Venezuela – Colombia: le donne dell’esodo

Sommario

La migrazione femminile dal Venezuela alla Colombia

Uno zaino di sofferenza

Oggi si stima che la maggioranza dei migranti venezuelani in Colombia sia costituita da donne («migrazione femminizzata»). Per loro, conosciute come simbolo di bellezza, ci sono pericoli e insidie aggiuntive. Inclusa la morte violenta.

Bogotà. «Venezuela duele», il Venezuela fa male. Utilizzando un’espressione che l’indimenticato Eduardo Galeano aveva coniato con riferimento a Cuba («Cuba duele»), si riesce a rendere l’idea del dramma che sta vivendo il paese sudamericano, la sua gente e tutte e tutti coloro che a quella terra tengono particolarmente. Secondo l’Onu, sono più di 5,6 milioni le persone che hanno abbandonato la patria del Libertador Simón Bolívar, un paese in preda a una crisi umanitaria complessa della quale non si vede all’orizzonte una pronta risoluzione. Milioni di venezuelani hanno dato forma a un vero e proprio esodo, il più grande che la regione latinoamericana abbia sperimentato negli ultimi anni. Almeno due milioni di migranti si trovano nella vicina Colombia, un milione in Perù, e altre centinaia di migliaia sparsi tra Ecuador, Cile, Argentina, Brasile, Repubblica Dominicana, Panama, Costa Rica, Messico e anche fuori dalla regione, soprattutto negli Usa, in Spagna e, con una nutrita comunità, anche in Italia.

Il migrante venezuelano

Il trattamento ricevuto dai migranti venezuelani non è omogeneo e risponde a una serie di variabili e considerazioni che vanno dal loro status politico, sociale ed economico, all’età, al genere, al momento storico della migrazione, al titolo di studio o professionale che possiedono e al paese nel quale sono emigrati. Gli ultimi, coloro che appartengono a quella che gli esperti definiscono la terza ondata migratoria (iniziata nel 2015 ed esplosa nel 2018), sono i più vulnerabili. Hanno lasciato il paese solo con quello che sono riusciti a caricarsi sulle spalle iniziando a camminare, letteralmente a camminare. A piedi hanno attraversato ponti, fiumi, selva e montagne. Con la determinazione della ricerca di un futuro migliore per loro e per i loro figli, hanno fatto quello che nessun venezuelano avrebbe mai pensato di poter fare: lasciare la propria casa. Quella venezuelana non è infatti una comunità nella quale la migrazione faccia parte di un processo sociale e storico. Al contrario, il paese sudamericano è stato, fin dal 1800, una terra che ha accolto chiunque scappasse da fame, guerra e miseria. Per questo il Venezuela è, ad oggi, uno dei grandi esempi mondiali di meticciato etnico e culturale. Ora, però, le cose sono cambiate e da paese di accoglienza, il Venezuela si è trasformato nel più grande generatore mondiale di migranti, superato solo dalla Siria.

Migranti venezuelani attraversano il fiume Tachira, che segna il confine tra Venezuela e Colombia (19 novembre 2020). Foto Schneyder Mendoza – AFP.

Donna venezuelana, immagine e mito

In questo immenso e costante flusso migratorio le donne rappresentano quasi il 50% del totale, a volte arrivando anche a superare, come nel 2019 per il caso colombiano, questa percentuale. In questo senso, se pur è necessario riconoscere che la situazione migratoria rappresenta di per sé una sfida, è innegabile che per le donne sia il processo migratorio sia l’inserimento sociale nel paese di destinazione presentino delle insidie e dei pericoli aggiuntivi.

L’immagine della donna venezuelana nella regione latinoamericana (e non solo) è ipersessualizzata e, per decenni, è stata venduta come lo standard di bellezza da eguagliare. Se a questo aggiungiamo la situazione di estrema vulnerabilità e necessità con la quale la maggior parte di loro lascia il Venezuela e l’onnipresente machismo che permea le società latinoamericane, diventa purtroppo facile intuire a quali pericoli siano più esposte. Nello stesso Venezuela il traffico di esseri umani al fine dello sfruttamento sessuale è esploso negli ultimi anni, soprattutto verso Trinidad e Tobago, lo stato caraibico che si trova a soli undici chilometri dal porto venezuelano di Güiria (stato Sucre). La situazione è però particolarmente grave in Colombia, paese sul quale si concentra questo dossier. Già nel 2019, attraverso l’innovativo progetto di ricerca «Mappa interattiva dei casi di donne migranti e rifugiate venezuelane morte e scomparse all’estero», promosso dall’Istituto di studi internazionali ed europei «Francisco de Vitoria» dell’Università Carlos III di Madrid, la Colombia emergeva come il paese più pericoloso per le donne venezuelane. A seguito di quel progetto, la pubblicazione «Violencia contra mujeres migrantes venezolanas en Colombia, 2017-2019: Estado de la cuestión, georreferenciación y análisis del fenómeno» (luglio 2020) approfondisce e chiarisce i dettagli della particolare situazione di emergenza vissuta in Colombia dalle donne venezuelane migranti. Nel triennio oggetto di studio (2017-2019), i dati parlano di una «migrazione femminizzata», giacché a dicembre 2019, il 52% dei migranti nel paese erano donne. In termini geografici, la più alta concentrazione di migranti venezuelani in Colombia alla fine del 2019 si trovava nel distretto della capitale Bogotá: 352.431 persone, cioè il 19,9% delle 1.771.237 registrate nel paese dall’ente nazionale Migración Colombia. Analizzando i casi di morte scopriamo che, dal 2017 al 2019, nel paese si sono registrati 349 decessi di donne venezuelane: più di un terzo assassinate. In quel triennio si è registrato un femminicidio di una donna venezuelana in Colombia ogni 11,5 giorni e, se teniamo conto della cifra totale di decessi (morti violente dovute a incidenti, suicidi e morti naturali) osserviamo che, nei tre anni analizzati, in Colombia è morta una donna venezuelana ogni 3 giorni. I casi di morte però non seguono specularmente la concentrazione geografica della migrazione. Infatti, nonostante fosse il distretto della capitale Bogotà il luogo con la più alta concentrazione di migrazione venezuelana in Colombia, in relazione alle morti violente, osserviamo che i dipartimenti di confine di Nord di Santander e La Guajira rappresentano il 46,21% del totale, rispettivamente 38 e 23 casi. Il dato aumenta ancora di più se si considerano solo gli omicidi: in questo caso, i dipartimenti già menzionati, sommano il 52,17% del totale degli omicidi di donne migranti venezuelane nel triennio 2017-2019 in tutto il paese. Questi due dipartimenti corrispondono ai punti di origine delle rotte migratorie del Nord (frontiera di Maicao) e del Sud (frontiera di Cúcuta) della Colombia: rotte che, ad oggi, continuano a essere percorse e continuano a essere estremamente pericolose.

Un cartello dell’organizzazione «Hermanos caminantes», che ha istituito vari punti di aiuto lungo i percorsi dei migranti venezuelani. Foto Diego Battistessa.

Violenze, femminicidi e «sesso di sopravvivenza»

Le cifre relative alle donne migranti venezuelane morte in Colombia, analizzate nella pubblicazione del 2020, provengono da rapporti ufficiali dell’Istituto nazionale di medicina legale e scienze forensi della Colombia, dalla Direzione delle indagini criminali e Interpol – Polizia nazionale della Colombia (Dijin) e da rapporti di organizzazioni non governative e agenzie dell’Onu. Proprio partendo da un’analisi dei dati raccolti dalla Dijin, si può costruire un profilo tipico della donna venezuelana vittima di femminicidio in Colombia nel triennio 2017-2019: si tratta di una donna di circa 27 anni, con almeno studi elementari, non legata a gruppi illegali, non sposata e con una situazione lavorativa precaria.

Come visto, la situazione delle donne venezuelane migranti a fine 2019 presentava già un grado di estrema emergenza e, con l’arrivo del Covid-19 nel primo trimestre 2020, la loro condizione ha subito un notevole peggioramento. L’impossibilità di raccogliere i dati per le stringenti misure di confinamento, l’invisibilizzazione dei casi e l’impunità dei carnefici, hanno reso le donne ancora più vulnerabili.

Si è diffuso massivamente quello che è conosciuto come «sesso di sopravvivenza» e che consiste nel baratto del proprio corpo in cambio di beni di prima necessità: trasporto, alloggio, alimenti o medicinali vengono «pagati» con sesso.  In altre parole, questo diventa moneta di scambio in una pratica di violenza estrema che mira a togliere qualsiasi tipo di dignità all’altro, approfittando di un privilegio circostanziale. Troppo spesso le donne venezuelane non hanno scelta: con figli a carico (insieme a loro in Colombia o in attesa delle rimesse in Venezuela), subiscono questa brutale aggressione strutturale, sacrificando i loro corpi sull’altare del bene maggiore: il sostentamento dei loro figli e delle loro famiglie.

Lungo le rotte migratorie (le descriveremo più avanti), non è strano incrociare migranti venezuelani che provano a fare ritorno in patria (chiamati retornados) dopo un’esperienza fallimentare in un altro paese. Tra di loro molte donne che, oltre al faticoso e lungo processo migratorio, portano addosso il vissuto di esperienze traumatiche e umilianti, di sofferenza e di vergogna che non potranno mai condividere con i loro cari.

La mossa della Colombia

Il 2021 si è aperto però con una luce di speranza. Nonostante la recrudescenza della pandemia e dell’emergenza migratoria, qualcosa in Colombia si è mosso. Lo scorso 8 febbraio, il presidente del paese Iván Duque ha presentato una bozza di decreto che mette in moto lo «Statuto temporaneo di protezione per i migranti venezuelani» (Etpv, nella sua sigla in spagnolo). Questa misura copre legalmente quasi un milione di venezuelani che si trovano in Colombia in condizione di irregolarità migratoria e che sono entrati nel paese prima del 31 gennaio 2021. L’Etpv consiste in un meccanismo di protezione legale temporanea rivolto alla popolazione migrante venezuelana che integra il regime internazionale di protezione dei rifugiati con l’obiettivo di registrazione della popolazione migrante venezuelana nel paese e concede un beneficio temporaneo di regolarizzazione a chi possiede i requisiti stabiliti. L’Etpv sarà valido per 10 anni con possibilità di proroga o risoluzione anticipata a seconda del contesto futuro.

Un primo passo dunque verso la legalizzazione della permanenza delle persone venezuelane migranti in Colombia, condizione però che non risolve tutte le altre vulnerabilità intersezionali che pesano come macigni specialmente sui corpi delle donne.

Diego Battistessa

Folla di migranti al ponte internazionale Simón Bolivar, trecento metri che attraversano il fiume Tachira e collegano Venezuela e Colombia. Foto Cristal Montañéz.

La migrazione: la via di Cúcuta

Al di là del ponte Simón Bolívar

Passare in Colombia costa soldi e rischi e non risolve i problemi. In aiuto dei migranti è scesa in campo anche la diocesi di Cúcuta.

San José de Cúcuta, attuale capitale del dipartimento colombiano del Nord di Santander, è stata ed è una citta nevralgica del Sud America. Il nome stesso di questa città rispecchia l’incontro-scontro di due mondi, essendo composto da San José (in onore alla figura biblica di Giuseppe, padre putativo di Gesù) e Cúcuta, nome del cacique del popolo indigeno Barí che dominava quelle terre prima dell’arrivo dei conquistadores spagnoli. Un luogo di lotta e insorgenza, una città nella quale, oltre alle numerose placche commemorative del passaggio del Libertador Simón Bolívar, sono presenti due statue in ricordo di donne che ne hanno segnato le vicende e la storia: una è dedicata a Doña Juana Rangel de Cuellar, che nel 1733 donò 782 ettari di terreno al sindaco della città di Pamplona per promuovere la fondazione di Cúcuta; l’altra, all’interno del parco che porta il suo nome, è dedicata all’indipendentista Mercedes Abrego.

Una placca commemorativa racconta la sua storia: «Doña Mercedes Abrego de Reyes. Dama cucutegna, sarta che cucì e omaggiò al Libertador la sua elegante uniforme di Brigadiere con motivo del trionfo di Bolívar su Ramón Correa, nei pressi di Cúcuta. Quando le truppe realiste riconquistarono la città nell’ottobre 1813, fu condannata a morte per aver aiutato i ribelli. Fu giustiziata il 21 di ottobre del 1813 per ordine di Bartolomé Lizon. Fu portata di notte, in vestaglia e scalza, dalla sua casa in Urimaco fino al luogo dell’esecuzione. Camminò per le strade della città sotto forte scorta. Una volta giunta nel luogo predisposto, l’ufficiale a capo della scorta chiese a chiunque si sentisse capace di tagliare con un solo colpo la testa ad una donna, di fare un passo avanti. Ignacio Salas fu il suo assassino, che riversò la sua sete di sangue sulla donna, decapitandola con un solo colpo di sciabola: suscitando in quel modo gli applausi e gli encomi dei suoi compagni d’armi».

Più a Sud, nell’area metropolitana di Cúcuta, troviamo Villa del Rosario. Si tratta della città natale del generale José de Paula Santander e sede dello storico congresso del 1821 nel quale, sotto l’egida di uno dei grandi padri della patria colombiana, Antonio Nariño venne redatta quella che è passata alla storia come la costituzione di Cúcuta. A Villa del Rosario, in quello che oggi è il Parco Grancolombiano, oltre alla casa di Santander, si trova ciò che resta del Tempio del Congresso, semidistrutto dopo il terremoto del 18 di maggio 1875, passato alla storia come «il terremoto delle Ande».

L’entrata della «Casa de paso Divina Providencia», istituita dalla diocesi di Cúcuta e coordinata dal padre José David Cañas Pérez, a La Parada. Foto Diego Battistessa.

«Trochas» e «trocheros»

Proprio in questa cittadina così emblematica, oggi parte del conglomerato urbano di Cúcuta, si trova il quartiere chiamato «La Parada» (la fermata), punto di inizio della traversia di migliaia di venezuelane e venezuelani migranti. Si tratta del punto zero dell’esodo, uno dei luoghi simbolo del più grosso fenomeno migratorio che la storia recente dell’America Latina ricordi. Il rito di passaggio avveniva attraversando il ponte Simón Bolivar, costruito sul fiume Tachira, frontiera naturale tra due paesi che alternano amore e odio, fin dai tempi dell’indipendenza. Scaramucce diplomatiche prima, ed esigenze sanitarie poi, hanno reso terra desolata quei pochi metri di asfalto che uniscono due mondi così simili ma allo stesso tempo così diversi.

Se i ponti sono chiusi (ma la situazione è in cambiamento, ndr), non è così però per le frontiere informali. Decine infatti sono le trochas, stretti passaggi tra la selva e il fiume Tachira che permettono quotidianamente a centinaia di persone di passare illegalmente da un lato all’altro del confine. A guidare i gruppi di migranti in questi sentieri della speranza attraverso acqua e foresta, sono i trocheros, persone che conoscono la zona e che hanno ottenuto il beneplacito dei gruppi criminali che controllano il contrabbando di merci e persone. Chiunque voglia passare dal Venezuela alla Colombia (e viceversa) deve scendere a patti con i colectivos (gruppi armati al margine della legge, spesso conniventi con la polizia) nella città venezuelana di San Antonio del Tachira.

Una volta pagata la tariffa concordata e trovato un trochero, si può passare, pagando dal lato colombiano un’altra tariffa di «destinazione». A marzo 2021 i prezzi per il passaggio erano relativamente bassi, questo era dovuto soprattutto alla gravissima crisi economica del Venezuela, alla chiusura delle frontiere e alle misure di confinamento stabilite nel paese da Nicolás Maduro. Per passare da Sant’Antonio del Tachira a La Parada erano necessari 5mila pesos colombiani da ambo i lati (un totale di 10mila pesos che equivale a circa 2,5 euro). Il problema però per la maggior parte dei migranti venezuelani è arrivare a Sant’Antonio del Tachira, cosa per niente ovvia e potenzialmente molto pericolosa. Ecco, dunque, che per garantire un transito sicuro da Valencia, Barquisimeto, Merida o San Cristobal, bisogna sborsare l’equivalente di centinaia di dollari ai colectivos. Questo ovviamente vale anche per un eventuale viaggio di ritorno.

Padre José David Cañas Pérez alla «Casa de paso Divina Providencia». Foto Cristal Montañéz.

I problemi in territorio colombiano

Considerato quanto detto fino ad ora, ci si potrebbe immaginare che una volta arrivati dalla parte colombiana del fiume Tachira, il peggio sia passato e invece i problemi per i migranti venezuelani non faranno che moltiplicarsi. La Parada non è un luogo nel quale pensare di poter rimanere permanentemente e di fatto quasi nessun venezuelano considera questa opzione come un piano percorribile. L’idea è rimanere giusto il tempo necessario per racimolare qualche soldo e poi andare a Cúcuta. Da lì, diventa più facile trovare delle opportunità di guadagno e pianificare il resto del viaggio che passerà per la rotta stradale di 202 km che unisce la capitale del dipartimento del Nord di Santander con Bucaramanga. Una volta giunti a Bucaramanga, ogni scelta diventa possibile: rimanere in Colombia e dirigersi verso un’altra grande città o continuare il viaggio verso un altro paese (Ecuador, Perù, Cile e Argentina) più a Sud.

Nonostante ciò, negli ultimi anni La Parada si è trasformata in una sosta transitoria a medio termine, dove le famiglie venezuelane spendono oramai settimane o mesi. La pandemia ha poi peggiorato le cose, limitando la mobilità e costringendo diversi nuclei familiari a cercare una sistemazione semistabile. In questo contesto è sorta un’«architettura del migrante», promossa da persone locali che hanno visto la possibilità di fare business, trasformando degli stabili fatiscenti in case provvisorie per i venezuelani migranti. Stabili di un solo piano sono stati compartimentati con stanze di dieci metri quadrati ciascuna, nelle quali vivono intere famiglie, condividendo un patio e un bagno in comune. In queste misere, insalubri e promiscue soluzioni abitative, possono vivere anche 5 o 6 famiglie (una per stanza), fino a 30 persone condividendo una doccia e un bagno. Ogni nucleo familiare cucina nella stanza nella quale vive con una bombola di gas noleggiata, che deve pagare giornalmente: anche l’affitto è giornaliero (circa 10 pesos al giorno) e viene pagato ogni sera, chi non paga viene sbattuto fuori.

Per il corpo e per lo spirito

In tutta questa tenebra c’è però un punto di luce: la «Casa di passaggio della Divina Provvidenza» della diocesi di Cúcuta. Questo spazio di ristoro, per il corpo e per lo spirito, è stato inaugurato il 5 giugno del 2017 e da allora si è trasformato in un luogo di speranza e sollievo per quanti arrivano a La Parada. L’idea della diocesi di Cúcuta era quella di provvedere un appoggio integrale alla popolazione migrante in transito e non, garantendo alimentazione, medicinali e cure mediche, attenzione psicosociale e assistenza legale. La chiesa cattolica di Cúcuta ha messo in marcia un incredibile progetto, appoggiato dallo stesso papa Francesco, che ha visto sommarsi alla causa il Programma alimentare mondiale dell’Onu (Pam), l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Acnur / Unhcr), Caritas internazionale, Adveniat (il programma della Conferenza episcopale tedesca che sostiene e finanzia progetti pastorali in America Latina e Caraibi), Caritas Colombia, Caritas spagnola, la Conferenza episcopale degli Stati Uniti d’America e la catena di radio spagnola Cope. Con l’aumento del flusso migratorio nel 2018 e, successivamente, con l’arrivo del Covid-19 a inizio 2020, l’attività della «Casa di passaggio della Divina Provvidenza» è stata però fortemente rallentata. Negli ultimi mesi si è deciso di ridurre l’accesso alla struttura (che prima offriva servizio a 3.500 persone al giorno) dando la priorità all’alimentazione di bambini, donne e anziani: oggi vengono serviti 350 pasti quotidiani, cifra che non soddisfa la grande richiesta di cibo e assistenza integrale che continua a esistere nel quartiere.

Migranti venezuelani in cammino (si noti il cartello con le distanze). Foto Cristal Montañéz.

Cúcuta e prostituzione come necessità

A 15 minuti in auto da La Parada, tragitto che la maggior parte dei migranti venezuelani percorrono a piedi, si arriva a Cúcuta. La situazione in città è critica e questo non è dovuto solo al coronavirus (a partire da aprile 2020). Secondo i dati di Migración Colombia al 31 dicembre 2019, nella capitale del dipartimento del Nord di Santander si trovavano circa 105mila cittadini venezuelani su una popolazione totale di 700mila persone (e in tutto il dipartimento più di 200mila venezuelani, che corrispondeva all’11,5% del totale nazionale).

La saturazione degli spazi abitativi e lavorativi ha prodotto in città una precarietà senza precedenti, accompagnata da una situazione di grande vulnerabilità, specialmente per le donne e le bambine. Gli uomini, in mancanza di un’alternativa lavorativa, si dedicano al rebusque: un’attività di riciclaggio attraverso la quale, perlustrando tutte le strade delle città e ispezionando la spazzatura, riescono a raccogliere plastica, alluminio, vetro, cartone e metalli che poi rivendono nei centri preposti al riciclaggio. Per le donne la prima alternativa e la più remunerativa è la prostituzione. Alcune cercano di dedicarsi ad altre attività, come la vendita di caffè nella zona del Terminal dei bus, ma la pressione sociale e la promessa di facili guadagni spesso fa pendere la bilancia verso la vendita dei loro corpi. Oramai a Cúcuta è quasi impossibile trovare una donna in situazione di prostituzione che sia colombiana: «la piazza» è stata occupata completamente dalle donne venezuelane che hanno ridotto della metà le tariffe vigenti prima del loro arrivo. La maggior parte di queste ragazze (spesso di età compresa tra i 18 e 30 anni) non esercitavano la prostituzione in Venezuela ed è qui, lontane da casa, sole e senza alternative che cadono nella rete dei locali notturni che popolano la Septima avenida (Strada numero 7). Molte di loro hanno già svariati figli e alcune li hanno portati con loro nel viaggio. I bambini e le bambine passano le giornate in stanze d’albergo accanto a quelle dove le madri ricevono i clienti che trovano nei locali o per strada. Quasi nessuno di questi bambini è scolarizzato. Passano le giornate dormendo per ingannare la fame o guardando la televisione. Le madri sono coscienti che questa non è la situazione ideale, ma sanno che è l’unico presente che possono offrire, almeno per il momento, ai loro figli.

Sono centinaia le donne venezuelane che riempiono la «settima», e per le misure adottate in Colombia per contenere i contagi, sono costrette a scendere in strade fin dalla mattina per poter lavorare fino all’orario del coprifuoco, ogni giorno sempre più stringente. La polizia spesso entra nei locali facendo ronde e retate, soprattutto per assicurarsi che nessuna minore d’età venga prostituita.

Verso altre piazze

In Colombia, il commercio sessuale è tollerato e in ogni città esistono dei quartieri di tolleranza (veri gironi dell’inferno) dove, a volte, la polizia cerca di fare atto di presenza ricordando che la prostituzione minorile è un reato. A Cúcuta le tariffe sono bassissime e sono le stesse ragazze a pagare la pieza (la stanza d’hotel). Un cliente paga 30mila pesos (7,5 euro) per trenta minuti e considerando i costi che le venezuelane devono sostenere quotidianamente (cibo per loro e per i figli e la stanza dove dormire), molto spesso devono riuscire a trovare almeno tre clienti al giorno. Un’impresa davvero ardua di questi tempi e per questo, molto spesso, sono costrette a negoziare il prezzo fino quasi alla metà.

Però anche Cúcuta, come La Parada, è un luogo di passaggio, soprattutto per le donne che ascoltano le storie di altre compagne d’avventura che raccontano meraviglie, di Cali, Bogotà, Cartagena e Medellin: città dove si può lavorare di più e meglio, dove i clienti sono europei e statunitensi e, dunque, si può inviare più denaro alla famiglia rimasta in Venezuela. Ragione quest’ultima, che rappresenta il vero scopo del processo migratorio per molte di loro.

Per raggiungere queste città via terra da Cúcuta, (la stragrande maggioranza di loro non ha documenti d’identità validi e non può prendere l’aereo) bisogna però arrivare prima a Bucaramanga.

Le tende e la «lavanda» dei piedi

Sono 202 i km che separano Cúcuta-Villa del Rosario da Bucaramanga, capitale del dipartimento di Santander e circondata dalla cordigliera orientale delle Ande. Il cammino verso questa città è pieno di insidie e pericoli ma nonostante ciò, ad oggi, sono migliaia i migranti venezuelani che hanno realizzato a piedi (a volte scalzi) questa traversata. Lungo quella che è già stata ribattezzata la ruta de los caminantes («la rotta dei camminanti») sono stati installati nel corso degli ultimi anni almeno 13 punti di aiuto e supporto. I primi 9 si trovano nel primo tratto di 75 km (circa 16 ore di cammino) che collega Villa del Rosario con la cittadina di Pamplona. Si tratta di punti di ristoro, alberghi dove poter pernottare, tende nelle quali ricevere assistenza medica e cibo: un sollievo fisico e spirituale.

Sono molte le organizzazioni, confessionali e non, dedicate ad aiutare i camminanti. Tra queste spiccano sicuramente: Samaritan’s Pursue, con l’albergo situato nella località Don Juana a 35 km da Cúcuta, e la Carpa esperanza Jucum (Tenda speranza della gioventù), situata a pochi km da Pamplona, dove giovani volontari si dedicano alla «lavanda» dei piedi dei migranti, alla cura delle piaghe e a distribuire nuovi calzari.

Una volta giunti a Pamplona, i migranti devono riposare e recuperare energie perché li aspetta la parte più dura e pericolosa del viaggio: la scalata del «paramo de Berlin», un passaggio di montagna a più di 3mila metri d’altezza. Da Pamplona a Bucaramanga ci sono altri 4 punti di appoggio che cercano di provvedere i migranti con acqua, cibo e indumenti pesanti per far fronte al freddo delle Ande che alle volte raggiunge gli zero gradi. Le persone provenienti dal Venezuela sono abituate ad un clima caldo. Per loro la traversata di questo passaggio di montagna è qualcosa di sovrumano. Uomini e donne, spesso con bambini piccoli in braccio, in pantaloni corti e t-shirt, con ciabatte o scarpe sportive non adatte a quel clima. Questa è la scena che si ripete costantemente nel «paramo de Berlin», e che più di una volta ha rappresentato una condanna a morte per le persone più fragili, sfiancate dalle lunghe ore di cammino, già malate, o per i più piccoli. Superato il passo, inizia la discesa verso Bucaramanga, un punto di luce e speranza prima di decidere verso dove e come proseguire il cammino. Nel 2020 la pandemia da Covid-19 e le relative restrizioni alla circolazione hanno ridotto il flusso di camminanti, ma – nel primo semestre 2021 (specialmente tra gennaio e marzo) – si è tornati a vedere un fiume di persone che, in fila indiana, la maggior parte con lo zaino con i colori della bandiera bolivariana in spalla, camminano e camminano. Senza sosta.

Diego Battistessa

La migrazione: la via della Guajira

Quando il destino è la strada

Anche la penisola colombiana della Guajira è territorio di transito per molte migranti venezuelane. Tappa di un percorso verso altre città dove curarsi o partorire. O prostituirsi con i turisti del sesso.

La Striscia, «la Raya», così si chiama popolarmente lo spartiacque che, nella penisola della Guajira, divide ufficialmente la Repubblica bolivariana del Venezuela dalla Colombia. Si tratta di pochi metri che per migliaia di venezuelane e venezuelani rappresentano la possibilità di un nuovo inizio. Per lungo tempo questa frontiera (mentre scriviamo la situazione è in evoluzione, ndr), così come le altre tra Venezuela e Colombia, è rimasta chiusa. Le autorità permettevano solo il passaggio, a piedi, dei membri delle comunità transnazionali indigene Wayuú, nativi della penisola della Guajira, che vivono a cavallo dei due stati. Per tutti gli altri l’unico passaggio era attraverso las trochas (i sentieri), che comunque si trovano a pochi metri da «La Raya». Non esiste infatti un vero e proprio controllo militare di questa frontiera dal lato colombiano: gli unici funzionari presenti sono quelli di Migración Colombia, che non hanno funzione di ordine pubblico. È così che, nonostante la pandemia da Covid-19 e le restrizioni, centinaia di persone continuano ad arrivare in Colombia dal fluido confine nel Nord del paese.

Prima tappa a Maicao, Colombia

Una volta entrati in Colombia, nel dipartimento della Guajira (che prende il nome dalla stessa penisola), la prima sfida per i migranti è riuscire a raggiungere la città più vicina: Maicao. Sì, perché «la Raya» si trova nella frazione di Paraguachón, appartenente a Maicao, ma distante 12 km dall’urbe. A Paraguachón, esiste un primo centro di attenzione al migrante gestito da Acnur e dalla Croce rossa colombiana, ma si trovano anche decine di intermediari informali che offrono, a chi se lo può permettere, ogni tipo di servizio: trasporto, merce di contrabbando e cambio moneta, tra gli altri. Chi arriva a Paraguachón spesso viene dalla città venezuelana di Maracaibo (stato Zulia) e ha affrontato un lungo viaggio di più di 100 km con mezzi di fortuna (spesso sul sedile posteriore di una moto) e pagando i colectivos per avere «garanzia» di un passaggio sicuro. Una volta superata la frontiera, molti migranti decidono di proseguire a piedi per Maicao, sotto il sole inclemente della Guajira. Non è solo il sole però a costituire una sfida e un pericolo (soprattutto per le persone anziane e le donne incinte), ma sono anche le bande di predoni che popolano questa terra di nessuno. I taxisti che percorrono la rotta di collegamento tra la frontiera e Maicao sono sempre in allerta e, quando possono, viaggiano in convoglio per dissuadere possibili attacchi armati con fine di rapina.

Da questa frontiera, così come da quella di Cúcuta, solevano passare due tipi di migranti. I commercianti, che venivano per pochi giorni o settimane in Colombia per acquistare merci da poter poi introdurre in Venezuela, e coloro che, invece, zaino bolivariano in spalla, erano decisi ad abbandonare la terra di Bolívar. Dal 2018 in avanti, anno del totale collasso della moneta nazionale venezuelana (il bolívar), il potere d’acquisto dei venezuelani si è ridotto all’osso e il paese è ormai de facto dollarizzato. Questo, e la lunga chiusura delle frontiere, ha ridotto tantissimo il flusso di commercianti e oramai gli unici venezuelani in arrivo sono quelli che scappano da una delle peggiori crisi umanitarie della regione. Come succede per la rotta Sud a Cúcuta-Villa del Rosario, l’idea è quella di fare un breve stop a Maicao per continuare poi lungo la costa per Riohacha, Santa Marta, Barranquilla e, a volte, Cartagena.

Sulla strada di Cúcuta migranti venezuelani con mascherina attendono in fila per avere cibo e medicine dalla Croce rossa (2 febbraio 2021). Foto Schneyder Mendoza – AFP.

A Riohacha, capitale della Guajira

Riohacha è la capitale del dipartimento della Guajira ed è una cittadina che riunisce un crogiolo di etnie, tradizioni e conflitti sociali. Mestizos, afrodiscendenti e indigeni Wayuú abitano lo spazio urbano e rurale (in modo direttamente proporzionale al loro status economico e sociale), vivendo ora gomito a gomito con l’incipiente migrazione venezuelana. Acnur ha aperto in città un grande ufficio vicino al lungomare, cercando di supportare sia l’amministrazione locale che le organizzazioni che appoggiano i migranti. Il dipartimento della Guajira è però uno dei dipartimenti più depressi a livello economico di tutta la Colombia e, in questo contesto, sviluppare azioni di mitigazione della vulnerabilità dei migranti venezuelani, diventa molto difficile. Per questo anche Riohacha per la maggior parte dei migranti non rappresenta una meta, ma una tappa transitoria verso città economicamente più attive e che presentano maggiori opportunità. Inoltre, per quelle donne venezuelane che vedono nella prostituzione l’unico mezzo di sostentamento, Riohacha è un’ambiente ostile e inospitale, dove non è possibile prostituirsi per la strada alla luce del sole. In città prevale una mentalità proibizionista e anche se la prostituzione è implicitamente tollerata, non può però essere esibita in bella vista. Questo e la mancanza di un turismo internazionale, che nel Nord si concentra a Santa Marta e Cartagena, spingono le donne a continuare il loro viaggio verso Ovest.

Santa Marta, capitale del dipartimento di Magdalena, è una città conosciuta per le sue coste ed è meta di turismo nazionale e internazionale. I samari (questo il gentilizio per gli abitanti della città) sono molto fieri della loro tradizione e cultura, e di uno dei grandi figli della città: Carlos Alberto Valderrama (El Pibe Valderrama) famoso calciatore dalla folta capigliatura ossigenata che impressionava il mondo negli anni Novanta. A Santa Marta la migrazione venezuelana è molto presente, e il lungo mare è tristemente popolato da donne venezuelane in situazione di prostituzione. Da Riohacha a Santa Marta ci vogliono almeno tre ore e mezza di bus ma, anche in questo caso, per alcuni la rotta viene fatta a piedi. In questa città le donne venezuelane in situazione di prostituzione raccontano di una particolare dinamica che le vede impegnate in quelle che loro stesse definiscono «stagioni lavorative». Prima della pandemia e della conseguente chiusura delle frontiere e difficoltà di movimento, solevano venire a Santa Marta direttamente dalla zona di Maracaibo e qui si fermavano per circa due mesi. Con il denaro raccolto prostituendosi, tornavano in Venezuela dove le aspettava la famiglia (soprattutto madri e figli). Rimanevano in Venezuela fino a quando il denaro raccolto non cominciava a scarseggiare, momento nel quale diventava necessario tornare a Santa Marta per una nuova «stagione». Questa dinamica, come detto, si è interrotta con l’arrivo del Covid-19, quando decine di donne venezuelane sono rimaste bloccate in Colombia, senza poter vedere la loro famiglia da più di un anno.

In questo senso, oltre allo stile di vita estremamente logorante, l’aspetto psicologico sta passando loro una fattura molto salata. Lontane dai figli che avevano salutato pensando di poterli vedere solo dopo qualche settimana, molte di loro hanno perso familiari morti per la pandemia, persone care alle quali non hanno potuto dire addio. A Santa Marta la prostituzione è tollerata e accettata, tanto che si esercita fin dalle prime ore del giorno lungo tutto il lungomare, soprattutto nel centrale parco Bolívar e anche di fronte all’edificio dell’amministrazione centrale del dipartimento.

Due donne migranti allattano i loro piccoli in un punto istituito da «Hermanos caminantes». Tra le migranti venezuelane ci sono mamme e donne incinte. Foto Cristal Montañéz.

Le Ong di Barranquilla

Cento chilometri a Ovest di Santa Marta si trova Barranquilla, conosciuta anche come «la arenosa», capitale del dipartimento dell’Atlantico. Qui la situazione della migrazione venezuelana è completamente differente rispetto alle altre città che formano la rotta Nord: le persone che hanno lasciato il Venezuela cercano in questa città la possibilità di stabilirsi in modo permanente. Barranquilla è la quinta città più grande della Colombia, con una popolazione di un milione di abitanti, il 10% dei quali sono migranti venezuelani.

Si tratta di un polo commerciale importante dove, prima della pandemia, abbondavano le opportunità di lavoro e di commercio. Il clima costiero è un altro elemento di confort per i migranti venezuelani che, nel corso degli ultimi anni, hanno visto Barranquilla come una reale opportunità di ricostruzione di un futuro di speranza. In questa città si trova uno dei più brillanti esperimenti di supporto locale integrale alla popolazione migrante di tutta la Colombia: il «Centro di integrazione per i migranti», creato nel novembre 2019 dall’amministrazione comunale della città. Questo punto di supporto si trova tra la Carrera 45 e Calle 45, alle porte del centro storico della città. Adriana Padilla è la coordinatrice della struttura, che lavora in costante coordinamento con la direzione del Gruppo interagenzia sui flussi migratori misti (Gifmm) e con le diverse organizzazioni che lo compongono. Questo centro è davvero il fiore all’occhiello dell’assistenza alla migrazione venezuelana in Colombia. Al suo interno vengono svolte attività polivalenti portate avanti tra le altre da Oim, Acnur, Unicef e Croce rossa colombiana. Inoltre, la risposta alle diverse esigenze delle persone che accedono al centro è legata ad un accordo quadro con un’altra dozzina di Ong nazionali e internazionali (Plan international,  Danish refugee council e World vision), che svolgono attività specialistiche per rispondere a particolari situazioni di vulnerabilità. Nella struttura, grazie al finanziamento di Acnur e al lavoro svolto da alcune Ong locali (come De Pana Que Si e Fuvadis), si sono aperti anche canali di appoggio per rispondere alle particolari situazioni delle donne venezuelane migranti (in special modo gravidanze e situazioni di violenza familiare) e delle persone appartenenti al gruppo Lgbtiq+ (persone lesbiche, gay, bisessuali, transgender, queer).

La prostituzione a Barranquilla

Barranquilla è stata la meta di centinaia di donne venezuelane migranti che cercavano un posto sicuro dove partorire o dove poter essere visitate e accompagnate durante la loro gravidanza. Negli ospedali colombiani sette migranti venezuelani su dieci sono donne; a Barranquilla, città di riferimento della costa colombiana, il 70% dei parti è di madri venezuelane.

Per quanto riguarda le donne venezuelane in situazione di prostituzione, esse si concentrano nei locali che popolano il centro storico, nella zona del Parque de los enamorados (parco degli innamorati), lungo la Carrera 40, tra le strade 45 e 42. Camminando per quella zona, estremamente pericolosa nelle ore notturne, si possono intravedere decine di donne migranti venezuelane «ammassate» dentro i locali in attesa dei clienti di turno. A Barranquilla però, così come in altre città economicamente più attive (come, ad esempio, Medellin), la prostituzione si muove anche attraverso internet. Sono decine infatti le pagine di incontri dove le donne venezuelane offrono i loro servizi in appartamenti, centri di massaggi erotici, bar o direttamente a domicilio. Un «mercato» cresciuto in maniera esponenziale, soprattutto con le restrizioni per evitare i contagi da Covid-19 che hanno portato alla chiusura di molti locali e all’attivazione del coprifuoco a partire dalle venti.

«Io proteggo le donne», promette la frase sul cappellino. Foto Diego Battistessa.

… e a Cartagena de Indias

Come detto, per la maggior parte dei migranti venezuelani la rotta Nord si interrompe a Barranquila, ma non mancano coloro che, percorrendo altri 120 km verso Ovest, decidono di arrivare alla città di Cartagena de Indias, vero grande polo turistico internazionale del «Caribe colombiano». In questa città si vive praticamente solo di turismo e sono centinaia i venezuelani che lavorano per le strade come promotori di ogni tipo di servizio. Una delle grandi piaghe di Cartagena è però il turismo sessuale, dovuto in gran parte a uomini statunitensi ed europei che arrivano nella capitale del dipartimento di Bolívar solo alla ricerca di droga e prostituzione. Le autorità locali hanno combattuto, soprattutto nel 2018, questo fenomeno, ma ad oggi la situazione non è cambiata molto. Alla sera, la zona della torre dell’orologio, giusto all’entrata della cinta muraria della città, si popola di donne in situazione di prostituzione a caccia del turista di turno. Anche in questo caso, la maggior parte di loro sono venezuelane, giovani, avvenenti, con diversi interventi di chirurgia plastica per incarnare quello stereotipo così mercificato ed esportato in tutto il mondo dalla fabbrica della bellezza di Osmel Sousa (il padrino di Miss Venezuela). Le tariffe variano: si può passare dai 100 dollari per 30 minuti ai 500 dollari per tutta la notte. È per questo che Cartagena, soprattutto per le giovani migranti venezuelane che rispondono ai parametri del mercato del sesso, diventa il luogo dove i turisti sessuali sono disposti a comprare il loro corpo pagando in dollari sonanti.

Diego Battistessa

Ritratto di un giovane migrante venezuelano. Foto Diego Battistessa.

Inserti

Una baracca costruita da migranti. Foto Diego Battistessa.

«Ranchitos»

Capita spesso che famiglie di migranti venezuelani, trovandosi nell’impossibilità di pagare un alloggio nelle località colombiane nelle quali giungono, decidano di occupare un pezzo di terra in periferia e costruire un «ranchito» (baracca). Si tratta di costruzioni fatte di cartoni, lamiere, teloni e coperte. Luoghi senza acqua ed elettricità, insalubri, spesso in zone rischiose (come il costato di una montagna), ma che per i migranti sono ciò che di più può somigliare alla parola casa. Dopo l’arrivo di una o due famiglie si sparge la voce ed è così che altre decine di persone giungono per occupare il loro pezzetto di terra e potersi mettere un tetto sopra la testa. Di solito, gli abitanti delle città dove avvengono le invasioni non vedono di buon occhio questa pratica e le amministrazioni locali provano, spesso con la forza, a sfrattare gli occupanti non fornendo loro però nessuna soluzione alternativa. Questo è quello che sta succedendo nel quartiere San Matteo, periferia di Cúcuta, dove è sorto da due anni un insediamento di migranti venezuelani ribattezzato «Nuova Speranza». Si tratta di una ventina di baracche costruite su di un suolo argilloso e sull’orlo di un crepaccio: un accampamento dove vivono circa 70 persone (18 famiglie), metà delle quali minori d’età. Gli «invasori» hanno trovato il modo di collegarsi alla rete elettrica cittadina e anche per l’acqua hanno trovato il modo di diventare autosufficienti con un sistema (precario) di tubature. Non sono ben accetti dai vicini del quartiere San Matteo, specialmente dal centro di addestramento della polizia che si trova giusto sopra di loro, in cima alla collina. Ad oggi l’amministrazione della città di Cúcuta ha intimato lo sgombero della zona per motivi legati alla sicurezza e alla salute degli stessi migranti (soprattutto dei minori) ma senza offrire alternative, nessuno lascerà «Nuova Speranza».

Di.Ba.

Torturatori

Prostituzione venezuelana per le strade della Colombia. Foto Diego Battistessa.

A Bogotà esiste un quartiere dove ad ogni ora del giorno è possibile «comprare» un corpo di una donna venezuelana migrante. Si tratta di Santa Fe, zona di tolleranza della capitale colombiana, fiera della spoliazione dei diritti, luogo nel quale si commercia approfittando della miseria altrui. Donne e ragazzine (molte sono minorenni), praticamente nude, aspettano sui marciapiedi delle strade dalle 15 alla 22, il torturatore di turno. Sì perché, come ricordano María Galindo e Sonia Sánchez nel libro Ninguna mujer nace puta, una donna in situazione di prostituzione si incontra con prostituenti, stupratori e torturatori, non con clienti. Camminando per quelle strade, ciò che si vede è la nudità dei loro corpi, ma quello che molti non vedono (non vogliono vedere) è la nudità di diritti. Donne e bambine vestite solo di forza di spirito e dignità, tenute spesso in piedi dalla droga (che aiuta anche a non sentire la fame), mentre deambulano in una strada che oramai è tutto il loro mondo, tutto il loro inferno. Vivono negli hotel della zona (spesso con i loro figli), pagando una quota giornaliera. Inviano settimanalmente soldi ai parenti rimasti in Venezuela, che quasi mai sono al corrente della non vita che fanno queste donne nel quartiere di Santa Fe. Ombre, fantasmi di ciò che erano un tempo: in Venezuela molte di loro prima del collasso del paese, avevano davanti una promettente carriera professionale oppure stavano frequentando l’università.

 Di.Ba

I morti di Sonia

Si chiama Sonia Bermúdez Robles, ha 65 anni e per tutta la vita ha avuto a che fare con la morte essendo una tanatologa forense. Sonia è originaria di Riohacha e proprio nella capitale della Guajira ha lavorato per più di 40 anni nell’istituto di medicina legale, realizzando circa 5mila autopsie. Nel 1996, a dieci chilometri dalla città, sulla via per Valledupar, Sonia occupa un terreno di cinque ettari di proprietà del comune e inaugura il cimitero «Gente como uno» (Gente comune, come noi). Inizialmente il cimitero rispondeva all’esigenza di dare sepoltura agli N.N. e alle persone di bassa o nessuna capacità economica (persone che non sarebbero state sepolte nel cimitero centrale della città), ma con l’esplosione della crisi migratoria venezuelana le cose sono cambiate drasticamente. A partire dal 2018, sono state decine le richieste ricevute da Sonia per poter dare sepoltura ai migranti venezuelani morti nella Guajira: persone le cui famiglie non disponevano di risorse economiche per il funerale e delle quali né lo stato venezuelano, né quello colombiano, erano disposti a farsi carico. Di fronte a questa situazione Sonia ha risposto «presente», e da quel momento ha dato cristiana sepoltura a più di 500 migranti venezuelani nel suo cimitero, la maggior parte infanti e persone anziane. Il lavoro di Sonia è oggi riconosciuto internazionalmente, e anche l’Onu ha celebrato il suo esempio di solidarietà e costruzione della pace.

Di.Ba

Sonia Bermudez Robles, tanatologa forense, davanti ai loculi del cimitero. Foto Diego Battistessa.

 

 

 

 




Viaggiare e rinascere

Viaggiare e rinascere

Questo mese affrontiamo il tema del viaggio attraverso tre libri molto diversi tra loro. Partendo dall’isola di Manus, a Nord della Papua Nuova Guinea, vero inferno dei migranti, passando dal Kenya, visto dagli occhi innamorati di un missionario, oggi vescovo di Asti, arriviamo alle nostre città che inquinano di luce il cielo della notte.

Nessun amico se non le montagne

L’isola di Manus è la quinta per grandezza della Papua Nuova Guinea. Gli australiani, com’è noto, in tema di accoglienza di profughi e immigrati, usano politiche al limite della barbarie, e hanno stretto un accordo con il governo papuano per fare di Manus un campo di detenzione.

Da quella prigione si esce solo se si accetta di tornare nel paese d’origine, diversamente si rimane lì. A tempo indeterminato, senza diritti, tutele, possibilità di riprendersi in mano la propria vita.

Le condizioni di detenzione sono disumane. Lo hanno certificato decine di indagini indipendenti, e il governo australiano fatica a mettere la polvere sotto il tappeto.

Il poeta curdo iraniano Behrouz Boochani ha passato a Manus cinque anni, finché la pressione internazionale gli ha fatto ottenere un visto temporaneo per la Nuova Zelanda.

Usando un vecchio telefonino e una singhiozzante copertura internet, Boochani, che oggi ha 37 anni, sms dopo sms, messaggio Whatsapp dopo messaggio, che inviava ad amici e colleghi, ha scritto un memoriale. Ha raccontato la sua vita nell’isola, la quotidianità del campo di detenzione, le storie dei compagni di viaggio e di prigionia.

La summa di tutto ciò è un libro che Add Editore ha pubblicato nel 2019 e che si intitola Nessun amico se non le montagne.

Quattrocentotrenta pagine molto dense, toste da leggere. E lo sono per due motivi: in primo luogo, Boochani è innanzitutto un poeta, e il suo sguardo, anche dal profondo degli inferi, rimane visionario, capace di crudezza e levità nello stesso verso. In secondo luogo, i versi di Nessun amico se non le montagne sono un lungo messaggio digitato dal telefonino: non c’è manoscritto, carta, penna, computer, stampante. Solo le sue dita su una piccola tastiera da tenere lontana dagli occhi delle guardie.

Un paradiso terrestre coperto di giungla e contornato da spiagge bellissime, può essere un inferno, e nessuno lo sa.

Dove Dio ha nome di donna

Avviciniamoci un po’, e arriviamo in Africa, nel Kenya di un sacerdote fidei donum torinese oggi vescovo di Asti, una diocesi con radici nel IV secolo d.C.

Monsignor Marco Prastaro è nato a Pisa nel 1968, ma è torinese d’adozione. È stato ordinato sacerdote nel 1988 dal cardinale Ballestrero, e inviato in Kenya, nella parrocchia di Lodokejek, dal card. Saldarini.

Ha lavorato nella diocesi di Maralal, 350 chilometri e 5 ore di fuoristrada a Nord di Nairobi. Un’esperienza africana che si è conclusa dieci anni fa, ma che ancora oggi porta i suoi frutti. Uno di questi è Dove Dio ha nome di donna, edito dall’Editrice missionaria italiana.

«Alcune esperienze […] segnano in modo permanente la vita – scrive mons. Prastaro -. La plasmano, la cambiano, a volte […] la trasformano completamente. Alla fine ci si ritrova un’altra persona. Questa è la resurrezione, che è sempre ingresso in una vita nuova».

A metà strada tra il diario e il recupero della memoria recente, il libro del vescovo di Asti ha un gran merito: è limpido, senza retorica, senza alchimie. È lo specchio di ciò che è la vita missionaria: un incontro tra culture lontane, che hanno bisogno di tempo per comprendersi, entrare in sintonia e dare frutto.

«Nel dicembre del 1997, per la prima volta pensai alla missione. Era appena rientrato per motivi di salute uno dei due preti della nostra missione diocesana di Lodokejek e, pensando a don Adolfo, rimasto lì da solo, mi dissi: “Qualcuno deve pur andare ad aiutarlo […]. Magari potrei andarci io”.

A volte le scelte sono più semplici di quanto uno possa immaginare. E così don Marco si ritrova tra i Samburu a condividere con loro una quotidianità molto complessa: il flagello della siccità che porta al limite la resistenza fisica e mentale, la diffusione dell’Aids, le centinaia di gravidanze indesiderate di donne bambine, il filo troppo sottile che separa la vita e la morte, il senso d’impotenza e rabbia di fronte a un bambino che muore di malaria perché non sei arrivato con quelle due pastiglie che gli avrebbero salvato la vita. E poi quella rassegnazione delle popolazioni locali, che impari a comprendere solo con il tempo.

Nel libro di Prastaro non ci sono risposte, ma il percorso di un uomo bianco che nel cuore dell’Africa cambia e rinasce.

Cieli neri

L’ultimo tratto del viaggio è a casa nostra, o quasi, e ha un altro orizzonte: il cielo.

Irene Borgna, giovane antropologa e guida montana con la passione per la scrittura, ha pubblicato da pochissimo Cieli neri. Come l’inquinamento luminoso ci sta rubando la notte, per Ponte alle grazie.

Savonese, trasferitasi in Valle Gesso, in provincia di Cuneo, con questo libro pone l’accento su un aspetto della nostra vita contemporanea, apparentemente marginale, ma legato al tema serio del cambiamento che la Terra sta subendo: se alziamo gli occhi al cielo non vediamo più le stelle.

A metà strada tra la lettura romantica della notte e l’analisi scientifica di un fenomeno naturale che scompare, Irene Borgna, a bordo di un camper, va a caccia delle aree del Nord Europa nelle quali, di notte, si può ancora essere travolti dal cielo stellato.

«La pianura Padana – scrive Irene – è tra le aree più abbagliate e abbaglianti dell’intero pianeta. […] Nessun italiano può dire di godere di una notte intatta […] otto italiani su dieci non riescono a scorgere la Via Lattea da casa propria».

La luce e il buio dettano i ritmi della vita, alterarli è una pessima idea. Esistono iniziative che cercano di portare il tema all’attenzione del grande pubblico. Irene Borgna invita il suo lettore: «Passa all’azione. Controlla che le luci di casa siano ineccepibili. Se quelle dei tuoi paraggi non ti convincono, consulta la documentazione e la normativa regionale […] sul sito cielobuio.org […], poi chiedi un consiglio su come iniziare a riconquistare la notte».

Il cielo più buio, e quindi luminoso, d’Europa, Irene lo trova. Per scoprire dove, vale la pena leggere il suo libro.

Sante Altizio




Oltre il Circolo polare artico

testo e foto di Valentina Tamborra |


Una storia che ha dell’incredibile. E affonda le sue radici in sei secoli fa.  Ma c’è qualcuno che la tiene viva, in un remoto e sconosciuto angolo del mondo. Una vicenda che crea legami tra due popoli. E pochi lo sanno.

Il 25 aprile del 1431 Pietro Querini, un nobiluomo veneziano, mercante ed esploratore, salpò da Candia (l’odierna Creta) alla volta delle Fiandre con un carico di 800 barili di Malvasia, cotone, spezie e altre merci.

Non poteva immaginare che si sarebbe ritrovato sulle coste delle allora sconosciute isole Lofoten, precisamente sull’isola disabitata di Sandøy, vicino a Røst. Furono i venti e i mari a decidere la sorte del capitano e del suo equipaggio. Questa è la storia di un naufragio che da sventura diventò opportunità, che da tragedia si trasformò in un secolare rapporto di amicizia: ancora oggi infatti, l’isola nella quale Querini e i superstiti del suo equipaggio furono accolti e ospitati, serba intatto il ricordo di quell’avvenimento.

Di 68 uomini della «Cocca Querina», solo 11 si salvarono, toccando terra il 14 gennaio del 1432: decimati dal naufragio, dalle condizioni terribili del mare, dalla notte polare e dal freddo artico, affamati e ridotti allo stremo delle forze, vennero salvati da alcuni pescatori dell’isola di Røst, che li ospitarono per circa quattro mesi nelle loro case. Quando il capitano Querini e i suoi uomini ripartirono, portarono con sé, insieme al ricordo della bontà d’animo e della semplicità di vita dei pescatori, un carico di quello che era il bene primario per l’isola: lo stoccafisso.

Fu così che un pesce dell’artico, che appartiene alle gelide acque del Nord, arrivò in Italia, precisamente a Venezia, diventando la prelibatezza che tutti conosciamo.

Il racconto di questa vicenda è oggi custodito in due luoghi affascinanti e carichi anch’essi di storia: la Biblioteca Apostolica Vaticana e la Biblioteca Marciana di Venezia. Il capitano Querini, infatti, scrisse di proprio pugno un diario che oggi è custodito in Vaticano, mentre alla Marciana viene conservata la deposizione di due marinai: Cristofalo Fioravante e Nicolò De Michiele, che con Querini scamparono al naufragio.

Ma oltre ai due manoscritti, cosa resta oggi di questo incontro?

Røst, l’ultima

Røst è un’isola piatta. A spezzare la linea dell’orizzonte solo un picco che ricorda il cappello di un mago, la montagna di Stavøya.

L’ultima isola delle Lofoten, non raggiunta, o quasi, dal turismo, è dedita interamente alla pesca e essiccazione del merluzzo che viene spedito principalmente in Italia, Spagna, Portogallo e Nigeria. Sono le particolari condizioni climatiche dell’Artico, infatti, a permettere l’essiccazione perfetta di questo pesce.

Singolare è anche il nome del particolare tipo di merluzzo pescato qui: Skrei. Il termine Skrei deriva infatti da un vocabolo (å skrida) che in antica lingua vichinga significa «viaggiare, migrare, muoversi in avanti».
Lo Skrei, infatti, compie ogni anno una vera e propria migrazione dal mare di Barents verso le acque più calde della costa settentrionale norvegese al fine di riprodursi.

Già nell’epoca vichinga le qualità del merluzzo erano conosciute e apprezzate. Una volta essiccato, poteva durare mesi ed essendo altamente proteico, costituiva un importante elemento per la dieta piuttosto povera degli abitanti delle isole remote.

Ancora oggi lo stoccafisso viene prodotto usando gli stessi ingredienti e lo stesso metodo dell’epoca in cui il capitano Querini naufragò su sull’isola: tutto naturale.

Røst conta oggi circa 500 abitanti, fra questi un solo medico, un poliziotto e un prete. La comunità è completamente coinvolta nella vita di mare. Chi non è un pescatore, pur non uscendo in mare ogni giorno, si dedica in qualche modo all’industria della pesca, per lavoro o per diletto.

I bambini ad esempio, durante le vacanze scolastiche, aiutano genitori e nonni nella pulizia del pesce. In particolare, imparano a tagliare le lingue che, una volta impanate e fritte, sono considerate una vera prelibatezza.

L’Italia

La piccola isola di Røst ha una peculiarità: l’eredità del passaggio degli italiani è talmente forte, da aver ispirato ben due realtà davvero particolari.

Qui infatti ha sede il comitato più a Nord della Società Dante Alighieri: il suo presidente è  Kjell-Arne Helgebostad, l’unico medico dell’isola. Kjell-Arne parla perfettamente italiano ed è ben lieto di fare da guida a chiunque desideri approfondire la storia di questa dimenticata porzione di mondo.

Il medico ha fondato anche una piccola biblioteca dove è possibile trovare libri in italiano e norvegese dedicati alla storia dell’isola e di Pietro Querini.

C’è poi una donna, un’artista eclettica e sognatrice: Hildegunn Pettersen. Cantante lirica originaria dell’isola, padre pescatore, vive oggi a Oslo dove canta e insegna musica.

È lei ad aver dato vita a un’opera lirica interamente dedicata alla vicenda del Querini. Ogni anno in agosto, viene organizzato il Querini Festival, durante il quale l’opera viene rappresentata sull’isola di Røst e coinvolge buona parte della comunità. Dalle altre isole, in molti raggiungono Røst per assistere alla rappresentazione.

Sul palcoscenico insieme a Hildegunn si possono trovare pescatori e produttori, esportatori di pesce, insegnanti della scuola, il medico e chiunque, sull’isola, voglia far parte della tradizione e della memoria.

I ragazzi della scuola hanno aiutato a costruire le scenografie, e sul palcoscenico campeggia un leone di Venezia in polistirolo dipinto d’oro che è in tutto e per tutto «uguale» all’originale.

Parte dell’opera Querini è cantata in italiano. Il sogno di Hildegunn è portare lo spettacolo a Venezia, magari proprio accanto al mercato ittico di Rialto, sotto il quale si celano le rovine di quella che fu «Casa Querina».

Un ristorante e una stele

Per ricordare il naufragio, sull’isola di Sandøya, nel punto più alto, si erge la stele dedicata a Pietro Querini. Furono gli abitanti di Røst a porla qui nel 1932 in ricordo dell’evento che sancì l’antica amicizia.

Sono passati quasi 600 anni da quando un pescatore dell’isola e i suoi due figli si imbatterono in quel gruppo di sopravvissuti

che non appartenevano al loro mondo: «Dopo che a parole e a gesti gli facemmo comprendere che eravamo naufraghi bisognosi di aiuto, cominciarono a parlare, ci dissero il nome dell’isola e tante altre cose di cui non capimmo nulla», scriveva Pietro Querini nel suo diario, e ancora oggi quell’antica ospitalità viene tenuta in vita.

Oltra alla stele di Sandøya sull’isola di Røst esiste un piccolo ristorante che è anche il punto di ritrovo della comunità: è il Querini Pub.

Gestito da Anna Cecilie, propone ricette locali e rivisitazioni del piatto più importante di queste parti: lo stoccafisso.

Svolvaer, Henningsvaer e «le altre»

La tradizione della pesca al merluzzo però, non fa parte solo del retaggio culturale della piccola isola di Røst.

Anche isole come Svolvaer, Henningsvaer, Leknes, seppure più conosciute come meta turistiche, hanno una fortissima storia legata al merluzzo.

L’economia di tutto l’arcipelago è strettamente legata alla pesca e ci sono luoghi come Ballstad, non lontano da Leknes, che sono essenzialmente villaggi di pescatori.

Le tipiche casette rosse costruite a ridosso della costa, chiamate rorbuer, sono nate come abitazioni dei pescatori norvegesi. Tradizionalmente spartane, ospitavano gli uomini che ormeggiavano la propria barca lungo i porti delle Lofoten. Oggi molti rorbuer accolgono turisti e sono diventate luoghi esclusivi, dai quali è possibile ammirare non solo la bellezza della natura, che pure in questi luoghi domina, ma anche l’andirivieni dei pescatori che ogni mattina, dalle quattro e mezza in avanti, salpano dal porto verso il mare aperto.

La vita e i ritmi della natura

Hemingway nel suo «Il vecchio e il mare» scriveva: «Chiunque sa fare il pescatore di maggio». E viene proprio da pensarlo qui, oltre il Circolo Polare Artico, dove la natura domina ed è l’uomo a doversi adattare a lei e non viceversa. Se è pur vero che i moderni sistemi di navigazione hanno ridotto di molto i rischi, è altrettanto vero che i mari del Nord sono particolarmente difficili da navigare. Capita talvolta, specialmente tra gennaio e aprile, i mesi durante i quali lentamente la luce fa capolino dopo la «blue season» (una stagione dell’anno dove la luce del sole è solo un tenue bagliore blu all’orizzonte), che in una giornata si arrivi a vivere quattro stagioni: il vento infatti, può cambiare nel giro di pochi secondi e un cielo azzurro e terso può trasformarsi in un «muro» di neve  che rende impossibile definire l’orizzonte. Se è vero che il gps aiuta a trovare la rotta, è anche vero che bisogna conoscere a menadito «le strade del mare», i fondali bassi, le rocce che con gli strani giochi di luce e le maree scompaiono alla vista e rischiano di far incagliare le barche.

Si esce in mare ogni giorno da queste parti, con qualsiasi condizione climatica: quello della pesca resta un mestiere pericoloso, e lo sa bene Håvard, un giovane pescatore la cui barca porta il nome del nonno, Åge Steinar.

Quando lo incontro, mi racconta dell’incidente di pesca che fu fatale per il nonno, esperto pescatore, nonché suo maestro.

La barca carica di pesce stava rientrando in porto quando all’improvviso una forte tempesta rese difficile la navigazione. La barca affondò portando con sé l’uomo. A nulla valsero gli sforzi di altri pescatori accorsi sul luogo della tragedia: solo Håvard riuscì a salvarsi. Eppure, nonostante tutto, come dicono da queste parti, nessuno vorrebbe cambiare mestiere perché: «Puoi togliere una barca al suo uomo, ma non un uomo dalla sua barca».

Storie di donne

Arrivando sul porto di Svolvaer, è facile scorgere, proprio poco distante dalla battigia, posta a picco su alcuni scogli, una statua dalla figura esile: è la moglie del pescatore. Una mano alzata a schermare gli occhi dalla luce Artica, scruta il mare in attesa del ritorno del suo uomo. È la rappresentazione tipica delle mogli dei pescatori. Donne che attendono e sembrano poco coinvolte nella vita di mare. Ma non è per nulla questo il ruolo di donne, come Lone e Line.

La prima, una trentenne con un tatuaggio sulla schiena che rappresenta tre stoccafissi e quello di un’ancora sul braccio destro, è una pescatrice. Fuggita dai ritmi della città, si è rifugiata a Røst dove oggi vive di pesca.

Lone ha dovuto farsi strada in un mondo ancora oggi prettamente maschile: inizialmente guardata con stupore, oggi è a tutti gli effetti «un lupo di mare». Nel tempo libero ama suonare il pianoforte e colleziona strumenti antichi, come un arpicordo che tiene appeso in salotto.

Line invece è una vraker, ovvero una selezionatrice. Figlia di pescatori, ha imparato il mestiere da un vero e proprio maestro: Ansgar Pedersen, dell’azienda Glea. Ogni giorno Line annusa migliaia di stoccafissi per stabilirne la qualità e il mercato di destinazione. Ha provato per un periodo a trasferirsi in città, abbandonando l’isola, ma non faceva per lei. Ha deciso di restare quindi a Røst dove oggi è sposata e ha due bimbi.

Line racconta che, fino a una ventina di anni fa, addirittura si diceva che «le donne in barca portassero sfortuna». Oggi invece il ruolo femminile all’interno del mercato della pesca è pienamente accettato.

Dove lavorare

Eppure non solo i norvegesi sono esperti pescatori: ogni anno infatti, durante la stagione della pesca al merluzzo da gennaio ad aprile,  sono in molti a raggiungere le Lofoten da zone come la Lituania, in cerca di lavoro.

È il caso di Arturas che, nella sua terra natale, era fotografo e cameraman. Dopo la crisi economica che ha colpito il suo paese ha dovuto reinventarsi. Oggi da gennaio a maggio si sposta alle isole Lofoten dove ogni giorno prende il mare con il suo capitano, Odd Helge Isaksen, a caccia dei migliori skrei.

Tra leggenda, superstizione e tradizione

Ogni uomo di mare, si sa, ha una storia da raccontare. Un’avventura particolare, una tempesta cui è scampato fortunosamente o una pesca particolarmente disastrosa.

Ma c’è sempre una «storia» a cui ogni pescatore è particolarmente affezionato. E ad essa, un po’ per superstizione, un po’ per tradizione, si collegano alcuni piccoli riti di buon auspicio. È il caso ad esempio, del saluto alla montagna di Vågakallen, un picco che domina il porto di Svolvær.

Nelle prime ore del giorno, quando il buio ancora avvolge il villaggio, i pescatori preparano le barche e prendono il mare. Prima di partire, però, fanno un inchino e un saluto a questa montagna: che li protegga, che li accolga nuovamente nel porto sicuro, carichi di pesce, al ritorno.
Durante la stagione della pesca non è difficile imbattersi in quello che è forse uno degli spettacoli naturali più affascinanti al mondo: l’aurora boreale.

In Norvegia queste scie colorate che accendono la notte artica, vengono chiamate Nordurljos: «Luci del Nord».

La leggenda narra che, ogni qualvolta il cielo si accende di questi colori brillanti, da qualche parte le Valchirie sono in battaglia: secondo il mito, i bagliori in cielo, dal verde al rosso al rosa, non sono altro che il riflesso del sole sulle armature delle guerriere.

Valentina Tamborra

Questo lavoro è diventato una mostra fotografica e un libro: «Skrei. Il viaggio», Valentina Tamborra, Silvana Editoriale, 2020.




Rd Congo: Ripartire dalle donne (vittime di violenza)

testo di Luca Salvatore Pistone |


L’Est di uno dei paesi più ricchi d’Africa non trova pace. Nonostante la presenza delle Nazioni unite, decine di milizie imperversano. I civili subiscono ogni sorta di vessazione. Mentre il mondo sta a guardare o, meglio, si gira dall’altra parte.

La guerra nel Nord della Repubblica democratica del Congo (Rdc) è un abominio. Covava da lungo tempo, ma è con il genocidio ruandese del 1994 che, nell’immenso stato dell’Africa centrale, si è scatenata la catastrofe. Vertiginosa diffusione di gruppi armati, negligenza delle autorità, saccheggio di risorse naturali sono solo alcuni degli ingredienti di quello che gli esperti definiscono «conflitto a bassa intensità». Una barbarie, che si protrae da oltre due decenni (di cui MC ha più volte parlato, ndr).

La prima vittima di tanta violenza? La donna. Seni amputati, clitoridi tagliati e ani sventrati sono le firme dei macellai. In Congo il corpo della donna è diventato un campo di battaglia la quale è lecito infliggere dolore, umiliazione, terrore.

Goma

Raggiungiamo Goma, il capoluogo della provincia del Nord Kivu, via terra dal Ruanda. Lasciati i bagagli in albergo, la prima cosa che facciamo è recarci al comando regionale della Monusco (Missione dell’Onu per la stabilizzazione nella Repubblica democratica del Congo). Bisogna muoversi per tempo per trovare posto a bordo di uno dei suoi aerei diretti a Bunia, capoluogo della provincia di Ituri, prima meta del nostro viaggio.

Sbrigata la burocrazia dell’Onu e strappata a un funzionario indiano la promessa che saremo inseriti al più presto nella lista dei passeggeri, ci rechiamo all’appuntamento con Caleb in un bar con terrazza sul lago Kivu. Il tramonto contribuisce a rendere il paesaggio ancora più mozzafiato.

«Finalmente ci conosciamo!». Quarantacinque anni, alto, pochi denti in bocca, Caleb è un simpaticone. Giornalista, ha collaborato con prestigiose testate internazionali. È lui il nostro fixer (la persona che negli scenari di guerra o di crisi, assiste il giornalista che si muove sul campo). «Fidati di me, per capire come le cose vanno in Congo bisogna parlare con le donne».

La casa delle donne

La mattina seguente Caleb passa a prendermi con il suo fuoristrada. In meno di mezz’ora raggiungiamo il villaggio di Bulengo. Continuiamo per un paio di chilometri di strada sterrata e, nascosta da una fittissima vegetazione, troviamo un’enorme villa. Siamo alla Maison des femmes. Ci accolgono una ventina di donne con altrettanti bambini. Terminati i convenevoli, tutte tornano alle loro attività. C’è chi si dedica alla tintura di stoffe per abiti femminili, chi all’intreccio di cestini di plastica riciclata e chi all’allevamento di polli e maiali.

Justine Masika è la presidente di Synergie des femmes pour les victimes des violences sexuelles (Sfvs), una piattaforma nata nel 2002 che raggruppa 35 piccole Ong locali con sede a Goma. «Sfvs gestisce il progetto Maison des femmes. Teniamo dei corsi di formazione professionale e, grazie al microcredito, contribuiamo all’avvio di piccoli esercizi commerciali. Qui le nostre assistite parlano dei traumi che hanno vissuto. Capiscono di non essere sole e che si può andare avanti. Operiamo sulle conseguenze dello stupro, ma ci siamo rese conto che è necessario intervenire alla base di questo male, e cioè lavorare sulle cause che rendono la violenza sessuale un fenomeno così diffuso».

Justine ha un bel da fare. Alla porta del suo ufficio bussano in continuazione le sue collaboratrici per farle firmare pile di scartoffie. «Per porre un freno a questo crimine bisogna combattere l’impunità di cui godono gli stupratori, coinvolgere maggiormente i politici e gli investitori stranieri per mettere fine al saccheggio delle materie prime e, quindi, ai conflitti per il sottosuolo che dilaniano il nostro Congo. Occorre anche capire che gli stupri non distruggono solo il fisico di chi li subisce, ma l’intera società. Le donne, dopo essere state abusate, vengono considerate colpevoli per ciò che è successo loro: vengono ripudiate dai mariti e i figli restano abbandonati a se stessi».

Sfvs si assume le spese per la riparazione chirurgica di fistole retto-vaginali, dei test per l’Hiv e dei trattamenti per malattie sessualmente trasmissibili. Ha istituito venti consultori dove vengono invitate sia le vittime che i loro familiari, allo scopo di far capire a questi ultimi che la «gogna» perpetrata anche da loro non è la via giusta. La sezione per la difesa legale fa pressioni presso le Corti, dinanzi alle quali vengono portati i casi delle donne stuprate, e ha avviato un’intensa campagna per la creazione di tribunali che si occupino esclusivamente di violenze sessuali.

Il dolore

È mezzogiorno. Può avere inizio il douleur (dolore), come Justine chiama l’orario dei colloqui dello psicologo del centro con le vittime di violenza sessuale.

Provengono tutte dalla zona di Masisi, una città del Nord Kivu nota per essere il centro di conflitti che vedono coinvolti almeno 140 piccoli gruppi armati irregolari. «Mettetevi comodi. Vedrete quanto in basso può arrivare l’uomo», ci annuncia Justine.

La prima a entrare è Judithe, di 57 anni. Dieci anni fa dovette assistere all’assassinio del marito e dei due figli, fatti a pezzi col machete. «Il nostro villaggio fu attaccato dai miliziani Mai Mai. Piangevo e quelli mi violentarono uno dopo l’altro, picchiandomi a sangue. La mia comunità mi ripudiò».

È il turno di Mamy, di 35 anni, madre di tre bambini: «Ero andata al pozzo per prendere dell’acqua e ho incontrato degli uomini armati. Mi hanno detto che potevo scegliere tra la vita e lo stupro. Quando vieni stuprata vieni marchiata a vita. Il tuo uomo si sente umiliato e ti caccia via di casa. Per l’intero villaggio sei come morta o una prostituta. Io invece nella disgrazia sono stata fortunata perché mio marito ha capito la situazione e mi ha tenuta con sé».

Therèse ha da poco compiuto 15 anni ed è al settimo mese di gravidanza. Sorride solo quando pensa a Julie, il nome che ha scelto per sua figlia. Per più di un mese è rimasta nelle mani di criminali nella foresta. «Quando mi volevano venivano nella capanna in cui mi avevano rinchiusa. Lo facevano a turno, anche in due, per più volte al giorno. Ero la donna di tutti. Mi costringevano pure a cucinare per loro. Poi un giorno all’improvviso mi bendarono e mi riportarono all’ingresso del mio villaggio».

Chantal ha 19 anni e tra un mese partorirà: «Al mio villaggio non c’è una sola famiglia che non abbia una donna violentata. Io ho tre cugine che sono state abusate. La mia famiglia è in ginocchio, nessuno ci rivolge più la parola».

Secondo le stime delle Nazioni unite, nella regione si verifica uno stupro ogni trenta minuti. Una pratica che non accenna a placarsi.

Ringraziamo la Maison des Femmes e torniamo alla macchina. Regna il silenzio. A infrangerlo, una volta immessi sulla strada asfaltata, è Caleb: «Adesso capisci come siamo messi? In Congo la donna è il campo di battaglia». Mi squilla il cellulare e sul display compare il nome del funzionario della Monusco. È stato di parola: tra un paio di giorni potremo volare su Bunia.

Bunia

Un’enorme distesa bianca e blu. È così che Bunia appare dall’alto. Poi, a mano a mano che l’aereo plana, ci si rende conto di come migliaia di teli di plastica dei colori dell’Onu abbiano inghiottito l’intera città. Sono le tende degli sfollati provenienti da tutto l’Ituri, la martoriata provincia di cui Bunia è capoluogo.

Ituri, un vasto territorio di circa 65mila chilometri quadrati nel Congo Nord orientale, è da lungo tempo teatro di abominevoli scontri tra due etnie, gli Hema e i Lendu. I primi storicamente pastori, i secondi agricoltori. Le rivalità tra i due gruppi risalgono al periodo coloniale, quando i belgi favorirono gli Hema, creando non poche disparità che i governi succedutisi fino ai nostri giorni non hanno voluto e saputo limare.

Le dispute vere, quelle sfociate nel sangue, sono iniziate negli anni Settanta in concomitanza della promulgazione di leggi sulla distribuzione delle terre che avevano avvantaggiato gli Hema. Picchi di violenza si sono registrati nel 1972, 1985, 1996, 2001 e 2003, mentre scontri minori si sono protratti fino al 2007. Negli anni Novanta gli sfollati raggiunsero la cifra record di 400mila. Le varie missioni di stabilizzazione dell’Onu nella Rdc non sono riuscite a fermare i massacri, registrando peraltro un alto numero di morti tra i propri militari. Negli ultimi mesi hanno avuto luogo nuovi scontri con almeno una ventina di morti tra i civili, e le rappresaglie, fomentate da gruppi armati vicini alle due etnie interessati dalle ricchezze del posto, sembrano non avere fine.

Un mare di sfollati

L’Onu ritiene che gli sfollati dovuti a quest’ennesimo incidente, sparsi in campi ufficiali e irregolari soprattutto a Bunia, o rifugiatisi nel vicino Uganda, siano 340mila, circa l’8% dell’intera popolazione della provincia.

Per motivi di sicurezza dobbiamo alloggiare a Bunia, dove ha sede una base della Monusco, gestita dai contingenti marocchino e bengalese. Il responsabile dell’ufficio stampa della missione, un sergente marocchino, ci dà un lasciapassare per raggiungere autonomamente Djugu, la terza città per estensione di Ituri, divenuta uno degli epicentri delle violenze, a patto di tornare a Bunia prima di sera. Un percorso di 70 chilometri su strada sterrata con buche che inghiottirebbero una jeep. Caleb scorre la rubrica di uno dei suoi tre Iphone e contatta Richard, un autista locale. «Tutto ok, domattina alle 4 in punto ci passa a prendere con un pick up».

Richard spacca il minuto. Lasciamo Bunia e a ogni curva rimaniamo a bocca aperta per la bellezza del territorio. Colline verde smeraldo, cascate azzurrissime, fiori mai visti prima. Il viaggio procede liscio e in meno di tre ore siamo alle porte di Djugu.

La città bruciata

Il colore che domina in città è il nero: non c’è un solo edificio o catapecchia che non sia stato incendiato. La cenere è ovunque. Per la loro opera di devastazione sia gli Hema che i Lendu si servono di «serbatoi incendiari», ovvero serbatoi di motociclette lanciati a come molotov contro le case di quelli che ritengono nemici.

Pochissime le persone che incontriamo per strada. Nessuno ha voglia di parlare con noi e così decidiamo di proseguire per un’altra ventina di chilometri fino a Fataki, una piccola località sotto l’amministrazione di Djugu dove è attivo l’unico ospedale del circondario.

Da una stanza provengono urla strazianti di una giovane. Yvonne sta per dare alla luce il suo primogenito. Il dottor Bavi, il giovane direttore dell’Ospedale di Fataki, ci chiede se vogliamo assistere ma decliniamo l’offerta, rimanendo al di qua della tenda che delimita la sala parto. Ephala, la madre della ragazza, è seduta su una sedia in un angolino. Quella che tra pochi minuti diverrà nonna ha appena trent’anni. «Prima è toccato a me, adesso a lei. A sedici anni fui violentata, Yvonne a quattordici. Mia figlia nacque in seguito a quello stupro, come il figlio che ora sta partorendo. Spero sia un maschio, così non potrà essere violentato come noi».

Prendiamo la direzione per Bunia e siamo in hotel prima di sera, come promesso al sergente marocchino.

I campi profughi

Il giorno seguente ci viene assegnata una scorta di caschi blu bengalesi per visitare il Site1 e il Site2, i due campi ufficiali per sfollati di Bunia, uno a poche centinaia di metri dall’altro. Gli chiedo il perché di una simile misura di sicurezza, apparentemente eccessiva, e lui non mi lascia diritto di replica: «Un poliziotto è stato ucciso all’interno del Site1. Tranquillo, avrete massima libertà di movimento».

Il Site1 è il campo più grande della regione. Sorto lungo la recinzione dell’Ospedale Generale di Bunia, ospita circa diecimila sfollati in stragrande maggioranza di etnia Hema. Nel Site2, nato poco dopo su un terreno messo a disposizione dalla Diocesi di Bunia, ce ne sono quasi novemila.

È la Ong congolese Lasi (Ligue anti-sida en Ituri), diretta dal pastore Ignaci Bingi, ad aver ricevuto dal governo provinciale l’incarico di gestire gli aiuti al Site1 elargiti dal Pam (Programma alimentare mondiale) e Oxam (Oxford committee for famine relief). Per distribuire meglio le derrate alimentari, il pastore ha personalmente diviso il campo in dieci blocchi, facendo eleggere dalla comunità un rappresentante per ogni blocco. «Gli sfollati mi riferiscono tutto ciò che non va nel campo in modo che io possa portare le loro rimostranze a chi di dovere. È gente esausta, che ha perso tutto ciò che aveva, incattivita. Una bomba a orologeria insomma».

A occuparsi invece del Site2 sono Caritas Congo e Unicef (Fondo delle Nazioni unite per l’infanzia). Di scuole non ce ne sono e così l’unico spazio aggregativo che i bambini possono frequentare è un piccolo centro costituito da quattro pareti di legno all’interno delle quali alcuni animatori li intrattengono con balli e canti. «Tantissimi dei nostri sfollati sono minori – dice Clementine Pelosi, funzionaria Unicef – e tantissimi sono orfani perché i loro genitori sono stati uccisi durante gli scontri».

I due campi sono un distillato di atrocità. Testimonianze verbali e testimonianze visibili sulla loro pelle. La storia di Grace e Rachel appartiene a queste ultime. Non lascia molto spazio alla fantasia. Due bambine, sorelle, rispettivamente di undici e due anni. Da pochi giorni sono uscite dal reparto di chirurgia dell’Ospedale generale di Bunia, dove erano state condotte due mesi prima in fin di vita.

A raccontarcela è loro zia Charlotte: «I Lendu hanno attaccato Tchee, il nostro villaggio. Hanno violentato davanti agli occhi di Grace e Rachel la loro madre, mia sorella. Sempre davanti ai loro occhi hanno ucciso i loro genitori e i tre fratelli più grandi. I Lendu, non soddisfatti, si sono divertiti coi machete. Hanno tagliato parte del braccio sinistro di Grace e l’hanno ferita alla nuca. Poi sono passati a Rachel. L’hanno squarciata da guancia a guancia e da orecchio a orecchio. Io ho già i miei figli a cui badare, come posso sfamarle? Sapete che nessuno le sposerà in queste condizioni?». Grace è appoggiata alla sua spalla mentre Rachel dorme tranquillamente tra le sue braccia.

Accanto a me un casco blu bengalese. Ha gli occhi lucidi. Infila in tasca a Grace una merendina. Si è fatto buio, dobbiamo andare.

Luca Salvatore Pistone


Dieci anni dal «Rapporto Mapping»

Il genocidio senza storia

Il primo ottobre 2020 ricorrevano i 10 anni dalla pubblicazione del «Rapporto Mapping» dell’Alto commissariato delle Nazioni unite per i diritti umani (Unhchr) sulla Repubblica democratica del Congo.

Per capire meglio di cosa si tratta, occorre fare un passo indietro. Nel 1994, al termine del genocidio in Ruanda, durato 100 giorni senza che la comunità internazionale intervenisse, il Fronte patriottico ruandese (Fpr) di Paul Kagame assunse il controllo del paese (milizia a maggioranza Tutsi anglofona, ndr). Nella speranza di salvarsi dalle violenze dell’Fpr, deciso a vendicarsi del genocidio subito dagli Hutu, circa due milioni di ruandesi di etnia Hutu si rifugiarono nell’allora Zaire di Mobutu. Questi era malato, stanco e ormai abbandonato dagli alleati.

Con il genocidio in Ruanda, l’invasione dello Zaire da parte di quest’ultimo era solo questione di tempo e, con la scusa di inseguire i genocidari hutu, si è concretizzata con la «Prima guerra del Congo» che si è combattuta fra il 1996 e il 1997 e che ha messo fine al regime di Mobutu. Per non destare sospetti durante l’invasione, è stato messo a capo dell’avanzata un cittadino zairese, Laurent-Désiré Kabila che è diventato presidente nel paese nel 1997. Nel 1998 Kabila ha intimato ai ruandesi di ritornare a casa loro e così è iniziata la «Seconda guerra del Congo», detta anche Guerra mondiale africana, che, con milioni di vittime, si è conclusa nel 2003 con un governo di transizione guidato da Joseph Kabila, al potere dal 2001, dopo l’assassinio di Laurent-Désiré Kabila.

In seguito alla scoperta di molte fosse comuni nel 2005, l’Unhchr decise di investigare, e mandò i suoi esperti che indagarono sul decennio 1993-2003 producendo il Rapporto Mapping, uno studio molto dettagliato che sarà pubblicato il 1 ottobre 2010, ma subito messo nel cassetto, in seguito a pressioni di Paul Kagame e dei suoi alleati. Questo rapporto denunciava la morte di 6 milioni di persone e individuava 617 massacri classificabili come crimini di guerra, crimini contro l’umanità e, alcuni, come crimini di genocidio. Tutti crimini imprescrittibili.

Oggi sono in tanti, congolesi e amici del Congo, a chiedere la verità su questo dramma. Nel decimo anniversario del Rapporto Mapping, il dottor Denis Mukwege (cfr. Mc aprile 2018), Premio Nobel per la Pace 2018, ha lanciato, insieme alla società civile congolese ed esponenti della diaspora, una campagna di sensibilizzazione per chiedere alle Nazioni unite l’applicazione delle raccomandazioni di quel rapporto. In particolare, la creazione di un Tribunale penale internazionale ad hoc per giudicare i crimini commessi nella Rd Congo negli ultimi decenni, crimini, lo ricordiamo, che avvengono tuttora nel silenzio, seppure sotto gli occhi della comunità internazionale. Nessuno si illuda però. La strada per arrivare alla verità e alla giustizia è davvero molto lunga e piena di insidie. Ricordiamoci che le responsabilità non si limitano al solo Ruanda ma toccano potenze mondiali ed esponenti della politica congolese. E soprattutto, non dimentichiamoci i troppi interessi economici in ballo.

John Mpaliza*

*Attivista per i diritti umani e per la pace
FB: facebook.com/johnmpaliza/ (ospite di MC giugno 2016)




Messico: Un Progetto per la vita


testo e foto di Ramón Lázaro Esnaola |


Nello stato di Jalisco, nel centro del paese, l’associazione Mati e i missionari della Consolata  hanno ideato un progetto di accompagnamento psicologico, famigliare e giovanile.


Il progetto è sostenuto dagli AMICI MISSIONI CONSOLATA.
Il supporto di altri amici è benvenuto.


I missionari della Consolata sono arrivati in Messico nel dicembre 2008, e vi hanno creato due comunità: una a Tuxtla Gutiérrez, nello stato del Chiapas, nel Sud del paese, e l’altra a San Antonio Juanacaxtle, nello stato di Jalisco, nel centro Ovest.

Il Messico è un paese pieno di contrasti. Le persone sono amichevoli, accoglienti e generose. Orgogliose della loro identità culturale. Tuttavia, la realtà strutturale del paese è molto violenta, con più di ottanta omicidi al giorno. A ciò si aggiunge la situazione dei migranti centroamericani che l’attraversano per raggiungere gli Stati Uniti, e degli stessi migranti messicani che vivono quotidianamente tragedie al confine con il loro vicino del Nord (cfr. MC luglio 2019). Il machismo e l’alcol sono abitudini che aggravano ulteriormente la convivenza familiare e sociale.

San Antonio Juanacaxtle è un quartiere (qui si chiama rancho) situato a circa 25 km da Guadalajara, la capitale dello stato di Jalisco.  Secondo  il  censimento  del  2010,  attualmente  conta  poco  più  di  1.300  abitanti.  La maggior parte della popolazione è dedita all’allevamento del bestiame, e pratica l’apicoltura. Altri si occupano di agricoltura, soprattutto di mais e sorgo. Ci sono poi anche molti artigiani, ma sono persone che vivono di lavori occasionali, mentre solo un numero molto limitato ottiene un contratto.

Molte famiglie hanno parenti negli Stati Uniti che grazie alle rimesse danno un importante contributo anche per l’economia locale.

I missionari della Consolata lavorano anche nella colonia Atlas a Guadalajara, dove hanno una piccola sede per l’accompagnamento psicologico e spirituale. Due missionari di questa comunità, infatti, sono psicologi di formazione.

Le altre zone d’intervento sono Villas Andalucia, El Faro, La Esperanza e La Aurora. Le prime due sono agglomerati di edilizia popolare, creati appena sette o otto anni fa, molto popolati, con più di diecimila famiglie in totale. Le altre sono centri abitativi più vecchi e meno popolati. Siamo presenti qui per l’accompagnamento pastorale, familiare e giovanile a cui si dedica la comunità Imc, che a San Antonio Juanacaxtle non ha la responsabilità di una parrocchia, con la collaborazione dell’associazione Mati.

L’associazione della società civile Mati è nata dalla preoccupazione di alcuni professionisti, di diverse discipline, che hanno osservato nelle famiglie diverse situazioni di vulnerabilità, come la violenza di genere e domestica, la perdita di una persona cara, il cambiamento o la perdita del lavoro, il divorzio, la perdita di senso della vita e dei valori, la mancanza di identità personale, familiare e lavorativa, e altri ancora.

Queste situazioni riflettono problemi psicologici, sociali ed economici, nonché carenze affettive che limitano l’azione di queste famiglie le quali non hanno la possibilità di lavorare in profondità su questi problemi.

Mati fornisce consulenza e formazione, lavora per rafforzare l’identità delle persone e dare un significato nuovo alle storie di vita, alla ricerca di un benessere integrale, sostenere la resilienza e soprattutto curare, proteggere e sostenere le donne vittime di violenza.

L’associazione mette a disposizione di chi frequenta i suoi corsi di formazione, uno spazio in cui vengono forniti gli strumenti per il proprio sviluppo individuale. Offre un processo di apprendimento graduale in diversi ambiti del sapere, per una continua riflessione e crescita, con l’obiettivo dell’autorealizzazione personale e professionale.

Il progetto si propone, nel corso di un anno, di generare la consapevolezza della cura e della responsabilità verso le donne, la famiglia e la società.

Promuove, come prioritarie, le quattro dimensioni dell’essere umano  (psicologica, sociale, biologica e spirituale), in modo che ogni persona stabilisca o rafforzi il proprio progetto di vita come fondamento della propria stabilità emotiva e fisica e quindi della propria trasformazione sociale. Il progetto ha l’obiettivo di lavorare con cinquecento famiglie. Considerando che ogni nucleo familiare è generalmente composto tra le cinque e le sette persone, si vogliono raggiungere, in media 3mila individui.

I missionari della Consolata si occuperanno dell’identificazione delle famglie più vulnerabili, mentre l’associazione Mati realizzerà i corsi.

Questo progetto vuole fornire ai singoli e alle famiglie strumenti per una maggiore conoscenza di sé, per poter gestire i propri conflitti e i propri lutti e per cercare soluzioni a situazioni di violenza di genere e di violenza domestica.

La speranza è che le persone e le famiglie non solo sapranno ricostruire la propria vita, ma diventeranno anche un solido e supporto per altre famiglie che vivono esperienze di disagio simili a quelle che hanno vissuto loro.

Ramón Lázaro Esnaola

Gli Amici Missioni Consolata

sono impegnati a sostenere questo progetto con un contributo di 15mila euro anche se quest’anno – per la prima volta in oltre 30 anni – non è possibile fare la tradizionale «Mostra di solidarietà dell’Immacolata».
Chi volesse sostenere il progetto «Promuovi la vita difendi la donna», può dare il suo contributo con un versamento tramite Missioni Consolata Onlus. Grazie. Muchas gracias!






I perdenti 49. Mafalda di Savoia

testo di Mario Bandera |


Mafalda di Savoia, (al secolo: Mafalda, Maria, Elisabetta, Anna, Romana) secondogenita del Re d’Italia Vittorio Emanuele III e della Regina Elena del Montenegro, nasce a Roma, il 19 novembre 1902. Tra i quattro figli della coppia regale, essa spicca per il suo temperamento brillante, inoltre possiede un’indole docile ed ubbidiente. Dalla madre eredita il senso più autentico della famiglia, i valori cristiani e la passione per l’arte e la musica. Crescendo rivela una passione per la musica classica, soprattutto per le opere di Giacomo Puccini, il quale incontrandola una volta le dice che a lei dedicherà quello che poi sarà uno dei suoi capolavori: l’opera lirica Turandot.

Trascorre infanzia e giovinezza fra Roma e le varie residenze della famiglia reale. Durante la Prima guerra mondiale segue, con le sorelle Jolanda e Giovanna, la madre nelle frequenti visite negli ospedali ai soldati feriti, collaborando agli innumerevoli atti di carità verso i poveri e i sofferenti.

Conosce in seguito Filippo d’Assia (1896-1980), principe tedesco arrivato in Italia per completare gli studi di architettura. Dopo qualche anno di fidanzamento si sposano e le nozze si celebrano a Racconigi il 23 settembre 1925. Dalla loro unione nascono quattro figli: Maurizio, Enrico, Ottone ed Elisabetta.

Mafalda di Savoia è donna coraggiosa che non misura il rischio quando si tratta di intervenire per gli altri, così come avviene durante la Seconda guerra mondiale. A seguito dell’armistizio dell’8 settembre 1943, Hitler progetta la sua vendetta ai danni della famiglia reale italiana, giudicata inaffidabile e traditrice del Patto fra Italia e Germania e come vittima da sacrificare indica proprio la consorte del principe d’Assia. Dopo la scomparsa di Boris III re di Bulgaria, morto per avvelenamento il 28 agosto 1943, Mafalda parte per Sofia per stare accanto in quei giorni terribili a sua sorella Giovanna, sposa del re.

Nei giorni in cui ti trovavi in Bulgaria non ti misero al corrente dell’armistizio dell’otto settembre intercorso tra Italia e Alleati e fosti informata soltanto a cose fatte, mentre eri già in viaggio per rientrare in Italia.

Dopo i funerali del re, iniziai il viaggio per tornare a Roma. Stavo attraversando la Romania, quando il treno fu fermato in piena notte nella stazione ferroviaria di Sinaia. Lì c’era la regina Elena di Romania, che aveva fatto fermare il treno proprio per informarmi di quanto era successo in Italia e pregarmi di non tornare a casa. Ma io volevo rivedere i miei figli e non accettai il consiglio.

Decidesti quindi di tornare ugualmente a Roma per ricongiungerti con i tuoi figli e con la tua famiglia.

Ero convinta che i nazisti mi avrebbero rispettata in quanto moglie di un ufficiale tedesco, e delle SS per di più. Raggiunsi Roma dopo un viaggio avventuroso, in treno fino a Bucarest e poi in aereo fino a Pescara. Nella capitale scoprii che il re, mio padre, insieme a mia mamma, la regina, e ai miei fratelli, si erano sottratti alla cattura da parte dei tedeschi dopo il patto di Badoglio con gli Alleati, cosa che si erano ben guardati dal dirmi, benché fossero mesi che erano in trattative. Grazie a Dio, riuscii a rivedere, per l’ultima volta, i miei figli: Enrico, Ottone ed Elisabetta (Maurizio era con il padre in Germania), accolti e protetti da monsignor Giovanni Battista Montini, futuro Paolo VI, nel proprio appartamento in Vaticano.

Ma i tedeschi, sentendosi traditi, non avevano intenzione di mollare la presa.

Per niente! La Gestapo, sotto la regia del colonnello Herbert Kappler, per compiacere il desiderio di vendetta di Hitler, aveva organizzato l’«Operazione Abeba» per catturami e deportarmi. Ingenuamente io caddi nella trappola da loro predisposta. Fui invitata a presentarmi a Villa Wolkonski, sede dell’ambasciata tedesca a Roma, con la scusa di una telefonata da parte di mio marito dalla Germania. Ero ansiosa di parlare con lui e non sapevo che invece era già stato arrestato ed era chiuso nel campo di concentramento di Flossemburg perché sospettato di aver aiutato il suocero, mio padre, il re d’Italia, a sbarazzarsi di Mussolini. Era il 22 settembre 1943 quando mi presero, e fui subito imbarcata su un aereo con destinazione Monaco di Baviera, da dove poi fui trasferita a Berlino, città in cui mi sottoposero a estenuanti interrogatori. Infine, fui deportata nel lager di Buchenwald, dove arrivai il 18 ottobre.

Come ti hanno trattata?

Non hanno avuto riguardi per me. Quando arrivai nel campo di concentramento, possedevo solo i vestiti che avevo addosso al momento dell’arresto. Le mie richieste per avere indumenti e biancheria pulita furono sempre respinte.

Non ti permisero neppure di rivelare la tua vera identità.

Non solo, per scherno i nazisti mi chiamavano Frau Abeba. Fui rinchiusa in una baracca riservata a prigionieri particolari che non lavoravano e ricevevano il vitto delle SS, poco migliore di quello dei prigionieri comuni. Con noi c’era anche Rudolf Breitscheid, membro di spicco del partito socialdemocratico e delegato al Reichstag durante l’era della Repubblica di Weimar, e sua moglie. A me venne assegnata come compagna di stanza la signora Maria Ruhnau alla quale in segno di riconoscenza, regalai l’orologio che portavo al polso. Per caso fui notata da un prigioniero italiano che mi riconobbe, così la voce della mia presenza si diffuse tra gli altri internati.

Per una persona abituata agli agi, la realtà del campo di concentramento deve essere stata traumatica.

Era una realtà squallida e avvilente, dappertutto c’era dolore e sofferenza. Anche se il nostro era un campo di lavoro e non di sterminio, eravamo trattati con brutalità, senza pietà per nessuno, nemmeno per le numerose donne e bambini che vi erano detenuti. La dura vita del campo, il poco cibo (che dividevo con coloro che reputavo ne avessero più bisogno di me) e il glaciale freddo invernale, fecero deperire ulteriormente il mio fisico già gracile e provato.

Quali sono le cause della tua morte?

Il 24 agosto del 1944 gli anglo-americani bombardarono il lager – non si è mai capito il perché di tale azione assurda contro chi era già vittima dei nazisti – e la baracca dove ero fu distrutta. In quell’occasione riportai gravissimi danni al braccio sinistro che fu ustionato fino all’osso.

Venni ricoverata nell’infermeria improvvisata nella casa di tolleranza usata dai guardiani del lager, ma là fui intenzionalmente abbandonata per molto tempo senza assistenza, poi fui finalmente operata per fermare la cancrena dovuta alle ustioni e mi amputarono il braccio.


Ancora sotto l’effetto dei pesanti sedativi, Mafalda venne riportata nel postribolo e abbandonata, senza assistenza. Morì dissanguata il 28 agosto 1944, a 42 anni. Il dottor Fausto Pecorari, radiologo italiano anch’esso internato a Buchenwald, dichiarò che Mafalda era stata intenzionalmente operata in ritardo e la sua morte era stata il risultato di un assassinio sanitario premeditato. La salma di Mafalda di Savoia, grazie al padre boemo Joseph Tyl, monaco cattolico dell’ordine degli Agostiniani Premostratensi, non venne cremata, ma fu messa in una cassa di legno, sepolta con la dicitura: 262 eine unbekannte Frau (donna sconosciuta). Dopo alcuni mesi dei marinai italiani, reduci dai lager nazisti, trovarono la bara della principessa martire e posero una lapide identificativa.

Dallo studio della vita della principessa e della sua personalità, emerge la figura di una donna briosa e mite, intelligente e colta, sempre dedita agli altri; una sposa e una madre esemplare, di grandissima fede cattolica, sempre pronta alla carità per i più bisognosi e disagiati. Persona semplice, indulgente, benevola e amabile.

Il suo sacrificio è l’ultimo atto di una vita occupata prioritariamente dalla presenza del Vangelo. Anche nel campo di concentramento di Buchenwald non badò a se stessa, in cima ai suoi pensieri c’erano i figli, il marito, i genitori, gli internati del campo e in particolare agli italiani del lager, ai quali fece sentire tutta la sua vicinanza. Le sue ultime parole furono proprio dirette a loro: «Italiani, io muoio, ricordatemi non come una principessa ma come una vostra sorella italiana».

Il marito Federico sopravvisse all’internamento prima nel lager di Flossenburg, poi in quello di Dachau e infine a Villabassa in Val Pusteria dove fu liberato dagli Alleati.

Mafalda di Savoia riposa oggi in terra tedesca nel piccolo cimitero degli Assia a Francoforte-Höchst, frazione di Francoforte sul Meno. Innumerevoli sono vie, piazze, giardini pubblici intitolati a lei, esiste persino un comune che porta il suo nome (in provincia di Campobasso), cippi e monumenti eretti in suo onore in diverse scuole e realtà italiane sono dedicati alla sua memoria.

Figlia, madre e moglie ideale, principessa dai connotati straordinariamente umani e cristiani, Mafalda di Savoia rappresenta una vittima innocente giustiziata in una guerra dove l’odio espresse la sua faccia più turpe e la violenza il suo volto più feroce. Grazie alla sua testimonianza possiamo sperare in un futuro più giusto e fraterno.

Don Mario Bandera




Libri: Contro la mentalità predatoria

yesto di Chiara Brivio |


Cosa può accomunare un libro sull’Amazzonia a un altro sulla prostituzione? La denuncia di quella mentalità che considera l’ambiente, da un lato, e la donna, dall’altro, non come un dono da custodire, ma come una preda da possedere e usare a proprio piacimento. Lo sfruttamento dell’Amazzonia, come quello delle donne va fermato.

Anche quando si leggono due libri con temi apparentemente molto lontani tra loro, si possono trovare interessanti assonanze, e una certa comunanza di ideali e di visione di fondo.

Questo mese vi parliamo di due libri che portano l’attenzione sull’Amazzonia sfruttata e depredata, come le tante donne che la abitano, da una parte, e sulle tante ragazze gettate nelle nostre strade e costrette a vendersi per sopravvivere, dall’altra. Due facce di un’unica visione distorta e malata della società – come spesso ci ricorda papa Francesco -, basata sullo sfruttamento dei deboli e degli indifesi.

In questi testi si ritrovano anche esempi di lotte edificanti, di tentativi di riconoscimento e di riscatto delle donne, che offre uno scorcio di speranza, molto spesso nutrita dagli sforzi e dall’impegno della Chiesa.

Frontiera Amazzonia

«Frontiera Amazzonia. Viaggio nel cuore della terra ferita» è il racconto dei viaggi che Lucia Capuzzi e Stefania Falasca, due firme del quotidiano «Avvenire», hanno compiuto nella foresta amazzonica attraverso quattro dei nove paesi che la ospitano. Pubblicato da Editrice Missionaria Italiana in occasione del Sinodo per l’Amazzonia dello scorso ottobre, il libro narra di un viaggio che vuole raccogliere l’eredità e, idealmente, continuare quello iniziato da papa Francesco a Puerto Maldonado, Perù, nel gennaio 2018.

«Frontiera Amazzonia» è un libro interessante già per il modo in cui è strutturato, perché ogni capitolo è dedicato a una particolare «ricchezza» dell’Amazzonia: oro, legname, coca, petrolio, esseri umani; tutte risorse che sono anche la sua maledizione, portando nella foresta miniere illegali, tratta di persone, disboscamento.

Il quadro che emerge da questo appassionato reportage non è affatto roseo, anzi.

A prima vista potrebbe indurre il lettore a pensare che un’inversione di tendenza per il nostro «polmone verde» non sia nemmeno immaginabile (siamo al 20% del disboscamento, gli scienziati hanno stimato che il punto di non ritorno si aggiri intorno al 40%), soprattutto nell’era del governo di Jair Bolsonaro in Brasile. Tuttavia, come spesso accade, la speranza viene dalle donne, vere protagoniste di questo libro.

Abusate e vittime di soprusi come la loro terra – «l’Amazzonia è una donna, una donna stuprata», scrivono Capuzzi e Falasca nell’introduzione -, sono impegnate nella lotta e nella difesa dei loro diritti, nonché nel mantenimento del delicato equilibrio ecologico del loro territorio. Figure fiere e forti, sono suore, contadine, leader indigene come Nemo, del popolo degli Waorani, che lotta contro i «rapinatori della terra» che inquinano il territorio con l’estrazione del petrolio. O come Marcivana Sateré Mawé, leader del Copime (Coordinação dos povos indígenas), che ci ricorda che, oltre alle multinazionali, sono in primis i pregiudizi a dover essere estirpati: «La gente non può concepire che l’indio oggi possa andare al college, che sia dottore, avvocato, insegnante. L’indio sa che cosa vuole. Vogliamo essere noi stessi e mantenere viva la nostra cultura per le generazioni future».

Sono vittime dell’estrattivismo e di quel «capitalismo rapace» e «usa e getta» che «produce scarti», come più volte denunciato da papa Francesco.

Sono rappresentanti di una condizione femminile che si rispecchia anche nel ruolo che ricoprono all’interno della chiesa locale, come suggerisce padre Enrico Uggè, missionario del Pime in Amazzonia: «Non si tratta di “supplenze”. Il futuro di una chiesa che rimane e cresce passa per il cuore di queste donne. E laggiù in Vaticano dovrebbero considerare anche loro e tenere conto del ruolo centrale che oggi svolgono nella chiesa amazzonica». Da leggere la prefazione del cardinale Cláudio Hummes, relatore speciale al Sinodo panamazzonico.

Donne crocifisse

«Qualsiasi forma di prostituzione è una riduzione in schiavitù, un atto criminale, un vizio schifoso». Pesano come macigni le parole di papa Francesco nella sua prefazione al volume di don Aldo Buonaiuto, «Donne crocifisse. La vergogna della tratta raccontata dalla strada», uscito per Rubbettino.

Buonaiuto, sacerdote, membro della Comunità Papa Giovanni XXIII, esorcista, da anni in prima linea contro lo sfruttamento, ha voluto raccogliere nel libro le numerose storie di quelle «sorelline» – come le chiamava il fondatore della Comunità, don Oreste Benzi – che ha incontrato sulle strade nel corso degli anni. Storie di violenza, di soprusi e di sfruttamento raccolte dalla voce delle tante, troppe, ragazze che finiscono costrette sui marciapiedi delle nostre città.

I dati che Buonaiuto cita nella prima parte del volume, un’accurata analisi del fenomeno sulla strada e online, sono impressionanti: in Italia le schiave del sesso sono circa 120mila, il 37% delle quali minorenni. Il 36% del totale proviene dalla Nigeria. Un giro d’affari che, a livello globale, si aggira sui 186 miliardi di dollari all’anno.

L’autore del libro pensa che l’unica soluzione sia una riforma della legislazione italiana, sul modello di Svezia e Francia dove viene punito il cliente invece della prostituta, producendo un capovolgimento di prospettiva che riconoscerebbe alle donne il loro status di vittime di sfruttamento e che in quei paesi ha portato a una drastica diminuzione della domanda.

Il libro è una risposta chiara a tutti coloro che vorrebbero riaprire le case chiuse, o che la pensano come il governatore di una ricca regione italiana che recentemente ha dichiarato che chi si fa complice dello sfruttamento di queste ragazze è «una persona che ha qualche necessità fisiologica».

Le vere protagoniste di questo volume sono, comunque, le testimonianze delle vittime sotto forma di lettere. Esse raccontano di un destino comune: la fuga dalla povertà, la promessa (fasulla) di un lavoro in Europa, la schiavitù – termine che ricorre spesso nel libro – per le strade.

Tra queste donne c’è Mary, «ex bambina soldato abituata a difendersi da sola e soprattutto a lottare per sopravvivere», che non sopporta il pianto dei bambini perché le ricordano sua figlia, partorita in agonia dietro un cespuglio, sotto gli occhi di tutti, e lì spirata dopo pochi istanti. C’è Stefania, bulgara, che davanti al presidente Mattarella, nonostante la sordità che la affligge per le torture subite, si è appellata a tutti i «clienti», dicendo: «Sappiano che stanno sbagliando». C’è Blessing, nigeriana, che, alla richiesta di don Buonaiuto di mostrarle il braccio nascosto sotto la giacca intrisa di sangue, raccontò che un cliente «dopo averla pagata le bloccò il braccio incastrandole la mano nella portiera per riprendersi il denaro e scappare».

Leggendo questo libro viene da chiedersi perché ancora ci siano così tanti uomini nel nostro paese (le stime parlano di tre milioni di clienti) che desiderano di abusare di queste donne, obbedendo a quella «mentalità patologica» a cui fa riferimento papa Francesco nella sua prefazione.

Sarebbe necessaria una «conversione» da parte loro, una conversione che li spinga, come faceva don Benzi, a domandare: non «quanto vuoi?», ma «quanto soffri?».




Il lavoro nella bibbia e la voce delle donne

Testi di Chiara Brivio


I libri che vi suggeriamo questo mese riguardano entrambi la riflessione sulle Sacre Scritture, ma con due approcci ben distinti tra loro. Da una parte è il lavoro come opera umana e divina il fulcro dell’analisi dell’autore, l’economista Luigino Bruni. Dall’altra è il ruolo delle donne nella Chiesa di Francesco, quello attuale e le sue prospettive future, affrontato dalla giornalista Sabina Caligiani attraverso le voci di 17 donne, tra le quali eminenti teologhe e ricercatrici.

L’arca e i talenti

L’Arca e i talenti. Quel che dice la Bibbia sul lavoro è un bel libro, un breve saggio, chiaro e scorrevole, su quello che le Sacre Scritture hanno da dire circa l’operare con le nostre mani, il lavoro e l’economia.

Non stupisce che a scriverlo sia stato uno degli economisti più noti in Italia, Luigino Bruni, professore di Economia politica all’Università Lumsa di Roma, editorialista di «Avvenire», saggista, coordinatore internazionale del progetto Economia di comunione (edc-online.org).

Il libro, edito da San Paolo, concentra la decennale riflessione di Bruni sull’economia e sulle relazioni sociali, e su come questi due temi possano essere illuminati dal messaggio della Bibbia, testo fondamentale e fonte di speranza e di sorpresa anche per l’uomo di oggi costretto a vivere in un mondo dominato da un capitalismo rapace e alienante.

Ripercorrendo le pagine dell’Antico e del Nuovo Testamento, Bruni attua una vera e propria mappatura dei libri biblici e delle parabole più famose, riportandone in vita le narrazioni e contestualizzandole nel nostro tempo. Così nel confronto tra le storie di Noè e di Babele, ritroviamo la contrapposizione tra un lavoro di cooperazione «buono» ed edificante che porta alla costruzione dell’Arca, e un lavoro «cattivo», quello degli ingegneri e dei muratori di Babele, che porta all’innalzamento della famosa torre.

«Ci sono lavori che è bene che vadano dispersi», scrive Bruni, «i lavori creati oggi dai potentissimi imperi delle mafie, della pornografia, dell’azzardo, delle imprese che avvelenano, delle guerre, della prostituzione, dobbiamo continuare a disperderli». Ci sono gli schiavi di ieri e quelli di oggi, i domini (anche economici) che continuano a generare sfruttamento, i faraoni dell’antico Egitto paragonati ai moderni dirigenti e manager che «aumentano stress e malessere nei luoghi di lavoro».

I paragoni proposti da Bruni possono, a prima vista, sembrare azzardati, ma non lo sono affatto, e anzi contribuiscono a orientare la riflessione sul valore intrinsecamente umano del lavoro e delle relazioni tra gli uomini che lo svolgono.

Così Bruni ritrova nei libri di Isaia e Geremia alcune delle pagine più belle ed edificanti sull’operare con le mani: «Dio ci attende nelle botteghe, manovrando il tornio dal suo banco di lavoro», e si spinge a dire che alcuni versetti del libro del Qoelet dovrebbero essere affissi «all’ingresso di tutte le business schools, imprese, banche».

Gli ultimi capitoli del libro sono dedicati alle parabole più conosciute (e forse più interpretate) del Nuovo Testamento, tra le quali quella del figliol prodigo, quella dei talenti, del buon samaritano, interpretate anche alla luce di nuovi studi biblici («che in un libro sul tema del lavoro nella Bibbia può valere la pena almeno conoscere»). Così il figliol prodigo diventa il migrante moderno che lascia la casa paterna e si ritrova a svolgere i lavori più umili, e scopriamo che il racconto del buon samaritano ha ispirato le teorie del premio Nobel per l’economia Amartya Sen sulla giustizia come equità e imparzialità.

L’Arca e i talenti è un libro semplice che fa riflettere sulle condizioni del lavoro di ognuno di noi, forse «meno divino» di quello raccontato dalle Sacre Scritture, e sulla possibilità di considerarlo, come farebbe San Francesco, un «fratello lavoro», capace di generare relazioni di cooperazione e amicizia.

 


La voce delle donne

Le diciassette voci raccolte dalla giornalista Sabina Caligiani e pubblicate nel volume La voce delle donne. Pluralità e differenza nel cuore della Chiesa, recentemente uscito per le edizioni Paoline, sono le voci di teologhe, filosofe, sociologhe, bibliste, storiche dell’arte, laiche e religiose, che hanno focalizzato la loro ricerca, in un modo o nell’altro, sul ruolo e sul contributo delle donne nella Chiesa, soprattutto nella Chiesa di Francesco.

Nell’introduzione al volume, Caligiani dice di essere stata ispirata dal libro di Beate Beckmann Zöller, Frauen bewegen die Päpste: Hildegard von Bingen, Brigitta von Schweden, Caterina von Siena, Mary Ward, Elena Guerra, Edith Stein, su quanta influenza le donne del passato ebbero nelle gerarchie ecclesiastiche storiche, e di come posero le basi per la «costruzione di una “teologia al femminile”». Dalla lettura di quel libro è nata l’idea di raccogliere alcuni contributi sui nostri giorni di donne che si trovano ad affrontare gli stessi problemi e le stesse questioni del passato.

Le voci che ne emergono non sono un unisono, anzi, alle volte sono molto discordanti tra loro, riflesso di modi diversi di vivere la propria «missione» all’interno della comunità secondo il carisma e la sensibilità di ciascuna.

Un filo comune tuttavia c’è: la ricerca di nuovi modelli e prospettive per la costruzione di una nuova «teologia al femminile». Ciò che non viene negato è l’indiscusso, ma forse poco conosciuto, contributo delle donne nella storia della chiesa, ma da tutte le interviste emerge, più o meno marcatamente, che soltanto con l’accesso delle donne alle facoltà teologiche sancito dal Concilio Vaticano II si è avuto un vero punto di svolta nello studio e nella riflessione biblico-teologica.

Le dissonanze si sentono su altre questioni: se da una parte le riflessioni di studiose e teologhe del calibro di Cettina Militello, Adriana Valerio, Cristina Simonelli, Marinella Perroni e Serena Noceti puntano l’attenzione sugli stereotipi di genere, sull’emarginazione delle donne, sul «femminismo come onda d’urto», sull’antropocentrismo e sull’«esercizio diffuso del potere maschile», sia a livello politico che ecclesiale, affrontando anche di petto la questione del gender (inteso come genere) e le relazioni di potere uomo-donna (modelli e paradigmi che continuano a essere perpetuati), dall’altra, i toni di Mery Melone, di suor Marcella Farina, tra le altre, si fanno più pacati e più in linea con l’idea del «genio femminile» della Mulieris dignitatem di Giovanni Paolo II.

Diverse e molteplici sono anche le considerazioni sull’istituzione del diaconato femminile, per il quale, ad esempio, Serena Noceti si dichiara a favore perché introdurrebbe un «necessario riequilibrio con la figura del prete nella comunità».

Nonostante l’intento del libro non sia quello di fornire una summa sulla discussione in atto nella Chiesa circa la teologia femminile e femminista, ma piuttosto di stimolare una discussione sul tema, l’assenza di una conclusione comune sembra indebolire il volume lasciandolo in una certa misura irrisolto.

Dal libro, tuttavia, emerge un’opinione condivisa e una speranza che il futuro potrà essere più «roseo» per le donne in questa Chiesa di Francesco, e la necessità di una comunione di visioni, nel rispetto delle differenze individuali di ciascuna, che possa costituire un «approccio fecondo» alla discussione.




Guatemala: Cuore maya, contro l’impunità


Testo di Marco Bello e Francesca Rosa; foto Archivio CISV


Il conflitto armato in Guatemala (1960-1996) è stato uno dei più cruenti e con più vittime civili. Oggi, i responsabili cercano di proteggersi con leggi ad hoc. Ma negli ultimi 10 anni la presa di coscienza della società civile ha fatto molti progressi. E per questo si registra un aumento della violenza contro i militanti per i diritti umani. Storia di una rete di associazioni di donne maya per la giustizia.

«Mi avvicinai alle donne che oggi fanno parte della Red (Rete, ndr) nel 2002. All’inizio fu un avvicinamento tecnico, perché dovetti fare per loro un lavoro che portai avanti nei due anni successivi. Offrivo assistenza e formazione per l’utilizzo del microcredito, perché stavano beneficiando di un fondo. A quell’epoca studiavo “lavoro sociale”».

Juana Bacá Velasco è un’attivista per i diritti umani guatemalteca. Nata nel 1974 a Nebaj, nel dipartimento del Quiché è maya ixil. Juana è entrata in contatto con alcune associazioni che si occupano di difesa dei diritti della donna tramite la sua professione, per poi aderire alla causa, fino a fare diventare la lotta per la giustizia la sua vita. Dal 2009 è direttrice dell’Asoremi (Asociación Red de Mujeres Ixhiles, associazione rete di donne ixil, abbreviato Red, ndr), che lei stessa ha contribuito a creare. Non senza rischi. Infatti è scampata a un attentato alla propria vita nel 2004 e oggi vive sotto scorta.

La incontriamo a Torino, di passaggio per andare a Ginevra, invitata al Festival internazionale dei film sui diritti umani. Juana è pure al vertice della Defensoria de la Mujer I’x, centro di appoggio per donne vittime di violenza di genere e punto di riferimento per la lotta contro l’impunità.

Juana si racconta: «A causa di un caso di violazione che affrontammo nel 2004, mi sentii molto coinvolta, e capii l’importanza della nostra partecipazione come cittadine e anche del fatto di fare valere i nostri diritti. Così iniziai a separare il mio impegno tecnico da quello militante, che andava crescendo. Cominciammo a costruire questa rete per necessità, perché iniziammo a essere vittime di una persecuzione politica molto forte da parte di attori importanti e potenti nel comune. E questo ci portò a verificare fino a che punto noi donne potevamo unirci e reagire a queste persecuzioni.

Tentavano di ucciderci anche a livello organizzativo, perché ci opponevamo e resistevamo di fronte a questa situazione di violenza e impunità. Eravamo oltre 300 donne maya e prendemmo una decisione molto forte, ma con molta paura, perché c’era oppressione, persecuzione. Ci dicemmo: venga quello che deve venire ma stiamo insieme e affrontiamo questa situazione attraverso la denuncia, ma anche la solidarietà e l’integrazione tra noi, perché vedevamo che era meglio affrontare i problemi tutte insieme e con molto cuore. Volevamo dire cosa stavamo subendo e meritavamo che ci rispettassero».

Juana e le compagne hanno iniziato a creare la Red, un modo di unire le associazioni di donne di Nebaj per fare massa critica e portare avanti la battaglia per i diritti.

Una rete per le donne

«Iniziammo un cammino a livello organizzativo, ma anche di grande impegno come donne per poter essere soggetti dei nostri diritti. Iniziammo a costruire la Red nel 2005, fino a legalizzarla nel 2010.

Questo processo ci ha segnate fortemente. Nel 2007 ci fu una tappa importante per decidere cosa fare: proseguire la lotta, ponendo così a rischio le nostre vite, e quella delle nostre famiglie, oppure ignorare le persecuzioni, come se non fosse successo nulla. Anche grazie all’accompagnamento internazionale da parte della Ong Cisv, non ci siamo sentite sole, ma supportate e aiutate a fare il lavoro organizzativo».

I dubbi erano forti: cosa avrebbe implicato questo impegno? «Occorreva affrontare il sistema di giustizia: che conseguenze avrebbe avuto nella vita di una donna indigena maya, povera, il fatto di denunciare una violenza subita? E fino a dove questo sistema ci escludeva dal diritto di accedere alla giustizia? Queste domande ci spinsero a conoscere meglio il sistema. Avevamo diritto che la nostra denuncia fosse ascoltata». Juana nel frattempo ha proseguito gli studi laureandosi in Legge e in Scienze sociali. In questo modo si è dotata anche di strumenti, come l’interpretazione legislativa, che il «nemico», chi sta al potere, sa maneggiare bene.

Il percorso con l’Ong Cisv di Torino si è rivelato fondamentale per la Red. «Con Cisv abbiamo iniziato lavorando sui diritti umani e, in particolare, i diritti della donna. Il lavoro è stato orientato a promuovere i diritti, difenderli e proteggerli. Ma è stato pure fatto un lavoro integrato per l’empowerment (acquisire competenze per migliorare l’equità e la qualità della vita, ndr) delle donne e per invitarle a denunciare la violenza quotidiana che subiscono, per avere la propria autonomia».

Juana ripercorre quelle fasi: «Si è rivelato importante il lavoro con operatori di giustizia, autorità comunitarie, società civile, autorità educative. Perché vediamo che già a questi livelli si iniziano a violare i diritti. Occorre lavorare affinché le donne denuncino le violazioni dei loro diritti, e non le vedano come qualcosa di normale. Un lavoro che abbiamo fatto fino dal 2007. Nel 2009 abbiamo avuto dei fondi dal programma di emergenza della Cooperazione italiana in Guatemala, con i quali abbiamo finanziato la costruzione di una “Defensoria”. Questa, nel 2010, è stata messa a disposizione delle donne ixil, ma anche di altre donne nei municipi vicini, e pure sulla costa, perché molte donne ixil si sono spostate dalla loro terra di origine. Abbiamo mantenuto la comunicazione con loro per appoggiarle là dove vivono.

Il lavoro che fa la Defensoria è dare appoggio psicologico, legale, di orientamento e accompagnamento a chi subisce violenza di genere. In seguito a una ricerca che abbiamo realizzato sulle violazioni dei diritti umani a livello della regione ixil, abbiamo visto che è importante allargare l’intervento ai diritti umani generali, evitando di rimanere solo sui diritti della donna e su come appoggiare le donne per farle uscire dalla violenza. Si è allargato lo spettro per coinvolgere diversi settori della società civile e verificare la conflittualità che si ha nel comune».

Verso le elezioni

Il presidente guatemalteco Jimmy Morales / Photo by ORLANDO ESTRADA / AFP)

Oggi il Guatemala vive un periodo storico particolarmente delicato. Con le elezioni alle porte (previste a giugno, vedi box) sono aumentati gli assassinii di attivisti mentre regna l’impunità. Nel settembre scorso la popolazione ha manifestato pacificamente per cacciare il presidente della repubblica, l’attore comico Jimmy Morales, retto dalla casta militare.

Juana ci racconta: «Negli ultimi otto mesi in Guatemala c’è una situazione politica molto grave, pericolosa, in particolare per la vita degli attivisti dei diritti umani. Grazie a un percorso durato molti anni si è arrivati a unire la società civile organizzata.

Nei tribunali si stanno realizzando processi sulle responsabilità storiche per quello che il popolo del Guatemala, e in particolare il popolo ixil, ha vissuto nei 36 anni di conflitto armato.

Nello scorso autunno è stato evidente questo risultato: una presa di coscienza della popolazione che ha manifestato per esigere giustizia e il rispetto dei propri diritti. Per questo motivo c’è una reazione molto forte degli attori e dei responsabili coinvolti nei massacri durante la guerra. Ad esempio, nel 2013, il 10 maggio, c’è stata una sentenza di condanna con giudizio di genocidio, e poi una seconda sentenza nel settembre 2018 sui responsabili esecutori.

Nel percorso di ricerca della giustizia e di uscita dal silenzio, le donne hanno giocato un ruolo da protagoniste. Sono le donne che hanno testimoniato, donne che sono state torturate, violentate e sottomesse ad azioni di interesse dell’esercito. E quelli che governano oggi il nostro paese sono ex militari. Questo ha complicato la situazione, e in Guatemala, l’anno scorso, come riporta il rapporto dell’Udefegua (Unidad de proteccion a defensores y defensoras de derechos humanos, Guatemala) ci sono stati 25 assassinii di difensores e difensoras di diritti umani. E ci sono state anche denunce e campagne di criminalizzazione (accuse, ndr) contro gli attivisti allo scopo di spaventarli e zittirli e di proteggere chi è sotto giudizio per questi crimini».

Dove regna l’impunità

Anche a Nebaj la questione delle responsabilità dei massacri è molto sentita e per coprirle sono in atto assassinii selettivi di attivisti: «A livello locale il tema dell’impunità è stato molto forte e i colpevoli cercano di ostacolare i processi penali finalizzati a chiarire i fatti e i responsabili.

Ad esempio, a Nebaj, ci sono stati quattro femminicidi e un omicidio di attivisti ixil. Una di loro era Juana Ramirez Santiago che faceva parte del consiglio di amministrazione della Red. C’è anche stato l’assassinio di Juana Rivera, una dirigente di Codeca (Comitato di sviluppo contadino, associazione locale e ora anche partito politico, ndr), e quello del giovane Jacinto di Cotzal, un altro attivista per i diritti umani. Tutti nel 2018, tra giugno e settembre.

Questi fatti ci mostrano il sentimento dello stato e delle autorità, di quelle persone che si meritano un processo penale, una condanna per le loro responsabilità storiche, sia come mandanti intellettuali che come esecutori».

Juana continua in tono pacato, quasi parlasse di cose semplici: «Tutto ciò ha obbligato la popolazione a reagire e pronunciarsi per respingere la politica che lo stato sta portando avanti, contraria ai diritti umani e contraria al chiarimento storico per arrivare alla giustizia. La maggioranza della popolazione si è resa conto che i propri diritti sono violati, e ha capito che il fine ultimo dello stato è proteggere se stesso. Questo perché coloro che governano oggi hanno delle responsabilità nei confronti dei fatti che sono stati denunciati e che si vogliono chiarire, e che, a causa dell’impunità in Guatemala, si è sempre evitato di perseguire.

Ma ora noi guatemaltechi abbiamo capito chi sono i corrotti e chi sono i protagonisti di quelle azioni. Non si tratta di una persona singola ma della struttura dello stato del Guatemala: è un’attitudine che complica e destabilizza la governabilità nel paese. Perché uno stato non può esigere giustizia, trasparenza rispetto dei diritti umani, se è lui stesso che li sta violando, come persone e come autorità.

Siamo in una situazione frustrante, preoccupante e vergognosa, perché stanno facendo di tutto affinché non siano visibili le responsabilità che hanno verso il popolo.

Adesso la gente vuole che Morales lasci il potere, perché sta lavorando sotto l’influenza e l’interesse dei militari che hanno avuto gravi responsabilità nella storia del Guatemala».

Pensando agli ultimi 10 anni

Negli ultimi 10 anni la situazione dei diritti umani non è migliorata, ma la società civile si è dotata di strumenti di denuncia: «In passato non si vedeva l’entità del problema, perché non si alzava la voce e non si denunciava, però grazie a tutto il lavoro di diverse persone e organizzazioni, si è ottenuto che oggi si possa parlare, denunciare, senza troppo terrore. Ci possiamo lamentare che lo stato non compia il suo dovere di fare giustizia. Questa è infatti una sua responsabilità. Ma ringraziamo anche per l’appoggio di interventi internazionali. Per esempio si è ottenuto che la Commissione interamericana per i diritti umani sia intervenuta su queste norme a protezione dei colpevoli dei delitti del passato. Parliamo della legge di amnistia, che vuole ostacolare le organizzazioni della società civile e il processo di denuncia. Sono progetti di legge in corso di definizione, con l’obiettivo di proteggere giuridicamente questi grandi responsabili, violando norme costituzionali e diritti umani».

Cosa fa la Red

In questo contesto, la Red, che raggruppa nove associazioni locali per un totale di 365 donne maya ixil, è molto attiva. Continua Juana: «Per la Red l’appoggio politico e sociale è stato importante. È parte dell’appoggio al processo delle organizzazioni nella loro lotta sui temi di giustizia, prevenzione, formazione, sensibilizzazione.

Cisv ci sta accompagnando e ha condiviso, anche con la propria presenza a Nebaj, questo processo che la Red e la società civile sta portando avanti. I progetti della Red perseguono la ricerca della giustizia, attraverso le denunce delle donne, per cercare una trasformazione nella loro vita, affinché la violenza non sia più tollerata. La Red inoltre è molto impegnata nell’appoggio offerto alle sopravvissute alle violenze, e anche in interventi sul territorio comunale per ridurre la conflittualità. Appoggiamo le vittime in ambito legale, psicosociale, dando accompagnamento, ma anche incidendo in alcuni temi e spazi più politici, perché se si vuole generare qualche cambiamento occorre partire dalle autorità e dalle comunità».

Chiediamo a Juana cosa possiamo fare in Italia per appoggiare il lavoro di protezione e difesa dei diritti umani in Guatemala.

«Vi ringraziamo per tutto l’appoggio dato. È importante continuare questa relazione e ampliarla a livello internazionale perché è una forma per proteggere il lavoro, la dinamica in corso e la lotta dei guatemaltechi e guatemalteche che portiamo avanti da lunghi anni, anche grazie al sacrificio di vite. È un intervento molto politico, di protezione e di appoggio».

Marco Bello


Situazione sociale turbolenta nel paese centroamericano

Verso le elezioni… con violenza

Il presidente attore Jimmy Morales ha bloccato i lavori della commissione Onu contro l’impunità. La gente si è rivoltata manifestando pacificamente nelle città. Le tensioni
sociali e politiche sono in aumento e con esse la violenza nei confronti di leader e attivisti per i diritti umani. Un gruppo della società civile decide di candidarsi alle elezioni.

A 23 anni dalla firma degli accordi di pace che hanno messo fine a un conflitto armato interno durato oltre tre decadi (1960-1996), in Guatemala si registrano ancora gravi violazioni dei diritti umani, alti livelli di povertà, disuguaglianza, discriminazione e impunità. Secondo le Nazioni Unite (Undp 2018), il Guatemala è oggi al 127° posto dell’Indice di sviluppo umano, in discesa a causa della totale assenza di politiche che promuovano l’uguaglianza di genere e la lotta alle disuguaglianze sociali ed economiche. Inoltre, registra uno dei coefficienti di Gini (che misura la disparità economica tra poveri e ricchi) peggiori al mondo (0,63), e circa il 60% della popolazione continua a vivere sotto la soglia della povertà, percentuale che raggiunge il 76,1% nelle zone rurali, il 79,2% tra le popolazioni indigene.

Questa situazione di violenza strutturale è strettamente legata all’impianto razzista e discriminatorio dello stato che da sempre esclude le popolazioni maya, agli alti livelli d’impunità e di corruzione che caratterizzano l’attuale governo di Jimmy Morales, eletto nel 2015 con il sostegno dell’ala più reazionaria dell’esercito. La sua politica, come quella del predecessore Otto Perez Molina, è caratterizzata da corruzione, militarizzazione dei territori e repressione.

Diritti sempre più negati

Negli ultimi tre anni il Congresso non ha registrato progressi nella legislazione relativa alla promozione dei diritti economici, sociali e culturali della popolazione e ha invece adottato posizioni e proposte legislative che favoriscono l’impunità, limitano la partecipazione politica e violano i diritti delle fasce più deboli della popolazione, ovvero popoli indigeni, donne e minoranze (ad esempio la proposta di legge 5377 per riformare la Legge di riconciliazione nazionale, che concederebbe l’amnistia per tutti i crimini commessi durante il conflitto armato).

L’apice della politica governativa a favore d’impunità e corruzione si è toccato nel cosiddetto «Caso Cicig», la Commissione internazionale contro l’impunità in Guatemala, un’entità finanziata dall’Onu, che dal 2007 appoggia la procura e altre istituzioni statali nelle indagini sui reati commessi da reti criminali. Tra i casi più emblematici coadiuvati dalla Cicig, si ricorda il «Caso della Linea», che ha portato all’arresto di molti funzionari governativi e dell’ex presidente Peréz Molina insieme all’ex vice Roxana Baldetti. Dopo aver aperto, insieme alla procura di stato, un’indagine su presunti finanziamenti illeciti elettorali che coinvolge l’attuale presidente e il suo partito, Jimmy Morales ha dichiarato non gradito il coordinatore in loco della Cicig, Iván Velasquez, e ha sciolto unilateralmente la commissione, violando gli accordi internazionali ratificati dallo stesso stato guatemalteco, e le sentenze della Corte Costituzionale guatemalteca, la quale ha reiteratamente affermato l’illegittimità di tale decisione.

Cresce la società civile

L’attivismo a favore dei diritti umani e della lotta all’impunità della società civile organizzata guatemalteca ha registrato un progressivo incremento nel corso dell’ultima decade, soprattutto nelle aree rurali del paese. Un’importante organizzazione di base, la Codeca (Comitato di sviluppo contadino), con un alto numero di affiliati tra le popolazioni indigene e contadine, ha deciso di costituire un partito politico per partecipare alle prossime elezioni, previste a giugno 2019. Questa forza della società civile organizzata nelle aree rurali ha provocato un incremento delle tensioni sociali e politiche, cui è seguito un forte aumento dei casi di criminalizzazione e aggressione contro militanti dei diritti umani: nel 2018 si sono registrati 391 attacchi a difensori dei diritti, 26 omicidi, tra i quali anche quello di Juana Ramirez, socia fondatrice di Asoremi, il 21 settembre e 147 casi di criminalizzazione. Un incremento del 136% rispetto al 2017, una situazione che richiama i periodi oscuri della recente storia del paese, incluso il conflitto armato interno, e che ha portato il Guatemala al quarto posto a livello mondiale per numero assoluto di militanti assassinati. Le vittime sono principalmente uomini e donne indigeni che lottano per la difesa dei diritti alla terra e dei diritti umani, e molte di queste, tra cui due dall’inizio del 2019, erano attivisti o candidati del partito di Codeca. Il livello d’impunità per questo tipo di crimini è quasi totale.

L’apertura della campagna elettorale lo scorso marzo in vista delle elezioni di giugno ha, di fatto, incrementato le violenze e i conflitti sociali.

Francesca Rosa




Abbiamo un «piccolo» problema a Gaza


Due paesi abbracciati. Due paesi strettamente legati. Due stati che non si riconoscono. Ma c’è chi crede nella pace e così nasce un movimento di donne attiviste. Mentre un gruppo di suore lavora con bambini audiolesi. Reportage tra Israele e Palestina. Dalle due parti del muro.


Testo e foto di Valentina Tamborra


Il tassista guida veloce verso la frontiera con la Giordania. Qui a Eilat, sulla punta più estrema di Israele, al confine con l’Egitto, la guerra è un concetto lontano. Spiaggia, barriera corallina, locali alla moda: qui la vita, almeno all’apparenza, scorre tranquilla. Non fosse per l’avviso trovato nella camera dell’hotel dove ho dormito: «Il rifugio antiaereo si trova nell’interrato, piano -1».

Ma Israele è così: da Tel Aviv a Eilat, a un primo sguardo superficiale, non ci sono motivi di tensione. Eppure il 10 agosto, solo due giorni prima del mio arrivo, c’è stato l’ennesimo scambio di missili fra Israele e Gaza.

Il tassista sostiene che il problema di Israele siamo noi giornalisti e media: raccontiamo una guerra che non c’è.

Se fosse il mio primo incontro di questo tipo mi stupirei, ma dal primo giorno in Israele ho avuto la netta percezione che ci sia una ferrea volontà di rimozione. Forse è, in parte, una difesa: vivere in un costante stato di allarme porta a un fatalismo estremo che sfocia nel tentativo di trovare la normalità lì dove di normale c’è ben poco.

Di tutt’altro avviso è invece Hamutal Gouri, fondatrice, insieme ad altre quaranta donne, del movimento «Women wage peace» (Le donne muovono la pace).

Sedersi accanto

Il movimento nasce nell’estate del 2014, racconta Hamutal, per creare uno spazio dove sedersi l’uno accanto all’altro, pur essendo in disaccordo, e avere così la possibilità di creare un dialogo.

Il movimento ogni anno elegge un gruppo di quattro donne che formano la squadra al comando per dodici mesi. Non si basa su una figura carismatica, ma sulla partecipazione popolare.

Women wage peace è una realtà controcorrente non solo perché professa la pace. Hamutal mi spiega, infatti, che in Israele vige ancora una mentalità fortemente maschilista. Il regno della donna è la casa: lì è la regina, ma dalla vita pubblica viene tenuta fuori.

Women wage peace sfida questa realtà: le donne combattono perché la loro voce venga ascoltata.

Dunque è un doppio obiettivo quello che si prefiggono: da un lato l’accesso alla vita pubblica, la libertà di opinione, e dall’altro, ovviamente, un accordo di pace.

Hamutal mi spiega che sono ispirate dalla risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’Onu 13-25 che stabiliva che, siccome le donne sono le più colpite nei conflitti, devono anche divenire parti attive nella trasformazione e nella risoluzione degli stessi.

«È molto più facile per me credere che ci possa essere una pace o una collaborazione tra Ebrei e Palestinesi, credere nel potere delle persone e specialmente delle donne di portare la pace. È molto più facile per me pensare questo, piuttosto che accettare il fatto che non ci sarà mai pace». È lo spirito che ha mosso donne coraggiose a dare il via a quello che ad oggi è diventato un movimento con 40mila persone iscritte.

Una varia umanità

Women wage peace raccoglie iscritti da tutto il mondo: decine di migliaia di membri appartenenti alle frange politiche di destra, centro e sinistra, arabi, ebrei, laici, religiosi, dai paesi alle periferie, donne dai kibbutz e dagli insediamenti. Tutti uniti per la richiesta di un mutuo accordo nonviolento condiviso da entrambe le parti.

Moltissime le iniziative organizzate: a partire dalle tremila donne che nel 2015 hanno circondato la Knesset – il parlamento monocamerale di Israele – per chiedere un’iniziativa di pace, e dalla celebre Marcia della speranza, nel 2016, quando trentamila persone, donne e uomini, ebrei e arabi, israeliani e palestinesi hanno marciato per due settimane dal Nord del paese sino a Gerusalemme.

Le immagini di quella marcia hanno fatto il giro del mondo: migliaia di donne piene di speranza, di commozione e di gioia unite in un tentativo pacifico ed estremo allo stesso tempo.

In un mondo dominato, almeno di questi tempi, dalla ferocia, è sconvolgente trovare tanto accanimento nel ricercare una pace che molti ritengono impossibile.

Sì, perché Hamutal crede fermamente nella pace, pur essendo lei nata e cresciuta a Gerusalemme, fra conflitti e confini delimitati da mura e filo spinato. Lei, costretta a prestare servizio militare, giacché in Israele la leva è obbligatoria per tutti, eccezion fatta per gli ebrei ultraortodossi. Le donne devono prestare servizio per due anni, gli uomini per tre.

Un mondo senza check point

Quando nacque il suo primo figlio, Daniel, Hamutal gli promise che non sarebbe dovuto entrare nell’esercito. Sognava un mondo come quello che aveva solo sfiorato quando, da ragazza, aveva lavorato per una compagnia aerea. Mi racconta che un giorno le dissero di avere passato il confine del Belgio e che lei si stupì di non aver visto neppure un check point, militari, armi. Fu in quell’occasione che iniziò a immaginare un mondo senza reti, senza delimitazioni.

Ma la promessa fatta a Daniel fu, suo malgrado, una bugia. La cosa certa è che nessuna madre mette al mondo un figlio per mandarlo in guerra. Questo è il pensiero che sta alla base del movimento Women wage peace. Donne come madri, in senso universale. Unite a dispetto dei confini: che tuo figlio sia israeliano, palestinese, ebreo, musulmano, cristiano, la speranza è una sola: che possa vivere in pace. Che non debba conoscere l’orrore della guerra.

Per Hamutal fu un brutto momento quello nel quale accompagnò Damiel al bus che l’avrebbe portato al centro di addestramento. E ancora peggiore il giorno della cerimonia quando dovette sentirlo pronunciare il giuramento: «Giuro di difendere il mio paese anche se dovessi sacrificare la mia vita per esso». Ad Hamutal si riempiono gli occhi di lacrime nel raccontarlo: «Stavo li seduta e pensavo solo: questo è mio figlio, il mio unico figlio maschio, il mio primogenito, lo amo più di ogni altra cosa al mondo e devo sentirgli dire che morirebbe pur di difendere il proprio paese?».

Preghiera per le madri

Questo dolore e questa speranza stanno alla base anche della bellissima canzone che fa da inno del Movimento, Prayer of the mothers, di Yael Deckelbaum, che recita così: «Tra il cielo e la terra ci sono persone che vogliono vivere in pace, non arrenderti, continua a sognare di pace e prosperità. Ascolta la preghiera delle madri, porta loro la pace, porta loro la pace».

Una sorta di «stabat mater» moderno. Un grido di speranza che dice la volontà di non vedere più i propri figli ammazzati in una guerra che ormai ha violato ogni luogo, persino il deserto.

[youtube https://www.youtube.com/watch?v=YyFM-pWdqrY?feature=oembed&w=500&h=281]

E pensando al deserto tornano alla mente le parole di Emil Cioran, filosofo e saggista rumeno: «Gli asceti cristiani pensavano che solo il deserto sia senza peccato, e lo paragonavano agli angeli. In altre parole, non c’è purezza se non là dove non nasce nulla».

Israele e Palestina smentiscono il suo pensiero: qui pure il deserto non è esente dal peccato.

Un’altra cosa che sconvolge, infatti, viaggiando lungo le strade che conducono alla Valle del Giordano, a luoghi considerati sacri non solo dai cristiani ma anche da ebrei e musulmani, è la presenza costante di filo spinato, mura, carri armati, aree di tiro, cartelli che segnalano pericolo.

L’ultima cosa che mi dice Hamutal, prima di salutarmi, è che non si capacita di come il suo popolo che ha tanto sofferto, che è stato martoriato, vessato, privato di una terra, possa ripetere tali atrocità su un altro popolo.

La memoria storica che qui viene continuamente celebrata (basti pensare al monumentale complesso museale dello Yad Vashem, costruito per documentare e tramandare la storia del popolo ebraico durante la Shoah preservando la memoria dei sei milioni di vittime dell’Olocausto), pare cadere nell’oblio non appena si pensa a ciò che accade in Palestina e in particolare sulla striscia di Gaza.

Gaza 2014

In Palestina, a Betlemme, trovo il corrispettivo, in versione molto più semplice e non monumentale, dello Yad Vashem: un muro dipinto di nero, con i nomi di tutti i bambini morti sulla striscia di Gaza nel 2014 scritti a mano.

Proprio nell’estate di quell’anno Israele lanciò nella striscia di Gaza l’operazione «Margine protettivo» con l’obiettivo di fermare il lancio di missili verso il proprio territorio ed eliminare i tunnel di Hamas. Esplose così uno tra i più sanguinosi conflitti israelo-palestinesi della storia recente. A farne le spese, moltissimi civili. Una vittima su cinque, in quei giorni di violenza, era un bambino.

Betlemme è un altro luogo sacro violato dalla guerra. Nel 2002, durante la seconda intifada, duecento palestinesi si rifugiarono nella Chiesa della Natività, protetti da quaranta frati e quattro suore. L’assedio durò trentanove giorni. I frati francescani, custodi dei luoghi santi, misero al primo posto l’aspetto umanitario, accogliendo i fuggitivi. Oggi, di quei momenti di paura e disperazione non si ricorda granché. La Basilica accoglie ogni giorno centinaia di pellegrini che molto spesso non sanno dei tragici eventi che hanno segnato questo luogo.

La storia scomoda viene costantemente e metodicamente rimossa. Infatti, se di una situazione si smette di parlare, presto la si dimentica.

Donne (suore) coraggio

A Betlemme, esiste un altro gruppo di donne coraggiose: le suore di Effetà. Ad oggi si prendono cura, all’interno dell’istituto da loro fondato nel 1971, di 150 bambini.

La scuola è specializzata nella rieducazione audio fonetica dei bambini audiolesi residenti nei Territori palestinesi. Suore coraggiose, da sempre attive sui luoghi di confine, di conflitto, hanno di recente perso una sorella in Siria. Nonostante questo, stanno progettando di muoversi verso il confine giordano per aiutare i profughi siriani, che oggi sono quasi 20.000.

Il nome Effetà si rifà a un passo del Vangelo secondo Marco: «E gli condussero [a Gesù] un sordomuto, pregandolo di imporgli una mano. E portandolo in disparte gli pose le dita negli orecchi (…) e disse “Effetà” – Apriti».

Gli allievi provengono da diverse zone della Palestina: Betlemme, Beit Jala, Sahour e zone limitrofe come Ramallah e Hebron, dove le condizioni di vita sono molto dure. Purtroppo dalla scuola restano esclusi i bambini della regione di Gerusalemme e del Nord per via dei problemi di trasporto e soprattutto di passaggio, perché il muro di sicurezza che separa Israele dalla Palestina circonda e chiude quasi interamente la città di Betlemme.

Queste suore si trovano ogni giorno a operare in un territorio ostile. Eppure, non perdono mai il sorriso.

Suor Laura, direttrice dell’istituto, e suor Bruna, educatrice, mi raccontano che il loro sogno è di poter ampliare la struttura, accogliere più bambini e soprattutto far sì che si radichi il pensiero che la sordità non preclude una vita sociale attiva e partecipativa. In Palestina, infatti, questa problematica viene trattata con vergogna da parte delle famiglie. Eppure riguarda una percentuale del 3% della popolazione, e in alcuni villaggi particolarmente isolati, si arriva sino al 15%, classificandosi così fra le più alte del mondo. Questo avviene principalmente a causa dell’eredità genetica in quanto circa il 40% dei matrimoni in Palestina è endogamico, ovvero combinato all’interno della famiglia allargata.

Le suore di Effetà, lavorano perché questi bambini abbiano il diritto a una vita quanto più possibile serena e integrata pur vivendo ogni giorno in un contesto difficile.

La presenza del muro di sicurezza, il filo spinato, le telecamere, i militari armati e i check point certo non sono la premessa ideale a un’infanzia serena.

Camera con «svista»

Proprio a Betlemme è nato il «The walled off hotel», l’hotel provocazione di Banksy, artista e writer inglese, considerato uno dei maggiori esponenti della steeet art e molto noto anche per il suo attivismo politico. Costruito proprio a ridosso del muro che separa Israele dalla Palestina (Betlemme dista poco più di 20 minuti in bus da Gerusalemme), si fregia del titolo di «Hotel con la peggiore vista del mondo».

Dalle camere si può vedere il muro, le torrette di controllo, e, subito oltre, i territori israeliani.

Una vista da incubo sulla continua violazione della libertà, anche solo di quella dello sguardo, operata in quei territori. L’hotel oggi è diventato un vero e proprio polo di attrazione turistica: in molti vengono qui a lasciare la propria firma, la propria frase sul muro di separazione. Senza nulla obiettare al messaggio di Banksy, resta da capire quanto questa spettacolarizzazione del dolore possa portare reale beneficio.

All’interno dell’hotel è stato creato anche un museo e una galleria che raccontano la storia della Palestina e dell’occupazione da parte degli israeliani. Ci sono guide che portano in giro i turisti per far vedere loro le condizioni di vita attorno al muro e all’interno dell’Aida Camp, il campo profughi fondato nel 1948, il cuore della lotta all’occupazione israeliana.

La volontà è certamente quella di far conoscere la situazione del popolo palestinese: George, un ragazzo che lavora per l’hotel di Banksy, mi racconta, per esempio che l’acqua viene razionata. Distribuita ogni due settimane e nel giorno prefissato ogni quartiere dovrà raccoglierne quanta più possibile.

In effetti, guardando i tetti delle case palestinesi, si possono osservare su ciascuna serbatorni d’acqua. Qualora una famiglia dovesse terminare la propria scorta, dovrà andare a procurarsela direttamente alla compagnia che controlla l’erogazione, pagando circa 70-80 dollari per riempire il serbatornio.

George mi racconta anche delle restrizioni che il governo israeliano impone per lasciare il paese: l’unico aeroporto vicino, infatti, è quello di Ben Gurion (Tel Aviv), in territorio israeliano e, dunque, interdetto ai palestinesi. Questo significa che è necessario recarsi in Giordania. Per passare il confine ci possono però volere dalle 7 alle 10 ore e una volta giunti all’aeroporto si devono affrontare code lunghissime, 4, 8, 10 ore di attesa perché questo è l’unico punto dal quale si può partire verso altre destinazioni.

Gaza blindata

La situazione a Gaza risulta ancora diversa. Qui non si può entrare e da qui non si può uscire. Alcune volte viene dato un permesso per recarsi in Egitto attraverso il Sinai o per raggiungere la West Bank (Cisgiordania) in occasione di feste particolari. Qualora però dovesse scadere il permesso, anche per un semplice ritardo di poche ore, non si potrà più lasciare Gaza.

Il muro continua a progredire: i lavori non si sono fermati e anzi attraversano anche i territori beduini.

George mi chiede di scattare foto: alle case, al muro, ai bambini, alle persone. Dice che in Europa deve arrivare il messaggio che i palestinesi non sono pronti a farsi saltare in aria, non ci tengono a morire, né a lanciare pietre. Vogliono solo quei diritti fondamentali che ad oggi vengono loro negati.

Mi guardo intorno: case semplici, di pietra, spazzatura ammassata contro il muro e per le vie, bambini che scorrazzano su vecchie biciclette sgangherate e un centro ricreativo per l’infanzia che è praticamente da demolire.

Eppure, a neanche venti minuti di distanza, c’è Gerusalemme: città sacra, città meravigliosa. Un mondo altro, quasi impossibile da immaginare. È la duplicità, la coesistenza di due realtà così diverse fra loro che lascia interdetti.

Mi chiedo se un turista, lasciato il messaggio sul muro, riesca a comprendere cosa significa vivere, crescere, condurre un’esistenza normale laddove ogni mossa è controllata, verificata, limitata.

C’è un solo luogo a Betlemme che lascia un po’ di spazio a occhi e cuore: è il deserto che si estende poco oltre la città. Vi è un santuario e poi chilometri di roccia e sabbia. È territorio palestinese, ma zona C, ovvero sotto il controllo israeliano. Qui, forse, finalmente, si riesce a lasciar vagare lo sguardo senza che venga bloccato da muri e filo spinato, senza che, costantemente, ci si senta chiusi in gabbia. Questa parte del deserto è il luogo dove George viene a sedere di tanto in tanto per immaginare una vita diversa.

Valentina Tamborra