne iniziano per noi una lavorazione. Fanno bollire il latte, ne misurano temperatura e densità. Intanto Ami ci descrive il processo: «Acquistiamo il latte fresco da gruppi peul oppure da una fattoria moderna non lontano da qui. La prima operazione è filtrarlo e verificarlo con un latto-densimetro per controllarne la qualità».

Sul volume lavorato precisa: «Attualmente trasformiamo 1.400 litri a settimana. Abbiamo molte prenotazioni, ma non possiamo produrre grandi quantità perché non abbiamo spazio in ambienti idonei alla conservazione. Quindi talvolta, facciamo la lavorazione due volte al giorno. Inoltre, durante la stagione calda, ci sono problemi di elettricità, per cui vorremmo mettere dei pannelli solari per alimentare alcuni frigoriferi».

Progetti futuri

Mentre parliamo, Ami e Aicha procedono con la trasformazione, ottenendo del formaggio fresco e del chuku. Per quest’ultimo dispongono delle forme rettangolari sopra una rete per sgocciolare. Il formaggio, alla fine, avrà la forma di fogli sottili.

«Nel nostro business plan è previsto l’acquisto di materiale che ci permetta di lavorare meglio rispetto al processo che utilizziamo ora che è molto artigianale. Vogliamo fare un controllo più completo del latte e produrre maggiori quantità di formaggio. Lo spazio per la lavorazione è piccolo, per cui vogliamo estendere la formaggeria Amansi costruendo nuovi locali. La domanda è molta e i prezzi del prodotto finito stanno aumentando. In tre anni vorremmo essere a regime con la nuova struttura».

Per la distribuzione si appoggiano ad alcuni negozi, ma non solo: «Portiamo i nostri formaggi in diversi negozi di alimentari in centro città e in altri quartieri. Inoltre abbiamo iniziato una vendita online. Abbiamo un sito web dove il cliente può prenotare il prodotto, oppure con Facebook o Whatsapp. Ci indica dove portarlo e paga alla consegna. Stiamo inoltre attivando il sistema di pagamento tramite cellulare».

Chiediamo ad Ami le difficoltà che ha incontrato: «Come donna imprenditrice ci possono essere più ostacoli nella nostra società. Occorre viaggiare, assistere a riunioni. Ma non è così difficile quando la famiglia ti sostiene, e io ho un marito molto comprensivo. Poi ho tre figli maschi e un quarto in arrivo. Spero che sia una bambina!».

Marco Bello

Niger, Niamey, micro entreprise transformation du lait, production du yaourt, de Saratou Abdou et associés

Yogurt, che passione!

Niger, Niamey, micro entreprise transformation du lait, production du yaourt, de Saratou Abdou et associés

«Mi chiamo Arrafat Abdourahamane, ho 32 anni, e nel 2019 lavoravo in un incubatore (società che aiuta le micro imprese, ndr) con altri amici. Accompagnavamo giovani a creare la propria impresa. A un certo punto ci siamo detti: anche noi dovremmo fare gli imprenditori, se vogliamo davvero accompagnare gli altri. Ci è venuta l’idea di lavorare sulla filiera del latte.

All’inizio eravamo in tre. Ci siamo informati e abbiamo fondato la microimpresa Sudu-kossam. Facevamo tutto: raccolta del latte, produzione, consegna. Abbiamo cominciato trasformando 20 litri al giorno, abbiamo sempre incrementato a piccoli passi. Oggi siamo a 300-400 litri, e vogliamo arrivare fino a mille.

Le mie socie sono Saratou Abdou, che si occupa dell’amministrazione, e Adama Mahamadou, responsabile della produzione. Io seguo gli aspetti finanziari. Adesso abbiamo una decina di collaboratori che lavorano nella produzione, pulizia, trasporto e ricerca clienti. Noi associati, per ora, non abbiamo salario. Quando c’è del margine, lo reinvestiamo nell’impresa, per espandere l’attività. Siamo convinti che quando questa decollerà, avremo i nostri benefici.

I n un paese come il nostro ci sono grossi gruppi nel settore del latte. Dovevamo quindi smarcarci da essi. Abbiamo dunque scelto di produrre yougurt al naturale al 100%, e questa è la nostra eccellenza. Stiamo mantenendo questo standard, ma adesso vorremmo fare un salto quantitativo di produzione. Per fare questo dobbiamo anche migliorare la comunicazione.

Per la distribuzione abbiamo ottanta punti vendita in città: supermercati, negozi e anche privati. Usiamo pure Whatsapp per prendere le prenotazioni. Clienti che fanno cerimonie come matrimoni e battesimi ci ordinano i prodotti. Abbiamo anche una strategia di ricerca di nuovi clienti.

Per promuovere la micro imprenditoria, occorre fare un lavoro di fondo con i nostri giovani. Prima di tutto far capire loro l’importanza di essere imprenditori. Chi va a scuola deve sapere che non è detto che qualche azienda lo assumerà.

Poi, nel Sahel, abbiamo un problema di sicurezza. Avere un lavoro è una questione primordiale: chi ha un lavoro non penserà tanto a migrare e neppure a fare il terrorista. Ed essere imprenditore è un’opzione, non semplice, ma percorribile».

Ma.Bel.

Niger, Niamey, micro entrepreise RAM’s transformation, de Ramatou Chaibou.

Il nutrizionista e l’alga miracolosa

Mister spirulina

Laureato in biochimica e nutrizione e studente di dottorato, Amadou crea prodotti altamente nutritivi per grandi e piccoli. Si basano sulla spirulina, alga che coltiva lui stesso. La sua micro impresa è appoggiata dall’incubatore dell’Università.

Lasciamo il centro di Niamey e inforchiamo il ponte Kennedy, immersi in un traffico di motorini e auto scarburate. Questo ponte fu il primo a collegare le due sponde del fiume Niger nella capitale nel 1970, ed è stato poi seguito da altri due, realizzati con fondi e da imprese cinesi. L’ultimo di questi, chiamato ponte Generale Seyni Kountché, già capo di stato, è stato inaugurato due anni fa.

Sulla sponda destra del fiume si è sviluppata l’Università Abdou Moumouni, ed è lì che ci stiamo dirigendo.

Da alcuni anni è stato creato il Centre incubateur, ovvero un incubatore di microimprese. Il suo motto è «Per l’accompagnamento efficace alla creazione e allo sviluppo di imprese innovative in Niger». Il centro offre servizi a giovani universitari talentuosi che si lanciano nel mondo dell’impresa. Fornisce uno spazio per lavorare con uffici e sale riunioni, una sala computer, formazioni in gestione d’impresa, contabilità e molto altro. Organizza fiere per le imprese innovative.

Qui incontriamo un giovane vestito con una lunga tunica bianca, alla nigerina. È Amadou Abdoul
Razak, 31 anni, laureato in biochimica, con un master in nutrizione e studente di dottorato sullo stesso tema. Amadou, con l’aiuto dell’incubatore, ha fondato la Nutrisev+ una micro impresa che produce integratori alimentari.

Ci porta in un campo vicino, dove un recinto racchiude alberi e arbusti cresciuti su un suolo arido. Qui ci mostra il suo tesoro: una grande vasca di cemento, protetta da un telo dal forte sole saheliano. L’acqua non è limpida, ma verdastra. Amadou ne preleva un po’ con una paletta e vediamo in dettaglio una schiuma verde. Sono alghe: è la famosa spirulina, dalle proprietà sorprendenti.

Un prodotto speciale

«Quest’alga è molto ricca di ferro. Fa molto bene a persone anemiche o con emoglobinopatia. Grazie alle mie ricerche ho sviluppato anche un altro prodotto, oltre alla polvere di spirulina essicata. Si tratta di una farina nutrizionale per bambini da 6 mesi a 5 anni, sia per bimbi malnutriti che per lo svezzamento. È composta da spirulina, mais, soia, e altri elementi nutritivi».

Da queste ricerche è nata appunto Nutrisev+, che produce farine pediatriche e prodotti terapeutici come integratori per donne incinte e per bambini. Ma anche per gli sportivi o chi ha carenze di ferro, vitamine o elementi nutritivi in genere.

Amadou si racconta: «Facevo pratica negli ospedali e nei centri nutrizionali, e ho potuto constatare che i prodotti utilizzati normalmente non raggiungono l’obiettivo del recupero nutrizionale. Da qui l’idea di trovare qualcosa che la gente possa utilizzare senza problemi, e di creare una  farina di svezzamento. Era il 2019. Volevo valorizzare il risultato dei miei studi di master in nutrizione. Ho formulato una farina, e l’ho messa a disposizione di alcuni bambini malnutriti all’ospedale, e ha dato dei risultati molto interessanti».

Incubato

Così Amadou ha presentato un progetto d’impresa all’incubatore dell’università, e il suo progetto è stato selezionato tra molti altri. Così viene «incubato»: ha uno spazio per lavorare e riceve formazione per imparare a fare il piano d’affari, i piani strategico di marketing, relazionale e commerciale, lo studio di mercato, su come affrontare il pubblico selezionato per il prodotto e avere feed back sullo stesso.

«Vogliamo valorizzare ancora di più la spirulina producendo delle compresse, per permettere alle persone che non possono usare la farina di assumerla comunque.

Abbiamo fatto lo studio di mercato, il business plan dell’impresa e identificato i prezzi per i prodotti. Oggi siamo in tre a lavorarci, ma in futuro dovremmo essere di più. Penso a operatori per le macchine di essiccazione, un contabile, un guardiano, e alcuni ambulanti che vadano a distribuire il prodotto. Vorremmo, inoltre, mettere chioschi di vendita nei comuni, e creare dei punti di distribuzione nei dispensari e nelle farmacie. Faremo una campagna di sensibilizzazione nutrizionale, per far conoscere questi prodotti. Apriremo un ufficio in centro, lasciando dunque l’incubatore».

Intanto Amadou ci ha condotti in un piccolo stabile dove la spirulina e gli altri prodotti vengono lavorati e dove si realizzano le miscele di farine. Ci mostra alcuni imballaggi, dicendo che sono dimostrativi e che stanno studiando, con una ditta specializzata, quali contenitori utilizzare per il mercato.

Perseverare

Passare dalla ricerca all’impresa è complesso: «Non è facile valorizzare i propri studi. Quando proponiamo la nostra idea a qualcuno, questo inizia a dire che è troppo complicato, non può funzionare, ti servono tutte queste macchine, non hai tutti questi mezzi. Insomma, cercano di distruggere la tua idea. È una prima difficoltà. Alcuni vogliono rubarti il sogno usando parole che ti scoraggiano. Non bisogna lasciarsi abbattere, bisogna perseverare».

E ai giovani nigerini che vedono il loro futuro altrove, Amadou dice: «Tutti i paesi che si sono sviluppati, lo hanno fatto grazie alla gioventù. Il sapere che i giovani hanno acquisito lo hanno materializzato nei loro paesi. Oggi, in Niger, molti studenti finiscono gli studi e hanno il diploma, ma vanno a cercare il lavoro altrove. Lo stato non riesce più a impiegarli, come neppure le imprese e le Ong. Allora perché non valorizzare il loro sapere, producendo qualcosa che si tocca con mano e va a profitto loro e della popolazione?».

Marco Bello

Niger, Niamey, micro entrepreise RAM’s transformation, de Ramatou Chaibou.

Passata «made in Niger»

«M i chiamo Ramatou Chaibou, sono nata a Niamey nel 1996 e sono la promotrice di Ram’s agrobusiness, un’impresa di trasformazione agroalimentare. La Ram’s trasforma prodotti orticoli con metodi naturali, in particolare la cipolla in polvere e purea, e il pomodoro fresco in passata e polvere.

L’idea è nata dalla constatazione che in Niger si consuma molta cipolla, e si coltiva una varietà particolarmente rinomata, la Violet de Galmi. Quando è tempo di raccolta, il prodotto invade il mercato e i prezzi sono di circa 6mila franchi al sacco (9 euro, ndr). Passato il periodo, le cipolle iniziano a scarseggiare, e quelle che si trovano arrivano a costare fino a 16mila franchi il sacco (24 euro, ndr). Per la gente comune diventa proibitivo continuare e consumare cipolla. La trasformazione ci permette di avere questo prodotto tutto l’anno a prezzi ragionevoli.

Niger, Niamey, micro entrepreise RAM’s transformation, de Ramatou Chaibou.

Ho avuto l’idea nel 2016, quando ero al primo anno di università. Così ho partecipato a formazioni sulla gestione d’impresa, fornite dalla camera di commercio e varie associazioni. Volevo darmi degli strumenti. Devo dire, inoltre, che fin dal liceo ho gestito piccole attività commerciali. Cucinavo cavallette e le vendevo, insieme a caramelle, biscotti, sigarette.

Nel 2020 sono riuscita a iscrivermi all’incubatore dell’università di Niamey. Qui ci hanno messo a disposizione dei mentori, persone esperte. E la mia è stata Esther Godo (vedi pag. 41).

Intanto, studiavo gestione commerciale e poi ho affrontato un master in gestione dei progetti, con l’ambizione di avere le competenze necessarie per gestire una grande impresa.

Adesso siamo tre: io, la mia assistente, e mio marito che ci dà una mano nell’uso delle macchine. Non vogliamo indugiare troppo sull’aspetto start up ma, in due o tre anni, vorremmo crescere e tessere dei partenariati con grandi strutture di distribuzione, sia a Niamey, sia in altre regioni, e magari in città dei paesi confinanti.

Ma occorre fare degli investimenti. Ci servono attrezzature di trasformazione per aumentare le quantità, avere un punto vendita in centro città, per mostrare e vendere i prodotti e, inoltre, ci serve un mezzo di trasporto per approvvigionamento e distribuzione.

Al momento non abbiamo diffusione nei grandi supermercati. Sono io che porto i prodotti negli uffici e nelle case dei nostri clienti e una parte nei negozi di quartiere.

Devo dire che abbiamo un’attenzione particolare verso i clienti. Chi prova i nostri prodotti riceve un messaggio per sapere se sono di loro gradimento, commentare e dare suggerimenti per migliorare. Stiamo ricevendo apprezzamenti sulla nostra qualità.

Vorrei ricordare ai giovani che la prima cosa è credere in se stessi, in quello che si vuole fare ed essere molto motivati. Perché fare impresa è qualcosa che richiede tanta perseveranza, pazienza e motivazione. Se si hanno queste tre cose, si può riuscire, non si ha bisogno di cercare fortuna altrove».

Ma.Bel.

Niger, Niamey, micro entreprise Sonix automobile de Abdoul-Razak Halidou Moussa.

Il genio dell’automobile

«Sono Abdoul Razak Halidou. Ho studiato ingegneria elettromeccanica a Niamey e, fin da bambino, sono appassionato di automobili. Ho lavorato un po’ nell’energia solare, ma poi ho preferito seguire la mia passione. Ho capito che sarebbe stato necessario andare a fare pratica da un vero meccanico. Qui la meccanica dell’auto si impara sul campo, con un riparatore esperto. Non si studia a scuola.

Ma le auto di oggi hanno anche molta elettronica. Con le mie conoscenze ho capito cosa occorreva sviluppare per migliorare il lavoro, perché a volte i meccanici non riescono a identificare il guasto e cambiano i pezzi un po’ a caso.

Ho anche capito che dovevo formarmi ancora, assumere altre competenze, per poi creare qualcosa di solido. Così ho continuato a seguire corsi di formazione specialistici.

Mi sono associato con un meccanico e abbiamo creato la Sonix, Société nigeriénne d’expertise automobile. Il nostro motto è: «Il genio dell’automobile», una frase che deve incuriosire e attrarre il cliente.

Io verifico il motore con uno strumento collegato a una App del telefono, faccio il diagnostico, indico con esattezza il problema e poi il meccanico lo ripara. Non andiamo più a caso. Inoltre faccio la riprogrammazione delle centraline e altri interventi sulla parte elettronica.

In programma c’è l’acquisto di un apparecchio diagnostico completo e altra strumentazione per migliorare ancora. Adesso non ho abbastanza strumenti per soddisfare tutte le richieste.

Il mio sogno è che tra cinque anni Sonix sia presente in tutto il paese, e poi voglio separare l’area della meccanica da quella dell’elettronica, perché hanno esigenze diverse, di spazio e di pulizia.

Usiamo la comunicazione su Facebook e gruppi Whatsapp per promuoverci. Senza dimenticare il passaparola dei nostri clienti soddisfatti.

Io sono nigerino di Niamey e ho trent’anni. Con il mio socio abbiamo cominciato nel 2019, e funziona».

Ma.Bel.

Niger, Niamey, micro entreprise Sonix automobile de Abdoul-Razak Halidou Moussa.


Ha firmato il dossier:

Marco Bello, Giornalista redazione MC.

Archivio MC sul Niger:
Marco Bello, Africa «coast to coast», aprile 2019.
M. Bello, Siamo in un mondo al contrario, maggio 2019.
M. Bello, Ci legavano con corde e catene, aprile 2018.
M. Bello, Niger, frontiera d’Europa, marzo 2018.

Si ringraziano:
Filippo Acasto e Issa Yacouba dell’équipe Cisv Niger, Giada Martin raccolta fondi e comunicazione Cisv, e tutti i giovani imprenditori e imprenditrici nigerini che ci hanno dedicato il loro tempo.

Il progetto:
Le microimprese presentate in questo dossier sono sostenute dal progetto «Obiettivo lavoro», realizzato dalle Ong Cisv e Africa70, con il supporto del ministero dell’Interno italiano. www.cisvto.org

Niger, Niamey, fromagerie A’masi, de Ami Issoufou Bickou

 

 




Etica e affari, un matrimonio difficile


Ben&Jerry’s, azienda Usa di successo, non vuole più vendere i propri gelati nei territori palestinesi occupati da Israele. Ne è nato un intricato conflitto politico e legale. È possibile tenere insieme ricerca del profitto e principi etici?

Nella storia del capitalismo, di dispute fra imprese se ne sono viste tante, ma che una filiale portasse in tribunale la propria capogruppo, questo no, non era mai capitato. È quanto è successo negli Stati Uniti per una vicenda che riguarda addirittura il conflitto israelo-palestinese. Il dilemma è se vendere o non vendere nei territori occupati da Israele. Non riuscendo a trovare un accordo sul piano politico, le due parti stanno cercando di spuntarla tramite sofisticate battaglie legali. Mentre scriviamo, il contenzioso è ancora in corso, ma qualunque sarà il suo esito vale la pena raccontarlo per i molteplici aspetti che solleva.

Dal vermont al mondo

Le due parti in gioco sono Unilever e Ben&Jerry’s. La prima è una potente multinazionale inserita nel settore dei prodotti igienici, cosmetici e alimentari. La seconda è un’impresa di gelati nota soprattutto al pubblico americano. In effetti, Ben& Jerry’s nacque negli Stati Uniti per iniziativa di due piccoli imprenditori, Bennet Cohen e Jerry Greenfield, che, nel 1978, decisero di aprire una gelateria in una località del Vermont, loro città natale. L’iniziativa ebbe successo e in breve Ben&Jerry’s divenne una catena di gelaterie con punti vendita in tutta la nazione. L’attività andava così bene che attirò l’attenzione dei giganti del settore, tanto che, nell’anno 2000, Unilever se la comprò. L’assorbimento fu totale, ma i vecchi proprietari riuscirono a porre come condizione che l’azienda continuasse a essere gestita da loro secondo i propri principi etici.

Nel panorama del mondo degli affari i due imprenditori rappresentavano senz’altro un’eccezione perché erano convinti che obiettivo dell’impresa debba essere non solo il perseguimento del profitto, ma anche il rispetto per l’ambiente, dei lavoratori e delle comunità in cui l’attività è svolta. Un filone di pensiero che più tardi diede origine a particolari imprese denominate «B Corporation» (vedi MC giugno 2022), dove «B» sta per «benefit», a indicare che sono organizzate per portare vantaggio a tutti. Dagli Stati Uniti, l’idea approdò anche in Europa, Italia compresa, dove la B Corporation ha trovato spazio nella legislazione, sotto il nome di «società benefit». Una denominazione che può essere utilizzata da tutte quelle realtà imprenditoriali che oltre ad avere «lo scopo di dividere gli utili, perseguono una o più finalità di beneficio comune e operano in modo responsabile, sostenibile e trasparente nei confronti di persone, comunità, territori e ambiente, beni ed attività culturali e sociali, enti e associazioni ed altri portatori di interesse».

Un tratto del muro divisorio tra Israele e Palestina. Foto Olaf-Pixabay.

Una forza per il bene?

Nel mondo, le B Corporation sono qualche migliaio, tutte convinte di poter cambiare il mondo, come si legge in un pieghevole del loro movimento: «Insieme stiamo costruendo un movimento di persone che usano il mondo degli affari come una forza per il bene». Che sia un po’ esagerato? I toni da crociata religiosa sono sempre un po’ inquietanti.

Personalmente ritengo che eleggere le imprese a «forza per il bene» sia un tentativo (maldestro) per giustificare il capitalismo fondato su presupposti ideologici che conducono allo sfruttamento del lavoro, all’esaurimento delle risorse, all’accumulo di rifiuti, alle guerre per il controllo delle risorse e l’espansione dei mercati. In una parola a tutte le situazioni di crisi che oggi affliggono l’umanità. Tuttavia, fatta questa precisazione, sicuramente le società benefit rappresentano un passo avanti sulla strada della sostenibilità, della trasparenza, della dignità personale. Un risultato attribuibile a un mix di conversioni personali e di pressione decennale esercitata dalla società civile tramite azioni di investimento etico e di consumo critico.

Nel 2006 nacque anche un sistema di certificazione che dà la patente di società «per il bene» a tutte quelle imprese che dimostrano di rispettare regole stringenti in ambito sociale e ambientale. Certificazione che Ben&Jerry’s ottenne nel 2012 impegnandola a «essere economicamente sostenibile e nello stesso tempo capace di un cambio sociale positivo […] finalizzato a garantire il soddisfacimento dei bisogni umani ed eliminare ogni forma di ingiustizia». Per di più nella sua carta dei valori si legge: «Sosteniamo le vie nonviolente per l’ottenimento della pace e della giustizia. Crediamo che le risorse pubbliche siano utilizzate in maniera più produttiva quando sono messe al servizio dei bisogni umani piuttosto che spese in armamenti».

Nonostante queste precise prese di posizione, Ben&Jerry’s non aveva avuto problemi a catapultarsi in Israele dove approdò nel 1987, concedendo la licenza d’uso del proprio marchio all’impresa israeliana Avi Zinger. Così i gelati a marchio Ben&Jerry’s si vendevano in tutti i territori occupati da Israele, compresi quelli colonizzati dopo il 1967 in aperta violazione con le ripetute risoluzioni Onu secondo le quali «tali occupazioni sono illegali e rappresentano un ostacolo alla realizzazione dell’obiettivo dei due stati, l’unica soluzione che può garantire una pace duratura».

La presenza nei territori occupati non era vissuto da Ben&Jerry’s come un tradimento dei propri valori, ma l’incoerenza non era sfuggita a un gruppo del Vermont che agisce a sostegno del popolo palestinese in collaborazione con il movimento Bds («Boycott, divestment, sanctions», boicottaggio, disinvestimento, sanzioni).

La Puma, nota azienda produttrice di scarpe sportive, è oggetto di un boicottaggio internazionale per essere sponsor di squadre israeliane. Foto BDS Movement.

BDS e danno economico

Sorto nel 2005, il Bds è un movimento che intende costringere Israele al rispetto delle leggi e delle convenzioni internazionali attraverso il danno economico. La stessa strategia utilizzata negli anni Ottanta del secolo scorso nei confronti del regime del Sudafrica che fu costretto a capitolare di fronte alla fuga delle imprese straniere e alle sanzioni economiche messe in atto contro il paese. In effetti, il movimento Boicottaggio, disinvestimento e sanzioni si propone l’obiettivo di fare pressione sul governo di Israele tramite l’isolamento economico. Una delle strategie consiste nel prendere di mira le imprese che conducono i propri affari nei territori occupati a vantaggio esclusivo o prevalente dei coloni occupanti.

Alcuni esempi sono Puma (vedi foto), Axa, Hewlett Packard su cui è esercitata ogni forma di pressione per convincerle a ritirarsi da Israele o quanto meno dai territori occupati dopo il 1967.

Nei confronti di Ben&Jerry’s la prima iniziativa di pressione venne assunta nel 2011 tramite una lettera inviata dal gruppo del Vermont che però non ricevette risposta. Per cui vennero assunte iniziative sempre più incisive, fino a dichiarare un vero e proprio boicottaggio nel 2015. Lo scrollone finale si ebbe nel maggio 2021 quando davanti alla sede centrale di Ben&Jerry’s, si presentò una folla concitata che con una sola voce gridava «Vergogna!». Erano lì per commemorare ciò che i palestinesi chiamano «Nakba», ossia l’evacuazione forzata di centinaia di migliaia di palestinesi avvenuta nel 1948, per fare spazio allo stato di Israele.

Questa volta, Ben&Jerry’s accusò il colpo e, dopo due mesi, il 19 luglio 2021, annunciò di avere deciso di rivedere la propria presenza in Israele, cominciando con il non rinnovare il contratto di licenza stipulato con Avi Zinger in scadenza a fine dicembre 2022.

Gelati antisemiti?

Un barattolo di gelato di Ben&Jerry, azienda Usa che, per problemi etici, non vuole vendere a Israele.

In un primo momento la capogruppo Unilever si era schierata a fianco della propria controllata appellandosi anch’essa a motivazioni etiche. Ma poi la ragione economica ebbe il sopravvento e madre e figlia finirono per vie legali. Il governo israeliano aveva bollato la scelta di Ben&Jerry’s come antisemita e subito le azioni di Unilever avevano cominciato a perdere valore. Sui social israeliani circolavano filmati di ministri nell’atto di gettare nella pattumiera i gelati di Ben&Jerry’s ancora integri. In America, invece, su alcuni quotidiani comparvero annunci a tutta pagina firmati dall’organizzazione ebraica Simon
Wiesenthal Center
, che invitavano negozi e supermercati a cessare la vendita dei gelati Ben&Jerry’s colpevoli di antisemitismo. Iniziative che ebbero il loro effetto sul piano finanziario: vari fondi pensione e altri investitori istituzionali annunciarono di voler vendere le quote che avevano in Unilever sostenendo che cedendo alle richieste di Bds la multinazionale aveva violato la legislazione americana. Sul versante opposto si diffuse la notizia che un pacchetto importante di azioni era stato comprato da Nelson Peltz, niente po’ po’ di meno che presidente del Simon Wiesenthal Center. Una scelta compiuta con lo scopo evidente di condizionare Unilever dall’interno.

Etica e affari

Intanto, nel marzo 2022, Zinger, il licenziatario israeliano, si era rivolto alla magistratura statunitense affinché impedisse a
Unilever di sospendere il contratto di licenza, come preannunciato dalla direzione di Ben&Jerry’s. Ma la contesa non venne mai discussa in tribunale perché, nel giugno 2022, Unilever annunciò di essersi accordata con Zinger per venderle la proprietà del marchio Ben&Jerry’s, e questa era valida per tutti i territori controllati da Israele. Una decisione che irritò la direzione di Ben&Jerry’s che reagì denunciando la capogruppo per abuso e violazione contrattuale.

Ora la parola è di nuovo agli avvocati, ma comunque vada a finire, crescono i dubbi che etica e affari possano davvero unirsi in matrimonio come sostiene il movimento delle B Corporation.

Francesco Gesualdi

 

I siti dei protagonisti:




I costi degli eserciti


La spesa militare continua a crescere. Nei paesi ricchi come in quelli poveri. I soldi vengono sottratti alla sanità, all’istruzione, alla sicurezza sociale. Un domani senza eserciti rimane un sogno lontano.

Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, oltre due miliardi di persone non dispongono di servizi idrici sicuri, mentre quattro miliardi non dispongono di servizi igienici adeguati. La Banca mondiale stima che, per garantire questi servizi minimi a tutti, basterebbero 450 miliardi di dollari. Ma non si trovano, e così gli obiettivi sanitari dichiarati dall’Agenda 2030 rischiano di rimanere lettera morta. In realtà, i soldi ci sono, ma si preferisce spenderli per altri scopi, per obiettivi di morte.

la spesa militare

Il Sipri, l’istituto di Stoccolma per la ricerca sulla pace, ci informa che, nel 2021, la spesa militare mondiale ha raggiunto 2.113 miliardi di dollari, lo 0,7% in più di quanto speso nel 2020 e il 12% in più di quanto speso nel 2012. In termini assoluti, il paese con la spesa militare più alta sono gli Stati Uniti che, nel 2021, hanno investito 801 miliardi di dollari, pari al 38% dell’intera spesa mondiale. Seguono Cina con 293 miliardi, India (76), Gran Bretagna (68), Russia (66). Vale la pena precisare che il 54% della spesa militare mondiale è sostenuta dalla Nato, l’alleanza di cui fanno parte ventisei paesi europei, oltre a Stati Uniti, Turchia e Canada. Non esistono sul pianeta altre alleanze così strutturate.

Oltre che in termini monetari, ci sono altri due modi per rappresentare la spesa militare: in rapporto al Prodotto interno lordo (Pil), ossia alla ricchezza complessiva prodotta nel paese, e in rapporto alla spesa pubblica. A livello globale, nel 2021 la spesa complessiva in rapporto al Pil è stata del 2,2%. Ma con profonde differenze fra singoli paesi. Da questo punto di vista, il primato tocca all’Oman col 12%, seguito da Arabia Saudita (7,7%), Israele (5,6%), Usa (4,5%), Russia (3,7%).

La spesa militare si valuta anche in rapporto alla spesa pubblica, perché è sui bilanci pubblici che essa va a gravare. Ci sono paesi che, pur avendo una bassa spesa militare in termini assoluti, dimostrano di avere una grande propensione per gli armamenti perché vi dedicano una parte cospicua delle proprie entrate pubbliche, pur molto magre. Un esempio è l’Eritrea che, secondo la Banca mondiale, nel 2020 ha destinato all’esercito il 31% del bilancio statale. Ma si può citare anche l’Armenia che ha speso in armi il 16% delle entrate fiscali, o il Ciad che si attesta al 15,6%, e l’Uganda al 13%. Tutti paesi molto poveri con gravi problemi, perché è dimostrato che più si spende in armi, meno soldi rimangono per sanità, istruzione, sicurezza sociale.

Se abbandoniamo i paesi minori e veniamo alle vere grandi potenze militari, troviamo che il paese che dedica alle armi la percentuale più alta di risorse pubbliche è la Russia per una percentuale pari all’11,4%. Seguono l’India (9,1%), gli Stati Uniti (7,9%), la Cina (4,7%), la Gran Bretagna (4,2%).

Le spese militari in Italia

Quanto all’Italia, reperire dati completi sulla spesa militare non è semplice perché alcune voci di costo sono inserite nei bilanci di ministeri diversi da quello della Difesa (da ottobre guidato da Guido Crosetto, consulente e imprenditore del settore militare, ndr). Ad esempio, le spese per le missioni militari all’estero sono inserite nel bilancio del ministero dell’Economia e delle finanze (Mef), mentre alcune somme utili ad acquistare nuove navi o nuovi aerei, prodotti da imprese italiane, sono inserite nel bilancio del ministero per lo Sviluppo economico (Mise). Mettendo insieme tutte le voci, lo stesso ministero della Difesa conferma che, per il 2022, la spesa militare complessiva è fissata in 28,875 miliardi di euro, per il 61% a favore del personale, per il 27% destinati all’ottenimento di nuovi sistemi d’arma, per il 12% per l’acquisto di materiale d’uso corrente.

In termini percentuali, attualmente la spesa militare italiana   rappresenta il 3,5% della spesa pubblica complessiva e l’1,6% del Pil nazionale. Ma il 16 marzo 2022 la Camera dei deputati ha approvato un ordine del giorno che impegna il governo ad aumentare la spesa militare fino al 2% del Pil, presumibilmente entro il 2028. Tradotto in moneta suonante dovremo aspettarci una crescita stimabile in 10 miliardi di euro realizzata, con tutta probabilità, a scapito di altri comparti, magari la sanità, l’istruzione o le pensioni. La conclusione sarà che dedicheremo alla spesa militare il 4,5% dell’intero gettito fiscale solo perché «ce lo chiede la Nato».

Armi e inquinamento

Abbiamo l’abitudine di misurare il comparto militare solo in termini monetari, ma i soldi non danno la vera dimensione del danno che ci procura l’apparato militare. Lasciando da parte la perdita di vite umane e la distruzione di infrastrutture che si verificano quando le armi parlano, non dobbiamo dimenticare che produrre armi e anche solo limitarsi a compiere esercitazioni, comporta un grande consumo di risorse e rilascio di inquinanti. Uno studio della Commissione europea del 2016 sull’industria bellica, sostiene che la produzione di aerei, navi, mezzi meccanici, necessita dell’apporto di trentanove diverse materie prime, fra cui primeggiano alluminio, titanio, rame, cromo, berillio, litio. Tutti materiali con un pesante zaino ecologico, in quanto lasciano dietro di loro grandi quantità di detriti e inquinanti. Ad esempio, per ottenere una tonnellata di alluminio ci vogliono 4,8 tonnellate di bauxite, la quale, a sua volta, richiede l’estrazione di terra e rocce pari a una volta e mezzo il suo peso. E non è tutto perché il passaggio da bauxite ad alluminio richiede non solo una considerevole quantità di energia, ma anche l’apporto di numerosi materiali che però non rimangono nel prodotto finito. In conclusione, il Wuppertal Institute calcola che ogni tonnellata di alluminio lascia dietro di sé 8,6 tonnellate di materiale esausto. Se effettuassimo lo stesso tipo di calcolo per tutti i materiali utilizzati, scopriremmo che, dietro a ogni nave, ogni aereo, ogni carro armato, si celano montagne di scarti. Purtroppo, la produzione di armi è avvolta da una cortina di segretezza che rende difficile ogni tipo di indagine, per cui certe informazioni non le avremo mai. Ciò non di meno alcuni ricercatori hanno provato a valutare il contributo degli eserciti alle emissioni di anidride carbonica. Basandosi sui dati forniti dal Pentagono relativi ai consumi energetici, la professoressa Neta Crawford ha calcolato che l’esercito statunitense produce annualmente 59 milioni di tonnellate di anidride carbonica, una quantità pari a quella emessa da intere nazioni come Svezia o Svizzera. Ma l’ammontare si moltiplica per cinque se ci aggiungiamo le emissioni rilasciate dall’industria delle armi statunitense. La conclusione è che, a livello mondiale, eserciti e produttori di armi, messi assieme, contribuiscono al 6% delle emissioni globali di anidride carbonica.

Integrità e valori

Di fronte a un simile dispiegamento di mezzi, consumo di risorse e produzione di rifiuti, la domanda che sorge spontanea è: «Perché lo facciamo?». La risposta è che gli eserciti servono per difendere la nostra integrità territoriale e i nostri valori, in particolare democrazia e libertà, valori a cui terremmo così tanto da sentirci perfino autorizzati a guerre di aggressione pur di vederli trionfare. Ma tutti sanno che si tratta di motivazioni parziali, se non di paraventi per ragioni ben più venali. Il dato da cui partire è che il sistema economico in cui viviamo, il capitalismo, è aggressivo per costituzione. Il capitalismo è il sistema dei mercanti che hanno come fine l’accrescimento continuo dei profitti, possibile solo se c’è una crescita costante delle vendite. Ma queste possono crescere solo se si produce sempre di più. In altre parole, i mercanti hanno sempre avuto due esigenze: disporre di quantità crescenti di materie prime a basso costo e sbocchi di mercato sempre più vasti. Per queste due ragioni, il capitalismo ha sempre avuto una forte tendenza a virare verso il nazionalismo. Identificandosi con le imprese di casa propria, i governi hanno spesso utilizzato i propri eserciti per aggiudicarsi le risorse a buon mercato presenti nei territori altrui. L’Italia stessa fra le proprie missioni all’estero, ne annovera un paio che hanno come scopo la difesa delle attività estrattive di Eni: una in Libia, l’altra nel golfo di Guinea. E, mentre continuano le operazioni militari dal vecchio sapore colonialista, si è rafforzato il neocolonialismo che oggi si presenta con il volto dello scambio ineguale, del land grabbing, dello strangolamento finanziario. Fino a ieri, la lotta era per il carbone, il petrolio, i minerali ferrosi, oggi è per le terre agricole, i minerali rari, la biodiversità, l’acqua.

Globalizzazione e istinti nazionalistici

La storia coloniale ci ha insegnato che gli eserciti servono anche per spianare la strada alle imprese di casa propria affinché possano garantirsi nuovi sbocchi di mercato. Quando l’India venne conquistata dall’Inghilterra pullulava di artigiani che da tempo immemorabile producevano tessuti in cotone commercializzati in tutta l’area.  Con grave danno per l’industria tessile inglese che chiese al governo di adottare ogni misura doganale e fiscale utile a mettere fuori gioco i produttori indiani. E gli artigiani che continuavano a resistere venivano puniti con il taglio delle dita. La repressione fu così violenta che nel 1834 lo stesso governatore inglese dichiarò che «le ossa dei tessitori imbiancano le pianure indiane».

Ci avevano detto che con la globalizzazione i cannoni avrebbero taciuto per sempre. L’adagio era che, permettendo alle imprese di collocare i propri prodotti ovunque nel mondo, di spostare la produzione dove appariva più conveniente, di trasferire i capitali dove erano garantiti maggiori vantaggi, avremmo creato un mondo più interdipendente e quindi più interessato a mantenere la pace. Ma le crescenti tensioni fra Usa e Cina e, da febbraio 2022, la guerra in Ucraina, che si rivela sempre più un conflitto fra Russia e Occidente, mostrano che la maggior internazionalizzazione degli affari non è sufficiente a sopire gli istinti nazionalistici dei governi i quali mostrano di voler fare di tutto per aprire la strada commerciale alle multinazionali battenti bandiera di casa propria.

Vari analisti hanno dimostrato che l’atteggiamento degli Stati Uniti nei confronti del contenzioso Russia-Ucraina è stato condizionato dall’obiettivo di rompere il rapporto privilegiato che l’Europa aveva con la Russia rispetto al gas, in modo da trasformare il nostro continente in un acquirente del gas liquefatto fornito dalle imprese statunitensi.

Industrie belliche e governi

Va da sé, in ogni caso, che le più interessate a spingere gli stati verso scelte militariste sono le imprese che producono armi. L’ammontare totale del loro giro d’affari è avvolto nel mistero, ma il Sipri valuta che, nel 2020, le prime cento imprese mondiali di armi abbiano avuto un fatturato complessivo di 531 miliardi di dollari, una cifra superiore al prodotto interno lordo del Belgio.

Fra le prime cento, compaiono anche le imprese italiane Leonardo e Fincantieri. Leonardo si colloca al 13esimo posto della graduatoria mondiale ed appartiene per il 30% al ministero dell’Economia. Fincantieri si colloca al 47esimo posto ed appartiene per il 71% alla Cassa depositi e prestiti.

Come tutte le imprese, anche quelle di armi hanno bisogno di uno sbocco di mercato che per loro è rappresentato dalle guerre e dalle scelte di riarmo da parte degli stati. Per cui fanno di tutto per ottenere questo doppio risultato.

Non a caso i produttori di armi mantengono rapporti continui con i ministeri della difesa e  spendono fiumi di denaro per ottenere dai governi scelte a vantaggio delle proprie attività. Secondo Open secrets, nei soli Stati Uniti, negli ultimi 20 anni, le industrie belliche hanno speso 285 milioni di dollari per contributi alle campagne elettorali e ben 2,5 miliardi per spingere le istituzioni statunitensi a compiere scelte politiche e finanziarie favorevoli ai propri interessi. Quanto all’Unione europea, i numeri ufficiali, risalenti al 2016, dicono che le prime dieci imprese di armi spendono oltre cinque milioni di euro all’anno e dispongono di trentatré lobbisti a libro paga per esercitare pressione sulle istituzioni di Bruxelles.

Per vivere senza eserciti

È possibile avere un mondo senza eserciti? Qualche stato lo sta facendo. Un esempio è il Costa Rica che, guarda caso, si trova ai primi posti nella graduatoria dell’indice di sviluppo umano. Segno che chi non spende in armi ha più soldi per migliorare le condizioni di vita dei cittadini. Vivere senza esercito è possibile, ma servono almeno tre passaggi. Primo: bisogna mettere al bando le industrie di armamenti. Secondo: occorre perseguire un modello di economia basato sulle energie rinnovabili e sulla sobrietà in modo da ridurre la tentazione di sopraffare gli altri popoli per impossessarsi delle loro risorse. Terzo: bisogna ridurre il peso del mercato e ampliare quello dell’economia collettiva in modo da poter vivere anche senza dover conquistare i mercati altrui. La conclusione è che non può esserci pace senza un cambio di paradigma economico.

Francesco Gesualdi