Fentanyl, la droga letale in rapidissima diffusione


È un oppioide sintetico nato come farmaco antidolorifico e anestetico. Potentissimo, sta facendo migliaia di vittime nel Nord America. Ma è arrivato anche sulle piazze dello spaccio italiane ed europee. L’allarme è grande e giustificato.

Ascoltando la splendida Purple rain, il pensiero corre subito a Prince, il genio di Minneapolis, che venne ucciso il 21 aprile 2016 da un’overdose di fentanyl. Questo è un oppioide sintetico che il cantante statunitense aveva assunto in seguito all’intervento a un’anca. Lo stesso fentanyl sarebbe la causa della morte nel 2018 di Dolores O’Riordan, la cantante dei Cranberries e di Tom Petty (morto nel 2017), un cantautore e chitarrista statunitense che lavorò anche con Bob Dylan. Questi sono alcuni dei casi più famosi di morti legate all’abuso di fentanyl, sostanza che sta uccidendo centinaia di migliaia di persone ogni anno negli Usa e in Canada e che, da qualche tempo, ha fatto il suo ingresso anche in Europa, dove si teme possa verificarsi un’analoga situazione, benché, per il momento, il numero dei decessi sia ancora basso.

La potenza del fentanyl spiega le sempre più frequenti morti per overdose di coloro che se lo procurano per strada o via dark web oppure lo consumano inconsapevolmente, perché, da qualche anno, viene utilizzato come sostanza da taglio per eroina, cocaina, allucinogeni ed ecstasy. In totale, nel 2023 i decessi per overdose negli Usa hanno superato le 112mila unità e per oltre l’80% di loro il responsabile è stato il fentanyl.

Le cause della diffusione

La quantità di fentanyl sufficiente per provocare conseguenze letali. Foto DEA – United States.

Per capire come questo farmaco sia diventato una delle droghe più diffuse e sia aumentato enormemente il numero di coloro che ne sono diventati dipendenti è necessario risalire ai primi anni Novanta.

All’epoca i medici negli Usa iniziarono a prescrivere il fentanyl come antidolorifico, con una certa disinvoltura legata ad una vera e propria campagna di disinformazione mirata a farne aumentare le prescrizioni, campagna messa in atto da diverse case farmaceutiche. Contro di esse, nel corso degli anni, si sono accumulate oltre duemila azioni legali che hanno portato, tra l’altro, al fallimento della Purdue Pharma. Nella sua campagna promozionale veniva infatti asserito che il fentanyl non crea dipendenza, mentre invece è provato che il suo abuso porta a una gravissima forma di dipendenza e al rischio di overdose.

Un’altra causa della diffusione del fentanyl illegale negli Usa è insita nella mancanza in questo Paese di un sistema di assistenza sanitaria universale, sostituita dal sistema assicurativo. Questo ha portato i meno abbienti a rivolgersi al mercato clandestino dei narcotrafficanti che su queste droghe hanno creato un impero, soprattutto quando il legislatore ha tentato di arginare la situazione rendendo più controllate la prescrizione e la distribuzione del fentanyl.

Protagonisti sono i cartelli messicani che, da anni, immettono negli Usa e in Canada grosse partite di fentanyl. Si sospetta che stiano tentando di orientare tutto il consumo di droghe verso questa sostanza che, come detto, viene utilizzata anche come adulterante di altre droghe. Questa situazione è fonte di enormi guadagni per i cartelli della droga per più di un motivo: il fentanyl crea forte dipendenza, è facile da produrre e costa poco perché, come tutti gli oppioidi sintetici, non necessita di piantagioni (che infatti in Messico stanno diminuendo), non è soggetto all’aggressione dei parassiti o alle variazioni climatiche.

Inoltre, dato che il fentanyl è molto potente, circa 50 volte l’eroina, è molto più facile da trafficare: basta pensare che 100 grammi di fentanyl equivalgono a 5 kg di eroina.

La geopolitica del fentanyl: Cina, Messico, Usa

I narcotrafficanti messicani hanno organizzato nel loro territorio dei laboratori clandestini, nei quali specialisti di chimica assoldati allo scopo sintetizzano questa e altre sostanze a partire dai loro precursori provenienti dall’Asia. Tuttavia, essi acquistano anche grandi quantitativi di fentanyl a basso prezzo direttamente dalla Cina, che da anni ne è il più grande produttore mondiale. E ciò nonostante il governo di Pechino abbia dichiarato l’illegalità della sua produzione e si sia impegnato a perseguire chi lo sintetizza. E ciò su pressione degli Stati Uniti, con cui la Cina ha ratificato un accordo in occasione di un incontro – tenutosi a San Francisco lo scorso novembre – tra il presidente americano Joe Biden e il presidente cinese Xi Jinping.

Per capire la portata di questo giro d’affari, basta considerare quanto afferma un rapporto della Dea (Drug enforcement administration), l’agenzia federale antidroga degli Usa, secondo cui un chilo di fentanyl a elevato grado di purezza acquistato in Cina costa tra i 3.300 e i 5.000 dollari.

Una volta mescolato ad altre sostanze, si possono ottenere da 16 a 24 kg di prodotto e il profitto può arrivare fino a 1,9 milioni di dollari.

Se invece il fentanyl viene smerciato tal quale, essendo molto potente, con soli 10 grammi si arriva a produrne più di 300 dosi, che hanno di solito un prezzo compreso tra i 10 e i 60 dollari, a seconda della zona di spaccio. Dato il prezzo abbordabile, anch’esso causa dell’aumento delle overdosi da fentanyl, questa sostanza è consuma-

ta soprattutto tra le fasce più deboli della popolazione americana, in primis gli afroamericani seguiti dai latinoamericani.

Sperimentazioni

Le principali conseguenze del fentanyl sul corpo umano.. Immagine American Addiction Centers.

Mentre negli Usa si tiene il conto delle morti da overdose, in Messico nessuno se ne cura, per cui i narcotrafficanti possono sperimentare liberamente le nuove combinazioni del fentanyl con altre droghe.

Il problema è quello di riuscire a rendere i clienti dipendenti, senza ucciderli con dosi letali, ma per questo occorre sperimentare su esseri umani.

Le cavie vengono reclutate solitamente nei quartieri marginali di alcune città, tra cui Tijuana, Mexicali e Ciudad Juárez con distribuzioni gratuite o a bassissimo prezzo.

A seguito di queste sperimentazioni, molti giovani sono morti e moltissimi sono diventati dipendenti. Si stima che nel 2018 solo a Tijuana e Mexicali vi fossero almeno mezzo milione di dipendenti da sostanze. I centri di disintossicazione presenti solo in queste due città sono 76.

Negli Stati Uniti si sono susseguite tre ondate di crescente consumo di oppiacei (morfina e sostanze similari) e di oppiodi (sostanze con attività morfino-simile), con conseguente aumento delle morti per overdose. Secondo i dati del Cdc (Center for disease control and prevention), agenzia federale del Dipartimento della salute statunitense, la prima ondata si è verificata come conseguenza dell’aumento delle prescrizioni di oppioidi negli anni Novanta, a cui ha fatto seguito un aumento dei decessi da overdose a partire dal 1999.

Si sospetta che, in qualche caso, possano avere fatto uso degli oppioidi anche i familiari dei pazienti, avendo spesso a disposizione le rimanenze del farmaco, per eccesso di prescrizione.

La seconda ondata ha avuto inizio nel 2010, quando è aumentato notevolmente il numero dei decessi per overdose da eroina, cercata da chi non necessitava più di controllare il dolore, ma era ormai diventato dipendente da oppiacei ed era quindi portato a cercarli nel mercato illegale.

La terza ondata è cominciata nel 2013 con un significativo aumento dei decessi da overdose dovuta agli oppioidi sintetici, soprattutto il fentanyl prodotto illegalmente e spesso mescolato ad altre sostanze.

Attualmente gli oppioidi sintetici sono la prima causa di morte sotto i cinquant’anni negli Usa, dove si registrano circa 200 morti al giorno. Nella sola New York ci sono stati tremila decessi per overdose nel 2023. Tuttavia il primato delle morti per overdose spetta a Filadelfia (dove sta emergendo anche il problema del fentanyl tagliato con xilazina, un potente sedativo, analgesico e miorilassante per uso animale, altrimenti conosciuta come tranq), seguita da San Francisco.

Tra il 2013 e il 2021 negli Usa è stato rilevato un aumento di 30 volte dei decessi correlati al fentanyl in età pediatrica e tra gli adolescenti. Mentre per questi ultimi è ipotizzabile il consumo di stupefacenti a scopo ricreativo, per i bambini non si può fare a meno di pensare alla carenza delle cure parentali e soprattutto di attenzione da parte dei familiari consumatori di oppioidi, che molto probabilmente lasciano le sostanze incustodite e a portata di mano dei piccoli.

Le droghe su misura

Come fanno i narcotrafficanti a eludere i controlli e a immettere sul mercato grandi quantitativi di sostanze stupefacenti? La risposta sta nelle designer drug o «droghe su misura», cioè molecole sintetizzate da chimici clandestini che cambiano qualche parte della molecola originale in modo che la nuova sostanza imiti l’effetto del model-

lo di partenza senza essere riconosciuta dai sistemi di controllo. La categoria di designer drug in più rapida espansione è proprio quella degli oppioidi sintetici. Basta pensare che nel 2009 l’Unodc (United nations office on drugs and crime) registrava un solo oppioide costruito «su misura», mentre nel 2023 erano già 132. Le designer drugs riescono a circolare liberamente e legalmente finché non vengono riconosciute, cosa che necessita di test sempre nuovi e più sofisticati. Gran parte delle droghe su misura attualmente in circolo appartengono a quattro categorie: i cannabinoidi sintetici, i catinoni, le fenetilammine e gli oppioidi sintetici. Ciascuna di queste categorie comprende centinaia di molecole molto diverse per natura chimica ed effetti. Queste sostanze sono prodotte principalmente in Cina e India, ma dal 2015 sono stati scoperti almeno 52 laboratori di sintesi clandestina anche in Europa.

Tossicodipendenti sotto un ponte. Foto Rizvi Rahman – Unsplash.

Il ruolo del web

Il mercato di queste sostanze è spesso su internet, sia nel deep web che su normali siti dediti alla vendita di prodotti apparentemente «innocenti»: i cannabinoidi sintetici spruzzati su mix di piante secche da fumare sono venduti come incensi; i catinoni, che si presentano come polveri cristalline e si confondono facilmente con sali da bagno o fertilizzanti, e come tali vengono smerciati. Qualche volta vengono venduti come composti chimici per laboratori di ricerca.

Nei primi anni Novanta, grazie all’avvento di internet, non solo è stato creato un mercato di sostanze stupefacenti sul web, ma per molti chimici clandestini è stato possibile scambiarsi informazioni e, soprattutto, accedere liberamente alla letteratura scientifica, quindi alle procedure di sintesi. In pratica, le ricette sono sul web e i chimici-cuochi producono e vendono dai laboratori clandestini.

Ad esempio, uno studio risalente al 1974 della Janssen Pharmaceutica ha permesso ai chimici clandestini di sintetizzare i derivati del fentanyl, altrimenti detti fentenili. È chiaro quindi che molte designer drugs derivano da molecole di ricerca biomedica e potrebbero pertanto tornare utili nella pratica medica per il loro potenziale terapeutico. Per non parlare del possibile utilizzo in questo campo dell’Intelligenza artificiale (Ia).

Nel 2021 un gruppo di ricerca diretto da David Wishart dell’Università dell’Alberta in Canada ha messo a punto una Ia chiamata DarkNps (New psychoactive substances), la quale ha assimilato le strutture di 1.753 sostanze psicoattive note e ha generato circa 9 milioni di varianti con una capacità di prevedere circa il 90% delle nuove droghe prodotte dai chimici clandestini, rivelandosi utilissima nella lotta al narcotraffico. Tuttavia, le Ia di questo tipo potrebbero presto diventare delle ottime assistenti anche per i chimici clandestini. Nel contempo potrebbero ideare e realizzare la sintesi di nuove molecole utili a scopo terapeutico. Come sempre la scienza è neutra e sta a noi usarla bene o male.

Rosanna Novara Topino

 

 




Ecuador. I narcos all’attacco di Quito

Diana Salazar Méndez, afrodiscendente di 43 anni, è la procuratrice generale (fiscal general, in spagnolo) dell’Ecuador, posizione delicatissima in un paese attraversato da una guerra interna scatenata dagli eserciti dei narcos. L’ultimo assassinato in ordine di tempo è stato César Suárez, magistrato specializzato in corruzione e crimine organizzato, ucciso in un agguato a Guayaquil lo scorso 17 gennaio. Suárez era anche il responsabile del processo contro le 13 persone che, il 9 gennaio, avevano assaltato gli studi dell’emittente TC Televisión.

Subito dopo quell’evento, Daniel Noboa, il giovane presidente del paese andino eletto da pochi mesi, aveva dichiarato lo stato d’emergenza interno. Il presidente accusa gruppi di narcoterroristi collegati a cartelli della droga stranieri. Secondo Noboa, gli affiliati sarebbero almeno 30mila e molti di essi continuerebbero a operare anche dall’interno delle carceri ecuadoriane, finite nelle mani dei criminali.

Fino a pochi anni fa l’Ecuador era un paese tranquillo, senza la violenza che caratterizza praticamente tutti i paesi latinoamericani. La situazione è cambiata da quando esso è diventato una specie di corridoio della droga (cocaina, in primis) prodotta nei paesi confinanti, Colombia e Perù.

Nel paese agiscono una quindicina di gruppi criminali. I principali sono due: «los Choneros» con una disponibilità di 12mila-20mila uomini e «los Lobos», con circa 8mila. Reclutare personale non è difficile considerando la presenza di grandi sacche di povertà e la debolezza di uno stato corrotto e senza risorse.

I soggetti e la rete del commercio internazionale della droga sono cambiati radicalmente dopo la smobilitazione delle Farc colombiane, avvenuta a partire dal 2016. I gruppi ecuadoriani sarebbero legati ai cartelli messicani (Sinaloa, in primis) e a quelli balcanici (albanesi, in particolare). Tuttavia, scrive Primicias, un rispettato sito giornalistico ecuadoriano, «le prove esistenti sull’infiltrazione della criminalità organizzata nella Polizia nazionale, nelle Forze armate, nella magistratura o nella Procura ci portano inevitabilmente a dire che è difficile credere che i criminali siano arrivati lì senza il sostegno e l’intermediazione di coloro che hanno influenza politica nel paese». Di questi legami tra gang criminali e istituzioni pubbliche aveva parlato anche Fernando Villavicencio, il candidato presidenziale assassinato nell’agosto 2023.

Per Daniel Noboa, il più giovane presidente dell’America Latina, la gioia per la vittoria elettorale è durata poco. Oggi il paese attraversa una crisi molto complicata.

Oggi molti si chiedono se, per fronteggiare la gravissima situazione, il presidente Noboa finirà con l’adottare misure estreme (la cosiddetta «mano dura») come quelle adottate da Nayib Armando Bukele, il presidente di El Salvador. Infine, la situazione in Ecuador solleva l’eterno dubbio sull’efficacia del proibizionismo nella guerra alle droghe, la cui produzione – stando all’ultimo rapporto Unodc (United nations office on drugs and crime) – è in continua crescita.

Paolo Moiola




Salute mentale, servono dati e risorse


Circa un miliardo di persone nel mondo soffre di disturbi di salute mentale o derivanti dall’uso di alcol e droghe. Eppure, solo una persona su quattro ha la possibilità di accedere a trattamenti adeguati. Il risultato è una perdita significativa di anni di vita in salute e un costo molto elevato per l’economia mondiale. MConlus affronta anche questo problema tramite le sue missioni in Costa d’Avorio, Messico e Kenya.

Secondo i dati elaborati Our world in data, il portale di divulgazione scientifica sviluppato dall’università di Oxford, nel 2019 erano 792 milioni le persone che convivevano con un disturbo di salute mentale. Il più comune era l’ansia, che toccava 284 milioni di persone, seguito dalla depressione per 264 milioni; 46 milioni di individui presentavano disturbi dello spettro bipolare, 20 milioni erano affetti da schizofrenia o altre psicosi e 16 milioni avevano disordini alimentari. A questi si aggiungevano poi 107 milioni di persone con disturbi derivanti dall’uso di alcol e 71 milioni dall’uso di droghe, per un totale di poco meno di un miliardo di persone@.

I dati, chiarisce il portale, vengono dall’Institute for health metrics and evaluation (Ihme) dell’Università di Washington, a Seattle (Usa), il cui studio Global burden of disease (Gbd) ha indagato gli effetti di 290 malattie e 67 fattori di rischio nel mondo. Il Gbd@ è uno dei principali punti di riferimento per gli studi sulla salute mentale, ampiamente citato e utilizzato dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms). Tuttavia, gli stessi ricercatori che lo hanno realizzato segnalano che su questo tema i dati sono spesso lacunosi e raccolti in modo disomogeneo, specialmente quando riguardano i paesi a medio e basso reddito. Di conseguenza, in particolar modo in quei paesi, l’ampiezza del fenomeno è probabilmente sottostimata.

La pandemia da Covid-19, calcola inoltre l’Ihme, ha indotto un aumento dei casi di ansia (+76,2 milioni) e depressione grave (+53,2 milioni), colpendo in modo particolare le donne e i più giovani@.

Malato mentale chiuso in gabbia nelle Filippine.

Anni di vita persi e risorse insufficienti

Le persone con problemi di salute mentale gravi, sottolinea l’Oms sulla sua pagina dedicata alla salute mentale, muoiono prematuramente – anche con vent’anni di anticipo – a causa di malattie prevenibili e la depressione è una delle principali cause di disabilità.

L’aspetto della disabilità e degli anni vissuti in meno, precisa Our world in data, è molto importante, perché permette di cogliere l’impatto che questi disturbi hanno sulla salute in modo più dettagliato di quanto non sia possibile fare limitandosi solo ai decessi. In particolare, permette di cogliere il cosiddetto «carico di malattia» (disease burden) misurato in anni di vita corretta per disabilità (Daly, o Disability-adjusted life year), cioè la somma del numero di anni persi a causa di malattia o disabilità più quelli persi per morte prematura.

Utilizzando questo indicatore, i disturbi legati alla salute mentale rappresentano il 5% del carico globale di malattia e sono responsabili del 14% degli anni vissuti con malattia o disabilità@.

I problemi di salute mentale non risparmiano gli adolescenti: uno su cinque soffre di questi disturbi e il suicidio è la seconda causa di morte fra le persone fra i 15 e i 29 anni. Anche nelle situazioni post-conflitto la proporzione di persone con un problema di salute mentale è di una ogni cinque. Il costo per l’economia mondiale dei due disturbi più diffusi, l’ansia e la depressione, è quantificato in circa mille miliardi di dollari l’anno@.

Nonostante questi dati, la spesa media per la salute mentale è di circa il 2% al livello globale e anche nell’aiuto pubblico allo sviluppo la quota destinata ad affrontare questo tema non va oltre l’1% dell’aiuto destinato al settore sanitario (che a sua volta è una frazione di quello totale). Tre quarti delle persone affette da uno di questi disturbi non ricevono alcun trattamento e, anzi, si trovano spesso a vivere in contesti in cui pregiudizio, violazioni dei diritti umani, stigmatizzazione e leggi del tutto inadeguate rendono ancora più difficile la loro situazione.

Incontro di formazione a Guadalajara, Messico

La salute mentale e lo stigma

Diversi reportage negli ultimi anni hanno descritto le condizioni in cui sono spesso costrette a vivere le persone affette da questi disturbi nei paesi a basso reddito@: la pratica di incatenare i malati e di confinarli in luoghi come i prayer camps, i campi di preghiera, è una violazione dei diritti umani e peggiora la loro condizione. Anche questa rivista ha raccontato nel 2018 uno degli sforzi di fornire un’assistenza adeguata alle persone con disagio mentale e diffondere la conoscenza del problema in alcuni paesi dell’Africa Occidentale (vedi MC 8-9/2018, Disagio mentale, incontro con Grégoire Ahongbonon).

Priorità: salute mentale

Oggi, nel centro di salute Joseph Allamano di Dianra, in Costa d’Avorio, i missionari della Consolata hanno avviato un servizio di assistenza per le persone con disturbi di salute mentale che il responsabile, padre Matteo Pettinari, progetta di far diventare un giorno un vero e proprio centro diurno.

Uno dei vantaggi di un servizio come questo è poter distinguere fra disturbi di salute mentale, malattie neurologiche e patologie che non hanno nulla a che fare con le due condizioni precedenti. Operare questa distinzione è particolarmente importante nel caso di un disturbo cronico del cervello come l’epilessia@, la cui comprensione in paesi come quelli africani è tuttora inficiata da superstizioni e stigmatizzazione.

Padre Matteo riporta il caso di un giovane preso in carico dal centro di salute di Dianra: «Étienne ha l’epilessia, ma purtroppo qui non è stata subito riconosciuta come tale e, anzi, è stata interpretata come un problema di interferenza con il mondo degli spiriti e altre letture di questo genere, che affondano le proprie radici nella tradizione culturale e nella cosmovisione del popolo senoufo. Per questo la famiglia lo ha progressivamente ritirato dalla scuola e portato da diversi guaritori, che sono intervenuti sulla dieta togliendo la carne o i legumi, senza ovviamente ottenere miglioramenti. Il nostro centro di salute è riuscito a intercettare il suo bisogno di assistenza e inserirlo in un programma che prevede il trattamento farmacologico. Ora Étienne riesce a gestire il piccolo punto ristoro del centro sanitario e ad avere una vita comparabile con quella di persone non affette da questa malattia, ricavando anche un reddito che lo rende economicamente indipendente. Inoltre, adesso ha un contesto di relazioni che lo sostengono, liberandolo dall’isolamento al quale sono spesso condannate le persone nella sua situazione».

Il dispensario di Dianrà, in Costa D’Avorio

La salute mentale e il conflitto

Lo scorso 29 marzo padre Ramón Lázaro Esnaola condivideva via Telegram dal Messico una notizia apparsa in un articolo sul sito di una radio di Guadalajara: nei primi tre mesi del 2022, nello stato di Jalisco c’è stato un solo giorno senza omicidi, il 23 marzo. Le statistiche del governo federale, continuava l’articolo, rivelano che dal 1° gennaio al 27 marzo c’erano stati 364 omicidi dolosi, 4,23 al giorno in media@. In Italia, nello stesso periodo gli omicidi sono stati 67@.

Secondo un’indagine dell’Istituto nazionale di statistica del Messico (Inegi) effettuata su un campione di 27mila abitazioni, il 39,6% degli intervistati di 18 o più anni dichiara di aver sentito spari frequenti di arma da fuoco nei pressi della propria abitazione nell’ultimo trimestre del 2021@.

Servizio ai malati mentali nel dispensario di Dianrà, Costa D’Avorio

Alla tensione e violenza generalizzata si aggiunge poi la violenza domestica: sempre l’istituto nazionale di statistica riporta in uno studio del 2016 realizzato su oltre 142mila case che una donna su quattro di età superiore ai 15 anni aveva subito una forma di violenza – fisica, emotiva, sessuale – da parte del partner negli ultimi 12 mesi (il dato saliva al 43% considerando tutta la vita); oltre una su cinque riportava che le violenze avevano avuto luogo nell’ambiente di lavoro, il 17,4% in  ambito scolastico e il 10% in ambito familiare escludendo il compagno, quindi da parte di fratelli, sorelle, padri, madri, patrigni, matrigne e altri parenti@.

In un contesto come questo, gli interventi che i missionari della Consolata stanno mettendo in atto cercano di fornire alle persone alcuni strumenti che permettano loro di affrontare le situazioni di violenza e i lutti. In particolare, riporta padre Ramón nella relazione sul progetto finanziato dagli Amici di Missioni Consolata con la raccolta fondi del 2020@, nei laboratori proposti nel corso del progetto si è lavorato sull’identificare «situazioni che generano squilibri emotivi, modelli, convinzioni che hanno causato la perdita di autostima», incoraggiando la conoscenza di sé e lo sforzo di basare il proprio processo decisionale su motivazioni razionali e non impulsive, mentre i laboratori più specifici sulla perdita e sul lutto sono previsti entro la fine di quest’anno.

Quanto alla risposta delle autorità sanitarie pubbliche, riferisce sempre dal Messico padre Alex Conti, il Sistema nazionale per lo sviluppo integrale delle famiglie «è presente in ogni comune e fornisce assistenza psicologica a costi accettabili, anche se non pubblicizza molto il servizio. Un servizio di assistenza psicologica è presente anche in molte parrocchie».

Dal 2018 vi è poi una legge, la Nom 035, per la «prevenzione dei fattori di rischio psicosociale, ovvero quegli elementi in un ambiente di lavoro che possono rappresentare un rischio per la salute mentale delle persone, come orari lunghi, sovraccarico di lavoro, leadership negativa e mancanza di controllo sul lavoro, tra gli altri. Questo regolamento è obbligatorio per tutti i luoghi di lavoro», ma secondo il quotidiano El Economista solo un terzo delle imprese ha applicato la legge in tutti i suoi aspetti@.

«Gli psicologi professionisti privati forniscono assistenza a costi variabili che vanno dai 300 pesos (circa 13,54 euro) in periferia e dagli 800 ai 1.200 (36-54 euro) in città per le persone dei ceti più ricchi. Uno dei problemi è che gli assistiti spesso non hanno costanza e, nel caso di quelli meno abbienti, danno priorità ad altre spese».

Formazione di operatori per il nuovo servizio ai malati mentali nel dispensario di Dianrà, Costa D’Avorio

la cittadella psichiatrica a Nairobi

Lo scorso novembre il quotidiano Avvenire riportava la notizia della firma di un memorandum d’intesa fra il governo keniano del presidente Uhuru Kenyatta e Gksd, «una partecipata del Gruppo San Donato che gestisce in Italia 17 ospedali privati in convenzione col Servizio sanitario nazionale, tra cui eccellenze come il San Raffaele di Milano». L’intesa dovrebbe portare alla costruzione, su una superficie di 80 ettari, di un complesso per la salute mentale, il Mathari Mental Hub, in grado di ospitare fino 600 pazienti assistiti da 1.100 membri dello staff fra medici e tecnici. Si tratterebbe di un «polo d’eccellenza di salute mentale – pubblica e gratuita – non solo per il Kenya, ma per tutta l’Africa Centrale»@.

Anche solo dalla città di Nairobi non mancherebbero gli utenti: una ricerca sulle sex workers di Nairobi, disponibile sul sito della Cambridge University Press, ha riportato che su 1.039 persone, di età media pari a 33,7 anni, che hanno preso parte allo studio, circa una su quattro soffriva di depressione moderata/grave, una su dieci d’ansia moderata o grave, il 14% di disturbo da stress post traumatico e il 10,2% segnalava un comportamento suicidario recente: un tentativo di suicidio nel 2,6% dei casi e ideazione suicidaria nel 10%. Tra le donne con disturbi di salute mentale, circa due su tre hanno avuto anche un problema da abuso di alcol o droghe@.

Chiara Giovetti




Cambogia: Sei amici e una dose

testo e foto di Luca Salvatore Pistone


Nei sobborghi di Phnom Penh, tra baracche e immondizia, è venduta e comprata la droga sintetica. Molti ne fanno uso anche per non sentire le fatiche di una vita al limite. Le metanfetamine lasciano strascichi pesanti a livello psichiatrico. Il governo reprime sia spacciatori che consumatori.

Crystal meth, ice e yaba sono i nomi più comuni con cui è conosciuto un particolare tipo di metanfetamina in Cambogia. Come negli altri paesi della regione, anche qui quello della dipendenza da metanfetamina è un fenomeno che interessa un numero sempre maggiore di giovani. Negli ultimi anni la polizia cambogiana si è prepotentemente lanciata in massicce campagne anti droga che hanno portato all’arresto di migliaia di tossicodipendenti e spacciatori trattati alla stessa stregua davanti alla legge. Numerose organizzazioni umanitarie denunciano le ripetute violazioni dei loro diritti fondamentali, e intanto le carceri cambogiane continuano a registrare cifre record di detenuti.

Arun, Phirun, Bourey, Jack, Soumy e Munny sono amici di lunghissima data. Sono tutti nati e cresciuti a Mean Chey, un quartiere periferico di Phnom Penh, uno slum, un susseguirsi di baracche e palafitte che si ergono su una palude e un fiumiciattolo che confluisce nel Tonlé Sap, l’imponente fiume che
bagna la capitale. Nel fitto intreccio di viuzze che costituiscono Mean Chey, il sole difficilmente penetra, mentre la pioggia ad ogni temporale allaga le abitazioni dai tetti di plastica e lamiera.

Questi giovani, che hanno tutti un’età compresa tra i 23 e i 27 anni, si trovano di primo pomeriggio per farsi una fumatina di crystal meth. Lo fanno a casa di Arun, un’unica stanza con un lettone dove il giovane dorme con la madre e le due sorelle. «Dai – esclama l’ospite rivolgendosi a Phirun -, fa presto a cacciare la bottiglia e le cannucce, io ho già pronti stagnola e accendino. Dobbiamo sbrigarci prima che torni mia madre da lavoro, altrimenti dà di matto e per me sono guai». È al padrone di casa che spetta la preparazione della pipa ad acqua fatta di materiali facilmente reperibili. Al gruppetto di compari non rimane altro da fare che aspirare dalla cannuccia e attendere che il crystal meth faccia effetto.

Chi usa le droghe

Nel Sud Est asiatico, sono soprattutto i ceti più bassi a fare sistematicamente uso di metanfetamine. Ma anche la borghesia medio alta non ne è estranea. Droghe di questa famiglia, che si presentano sotto forma di piccoli cristalli, vengono assunte durante le serate in discoteca; dalle prostitute prima di iniziare ad accogliere i clienti; dagli operai e dai tassisti per lavorare il maggiore numero di ore possibile. Si tratta di potenti eccitanti che, se assunti per lungo tempo, possono portare a serie malattie psichiatriche spesso irreversibili.

In Cambogia il prezzo di una dose può variare dai 5 ai 10 dollari statunitensi, una cifra considerevole se si tiene presente che una buona fetta della popolazione vive con meno di un dollaro al giorno.

Terminato il rituale, dopo aver bevuto qualche lattina di birra e Coca-Cola calda, i sei ragazzi si alzano ed escono per accomodarsi nell’atrio della catapecchia di Arun. Qui rimangono per qualche minuto in silenzio mentre osservano dei bambini, loro fratellini e cuginetti, che giocano a piedi nudi in una pozza d’acqua da un intenso colore blue cobalto. Attorno a loro, ovunque, ci sono rifiuti ed escrementi tra i quali galline e pulcini vengono lasciati liberi di girare. «Mean Chey – sentenziano unanimi i vecchi amici – è una pattumiera a cielo aperto, non c’è altro da aggiungere. E di posti come questo la Cambogia è piena».

Bourey, di professione conducente di moto taxi, è il primo dei sei ragazzi a sbottonarsi un po’: «Quando mi faccio di crystal meth, difficilmente mi accontento di una sola dose, e così ogni volta spendo fino a 20 dollari. Lo so, sono tanti soldi, ma lo faccio anche perché una volta che sono fatto ho più energie per lavorare tutta la notte. Questa roba mi piace perché mi fa sentire invincibile e quindi mi fa guadagnare di più. Il problema è quando finisce l’effetto. La testa non va più a mille e mi ritrovo qui, in mezzo a questo schifo. Non posso smettere, ci ho provato ma non ci riesco in alcun modo».

Reprimere anziché curare

Negli ultimi anni la polizia, assistendo a un netto aumento del fenomeno, ha lanciato delle energiche campagne antidroga che sulla carta prevedono l’arresto di trafficanti e consumatori e l’inserimento, per questi ultimi, in centri di riabilitazione. In realtà ci sono stati solo una miriade di arresti arbitrari e odiosi abusi. Ogni anno si contano circa 10mila arresti.

L’Alto commissariato delle Nazioni unite per i diritti umani (Unhchr) ha espresso la propria preoccupazione in merito alla parità di trattamento riservata a spacciatori e tossicodipendenti, indipendentemente dalla quantità di droga con cui si viene colti in flagrante, e alla scarsa assistenza medica dopo l’incarcerazione dovuta alla mancanza di fondi. In un suo recente rapporto, l’Organo internazionale per il controllo degli stupefacenti (Incb) del Consiglio economico e sociale delle Nazioni unite, descrive la Cambogia come un hub regionale per il traffico di eroina, cocaina e metanfetamine, e avverte che la produzione casalinga di crystal meth per il mercato interno è in aumento. Da parte sua, il Centro cambogiano per i diritti umani (Cchr) parla di sovraffollamento delle carceri e di tempi biblici in attesa anche solo della prima udienza davanti a un giudice.

«Col tempo – illustra Ouk Tha della Rete cambogiana per le persone che fanno uso di droghe (Cnpud), che conosce molto bene i ragazzi di Mean Chey – abbiamo raccolto un gran numero di prove a favore dell’innocenza dei tossicomani da noi assistiti e contro i metodi brutali di cui la polizia si serve, ma raramente ci viene data occasione di depositarle in tribunale. Ciò che più ci preoccupa è la difficoltà che i tossicodipendenti hanno ad accedere alle cure sanitarie, e questo anche perché le autorità giudiziarie si prendono lunghissimi tempi prima di fare la cernita tra spacciatori e soggetti con problemi di dipendenza da droga».

La storia di Jack

Jack è assorto tra i suoi pensieri. «Non è più lo stesso – racconta Arun, con il volto triste – da quando sua moglie è stata arrestata». Da alcuni mesi la donna, anch’essa tossicodipendente, si trova in carcere perché sorpresa dalla polizia mentre acquistava una dose di crystal meth.

Jack torna in sé e prende la parola: «In quella retata hanno portato via sia lei che lo spacciatore. Di solito acquistavo io la roba per entrambi. Ma quella volta ha voluto fare tutto lei perché era in astinenza, aveva avuto una crisi. Da quando me l’hanno portata via sono sconvolto e faccio sempre più uso di questa schifezza. Ho iniziato pure con la ketamina con la speranza di alleviare il dolore, di distrarmi, ma continuo a stare malissimo. Un giorno mi fermerò. E devo farlo al più presto. Se continuo così, non avrò più denaro per comprare il latte a nostro figlio che ora è in carcere con mia moglie».

Le recenti crociate della polizia contro le metanfetamine hanno portato all’abbattimento di numerose abitazioni dentro le quali avvenivano reati legati al consumo di queste sostanze. Case ubicate nelle numerose baraccopoli di Phnom Penh dove le forze dell’ordine sono determinate più che mai a mostrare i muscoli per arginare la diffusione del crystal meth tra i giovani.

Palafitte

Trapaing Chhouk, nel distretto periferico di Sen Sok, è uno slum come tanti nella capitale cambogiana. Un labirinto di passerelle di legno traballanti che collegano circa duecento fetide palafitte che, chissà come, rimangono in piedi su un putrido laghetto. Qui vivono circa mille persone. A meno che non ci si voglia arrischiare ad attraversare distese di rifiuti di dubbia natura, per addentrarsi nel ghetto di Trapaing Chhouk, l’unico modo è percorrere una delle due strettissime passerelle presenti. «Grazie a queste passerelle – spiega Sek, cinquantenne del posto -, quei delinquenti tenevano facilmente sotto controllo tutti i movimenti. Quando sospettavano stesse per verificarsi una retata dei poliziotti, era sufficiente un fischio e in pochi secondi la droga veniva nascosta».

La prima cosa che balza agli occhi dei visitatori di Trapaing Chhouk è l’imponente mole di cannucce di plastica che si trovano sparse ovunque per terra. «Dove ci sono degli spazi vuoti – continua Sek -, fino a poche settimane fa c’erano delle case. Sono state tutte rase al suolo dai poliziotti perché lì ci vivevano i drogati o ci facevano i loro loschi affari gli spacciatori. A dimostrazione di ciò, sul terreno, rimangono tutte queste cannucce con cui si fuma la metanfetamina nelle bottigliette piene d’acqua. Saranno migliaia e migliaia. Capito quanta droga è passata e continua a passare da queste parti? E se si presta attenzione, si noterà che tra le cannucce ci sono anche delle siringhe. I drogati si iniettano quella roba anche in vena».

Preoccupa l’aumento dei soggetti che assumono metanfetamine tramite iniezione e che contraggono l’Hiv. Il governo nazionale, sostenuto dalle Nazioni unite, ha da tempo avviato l’iniziativa «90-90-90». Questa prevede che entro la fine del 2020, il 90 per cento delle persone con l’Hiv dovrà conoscere la propria diagnosi; il 90 per cento delle persone con l’Hiv dovrà ricevere un valido trattamento; il 90 per cento delle persone con l’Hiv che riceve una terapia antiretrovirale dovrà raggiungere e mantenere la soppressione virale. Secondo le autorità sanitarie cambogiane, nel paese il 25 per cento di tossicomani che si inietta droghe è malato di Aids.

Metodi drastici

«Senza droga – confida Pol, una donna sulla sessantina, mentre vende cibo fatto in casa sull’uscio della sua baracca – viviamo più tranquilli. Prima dell’intervento della polizia, qui a Trapaing Chhouk regnava il caos. Schiamazzi, liti e baccano sia di giorno che di notte. Non si riusciva a dormire. A parte questo, noi gente per bene non abbiamo mai avuto problemi con quei drogati, non hanno mai rubato a casa nostra o dato particolari noie. Piazzavano come vedette dei ragazzini esterni al ghetto, nel caso in cui arrivasse la polizia. La nostra paura più grande era che potessero coinvolgere i nostri figli o che questi potessero essere scambiati per spacciatori dai poliziotti e quindi arrestati».

«Tremo – è il turno di Chea, coetanea e vicina di casa di Pol – se penso a quando avvengono le demolizioni. Utilizzare qui le ruspe è impensabile e così fanno tutto a mano con picconi e pale. Un rumore infernale che ti entra nel cervello. Hanno arrestato almeno una settantina di giovani, quasi tutti sotto i trent’anni. Vivevano qui da diverso tempo perché ritenevano Trapaing Chhouk un luogo sicuro. E in effetti così era: da tanti anni eravamo finiti nel dimenticatoio delle autorità, nessuno si sognava di mettere piede qui. Poi all’improvviso il problema della droga è diventato una priorità per la polizia e così, suo malgrado, Trapaing Chhouk ha attirato l’attenzione di molti».

Una delle polemiche sorte attorno alle demolizioni che avvengono a Trapaing Chhouk è che le case abbattute non erano di proprietà di tossicodipendenti e spacciatori, bensì di persone che abitano al di fuori del ghetto. Sono pochi i casi in cui i locatori sono stati segnalati alla polizia per essere stati a conoscenza di ciò che avveniva dentro le baracche. Numerosi invece i proprietari che hanno chiesto dei risarcimenti alla municipalità. «Non credo – dice Chea – che sia stato giusto abbattere case di proprietà di persone che non hanno commesso quei crimini. Non erano presenti, secondo me non potevano sapere che cosa accadeva al loro interno. So che hanno esposto le loro rimostranze alla municipalità ma non hanno ancora ricevuto risposta».

«L’intervento della polizia – dice infine Sek – è stato positivo. La polizia antidroga ora controlla tutto, ha eseguito delle indagini nelle case dove si faceva uso di droghe e dove la gente veniva ad acquistarne. Seguivano i clienti, li fermavano, li arrestavano, li interrogavano e raccoglievano informazioni. Così in breve tempo hanno potuto individuare le case incriminate e demolirle. In generale ci riteniamo soddisfatti perché qui non circola quasi più droga, i nostri giovani sono più al sicuro e non subiamo più alcun tipo di molestia. Ora possiamo cominciare a tirare un bel sospiro di sollievo».

Luca Salvatore Pistone*

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*Sul tema delle droghe l’autore ha già pubblicato: Filippine: la (sporca) guerra della droga, MC marzo 2019;
Come il fisico, così lo spirito, MC maggio 2020.
Sulle droghe si veda anche Chiara Giovetti alle pp. 64-67 di questo numero.

 




Come il fisico, così lo spirito

Testo e foto di Luca Salvatore Pistone |


Wat Tham Krabok è un monastero che si è specializzato in recupero di tossicodipendenti. Offre una terapia d’urto, fisica e spirituale. Molto rigorosa ma efficace. E così è frequentato da thailandesi e stranieri. E qualcuno finisce per fermarsi.

A 150 chilometri da Bangkok, nella provincia di Saraburi, poco distante dalla trafficatissima Phahonyothin Road, nascosto tra le montagne, si trova il tempio buddhista di Wat Tham Krabok. Dalla sua fondazione, avvenuta sessant’anni fa, quando la Thailandia era in pieno boom di consumatori di oppiacei, il santuario funge da centro di riabilitazione per tossicodipendenze. La terapia cui i pazienti vengono sottoposti dai monaci include trattamenti poco ortodossi, primo tra tutti la «cerimonia del vomito».

All’ingresso del tempio si trova un piccolo altare votivo pieno di fiori e piccole luci, un omaggio alla fondatrice dell’ordine monastico Tudong, una principessa thai vissuta il secolo scorso che dedicò tutta la sua vita alle opere caritatevoli. A Wat Tham Krabok tutto è perfettamente organizzato. Coloro che vogliono essere ammessi al sacro recinto devono compilare a penna un modulo dettagliato dichiarando il loro stato di dipendenza da sostanze nocive e, quindi, impegnandosi ad accettare ogni regola imposta. Lo stesso atto di abbandono degli abiti civili ha un significato simbolico e religioso: spogliandosi, si rinuncia a quanto arriva dal mondo esterno per entrare in una differente dimensione psichica prima che fisica.

Altrettanto significativo e simbolico è il fatto di mettersi a gattoni sulla grata di una fognatura, con un secchio pieno d’acqua accanto e un misurino contenente un miscuglio dal fetore insopportabile, per rigettare tutto ciò che si ha in corpo. Eee è al suo quarto giorno e ancora non si è abituato a tutto ciò. Nei primi cinque giorni di riabilitazione a Wat Tham Krabok, alle tre in punto del pomeriggio, i pazienti devono prendere parte alla cosiddetta «cerimonia del vomito»: vomitare a oltranza espellendo tutte le tossine dopo aver ingerito un intruglio di erbe amare e semi locali fatto dai monaci la cui ricetta è segretissima. Se il beverone non è sufficiente a indurre il rigetto, il soggetto si infila due dita in gola o beve acqua fino a esplodere. Il tutto, alla presenza di un vasto pubblico di monaci e pazienti che applaude alla fine del rituale.

Thailandia, monastero disintossicazione. Foto Luca Salvatore Pistone

La storia di Eee

Ventiquattrenne, dipendente dalle metanfetamine, Eee è uno degli ultimi arrivati a Wat Tham Krabok. «Lavoravo al mercato dei fiori di Bangkok – racconta mentre pulisce dalle foglie uno dei cortili del tempio – e le cose non mi andavano male. Poi ho cominciato a fare uso di metanfetamine e di conseguenza ad avere allucinazioni durante l’orario lavorativo. Sono stato licenziato ed è stato allora che mi sono deciso a venire qui. Non mi sono ancora abituato a tutte queste strane pratiche».

«Il miscuglio della cerimonia del vomito – spiega Richard, un monaco neozelandese da diversi anni a Wat Tham Krabok – scatena fortissime e incontrollabili contrazioni dei muscoli intercostali e addominali, provocando una sensazione di dolore e di soffocamento. I muscoli della parete dello stomaco si contraggono spasmodicamente e i contenuti vengono espulsi in una irrefrenabile crisi di vomito. Questa crisi dolorosa e provocata non è tesa solo alla liberazione fisica da ogni impurità residua dovuta agli stupefacenti, ma anche a un rifiuto psichico della dipendenza. Attraverso l’espulsione violenta, il paziente raggiunge annullamento fisico e psichico cadendo in uno stato di prostrazione che gli dona una sensazione liberatoria». La permanenza a Wat Tham Krabok è di almeno due settimane, senza la possibilità di ricoveri successivi. «Questa non è una clinica a porte girevoli» sono soliti ripetere i monaci. Alloggi e trattamenti sono gratuiti. Di tasca loro i pazienti devono esclusivamente pagarsi il vitto, che può essere consumato solo una volta al giorno alle sette di mattina. La sveglia è alle quattro e mezza mentre alle otto di sera si spengono le luci. Nel complesso del tempio è vietato fare entrare sostanze stupefacenti e alcol, come sono vietate le visite di parenti e amici. Ogni paziente deve indossare l’uniforme fornita dai monaci, un camicione di colore bordeaux con la scritta «vincitore» sulla schiena. Niente telefoni cellulare né tablet. Gli unici svaghi concessi sono un pallone da calcio sgonfio, un tavolo da ping pong malconcio, qualche chitarra scordata e un televisore sintonizzato su uno dei canali nazionali thailandesi. È proibito mettere piede fuori dal perimetro del tempio: in più occasioni i monaci hanno scovato piccoli spacciatori, nascosti tra i cespugli, intenti a offrire droghe ai pazienti.

Thailandia, monastero disintossicazione. Foto Luca Salvatore Pistone

Spiritualità e terapie

Nella cura delle tossicodipendenze, Wat Tham Krabok racchiude un misto di spiritualità e terapie fisiche di forte impatto. Quello del vomito è il trattamento più invasivo, ma la terapia dei monaci buddhisti non si limita a esso. Il primo giorno il nuovo arrivato viene sottoposto alla cerimonia del sajta, il sacro voto di astinenza. Alla presenza di un monaco anziano, i pazienti giurano solennemente di rinunciare a ogni sostanza stupefacente. Il religioso scrive su dei foglietti il nome e la promessa dei novizi e li inserisce in un braciere che accende con dei lunghi fiammiferi. Al temine di una nenia tra il canto e la preghiera, il monaco porge il braciere a una statua del Buddha. È così che il voto diventa sacro – chi lo infrange non potrà più mettere piede a Wat Tham Krabok – e il sajta si conclude.

Ancora, la «cerimonia della sauna». Seguiti a vista dai monaci, i pazienti escono dall’area dormitorio e si recano all’area sauna che è composta da due stanzini che hanno una tenda nera in cotone pesante come porta. Il calore al loro interno è prodotto da un forno a legna situato sul retro della struttura. Ammassati l’uno contro l’altro, i pazienti devono realizzare tre sessioni di sauna di cinque minuti l’una, intervallati da pause di due minuti durante le quali è possibile trovare sollievo con dell’acqua gelata.

«La temperatura all’interno degli stanzini – dice stremato Peter, svedese al penultimo giorno di ricovero – sfiora i cento gradi e non sono rari i casi di mancamenti. Io stesso la prima volta sono svenuto. I monaci mi hanno rianimato con dei sali. Gran brutta storia… Bisogna fare dei sacrifici per rimettersi in forma e io sento di essere ormai a buon punto. Non avrei mai detto che uno stile di vita così spartano avrebbe risolto i miei problemi».

Non molto distante dalla zona sauna c’è un rudimentale laboratorio di artigianato. «Questa officina – racconta Phra Kru Vichit, uno dei monaci anziani – è un altro dei nostri fiori all’occhiello. Insegniamo ai nostri pazienti a creare opere d’arte servendosi di oggetti riciclati».

Thailandia, monastero disintossicazione. Foto Luca Salvatore Pistone

Storia e numeri

Wat Tham Krabok nacque nel 1959. L’idea di rendere un tempio buddhista un luogo di disintossicazione fu – precisa Phra Kru Vichit – «una scelta dettata dal fatto che a quei tempi il maresciallo Sarit Thanarat (primo ministro della Thailandia dal 1957 al 1963 in seguito ad un colpo di stato da lui attuato, nda) aveva lanciato una feroce campagna contro le coltivazioni di oppio. Migliaia di oppiomani ed eroinomani vennero giustiziati e così i monaci si sentirono in dovere di aiutare queste persone».

Il centro raggiunse una grande popolarità nel 1997, quando la Thailandia assistette a un boom della dipendenza da metanfetamine. La terapia prevede anche mezzora al giorno di meditazione guidata da un monaco. Di norma presso Wat Tham Krabok ci sono in cura una trentina di persone alla volta, ma è capitato spesso di superare quota cinquanta. Il tempio non riceve sovvenzioni statali e va avanti solo grazie agli sforzi dei suoi quasi duecento monaci.

I numeri di Wat Tham Krabok sono davvero impressionanti. Dalla sua fondazione, oltre 110mila tossicodipendenti sono stati presi in cura. Continua Phra Kru Vichit: «Oggi il novanta per cento dei nostri assistiti completa il programma e il sessanta per cento per tutto l’anno successivo alla terapia rimane lontano dalle droghe. Per noi il tossicodipendente non è un semplice malato che necessita di cure fisiche ma è essenzialmente un uomo che deve ritornare alla pace attraverso la rinuncia, la purificazione e il sacrificio. Abbiamo avuto molti pazienti che dopo avere seguito il trattamento hanno deciso di farsi monaci, circa il venti per cento del totale. Il fatto che molti nostri monaci siano ex pazienti crea una certa empatia con i nuovi arrivati».

A tal proposito, Phra Kru Vichit convoca un altro monaco anziano con braccia e petto coperti da tatuaggi. Il religioso chiede di celare il suo nome. «Sono qui da trent’anni – dice – e posso dire che Wat Tham Krabok mi ha salvato la vita. Da ragazzo non ho mai lavorato e mi facevo di ogni cosa. Una notte, durante una violentissima retata della polizia, mi salvai per un pelo. Fu allora che mia madre mi supplicò di venire al tempio. Mai scelta fu più giusta. La nuova dimensione conosciuta grazie ai monaci mi ha fatto capire che un nuovo corso era possibile. Da allora non ho mai lasciato i miei confratelli. Oggi, oltre a occuparmi della mensa, aiuto i nuovi arrivati ad ambientarsi al meglio. Capisco perfettamente cosa hanno passato».

Il monastero tratta un numero sempre maggiore di pazienti dipendenti dallo ya-ba, un mix potentissimo di metanfetamine e caffeina. Lo ya-ba, il cui significato in lingua thai è «droga della follia», ha incontrato larga diffusione non solo in Thailandia ma anche al di fuori del territorio asiatico.

Thailandia, monastero disintossicazione. Foto Luca Salvatore Pistone

Pazienti dall’estero

I portentosi risultati del tempio attirano ormai da anni anche pazienti dall’estero, soprattutto da Stati Uniti, Australia ed Europa settentrionale. Danielle, inglese, è all’ultimo giorno di ricovero a Wat Tham Krabok per alcolismo, dice: «Ho scoperto questo posto meraviglioso perché avevo letto in rete che Pete Doherty (il noto musicista britannico leader della band punk Libertines, nda) ci era stato tempo fa senza però resistere alla terapia oltre il terzo giorno. Mi sono informata e alla fine ho trovato molte critiche positive. All’inizio è stata davvero dura ma, trascorsi i primissimi giorni, ho cominciato ad abituarmi. È stato solo dopo aver espulso tutto il marcio che avevo dentro attraverso le sessioni di vomito e sauna che ho davvero apprezzato questo luogo di pace. Ho potuto riscoprire me stessa, rinascere, ma senza un reale sforzo personale non si va da nessuna parte. Adesso voglio solo rimanere pulita e proseguire il mio percorso interiore».

«Ci si prospetta una nuova vita – le fa eco Andrew, statunitense, al tempio per la sua dipendenza da metanfetamine e cocaina -. Devo ringraziare mia moglie che ha trovato questo centro navigando su internet e mi ha convinto a venirci. È stata un’esperienza meravigliosa, più intensa di quelle provate nei centri di disintossicazione conosciuti prima nel mio paese. Ho imparato molto, ho visto molto. Sono stato in grado di capire chi sono davvero. Non sono buddhista, ma ritengo che la meditazione, la disciplina e la semplicità del tempio mi abbiano fatto elevare a uno stato superiore».

A contribuire alla straordinarietà di Wat Tham Krabok è il complesso di statue del Buddha all’ingresso del santuario. Sculture fatte di un composto di ossidiana e altri minerali meno nobili, che vanno dai venti ai quaranta metri di altezza e che sono state interamente fabbricate dai monaci. «Lasciano senza fiato, vero? – riprende la parola Danielle – Io rimango estasiata ogni volta che le osservo. Pensare che delle persone così pacate possano arrivare a fare tanto è strabiliante. Sono uomini unici questi monaci. Sono stati in grado di aiutarmi, riuscendo a fare qualcosa in cui molte cliniche pubbliche e private europee avevano fallito».

Luca Salvatore Pistone

Thailandia, monastero disintossicazione. Foto Luca Salvatore Pistone




Droghe e tossicodipendenza


Foto di: Chiara Grimoldi – Dossier a cura di: Paolo Moiola |


Sommario |

Un problema insolubile? |

Il crack, effimera euforia |

Donne e crack |

La drammatica caduta della speranza |

Pochi vincitori, milioni di vinti |

Glossario e bibliografia

In this picture taken on September 24, 2016, medics check the dead body of an alleged drug dealer gunned down by unidentified men in Manila. Philippine President Rodrigo Duterte defended his threat to kill criminals as "perfect" and vowed no let-up in his war on crime, as the death toll surged past 3,700. / AFP PHOTO / NOEL CELIS
Corpo di pusher ucciso nelle Filippine. / AFP PHOTO / NOEL CELIS


Un problema insolubile?

Droghe, fallimento globale

In Portogallo, dall’aprile del 2001, il consumo, il possesso e l’acquisizione di ogni tipo di droga per uso personale non rappresenta più un crimine (www.sicad.pt). La misura ha avuto successo. Lo dicono i numeri (riduzione dei morti per overdose, dei contagi da Hiv, ecc.) e i giudizi di organizzazioni inteazionali. Nelle Filippine, avviene esattamente il contrario: il presidente Rodrigo Duterte, eletto nel maggio 2016, ha dato l’ordine di uccidere spacciatori e consumatori di droga senza inutili arresti e processi. Una giustizia sommaria che, a metà settembre, aveva già fatto 3.426 vittime, 1.491 uccise dalla polizia e le restanti da civili. In Italia, nel 2015 si sono registrati 45.823 ingressi totali negli istituti carcerari, di questi 12.284, pari al 26,8 per cento (un detenuto su 4), in violazione dell’articolo 73 della legge antidroga (detenzione di sostanze illecite). «Come ogni anno e come ogni altro paese occidentale impegnato nella war on drugs – si legge nel 7° Libro bianco sulla legge sulle droghe del giugno 2016 -, la cannabis e i suoi derivati sono le sostanze più prese di mira dal sistema proibizionista. Quasi il 50% delle segnalazioni e delle operazioni antidroga hanno avuto come oggetto i cannabinoidi, nonostante questi siano le sostanze meno dannose per i consumatori, e il loro mercato sia quello in cui i consorzi criminali sono meno coinvolti».

Che la cosiddetta «guerra alla droga» sia fallita ormai lo dicono in molti e da tempo. La dichiarazione più clamorosa, risalente al giugno 2011, è stata quella della «Commissione globale per le politiche sulle droghe», organismo prestigioso anche se quasi sempre inascoltato. «Le immense risorse – si legge nel suo circostanziato rapporto – dirette alla criminalizzazione e alle misure repressive su produttori, trafficanti e consumatori di droghe illegali hanno chiaramente fallito nella riduzione dell’offerta e del consumo». Ancora più duro il comunicato della Commissione uscito ad aprile 2016, subito dopo la chiusura della sessione delle Nazioni Unite dedicata alle droghe (Ungass on drugs): «La Commissione è profondamente delusa […]. Il documento (della sessione speciale, ndr) sostiene un inaccettabile e datato status quo legale. […] Non chiede la fine della criminalizzazione e incarcerazione degli utilizzatori di droga».

Paolo Moiola

Questo dossier parte dal crack, un sottoprodotto della cocaina diffusosi a partire dal Brasile (su MC – l’elenco degli articoli è a pag. 49 – ne abbiamo già parlato). La dottoressa Luana Oddi, medico al Sert di Reggio Emilia, ci spiega perché questa droga ha preso piede anche da noi, perché è considerata molto pericolosa e come la sanità pubblica cerca di aiutare i suoi consumatori. Nel dossier, oltre alle foto, abbiamo usato alcuni grafici, tratti da rapporti inteazionali, con l’obiettivo di far meglio comprendere la problematica al pubblico più giovane, normalmente più esposto. A chiudere, un’intervista a un terapeuta, don Domenico Cravero, che a Torino segue varie comunità di recupero fondate soprattutto sul lavoro nell’agricoltura biologica, e un commento di Sandro Calvani, che ha seguito la problematica delle droghe nella veste di direttore di alcune agenzie delle Nazioni Unite. Pur nella diversità dell’analisi e delle possibili soluzioni, entrambi arrivano a un punto: al di là delle responsabilità e delle debolezze dei singoli consumatori, le droghe sono una manifestazione di società malate. (pa.mo.)

Drug bag


L’esperienza del Sert di Reggio Emilia

Il crack, effimera euforia

 

Spesso la diffusione di una droga è determinata dalla sua disponibilità in uno specifico territorio geografico, in relazione a fattori climatici, economici, politici e storici. L’uso di sostanze ha origini antiche: da sempre l’uomo ricorre a derivati di piante o animali con effetti psicotropi per fini trattamentali/sciamanici o spiritualistici/ritualistici. Oggi le vie di comunicazione, avvicinando i continenti e le culture, hanno reso le droghe sempre più disponibili e soprattutto le hanno «sradicate» ai loro abituali e tradizionali contesti di uso (Guede da Silva, 2012; Santorini, 2013). La scoperta, poi, delle sostanze psicotrope come mezzo di scambio commerciale e di proficuo guadagno, ne ha implementato la diffusione e il cosiddetto consumo edonistico (Guede da Silva, 2012).

Sud e Nord

Si possono così evidenziare differenti fenomeni e stili di consumo a seconda dell’area del mondo presa in considerazione. In particolare grandi sono le differenze tra i paesi del Sud del mondo (spesso produttori e detentori del consumo tradizionale e culturale di sostanze psicotrope) e i paesi occidentali, che si configurano, in genere, come i principali fruitori dei derivati delle droghe naturali (derivanti cioè da prodotti vegetali, minerali o animali) e che riconoscono nel loro consumo finalità spesso edonistiche o di automedicazione (lenire un’angoscia esistenziale, una depressione dell’umore, un dolore cronico non rispondente ai farmaci, ecc.).

Accade così che l’acquisizione di nuove modalità di consumo, separate da specifici contesti (setting) e finalità (ritualistiche, religiose, curative), favorisca il nascere e la propagazione dell’uso tossicomanico delle droghe.

Nel mondo le più diffuse sono l’eroina, la cocaina e la cannabis (grafici alla pagina 42, ndr). Tra queste, come evidenziato da uno studio di David J. Nutt del 2010 (in The Lancet), la cocaina, dopo l’eroina, è la sostanza più dannosa, in termini di danni sociali, sanitari e individuali. In particolare le conseguenze più spiccate sono associate al consumo della cocaina per via endovenosa e al crack. La comparsa del crack è fatta risalire già agli anni ‘70 in Brasile, paese simbolo di questa sostanza, sollievo e dannazione allo stesso tempo soprattutto per le esistenze disperate delle favelas. È da qui che il crack ha iniziato a diffondersi. Negli anni ‘80 ci fu la sua diffusione epidemica nelle strade degli Usa.

Dalla cocaina al crack

Che cosa sono la cocaina e il crack? Il crack è un derivato della prima, sostanza di antichissima storia e classificata, in relazione ai suoi effetti, tra gli psicostimolanti, definiti come la classe di sostanze che eccitano il sistema nervoso centrale, aumentano l’attenzione e riducono l’affaticamento. La cocaina è estratta dalle foglie della coca, pianta appartenente alla famiglia delle Erythroxylaceae ed originaria delle regioni tropicali centro e Nord occidentali dell’America del Sud (il 60% è prodotta in Perù, il 20% in Bolivia, il 15% in Colombia). Più notoriamente l’uso voluttuario della cocaina (idrocloridrato) consiste nell’assunzione in forma di polvere cristallina chiamata con una serie di espressioni gergali diverse: «coca», «neve», «Charlie».

La cocaina idrocloridrato viene consumata tramite aspirazione con le narici o, meno frequentemente, iniettata in vena dopo essere stata disciolta in acqua (Emcdda, 2001).

L’espressione gergale «crack» designa la cocaina trattata per essere fumata o, più precisamente, per inalae i vapori che danno effetti immediati e intensi. Per poter inalare la cocaina è necessario trasformare il prodotto in polvere nella forma di base, che ha infatti, un punto di fusione più basso di quello della prima, rendendola più idonea ad essere scaldata e trasformata in vapore. Il crack ha l’aspetto di cristalli, e ha ormai sostituito quasi completamente la cosiddetta freebase (vedi Glossario sul sito), rispetto alla quale si ottiene con un processo più semplice: il cloridrato di cocaina diluito in acqua, viene mescolato con bicarbonato di sodio e scaldato. Da tale reazione si ottengono piccoli agglomerati solidi detti «rocks» (rocce, sassi, pietre). Questi cristalli sono bruciati, per essere inalati, in una pipa d’acqua e quando esposti al calore provocano un singolare rumore (scricchiolante), da cui – probabilmente – il caratteristico nome di crack.

I vapori del crack

Una dose di crack contiene mediamente 100-200 mg di cocaina. Il crack è di aspetto simile a pietre, a pezzetti di stucco o scaglie di sapone (foto a pagina 37). Sul mercato si può trovare preconfezionato in piccoli sacchetti o contenitori di plastica, pronto per essere utilizzato.

Per fumare il crack, si ricorre generalmente a pipe speciali, il cui fornello è coperto da una maglia metallica (o stagnola traforata). Su tale fornello è posta la sostanza che, scaldata con la fiamma, produce il vapore da aspirare. Un altro strumento molto diffuso e di ampio utilizzo a causa della sua economicità è la bottiglia di plastica.

L’assunzione del crack avviene tramite l’aspirazione dei vapori (e non dei prodotti della combustione come avviene, ad esempio, con le sigarette). Ciò è importante, in quanto i vapori sono assorbiti molto più velocemente del fumo. Questo attribuisce al crack proprietà farmacocinetiche molto simili a quelle della cocaina assunta per via endovenosa: come questa, infatti, permette la rapida entrata in circolo e quindi nel sistema nervoso centrale della sostanza, foendo euforia in modo quasi istantaneo. Il fumatore di crack inala profondamente i vapori trattenendoli nei polmoni per il tempo più lungo possibile, in modo da aumentae al massimo l’assorbimento.

Gli effetti sull’esistenza: vivere per il crack

La via inalatoria, così come quella endovenosa, garantisce la maggiore rapidità d’effetto grazie alla vastità del letto venoso polmonare che permette un subitaneo assorbimento. Questa è sicuramente la caratteristica farmacocinetica più rilevante dal punto di vista clinico: le concentrazioni ematiche e cerebrali si elevano rapidamente, fornendo un intenso stato di benessere e una intensa euforia (rush). A tale rapida insorgenza degli effetti corrisponde una durata altrettanto breve degli stessi (dai due ai cinque minuti). Passato l’effetto, l’umore si abbassa e l’abusatore abituale di crack si ritrova in uno stato di profondo malessere (crash, crollo) la cui intensità è proporzionale all’intensità dell’euforia. Gli effetti del crack sono così intensi che il consumatore si concentra esclusivamente nella ricerca e al consumo della sostanza. Dopo essere stato invaso dagli effetti di potente euforia, il crackomane sviluppa un’incontrollabile compulsione e un irrefrenabile desiderio di ripetere il consumo della sostanza. È tale desiderio invasivo e urgente, in inglese craving, il sintomo nucleare della dipendenza patologica. Esso può portare il crackomane alla perdita di interesse per quelli che fino ad allora erano stati elementi prioritari della sua vita, financo quei bisogni primari connessi con la sopravvivenza, quali dormire, mangiare, ecc. (Galera, 2013): ecco allora che inizia il processo di declino e perdita di affetti, lavoro, relazioni, salute. La necessità di procurarsi la sostanza spinge la persona a furti, spaccio, prostituzione e ciò particolarmente vero per il crack, essendo il consumo di tale sostanza frequentemente associato ai contesti più marginali e poveri. La compulsività dell’uso associata alla caduta delle inibizioni e alla riduzione della percezione dei rischi, tipici effetti delle sostanze ad azione psicostimolante, espone, inoltre, a rischi sanitari rilevanti, ad iniziare da quello infettivologico, con scambio di materiale di consumo e con la pratica di relazioni sessuali promiscue e senza ricorso al condom, aumentando la probabilità di trasmissione di malattie sessuali (e nel caso delle donne, di rimanere incinte) (Gessa, 2008).

Il consumatore di crack – più frequentemente ed in quantità mediamente superiori di 10 volte rispetto a quello di cocaina per via intranasale – può assumere la sostanza in modalità binge (letteralmente abbuffata), cioè continuativamente, ininterrottamente per ore o giorni e fino ad esaurimento delle scorte (run, ad indicare per l’appunto, una maratona di assunzione) (Gessa, 2008).

Vivere gli effetti euforizzanti e psicotropi del crack può significare, quindi, l’inizio di una spirale in cui il consumatore quotidianamente vede come sua unica priorità il crack e i mezzi per procurarselo, a dispetto delle conseguenze dannose a esso associate (Guede da Silva, 2012).

Lo sviluppo della dipendenza

I consumatori di crack possono diventare rapidamente dipendenti. In particolare, rispetto ai cocainomani per via intranasale, gli assuntori di crack hanno un più alto rischio (circa il doppio) di sviluppare dipendenza perché usano la sostanza con più frequenza, in più larghe quantità e sono più sensibili agli effetti della sostanza (Rosselli, 2011). La modalità inalatoria causa un rush quasi istantaneo, la «botta« (high) del crack, ma anche un «calo» (crash) più intensi rispetto a quelli sperimentati con la cocaina per via nasale. Cosa succede dopo aver consumato crack? Tale fase – di durata variabile tra i 15 e i 30 minuti – è caratterizzata da euforia, accresciuta performance cognitiva e motoria, ipervigilanza, labilità affettiva. L’intensa euforia è descritta come un’irrefrenabile eccitazione sessuale (full body orgasm). Si percepisce un aumentato senso di onnipotenza e sicurezza e una ridotta percezione della fatica (oltre che dei propri limiti).

Con il mantenimento dell’uso gli effetti positivi e piacevoli diminuiscono per dare spazio a sintomi indesiderati, di tipo prevalentemente psichico: accentuazione dell’ansia, dell’irritabilità e della paranoia, fino a sviluppare un vero e proprio quadro psicotico caratterizzato da anedonia (incapacità di provare piacere), allucinazioni, idee di persecuzione, delirio.

La crisi d’astinenza e le sue fasi

L’interruzione del consumo di crack nei soggetti da esso dipendenti si accompagna all’insorgenza di un quadro di malessere dovuto proprio alla mancanza della sostanza: è la crisi di astinenza. Questa può comparire, in alcuni casi, anche dopo un breve periodo di consumo, specie quando esso sia stato caratterizzato da forte compulsività o qualora siano presenti fragilità psicologiche e sociali, fattori predisponenti allo sviluppo di un disturbo da uso. Quando il consumo diventa continuativo o la persona sviluppa una vera e propria astinenza, si va incontro a un quadro che possiamo suddividere in tre fasi.

  • Fase I – Crash: si verifica quando le scorte di dopamina si esauriscono e compare il senso di fatica. È questa la fase iniziale dell’astinenza da cocaina: drastico abbassamento del tono dell’umore (depressione) e della energia fisica, che compare già 15-30 minuti dopo la cessazione dell’uso e che persiste per almeno 8 ore e può durare fino a 4 giorni. In questa fase il consumatore sperimenta depressione, che diventa presto disforia (alterazione dell’umore in senso depressivo), ansia, paranoia, malinconia, apatia, difficoltà di attenzione e di concentrazione, anoressia, insonnia e craving. Quindi nelle 8-24 ore successive, il soggetto presenta ipersonnia e astenia fisica. Seguiranno alcune settimane di profonda anedonia e – da una a dieci – di craving feroce.
  • Fase II – Sindrome disforica tardiva: inizia 12-96 ore dopo l’uso della sostanza e può durare dalle 2 alle 12 settimane. I primi 4 giorni il consumatore presenta sonnolenza, craving, anedonia, irritabilità, problemi di memoria e idee di morte. In tale fase alto è il rischio di suicidio e di ricaduta, vista come un mezzo per interrompere il quadro di malessere psico-fisico.
  • Fase III – Estinzione: i sintomi disforici e di malessere della precedente fase iniziano a diminuire o si risolvono completamente e il craving diventa ridotto in intensità e frequenza di presentazione.

La velocità di progressione tra i diversi stadi, dipenderà dalla frequenza, intensità, tempo di assunzione, ma anche dallo stato psicologico, fisico e socio-sanitario della persona.

L’intervento medico

Dal punto di vista medico tra i principali sintomi da monitorare e trattare vi sono quelli psichici, che possono caratterizzare tanto la fase di intossicazione acuta che quella di astinenza e che spesso sono anche il motivo primario di ricorso alle cure mediche e farmacologiche. L’attenzione medica al riconoscimento e al trattamento di tali quadri deve essere prioritaria in quanto essi peggiorano la prognosi, pongono a rischio non solo di ricaduta, ma anche di autolesione (fino al suicidio), aumentano il rischio di abbandono delle cure (Roselli Marques, 2011).

L’alta percentuale di disturbi psichici a volte è l’esito finale della continuativa azione della cocaina sui circuiti neuronali (depressione, psicosi, discontrollo degli impulsi e della rabbia), altre volte è preesistente al consumo di crack, che appare pertanto sintomo di un disturbo di personalità o del tentativo di autocura della persona.

Sebbene una quota di nostri consumatori di crack siano accomunati da un passato di consumo iniettivo di altre droghe, frequentemente il crack si inserisce all’interno di una gamma di policonsumo (alcol, cannabis, benzodiazepine). Ad esempio, al fine di ridurre l’angoscioso stato emotivo tipico del crash o per attenuare l’ansia e la paranoia conseguente al ripetuto consumo, i consumatori cronici di crack sono soliti ricorrere all’uso di sostanze ad azione sedativa quali alcol, benzodiazepine (nel territorio reggiano è diffusissimo il Rivotril) o ancora l’eroina.

È bene specificare che l’uso di alcol combinato con la cocaina sniffata ha un significato farmacologico e clinico diverso dall’associazione con il crack. Nel primo caso, infatti, l’alcol serve principalmente a rinforzare gli effetti positivi della cocaina (prolungando ed attenuando l’intensità dell’azione euforizzante, impedendo che questa viri verso sentimenti di ansia ed eccessiva agitazione psico-fisica) ed è assunta prima o in contemporanea alla cocaina. Nel secondo caso, invece, ha soprattutto la finalità di auto-trattamento e prevenzione della disforia e dell’agitazione e degli altri effetti indesiderati del crack, oltre a ridurre la secchezza della bocca (Dias, 2011).

Da non dimenticare poi, l’impatto sulla salute fisica, con aumentato rischio di contrarre malattie infettive specie sessualmente trasmissibili o conseguente a scambio di paraphealia (oggetti connessi all’uso di droghe, ndr) (Cruz, 2013). La compulsività e la frequenza d’abuso sono fattori in grado di influire su tale rischio: i consumatori giornalieri hanno un rischio di contrarre l’Hiv superiore di 4 volte rispetto ai consumatori non abituali (De Beck, 2011).

Il condizionamento dell’ambiente

La velocità con cui si instaurano il declino socio-sanitario, oltre alle complicanze cliniche correlate, nel caso del crack è particolarmente spiccata. Ciò è in parte da relazionarsi alle caratteristiche farmacologiche della sostanza, ma in parte anche alla estrema fragilità sociale dei contesti in cui il crack è maggiormente diffuso. Il crack è stato largamente commercializzato in quartieri poveri di risorse e caratterizzati da disordine sociale e le cui popolazioni, spesso appartenenti a minoranze razziali ed etniche, godevano di scarse possibilità economiche o di miglioramento del loro stato. La popolazione consumatrice di crack in Brasile è concentrata principalmente nella popolazione urbana, giovane e marginalizzata: è la droga delle favelas.

Ma anche in altre aree geografiche i crackomani vivono condizioni di precarietà economica, socio-lavorativa e abitativa (sono spesso senza fissa dimora), sovente coinvolti in atti di criminalità. Hanno una esistenza molto disagiata, ma soprattutto di grave solitudine primariamente dal punto di vista relazionale, provenendo frequentemente i consumatori da famiglie assenti o pluri-problematiche, tra i principali fattori di rischio associati alle condotte di consumo.

Più di ogni altra malattia, la dipendenza è la prova che la nostra salute e quindi il nostro malessere sono fortemente influenzati dall’ambiente in cui si vive. L’individuo e l’entità psico-mente di cui è costituto sono influenzati continuamente dall’interazione con l’ambiente esterno, sia nella sua componente comportamentale, che psicologica e organica (ricordiamo l’epigenetica e la neuro-psico-endocrino immunologia).

Gli studi generalmente concludono che un contesto di vita svantaggioso, l’esclusione sociale, la carenza di risorse economiche e lavorative, aumentano il rischio di sviluppare i disturbi di uso. Basti pensare alla crisi economica, considerata da tutti i più importanti studi epidemiologici, un fattore di aggravamento dei consumi di sostanze.

Nella specificità di Reggio Emilia tale sostanza ha incontrato un altro tipo di fragilità: la popolazione migrante che vive in stato di irregolarità. La mancanza di una dimora, di un lavoro, di una rete sociale, la lontananza dai legami familiari, il fallimento di un progetto migratorio su cui era fondata la speranza di riscatto personale ma anche di tutta la famiglia, porta la persona a rifugiarsi in un oblio chimico che annulla temporaneamente le preoccupazioni, i pensieri, la sofferenza e che rende meno duro vivere in strada o all’interno di case abbandonate.

Cocainomani e crackomani

Da quanto detto si comprende che essenziale è la distinzione tra cocainomane e crackomane. Tra queste due tipologie di consumatori – colui che aspira per via nasale la cocaina a scopo per lo più ricreativo e colui che inala crack – esistono confini molto rigidi. Citando la relazione dell’Osservatorio europeo: «Chi consuma cocaina ad uso ricreativo è altra cosa rispetto ai gruppi emarginati come i giovani senza fissa dimora, chi è dedito alla prostituzione e i consumatori problematici di eroina che fumano cocaina “base/crack”, oppure si iniettano cocaina mescolata con eroina, in aree a macchia di leopardo all’interno di determinate città» (Emcdda, 2001).

Quello che si sta osservando, però, negli ultimi anni e anche nella nostra città è la crescente sfumatura del confine tra cocaina e crack sia per la diffusione di tale tipologia di sostanza tra i «consumatori della notte», sia per le «tendenze» del mercato delle droghe, che evidentemente offre di più questo tipo di sostanza. Sempre l’Osservatorio europeo inoltre, segnala in vari paesi dell’Unione, compresa l’Italia, la pratica di mescolare la cocaina «base/crack» con il tabacco in un mix da fumare. In più, la presenza sul mercato di crack già pronto rende questo prodotto più appetibile.

Strategie di riduzione del danno

Crescenti sono le evidenze orientate a supportare o incoraggiare l’introduzione di programmi di riduzione del danno che prevedano la distribuzione di materiali sterili e sicuri necessari per fumare (Ti, 2012) o almeno una serie di precauzioni da adottare in caso in cui lo scambio della pipa diventi inevitabile (ad esempio usare dei boccagli). Ciò al fine di ridurre il rischio di diffusione delle malattie infettive così come di lesioni locali della bocca legate allo scambio e al riuso della pipa (bruciature, tagli, ulcere) (Duff, 2013).

Molti paesi hanno avviato l’apertura di Supervised Smoking Facility (sulla falsariga delle cosiddette «stanze del buco»), luoghi in cui poter inalare il crack, permettendo un aumento dell’accesso a pipe pulite, una riduzione dello scambio e foendo un ambiente più sicuro dove consumare, alternativo alle cosiddette «crack houses» (locali improvvisati senza la minima tutela sanitaria). Inoltre, strutture di questo tipo portano beneficio anche alla comunità circostante in termini di riduzione delle scene aperte di consumo (Duff, 2013).

Oltre ad approfondire gli studi tesi a individuare interventi di riduzione del danno più orientati all’uso di crack, si stanno raccogliendo esperienze di autocontrollo del consumo, cioè modalità di uso del crack che si accompagnino a strategie o attività in grado di alleviare il craving a esso associato (Krawczyk, 2015; Zuffa, 2010).

I servizi che offrono la vasta gamma di interventi, in cui le strategie della riduzione del danno si integrino con quelle terapeutiche di tipo farmacologico e psicologico, ciascuna rispondente a fasi motivazionali diverse della persona, sono quelli con il migliore esito (outcome) (Krawczyk, 2015).

Consumatori e servizi di cura: le barriere

Per la cocaina non esiste un farmaco efficace  come, ad esempio, per l’eroina (buprenorfina e metadone) o l’alcol (baclofene, disulfiram-antabuse, alcover-Ghb e naltrexone). E forse anche per l’impossibilità a rispondere con una pillola su misura a tale disturbo, i dati relativi agli accessi ai servizi sanitari segnalano che solo una piccola parte dei consumatori necessitanti di cura o interventi sociosanitari arrivano a fae domanda (Ti, 2011).

Ciò è legato però anche all’esistenza di barriere e fattori che ostacolano l’arrivo ai servizi: tempi, liste di attesa, stigma, servizi strutturati sulle esigenze del personale e non su quelle del consumatore. Ad iniziare, ad esempio, dal limitato orario di apertura dei Sert: il crackomane consuma di notte per tutta la notte, «crolla» al mattino, quando gli ambulatori aprono e si risveglia solo in tarda mattinata, quando gli ambulatori chiudono. A ciò si aggiungono caratteristiche del consumatore che possono ritardare l’arrivo ai servizi di cura: scarsa motivazione al cambiamento, non consapevolezza della problematicità del disturbo di uso, autostigmatizzazione e motivi culturali che non «permettono» di considerare il carattere socio-sanitario delle dipendenze e degli abusi da sostanze. La difficoltà di accesso appare ancora più grande per alcune categorie, ad esempio le donne, tra le più interessate dal problema del crack: per loro è la paura dello stigma o delle ripercussioni sulla custodia dei propri figli a fare la differenza.

Per un nuovo approccio

Servizi a bassa soglia riducono le difficoltà di accesso favorendo l’emersione del sommerso, specie della frangia più marginalizzata dei consumatori. La caratteristica di questi servizi è un approccio non giudicante e attento alle ragioni e alle fragilità sociali. Ciò li rende più appetibili, in quanto in grado di rispondere ai bisogni primari e come tali più sentiti dall’utenza confermando la teoria della piramide di Maslow (pasti, servizi igienici e docce, bagagliaio, un letto dove riposare, lavatrice). Dall’accoglimento e soddisfazione di tali bisogni e dal legame cosiddetto «lento» instaurato con le persone può nascere una relazione terapeutica di fiducia attraverso cui la persona può essere orientata ai servizi di cura sanitari oltreché ad un processo motivazionale di cambiamento delle proprie condotte di consumo.

Luana Oddi

TO GO WITH AFP STORY BY ANELLA RETA A pregnant drug addicts walks along a street at "Crackolandia," a place where drug users addicted to crack cocaine have been gathering for the past seven years to smoke their freebase in downtown Sao Paulo, Brazil, on December 9, 2009. In rags and bare feet, they walk through Sao Paulo's dilapidated city center like ghosts. Some beg for change that goes straight to purchasing the drug that has wasted away their bodies as surely as it has their personalities, their futures and their sense of self-worth. AFP PHOTO/Mauricio LIMA / AFP PHOTO / MAURICIO LIMA
Donna incinta per la strade di “Crackolandia,” a Sao Paulo, Brasile. AFP PHOTO/Mauricio LIMA / AFP PHOTO / MAURICIO LIMA


Donne e crack

I problemi più seri sono per le donne incinte e i loro figli.

La dipendenza da cocaina denota una particolarità di genere, risultando il rapporto femmine/maschi, in termini di frequenza di consumo, più alto rispetto a quanto osservabile con altre tipologie di droghe (con prevalenza tendenzialmente maggiore nel genere maschile). Con il crack, ciò è ancor più vero, arrivando a riscontrare in specifici contesti caratterizzati da disagio sociale grave, addirittura una maggiore prevalenza del consumo di crack tra le donne che non tra gli uomini (Pope, 2011). E questo, nonostante la maggior parte delle donne dichiari di aver iniziato a usare crack insieme o indotta dal proprio partner, anch’egli consumatore.

Le donne consumatrici di cocaina e crack tendono, a parità di entità di consumo, a sviluppare più rapidamente dell’uomo dipendenza patologica e conseguenze sanitarie correlate (Pope, 2011). Le donne tendono a soffrire maggiormente di disturbi psichici e in particolare di depressione che è uno dei fattori associati all’induzione e alle recidive dei disturbi di uso, e che – nello specifico del crack -, trova una forma di autocura nelle proprietà psicostimolanti di questo. Gli stati umorali negativi aumentano il craving e il rinforzo positivo dell’azione euforizzante della cocaina e una più grave sindrome d’astinenza. Tutto ciò comporta che a dispetto di una più alta motivazione ad aderire ai trattamenti, le donne consumatrici di crack abbiano esiti dei trattamenti peggiori (Johnson, 2011).

Le donne adottano più frequentemente modalità tipo binge di consumo e ricorrono più frequentemente a comportamenti sessuali a rischio (sesso non protetto con aumentata trasmissione di malattie veneree e infettive, promiscuità sessuale) o alla prostituzione in cambio di soldi o droga (gli uomini sono invece più di frequente coinvolti in attività criminali o di spaccio) (Sherman, 2011; Bertoni, 2014).

Le donne sono più spesso vittime di violenza agita nei contesti più marginali di consumo di crack e più frequentemente subiscono violenza sessuale e fisica da parte dei loro partner. In tale situazione il crack è visto come mezzo per dimenticare, non sentire, lenire il dolore dei traumi fisici ed emotivi subiti. Insomma, un mezzo per sopravvivere (Krawczyk, 2015).

Di particolare importanza tra le conseguenze dell’uso di crack sono gli effetti nella donna in gravidanza, fase in cui il metabolismo della cocaina è ridotto, il che implica una maggiore tossicità sia sulla madre che sul concepito. Oltre all’aumentato rischio di aborto e nascita prematura, il crack può essere responsabile di una serie di alterazioni fisiche e comportamentali che hanno permesso di riconoscere questi bambini esposti al crack come «crack babies».

I neonati nati da donne che abbiano consumato ripetutamente la sostanza possono manifestare una sindrome di astinenza la cui frequenza e il cui grado di intensità sono influenzati dal riscontro o meno di positività urinaria del neonato (il che dipende dall’interruzione o meno dell’uso di sostanza, in prossimità del parto, da parte della madre). Essa è caratterizzata da irritabilità, sudorazione profusa, ipertonia e disturbi del sonno, tremori, pianto continuo e inconsolabile, suzione eccessivamente energica, ma non più efficace, instabilità del sistema nervoso autonomo (tachicardia, sudorazione, ipertermia), peso e altezza più bassi alla nascita, ridotta circonferenza cranica. Con la crescita si possono strutturare difficoltà comportamentali e neurologiche (anomalo tono muscolare, disturbi della postura), disturbi dell’apprendimento e deterioramento cognitivo (QI più basso, disturbi del linguaggio, disturbi dell’attenzione), che tendono a comparire con frequenza più alta rispetto ai loro coetanei non esposti a cocaina.

Nei bambini delle madri consumatrici di crack, a causa del più alto rischio di contrarre infezioni, si è riscontrata una associazione più alta con infezioni da Hiv ed epatite C che possono trasmettersi per via transplacentare più frequentemente e più facilmente anche perché il crack inficia il regolare sviluppo ed attività del sistema immunitario del neonato.

Gli effetti dannosi del crack, così come accade per ogni altra sostanza che sia assunta in gravidanza, sono amplificati, indotti e/o associati alle conseguenze sul benessere psico-fisico dell’unità madre-bambino, dei fattori socio-economici e psicologici vissuti dalla madre, che agiscono la loro azione aldilà o insieme al consumo della cocaina.

Luana Oddi

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Torino / La?testimonianza

La?drammatica?caduta della?speranza

Domenico Cravero è un parroco della provincia torinese (prima a Settimo, poi a Poirino). È soprattutto un sacerdote che, oramai da una vita, lavora come psicoterapeuta a fianco delle persone con problemi di droga. «Ho iniziato – racconta – a interessarmi concretamente dei ragazzi consumatori di sostanze stupefacenti nel novembre del 1975. Abitavo a Venaria e nell’oratorio della parrocchia m’imbattei con quella realtà. In città c’era già una piccola comunità di accoglienza. La mia prima messa – era il 1977 – la celebrai tra loro. Da allora non ho mai smesso di occuparmi di questa emergenza. Che continua oggi in forme molto diverse e più nascoste».

Nel 1984 padre Cravero fonda una comunità e un’associazione di volontariato (Associazione solidarietà giovanile, Asg) e poi a una cooperativa sociale (Terra Mia). Attualmente coordina il progetto terapeutico ed educativo in otto comunità, curando in particolare la formazione degli operatori. Ogni comunità si specializza su un particolare servizio terapeutico o educativo nell’area minori, adulti e mamma bambino. Viene trattata non solo la condizione della tossicomania, ma anche il disagio mentale nella molteplicità delle sue forme. Una casa è adibita per l’accoglienza e l’accompagnamento al lavoro di profughi. È attivo anche un dormitorio per persone senza fissa dimora alla stazione ferroviaria di Torino Porta Nuova. Oltre alle comunità ci sono anche due case-famiglia per l’accoglienza di minori (a Scalenghe e a Carmagnola).

Le comunità – distribuite nel territorio torinese (Torino, Moncalieri, Marentino, Grugliasco, Carmagnola) e a S. Benedetto Belbo (Cuneo) – si sostengono attraverso l’agricoltura biologica. I prodotti agricoli sono venduti in un negozio della cooperativa, La bottega dei Mestieri, a Torino  (via Foà 59) e nei mercati rionali. Sono attivi anche laboratori di trasformazione di alimenti e un servizio di vendita e distribuzione di panieri alimentari.

Padre Cravero, come descriverebbe l’universo delle droghe nel 2016?

«Oggi le droghe non fanno più paura, a livello sociale, e non sono considerate un’emergenza. Effettivamente è cambiato molto: ci sono farmaci sostitutivi e molta più tolleranza.

Il problema però rimane. Sono numerosi gli assuntori, anche se ormai non si considerano più droghe quelle chiamate leggere. Questo è un inganno. Il pericolo delle droghe, infatti, non sono tanto i danni arrecati alla salute. Non si tratta quindi di un’emergenza sanitaria. Anche per la cura dell’Hiv ci sono per fortuna farmaci efficaci. Il problema delle droghe è etico. Le droghe leggere o pesanti limitano fino ad azzerare la creatività e il protagonismo delle nuove generazioni. Sono una risposta passiva (in gergo il consumo si dice “farsi”) e alienante in un arco dell’età evolutiva dove massimo può essere l’apporto dell’innovazione e della creatività in tutti gli ambiti. Il danno più grave delle droghe consiste quindi nel bloccare il rinnovamento della società che avviene, da sempre, attraverso il contributo delle giovani generazioni che sono il presente e il futuro della collettività».

Come lei ha ricordato, pare che un tempo si parlasse molto di più di tossicodipendenza. Sono diminuiti coloro che fanno uso di droghe o è cambiata la società?

«Non sono diminuiti gli assuntori. Sono se mai cresciute le condizioni di sicurezza verso i danni immediati alla salute e questo è un gran bene. Quella che è cambiata di più è la società che sta vivendo da un po’ di anni una drammatica caduta della speranza. Si crede sempre meno nel progetto di cambiarla. Anziché modificare le ingiustizie e le condizioni che ci rendono inumani si preferisce modificare il modo con cui ci percepiamo. Siamo al più grave stadio del narcisismo: la modificazione artificiale dello stato mentale al posto del sano piacere di trasformare il mondo».

In base alla sua esperienza, quali sono le droghe più pericolose? In questi anni c’è stata una loro moltiplicazione?

«Le droghe sono tanto più nocive quanto più bloccano la creatività e rendono passivi e abulici i giovani. Il danno quindi è soggettivo e non misurabile chimicamente, essendo il vero problema un impoverimento umano (quindi etico) e non solo un rischio sanitario. C’è stata, a mio modo di vedere, una moltiplicazione e, insieme, una buona capacità di “gestirne” il rischio per la salute. Apparentemente quindi va tutto bene: si muore molto meno per overdose».

La domanda di droga è trasversale alle classi sociali. C’è un substrato psicologico comune, secondo lei?

«Nelle tossicomanie c’è sempre un problema di salute mentale o di pesanti condizionamenti psicologici. I tossicomani dovrebbero quindi sempre essere curati e mai abbandonati. Con i tagli sanitari e la perdita della speranza oggi invece è forte la tentazione dell’abbandono. Le tossicomanie riguardano però, fortunatamente, solo una parte assolutamente minoritaria della popolazione. Il grosso del consumo riguarda l’abuso e la tossicodipendenza. Qui i numeri sono alti, anche tra gli adolescenti. Qui si colloca il vero danno umano e sociale».

I piccoli spacciatori sono reclutati soprattutto tra gli immigrati. Come si può affrontare questo problema?

«Certamente non solo tra gli immigrati. Secondo la mia osservazione molti dei consumatori (italiani) sono a loro volta piccoli spacciatori… Nella mia cooperativa stiamo facendo un’esperienza davvero entusiasmante nell’accoglienza degli immigrati e dei profughi giovani (e anche minori). Questi ragazzi hanno tantissimo da insegnarci e da darci. Siamo riusciti a recuperare molte terre abbandonate (in pianura e in collina) e a costruire un’unità produttiva agricola che con i soli italiani mai avremmo potuto fare. È un esempio molto concreto che l’abuso si batte con la creatività e il lavoro. Non basta certo l’informazione e neppure la terapia. Ci vuole il protagonismo attraverso il lavoro».

Ci parli del percorso di recupero dei tossicodipendenti ospitati nella sua Comunità.

«Da due anni sto sviluppando un sistema di cura attraverso l’agricoltura sociale. Ho chiamato questo percorso terapeutico “agricura”».

I «costi» della tossicodipendenza vengono pagati non soltanto dai consumatori, ma anche dalle loro famiglie e dallo Stato (in termini di spesa sanitaria, di sicurezza, eccetera). Che fare?

«Tocca alle istituzioni e alle famiglie organizzate (per esempio attraverso le “scuole dei genitori” un’attività di educazione degli adulti nelle scuole pubbliche) invertire esattamente il processo. I giovani devono accorgersi che gli adulti li stanno aspettando e credono nelle loro possibilità. Il problema drammatico di oggi è l’inazione dei giovani, la perdita del loro contributo. Le droghe sono solo una falsa soluzione, umiliante perché illusoria. I giovani hanno diritto di trovare ben altro nelle piazze, nelle strade, nelle discoteche… delle loro città».

Il mercato della droga costituisce un business globale ad altissima redditività anche a causa del proibizionismo. Da tempo,  in Italia, si litiga  attorno alla legalizzazione della cannabis. Che pensa al riguardo?

«Non voglio negare valore a questo dibattito che ha le sue ragioni. Io stesso ho partecipato in più occasioni a questa ricerca. Personalmente però percorro un’altra strada: incidere non sull’offerta ma sulla domanda di sostituti artificiali del desiderio e del piacere di vivere. Nessun piacere artificiale potrà mai competere con la soddisfazione di avere un posto e una missione nella società, con la felicità di avere degli amici e delle persone affidabili attorno a sé».

Paolo Moiola

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Bangkok / L’analisi

Pochi vincitori, milioni di vinti

Secondo statistiche ufficiali, nel mondo almeno 246 milioni di persone consumano droghe illecite. Le (costosissime) misure repressive non funzionano. Occorrerebbe investire su informazione ed educazione, ma la questione, pur globale, da sempre divide stati, governi e istituzioni.

Nelle questioni che appassionano gli esperti di affari internazionali è difficile trovare un dibattito più annoso e profondamente divisivo che la questione delle droghe. Da quando i Sumeri cominciarono a usare oppio 5.000 anni fa, le coltivazioni, i traffici e il consumo di sostanze narcotiche e psicotropiche sono stati sempre in testa alla classifica delle preoccupazioni e dei guai nelle relazioni internazionali. E visto dalla parte della gente, ben oltre dunque gli aspetti istituzionali, scientifici, legali ed economici, non c’è questione globale che ha fatto soffrire popoli e famiglie più delle droghe.

Non per caso la Convenzione mondiale sull’oppio nel 1912 fu il primo trattato internazionale di carattere multilaterale e globale, cioè il primo documento del diritto internazionale ratificato da molti paesi, dopo il trattato della Croce Rossa sottoscritto nel secolo precedente. Tutti gli altri temi sottoposti a consultazioni, ad accordi e a leggi inteazionali sono venuti dopo, a partire dalla Società delle Nazioni nel 1919 e poi con le Nazioni Unite a partire dal 1945. Nei secoli precedenti al 1912 la produzione e il traffico di droghe ha prodotto guerre in diverse parti del mondo, gli effetti di alcune delle quali non si possono dire spenti nemmeno oggi, come testimonia per esempio la questione di Hong Kong, che fu generata dalla prima guerra dell’oppio conclusasi nel 1842. E da allora non c’è mai stata nel mondo una coltivazione di droghe che sia stata pacifica, cioè che non abbia generato o acuito conflitti gravi e sanguinosi che sono durati per decenni. Negli anni più recenti, nel Triangolo d’Oro e in Colombia a partire dagli anni ’60, in Afghanistan a partire dagli anni ’80, droghe considerate illecite dai trattati inteazionali, accompagnate sempre da colossali traffici di armi, violenza illimitata, corruzione ed enormi flussi di denaro sono state ovunque gli ingredienti essenziali di conflitti disumani e duraturi.

Si può dire dunque che per oltre un secolo la questione delle droghe, perfino quando ha ottenuto qualche forma di consenso teorico, come espresso per esempio nella Convenzione unica globale sugli stupefacenti nel 1961, non ha mai davvero consolidato un vero consenso pratico, né sulle questioni generali, né sulle questioni particolari. Nessun accordo di politiche sulle droghe, raggiunto e firmato da quasi tutti i governi del mondo, sembra avere la forza di ridurre significativamente le percentuali importanti di contrari, come invece è successo per quasi tutte le altre grandi questioni globali, come ad esempio la questione di parità di diritti della donna, la questione della discriminazione razziale, la cooperazione per lo sviluppo sostenibile, la questione del cambio climatico, etc. Sono abbondanti le prove della mancanza di consenso sulle buone pratiche di risposta alle tre aree principali del problema droga: la produzione, il commercio e il consumo. La Global Commission on Drug Policy, in prima linea nel criticare le attuali politiche proibizioniste, repressive e spesso violente di lotta alla produzione, commercio e uso di droghe, è formata da diversi ex capi di stato e di governo, soprattutto dei paesi che più hanno sofferto gli effetti della secolare guerra alla droga, e ne è membro anche Kofi Annan ex segretario generale delle Nazioni Unite. A livello nazionale, in grandi paesi federali come gli Stati Uniti, Germania, Brasile, sono numerosi i governi locali che hanno scelto e applicano politiche di tolleranza per l’uso di droghe considerate illecite in opposizione evidente alle leggi federali. In altre aree, come nell’Unione europea, si applicano politiche molto diverse, che potremmo definire una casistica a 360 gradi, cioè lo stesso commercio e consumo di una droga specifica viene considerato un crimine perseguibile in alcuni paesi e del tutto normale e legale in altri, con decine di sfumature diverse in ogni paese. Non c’è metodo più efficace per creare confusione e demolire la credibilità dell’informazione ufficiale su un rischio di salute che quello di divulgare e legiferare di tutto ed il contrario di tutto tra paesi vicini.

Conseguenza di società malate

Tra le cause di tanta confusione c’è certo la mancanza comune di coerenza tra la realtà e ciò che i governi promettono di fare nei trattati internazionali, ma gli elefanti nella stanza (che nessuno vuol vedere) sono altre due questioni. La prima è il fatto che le misure – violente o minacciose – di repressione che dovrebbero scoraggiare la produzione, fermare i traffici e punire il consumo, oltre che non rispettare i diritti umani, semplicemente non funzionano. La seconda è il fatto che sia l’opinione pubblica che i governi e perfino la maggioranza dei consumatori non vogliono ammettere che, dietro alle tossicodipendenze, ci sono sempre società civili malate, famiglie disfunzionali e soprattutto persone con malattie mentali non riconosciute e non curate. E anche la produzione e il commercio di droghe illecite in qualche modo sono sintomi di un sistema socio-economico fallito, insano per tutta la nazione in cui si verifica.

Finché ci sarà domanda

In tutte le mie esperienze sul campo, nel Triangolo d’oro, come in Bolivia e in Colombia, la politica più efficace di cooperazione con le comunità impoverite e marginalizzate dove venivano prodotte cocaina o eroina è sempre stata il trasferimento di potere sulle scelte di sviluppo sostenibile alla gente vittima della situazione. Quando la gente ha accesso alle decisioni che cambiano la realtà socio-economica sceglie sempre attitudini e attività legali con accesso e successo sul mercato. A livello locale nei paesi produttori di droghe, lo sviluppo alternativo – che sostituisce le coltivazioni illecite con altre produzioni lecite – è economicamente fattibile e sostenibile, ma richiede anche uno stato di diritto capace di difendere i diritti di tutti. A lunga scadenza e su scala mondiale però i soldi spesi in modo più efficace sono quelli che riducono la domanda di droghe illecite, che – legalizzate, decriminalizzate o no – saranno comunque sempre prodotte da qualche parte e trafficate fino a che ci sarà domanda. L’esperienza di forti riduzioni di consumi di tabacco e di alcool, due droghe lecite in quasi tutto il mondo, ha dimostrato che campagne di informazione ed educazione ben fatte possono ridurre i consumi fino al 90%.

In un mondo dove, ormai da decenni, almeno 246 milioni di persone usano droghe illecite e ci sono 207.000 morti l’anno relazionati con il consumo di droghe (United Nations World Drug Report 2016), una nota di speranza andrebbe cercata nel costruire pace nella mente di tutti coloro che hanno a che fare con questa realtà.

Sandro Calvani




Dossier droghe


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Glossario essenziale

A cura di Luana Oddi
(medico tossicologo presso il Sert di Reggio Emilia)

Dipendenza – Tossicomania – Craving

La dipendenza è considerata dall’OMS una malattia cronica ad andamento recidivante, che riconosce come eziopatogenetici fattori biologici, sociali e psicologici. Più corretto è parlare di addiction cioè di tossicomania: «condizione psichica caratterizzata da un comportamento sostenuto da una forte spinta (craving) intensa, sintonica e ricorrente verso la consumazione di un oggetto o di un atto, senza la capacità di limitare il comportamento anche in presenza di condizioni che producono conseguenze negative sul grado di accettazione e soddisfazione individuale» (Maremmani, Pacini – manuale trattamento ambulatoriale con metadone). Da un punto di vista neurobiologico la tossicodipendenza da eroina è un disordine del comportamento appreso e indotto dall’uso cronico delle sostanze alla cui base sono presenti precise alterazioni del sistema della motivazione e della gratificazione. Dal punto di vista comportamentale la dipendenza è caratterizzata da: perdita di controllo sull’uso; ricerca compulsiva della sostanza indotta dal craving (desiderio intenso, ossessivo e urgente per una sostanza psicoattiva, per un cibo o per qualunque altro oggetto o comportamento gratificante), uso delle sostanze nonostante le conseguenze negative.

Disforia

Alterazione dell’umore in senso depressivo, ma associata ad agitazione e irritabilità, sensazioni di frustrazione, fino a manifestazioni di aggressività sia fisica che verbale.

Free base

Sostanza ottenuta trattando il cloridrato con etere ed ammoniaca, che evapora sotto il calore generato da un apposito cannello (base pipe), permettendone la inalazione. Viene da molti considerato come una versione «europea» del crack e come quest’ultimo agisce rapidamente, con alto rischio di intossicazione acuta. La stessa letteratura scientifica è spesso ambigua nella classificazione e differenziazione di queste due forme di cocaina. In realtà entrambe queste forme hanno le stesse caratteristiche chimiche, essendo entrambe forme alcaloidi, e come tali fumabili, della cocaina, ma si usano con tecniche differenti. La cocaina freebase si ottiene dissolvendo, a caldo, la cocaina cloridrato nell’acqua e quindi aggiungendo una sostanza basica come l’ammoniaca. A tale soluzione viene aggiunto l’etere, solvente organico che ne permette l’estrazione per vaporizzazione. Tale sistema permette la rimozione di tutte le sostanze adulteranti solubili in acqua, dalla quale viene separato l’estratto in forma di piccoli cristalli, che sono pertanto più «puri» in quanto privi o contenenti minime quantità di sostanze da taglio. A causa della possibile permanenza di etere, però, i fumatori di cocaina sono ad alto rischio di ustioni, in quanto l’etere può causare esplosioni a contatto con la fiamma.

Merla – Oxi

Nel Nord America un’altra tipologia di cocaina fumata è la cosiddetta «Merla», un preparato fangoso derivato della cocaina contenente un’alta percentuale di solventi, in particolare acidi ottenuto da batterie per auto, a volte in combinazione con diversi solventi organici. Anch’esso riconosce il Brasile come terra originaria di provenienza.

Più recentemente un altro analogo del crack è circolante in Brasile, l’«oxi», una denominazione, che sta per oxidation e coniata dagli stessi consumatori di droga dello stato di Acre (situato nella parte nord-ovest della foresta pluviale amazzonica), da dove tale droga si sta diffondendo raggiungendo le principali città del Brasile, come Manaus e Brasilia, e negli scorsi anni, anche gli stati dell’America del nord. È fatta di avanzi di pasta di cocaina cucinati con quantità variabili di benzina o kerosene e calce (la diversa proporzione tra tali sostanze determina il colore della oxy, variabile dal viola al giallo al bianco). L’oxy, può essere fatta rientrare nel gruppo di quelle sostanze psicostimolanti diffusesi nel periodo della crisi e accomunate dai bassi costi e dalla facilità di produzione, così da poter essere sintetizzate in casa, dando una soluzione all’impossibilità di poter accedere alle sostanze del mercato della droga per mancanza di risorse monetarie. Tutto ciò a prezzo di danni fisici conseguenti all’uso, nella fase di preparazione, di additivi di scarsa qualità e spesso tossici.

Piramide di Maslow

La piramide dei bisogni di Maslow è una scala gerarchica dei bisogni, su cui si basa il modello motivazionale proposto nel 1954 dallo psicologo Abraham Maslow. Essa prevede la disposizione dei bisogni, dalla base al vertice della piramide, partendo da quelli primari (bisogni essenziali alla sopravvivenza), fino a quelli, salendo, più immateriali: la soddisfazione dei primi permette la elaborazione ed emersione di quelli superiori, più complessi. Sinteticamente le 5 classi di bisogni individuati da Maslow sono: i bisogni fisiologici (fame, sete, sonno); di salvezza (protezione e sicurezza); di appartenenza (essere amato e amare, far parte di un gruppo, partecipare, ecc.); di stima (essere rispettato, approvato, riconosciuto, ecc.); di autorealizzazione (realizzare la propria identità, occupare un ruolo sociale, ecc.).

Psicostimolanti

Sono le sostanze in grado di esplicare un’azione eccitante. Il più noto psicostimolante è la caffeina, la droga di uso più comune, che si trova in eguale quantità in the e caffè (circa 100-150 mg per tazza), nonché nel cacao e nelle bevande alla cola (circa 50 mg per tazza). Anche se si tratta senz’altro della sostanza psicostimolante più blanda, una overdose di caffeina può causare sovrastimolazione, tachicardia e insonnia. Tra gli altri psicostimolanti vi sono oltre la cocaina, la nicotina, gli antideoressivi e le anfetamine, quest’ultime causa di sensazioni di euforia particolarmente intense.

Sostanze psicotrope

Per sostanza ad azione psicotropa (o farmaco psicotropo o psicotropo) si intende un qualsiasi medicamento o principio attivo in grado di agire sulle funzioni psichiche e sul SNC, si da modificarle. Gli effetti psicotropi si riferiscono a tali modificazioni che possono essere di tipologia differente: depressiva (psicolettica), eccitatoria (psicoanalettica) e di alterazione (psicodislettica).

Ser.T

Acronimo di «Servizi per le Tossicodipendenze», che sono servizi pubblici ad accesso gratuito e diretto: non è richiesto il pagamento di ticket, né la richiesta del medico di base. In molte regioni le aziende sanitarie hanno mutato tale sigla in Ser.D. ad indicare, più correttamente, un servizio deputato alla cura delle Dipendenze Patologiche sia quelle derivanti dal consumo di una sostanza (tossicodipendenze) sia quelle cosiddette comportamentali o «senza» sostanza (gioco patologico, shopping compulsivo, web addiction, ecc.).

Servizi a bassa soglia

Nel campo delle tossicodipendenze si parla di bassa soglia qualora ci si riferisca a quei servizi che sono facilmente accessibili agli utenti e, come tali, anche in grado di raggiungere la potenziale utenza costituente il cosiddetto sommerso (persone che potrebbero aver bisogno di cure, ma non riescono a raggiungere i servizi stessi), andando loro incontro (lavoro di outreach, fuori dalle strutture). Per essere a bassa soglia di accesso, un servizio deve richiedere pochi ed essenziali requisiti alla persona, accogliendo questa nella sua condizione socio-sanitaria attuale. Per le dipendenze ciò si traduce in assenza di vincoli burocratici (accesso anche a persone senza una residenza anagrafica o stranieri non regolari) e di richiesta di disintossicazione o di trattamento volto all’interruzione del consumo.

Disturbo da uso

Nel DSM 5 l’uso patologico di sostanze psicoattive viene incluso nella categoria dei Disturbi Correlati a Sostanze, comprendenti sia i disturbi secondari all’assunzione di una sostanza di abuso (incluso l’alcornol), sia i Disturbi da Uso di Sostanze, che raggruppa in un’unica categoria sia la dipendenza che l’abuso.

Recidiva

Come da dizionario: «Ricomparsa dei sintomi di una malattia in un paziente che ne era stato colpito in precedenza e che ne era guarito». Nel caso dei disturbi da uso, la recidiva si riferisce alla ripresa delle condotte consumatorie e alla riattivazione del craving.

Anedonia

Come da dizionario medico; «incapacità di provare piacere», quadro psico-emotivo spesso associato alla depressione.


BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

A cura di Luana Oddi
(medico tossicologo presso il Sert di Reggio Emilia)

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