Rwanda, un Paese per donne. Forse

 

In occasione dell’8 marzo, giornata internazionale delle donne, parliamo del Rwanda, Paese dell’Africa centrorientale ai primi posti nel mondo per le politiche sull’uguaglianza di genere, ma, in realtà, ancora profondamente patriarcale.

Più del 61% dei seggi in Parlamento sono occupati da donne, le quali ricoprono anche metà delle posizioni ministeriali. I loro diritti sono tutelati da numerose leggi, tra cui spicca quella contro la violenza di genere. Negli ultimi anni, la mortalità materna è calata drasticamente e le norme statali garantiscono equità tra maschi e femmine nell’accesso a ogni livello d’istruzione.

Il Rwanda sembra il Paese ideale per le donne. Tanto più che, da inizio anni Duemila, questo piccolo Stato dell’Africa centrorientale si posiziona stabilmente ai primi posti delle classifiche mondiali su uguaglianza di genere ed empowerment femminile, con indicatori di gran lunga superiori a molti Paesi occidentali.

L’immagine del Rwanda come Paese al femminile è nata subito dopo il genocidio del 1994, a seguito del quale il 70% della popolazione era composto da donne: molte avevano preso il posto degli uomini – uccisi, fuggiti o incarcerati – come capifamiglia e nel mondo del lavoro. Nel 2003, poi, la parità di genere è stata inserita nel preambolo della Costituzione di «uno Stato basato sul principio dell’uguaglianza di tutti i rwandesi, così come dell’uguaglianza tra uomini e donne».

Nei fatti, però, la situazione è ben diversa. Come spesso accade, tra la teoria e la pratica c’è un abisso e, dietro ai dati che descrivono una situazione apparentemente invidiabile, si nascondono diversi ostacoli e problematiche.

Con il 61% di deputate e il 35% di senatrici, nel 2023, il Rwanda era il Paese del mondo con il maggior numero di donne in Parlamento (mentre nel 2008 era stato il primo a eleggere più donne che uomini). Ma, in uno Stato la cui politica dal 1994 è dominata dal crescente autoritarismo di Paul Kagame e del suo Fronte patriottico rwandese, la maggioranza delle parlamentari appartiene al partito dominante ed è incapace di portare avanti una propria agenda per la tutela dei diritti femminili.

Il considerevole numero di donne in Parlamento, quindi, il più delle volte, non si traduce nell’approvazione di politiche a loro favore, se non sono coerenti con le direttive del partito. Dunque, non deve sorprendere che sia stata un’Assemblea, composta per il 56% da donne, ad approvare nel 2009 la riduzione da dodici a sei settimane del congedo pagato per la maternità.

Le donne che si oppongono alla narrativa di Kagame sono spesso – ancor più degli uomini – oggetto di violenze e persecuzioni, anche a sfondo sessuale. Quando nel 2010 Victoire Ingabire, principale rivale del presidente in vista delle elezioni di quell’anno, è tornata nel Paese dopo sedici anni di esilio, è stata immediatamente arrestata e incarcerata con l’accusa di cospirazione. Foto di Diane Rwigara nuda hanno invece iniziato a circolare sul web appena 72 ore dopo l’annuncio della sua candidatura alle presidenziali del 2017. Esclusa sulla base di presunte irregolarità nella registrazione della domanda, poco dopo, Rwigara è stata arrestata per una presunta evasione fiscale.

Più ombre che luci, dunque. E la politica, l’esempio più sfavillante del Rwanda al femminile, non è altro che la punta dell’iceberg di un sistema dove l’uguaglianza di genere è in realtà ben lontana dall’essere realizzata.

Uguaglianza apparente

Come si è detto, il Paese si è dotato di un panorama legislativo all’avanguardia nella tutela dei diritti delle donne, ma tra norma e prassi persiste ancora una grande distanza, a causa di cultura patriarcale e tradizioni sociali particolarmente radicate.

Dal 1999, le donne possono ereditare le proprietà di famiglia, ma, di fatto, la condizione posta dalla legge – presentare un certificato di registrazione di un matrimonio monogamo, in un Paese dove le unioni informali e/o poligame sono frequenti – impedisce loro di beneficiare di questo diritto.

Limiti che ritornano anche nella gestione delle risorse finanziarie e nell’esercizio dei diritti fondiari: tendenzialmente, le decisioni su denaro e proprietà sono assunte dagli uomini, mentre le donne, senza certificati di matrimonio, faticano anche solo a ottenere prestiti bancari. Non a caso, esse rappresentano il maggior numero di poveri in Rwanda.

Anche quando sono vittime di violenza, le donne sono spesso in difficoltà. Nonostante la legge sulla violenza di genere (2008) abbia condannato qualsiasi forma di aggressione nei loro confronti e inasprito le pene, la violenza è ancora diffusa – soprattutto nei contesti rurali – e poco denunciata. Le donne temono infatti di essere stigmatizzate dalla società se denunciassero, e di perdere qualsiasi risorsa finanziaria, dal momento che il denaro familiare il più delle volte è nelle mani degli uomini.

Non va meglio nel mondo dell’istruzione: sebbene la legge prescriva parità nell’accesso alle scuole, solo il 30% di coloro che ricevono un’istruzione secondaria sono ragazze. È infatti ancora profondamente radicata l’idea che le donne si debbano occupare della casa e della cura di marito e figli e che quindi non sia necessario investire nella prosecuzione dei loro studi.

Dunque, l’8 marzo in Rwanda – come in tanti altri Paesi di tutto il mondo – ricorda quanto la strada verso la reale parità di genere sia ancora lunga e passi, non solo attraverso leggi e provvedimenti, ma attraverso il superamento di una cultura patriarcale ancora profondamente radicata.

di Aurora Guainazzi




Donne. Perseguitate due volte


Le donne delle minoranze religiose sono la fascia più colpita dalle persecuzioni. La maggior parte sono cristiane, ma non mancano altri casi, come quello delle musulmane rohingya o delle yazide. Rapite, convertite forzosamente, picchiate, violentate, tenute segregate.

Rapite, violentate, schiavizzate. Le donne delle minoranze religiose sono spesso perseguitate due volte: innanzitutto perché appartenenti a gruppi tenuti ai margini della società, poi perché, appunto, donne.

Accade in Pakistan, Nigeria, Burkina Faso, Egitto, solo per fare qualche esempio, e per la gran parte si tratta di donne cristiane.

Non mancano, però, casi che riguardano altri gruppi religiosi.

In Myanmar, per esempio, Paese a maggioranza buddhista nel quale da anni viene perseguitata la minoranza musulmana dei Rohingya, una donna non può sposare un musulmano se non a rischio della vita.

Qualche anno fa a Pegu, una delle più grandi città del Paese, una folla impazzita incendiò l’intero quartiere di una ragazza buddhista per punirla della sua relazione con un musulmano.

Stesso destino di discriminazione spetta alle donne rohingya. «Nascere donna ed essere di origine rohingya significa, molto probabilmente, essere destinata a una vita fatta di privazioni e discriminazioni di natura etnica, religiosa e sessuale», sottolinea Amnesty international.

Amina, donna nigeriana fuggita in Niger dopo l’uccisione del marito da Boko Haram

Cristiane, le più perseguitate

Tornando alle donne cristiane che vivono in paesi nei quali la loro fede è in minoranza, come in molte zone dell’Asia, del Medio Oriente o dell’Africa, esse «sono le prime vittime», afferma la fondazione pontificia Aiuto alla Chiesa che soffre (Acs) in un rapporto di novembre 2022: «Se credere in Gesù Cristo implica seri rischi in molte parti del mondo, essere una donna cristiana è ancora più difficile. In molti paesi in cui vige la persecuzione religiosa, la violenza contro le donne è spesso usata come arma di discriminazione».

Sulla stessa linea sono i dati emersi nella ricerca The 2023 gender report presentata, in occasione della giornata internazionale della donna dell’8 marzo 2023, da Porte Aperte/Open Doors, organizzazione internazionale che sostiene i cristiani perseguitati e che aggiorna ogni anno, con la sua World watch list, la classifica dei paesi dove si registrano le maggiori persecuzioni a causa della fede.

«Per le donne – sottolinea il rapporto – la violenza sessuale e fisica, il matrimonio forzato e la riduzione in schiavitù, uniti alle minacce e al controllo dei cellulari, sono elementi che le intrappolano in una ragnatela soffocante».

Il report presenta anche la classifica dei paesi nei quali le donne sono perseguitate sia per la loro fede che per il loro genere.

Al primo posto troviamo la Nigeria. A seguire Camerun, Somalia, Sudan, Siria, Etiopia, Niger, India, Pakistan e Mali.

Nelle regioni settentrionali della Nigeria, dove i cristiani subiscono i livelli più alti di violenza, le donne cristiane sono vittime di rapimenti, spostamenti forzati, traffico di esseri umani, uccisioni e violenza sessuale.

La punta di un iceberg

I casi di donne rapite, violentate, convertite forzosamente, uccise che emergono nelle cronache sono solo la punta di un iceberg. Spesso, infatti, le famiglie, per paura o per vergogna, non denunciano i crimini subiti.

È quanto emerge dalla ricerca Ascolta le sue grida, pubblicata da Acs Italia nel 2021, nella quale si evidenzia che, tra i membri delle minoranze religiose, le ragazze e le giovani donne cristiane sono le più esposte agli attacchi.

Secondo l’Associazione cristiana della Nigeria, per esempio, il 90 per cento delle donne e delle ragazze detenute dagli islamisti è di fede cristiana. In Pakistan, il Movimento per la solidarietà e la pace ha stimato che le cristiane costituivano, già dal 2014, fino al 70 per cento delle ragazze e delle giovani di minoranze religiose che ogni anno erano costrette a convertirsi e a contrarre matrimonio.

Ma le denunce non corrispondono mai alla reale entità del fenomeno.

Un altro dato chiave, che emerge frequentemente nelle ricerche sull’argomento, è la maggiore incidenza di persecuzioni sessuali e religiose ai danni delle donne in aree di conflitto.

Questo è stato particolarmente evidente durante la presa del potere da parte dell’Isis (Daesh) su alcune aree della Siria e dell’Iraq. In quelle zone, in quegli anni – secondo il dossier del luglio 2020 della Coalition for genocide response intitolato Without justice and recognition the genocide by daesh continues – vigeva «un sistema organizzato di schiavitù sessuale delle minoranze».

Rohingya women with kids are walikng to the camp with relief food. Near Block D5, Kutupalong extension Camp, Cox’s Bazar, Bangladesh
2 July 2018.

Nadia Murad e le schiave sessuali

A raccontare le atrocità subite in prima persona, perché yazida, cioè donna della minoranza religiosa che vive per lo più nella Piana di Ninive, in Iraq, è stata Nadia Murad, Premio Nobel per la pace 2018. Nel suo libro L’ultima ragazza. Storia della mia prigionia e della mia battaglia contro l’Isis, edito da Mondadori, l’attivista per i diritti umani racconta: «A un certo punto non restano altro che gli stupri. Diventano la tua normalità. Non sai chi sarà il prossimo ad aprire la porta per abusare di te, sai solo che succederà e che domani potrebbe essere peggio». È il racconto dello stupro usato come arma di guerra. È la storia del rapimento e della prigionia che nel 2014 ha cambiato la vita di questa ventenne yazida che sognava una vita normale.

Nadia ha deciso di denunciare al mondo le violenze subite nella speranza di essere lei «l’ultima» del suo popolo ad aver vissuto quel genere di sofferenze.

La prassi di ridurre le donne delle minoranze religiose in schiave sessuali è presente anche altrove. Ad esempio in Mozambico e in altri paesi nei quali il fondamentalismo religioso ha gettato nel caos intere comunità.

Le violenze dei gruppi terroristici e islamisti hanno inoltre determinato una forte intensificazione del traffico di esseri umani.

C’è poi il caso della Nigeria dove si sono ripetuti diversi rapimenti di massa nei confronti delle donne cristiane da parte del gruppo jihadista di Boko Haram.

L’intento della milizia vicina all’Isis è, tra gli altri, quello di cacciare le comunità cristiane dai loro villaggi (cfr. MC 10/2016).

Asia Bibi e le altre

La persecuzione e le sofferenze non sono però solo numeri e dati, sono soprattutto storie di persone concrete.

Il caso che ha avuto maggiore rilievo sui media internazionali è stato quello della donna cristiana pachistana Asia Bibi che, dopo dieci anni di carcere duro e con una condanna a morte che pendeva sulla sua testa con l’accusa di blasfemia, ha ritrovato la libertà nel novembre 2018.

Oggi vive in Canada con la sua famiglia perché restare in Pakistan sarebbe stato per lei e i suoi familiari troppo pericoloso.

Ma ci sono tante altre Asia Bibi nel mondo. In Somaliland, ad esempio, due donne sono in carcere dal 2022 perché colpevoli di essere cristiane. Una delle due donne si chiama Hanna Abdirahman Abdimalik. Il 30 maggio 2022 è stata arrestata per essersi convertita al cristianesimo e per aver condiviso la sua fede attraverso un gruppo cristiano su
Facebook. La polizia non ha esibito un mandato d’arresto, ha interrogato la ragazza senza la presenza di un avvocato e le avrebbe ripetutamente domandato chi l’avesse convertita, aggiungendo che, qualora avesse rivelato l’identità della persona, oppure si fosse nuovamente convertita all’islam, sarebbe stata rilasciata. Hanna ha rifiutato di abiurare e il 27 giugno le forze di polizia del Somaliland hanno concluso le indagini presentando un fascicolo a suo carico al procuratore regionale di Hargeisa. Il procuratore ha quindi formalizzato le accuse di «crimini contro la religione dello stato» nei suoi confronti. I capi di accusa sono: blasfemia, oltraggio alla religione islamica e al Profeta dell’islam tramite social media, e diffusione del cristianesimo. Il 6 agosto 2022 il tribunale regionale l’ha condannata a cinque anni.

Il secondo caso riguarda la ventisettenne Hoodo Abdi Abdillahi, condannata a sette anni di carcere per essersi convertita, anche lei, al cristianesimo.

La donna è reclusa dall’ottobre 2022 presso il carcere femminile di Gebiley. Nel corso del processo non avrebbe avuto un avvocato difensore, mentre durante la reclusione non avrebbe potuto avere contatti con la famiglia.

Attualmente i due casi sono all’esame della Corte d’appello del Somaliland, in attesa di una sentenza definitiva.

Bangladesh, istruzione negata

Rahima Akter Khushi, 20 anni, è una giovane rifugiata rohingya, la maggiore di cinque fratelli nati nel campo profughi di Kutupalong a Cox’s Bazar, in Bangladesh. A raccontare la sua storia è Amnesty international.

Dopo aver completato gli studi superiori, a gennaio 2019 Rahima si era iscritta alla Cox’s Bazar international university con il sogno di conseguire una laurea in giurisprudenza. Dopo che un’agenzia di stampa internazionale l’aveva inserita in un video come una delle pochissime giovani donne rohingya in grado di raggiungere l’eccellenza accademica, il 6 settembre 2019, l’università le ha proibito di proseguire gli studi poiché «secondo le regole del governo del Bangladesh, nessun Rohingya può studiare in alcuna università pubblica o privata».

Negare l’istruzione alle giovani delle minoranze religiose è una delle armi di persecuzione: ad esempio in Nigeria è accaduto più volte che Boko Haram rapisse studentesse il giorno prima degli esami per negare loro un futuro.

Magda, rapita in Egitto

In Egitto, negli ultimi anni, la situazione dei cristiani è migliorata dopo l’ondata di attentati e vittime che c’erano stati nel periodo in cui era forte la presenza nel Paese del movimento dei Fratelli musulmani.

Se in generale nel Paese rimangono strascichi di emarginazione, ad esempio nel mondo del lavoro, situazioni nelle quali i cristiani continuano a essere penalizzati, è soprattutto nel Sud che si manifestano ancora oggi le forme più forti di persecuzione: una di queste è la piaga dei rapimenti di donne copte che avvengono lontani dagli occhi dei media, anche a causa del fatto che la maggior parte dei casi non viene denunciata.

Magda Mansur Ibrahim, cristiana copta ventenne, il 3 ottobre del 2020 è stata sequestrata mentre viaggiava dalla sua casa di Al-Badari verso il college di Assiut.

A riferire la sua vicenda è stato il portale Coptic solidarity. Sebbene la famiglia abbia denunciato il caso alla polizia, le autorità non hanno preso provvedimenti.

Tre giorni dopo il rapimento, è stato pubblicato sui social media un video in cui Magda appariva con indosso un hijab e dichiarava di essersi convertita all’islam sei anni prima, di essere fidanzata con un musulmano e, alla fine del filmato, chiedeva di non essere cercata.

I suoi genitori non si sono arresi e alla fine, poco meno di una settimana dopo, Magda è stata restituita loro. Dopodiché la famiglia ha chiuso ogni comunicazione senza fornire ulteriori informazioni circa il rapimento. Alcuni ipotizzano che tra le condizioni poste per la liberazione della ragazza vi fosse il divieto di parlare con i media, di sporgere denuncia o di cercare di scoprire l’identità del rapitore.

Rifugiata rohingya

Gli stupri in Pakistan

Era il 14 febbraio 2021 quando la trentenne Neelam Majid Masih, cristiana, è stata aggredita da Faisal Basra. Lui era armato quando è entrato in casa di Neelam nel villaggio di Nanokay, Punjab, Pakistan. Sotto minaccia della pistola la ragazza è stata trascinata nella camera da letto, picchiata e violentata. Poi un vicino e cugino di secondo grado della donna è intervenuto costringendo Basra alla fuga.

A raccontare la vicenda è il portale persecution.org: «Pretendeva che lo sposassi e che mi convertissi, ma io ho rifiutato dicendo che non ero disposta a rinnegare Gesù. Lui ha risposto che mi avrebbe uccisa se non avessi accettato», ha raccontato la ragazza. La giovane, che ha riportato ferite al viso, alla spalla e alle gambe, ha sporto denuncia contro Faisal Basra, accusandolo di stupro. L’avvocato della vittima, Sumera Shafique, chiedendo aiuto all’associazione Aiuto alla Chiesa che soffre, ha sottolineato: «Neelam è determinata a raccontare la propria storia per porre fine alle aggressioni contro le ragazze e le giovani donne cristiane».

Schiava in Mozambico

Nel rapporto Ascolta le sue grida già citato si racconta la storia di Aana (nome di fantasia), giovane cristiana del Mozambico, rapita da un gruppo armato.

La giovane, dopo la sua liberazione, ha riferito che alle ragazze cristiane veniva imposta una «scelta»: «Avevamo tre opzioni. Le prime due erano essere selezionate da uno dei soldati per diventarne la moglie oppure essere scelte da alcuni uomini, non per il matrimonio, ma per seguire le norme più radicali dell’islam. Loro istruivano le giovani donne a diventare vere islamiche e brave madri perché credono che la donna sia colei che educa la famiglia a seguire i precetti nel modo corretto. La terza opzione riguardava le cristiane che non volevano convertirsi. Queste sarebbero state scelte dai soldati per essere loro schiave».

Aana ha spiegato che il suo indottrinamento è iniziato non appena è stata presa in ostaggio: «Il giorno in cui siamo arrivate ci hanno letto dei passi del Corano e hanno parlato dell’ingiustizia nel Paese, degli abusi sociali e della corruzione. Una delle cose che ripetevano più spesso era che la democrazia era demoniaca, perché in Mozambico permetteva ai politici di rubare e alla gente di morire di fame senza alcun tipo di assistenza. Cercavano di indottrinare le donne perché accettassero la loro proposta». Alla fine, la pressione psicologica conduceva le ragazze a «cambiare parte», ha spiegato la giovane. In condizioni di riduzione in schiavitù, spesso è l’unica via d’uscita.

Aana è riuscita a scappare e a denunciare. Oggi non è più prigioniera.

Manuela Tulli

 

 




Kenya. Due donne e la Rieti farm


Sara e Gladys, una volontaria e una suora, fanno una scommessa vincente sulla voglia di riscatto e sull’energia di altre donne, e sulle capacità organizzative di una
piccola Odv trevigiana. Nel giro di un decennio cambiano il volto e la qualità della vita di una comunità a due passi dalla sponda keniana del grande Lago Vittoria.

A Manyonge, un villaggio rurale di un migliaio di abitanti nella Siaya County, a due passi dalla sponda keniana del grande Lago Vittoria, Un articolato progetto di agricoltura sociale con l’impiego di nuove tecniche di coltivazione è diventato strumento di promozione della parità di genere e di tutela dei diritti umani.

La storia collega quel lontano lembo d’Africa con Montebelluna (Treviso), dove è nata nel 1987 l’Associazione volontariato insieme (Avi), promossa dallo scomparso padre Pierino Schiavinato, Missionario della Consolata (1939-2016).

L’associazione ha avuto come primo presidente Daniele Schiavinato, un fratello di padre Pierino che tutt’ora vive nella storica missione keniana di Mujwa (fondata nel 1911), dove ha creato un’impresa sociale rilanciando l’attività di una vecchia falegnameria che i Missionari della Consolata avevano avviato ancora in epoca coloniale. Per oltre vent’anni è stata guidata da Gino Merlo, che ne ha forgiato l’attuale impronta all’insegna del motto «se non fai niente non succede niente», e che ha poi passato il testimone all’attuale presidente Francesco Tartini.

coltivazioni e consociazione tra alberi e piante orticole

Due agronome

Sara P., montebellunese di nascita, anche se oggi vive sull’Appennino romagnolo, ha conseguito a Padova una laurea triennale in Cooperazione allo Sviluppo con specializzazione in area rurale, e ha poi completato gli studi a Firenze, con una laurea magistrale in Studi geografici e antropologici.
Gladys Adiambo Owuor è, invece, una religiosa keniana delle Franciscan sisters of st. Anna (Fsa), congregazione nata in Olanda nella prima metà dell’Ottocento che oggi ha la sua casa generalizia a Nairobi. La tonaca non le ha mai impedito di salire su un trattore o sul sellino posteriore di una moto, e accanto alla professione di fede può vantare anche un diploma in agronomia.

Nel 2004 le Fsa acquistano a Manyonge una tenuta agricola semi abbandonata di circa 8 ettari, digradanti verso il fiume Yala, e da quel momento suor Gladys inizia a coltivare il sogno di rivitalizzare la «Rieti farm» (così ribattezzata dopo un soggiorno di alcune suore nella cittadina laziale) e di trasformarla in un centro comunitario capace di migliorare le condizioni di vita della popolazione.

Il sogno inizia a concretizzarsi nel 2013 quando Sara decide di visitare l’ovest del Kenya, un territorio lontano dagli usuali percorsi turistici, e viene accolta nella missione in cui suor Gladys vive e presta il suo servizio, trovandosi a condividere idee e progetti di sviluppo di quel grande appezzamento di terreno.

Suor Gladys ha in mente di realizzare una fattoria modello che possa affiancare alla produzione di frutta e ortaggi anche un centro di formazione per gli agricoltori locali, per metterli in condizione di valorizzare al meglio i loro piccoli appezzamenti, e che possa incentivare la piccola imprenditoria femminile.

In Kenya le donne hanno un ruolo centrale nella lavorazione manuale dei campi, così come in tutti gli aspetti della vita economica e sociale, ma nel contempo soffrono una forte disparità di genere che le priva di diritti umani fondamentali e le sovraccarica di responsabilità familiari.

L’agricoltura praticata dalle donne Luo, l’etnia prevalente nella Contea di Siaya, è di mera sussistenza, incentrata su piccoli appezzamenti di terreno coltivati con metodi tradizionali, qualche capra e qualche pollo, e nelle famiglie più fortunate una mucca.

Le colture principali, destinate all’autoconsumo e al piccolo commercio locale, sono mais, sorgo, fagioli, piselli, arachidi, cassava, patata dolce, cavoli e banana. In un contesto così povero, anche a causa della deforestazione e di attività estrattive che hanno ridotto la biodiversità, alto è il rischio di abbandono della scuola e delle coltivazioni da parte della componente giovanile della comunità, per inseguire il miraggio di una vita migliore in qualche grande città come Kisumu. Un sogno che, per lo più, si infrange nelle squallide baraccopoli di periferia.

coltivazioni e consociazione tra alberi e piante orticole

I sogno diventa realtà

Sara raccoglie le idee dell’amica suor Gladys ma anche dati statistici e analisi socio economiche. Studia le linee di sviluppo del governo nazionale ed elabora il tutto mettendo a frutto i propri studi universitari, arrivando alla stesura del progetto: «Agricoltura, sicurezza alimentare e salute: il centro comunitario per lo sviluppo rurale integrato “Rieti farm”». Esso si propone di contrastare la povertà e la malnutrizione infantile con il miglioramento delle pratiche agricole, la diversificazione delle piccole produzioni locali e altre strategie per l’incremento del reddito, e soprattutto con il rafforzamento delle organizzazioni femminili. Il tutto garantendo al massimo l’equilibrio con il fragile ambiente naturale.

La scommessa è quella di trasformare un’agricoltura di sussistenza in un’agricoltura di resistenza e resilienza.

Resistenza e resilienza contro la tentazione di abbandonare il duro lavoro dei campi, regolato per secoli dai cicli delle piogge che i cambiamenti climatici hanno irreversibilmente alterato, e contro la deforestazione causata dalle monocolture industriali, come le piantagioni di ananas, quelle di palma da olio per il biodiesel o le coltivazioni in serra di rose che hanno ormai avvelenato, con il massiccio impiego di pesticidi, il Lago Naivasha.

sopralluogo al punto di prelievo acqua irrigua dal fiume Yala -2016

Il coinvolgimento dell’Avi

A questo punto inizia la ricerca dei finanziamenti, e per Sara è naturale bussare alla porta dell’Avi che, pur essendo una piccola organizzazione, opera in Kenya da oltre trent’anni. L’associazione ha una buona esperienza in materia di bandi pubblici, e ha già realizzato con successo alcuni progetti alimentari finanziati dalla Presidenza del Consiglio, grazie ai fondi dell’otto per mille che sono gestiti direttamente dallo stato e sono destinati a contrastare la fame nel mondo.

Il progetto della «Rieti farm» viene adattato alle linee guida di Palazzo Chigi e presentato nel 2014. La risposta positiva arriva l’8 febbraio 2016. Nel frattempo, il 24 maggio 2015 papa Francesco ha regalato al mondo la sua enciclica Laudato si’ che esorta alla cura della «casa comune» offrendo nuove importanti motivazioni per realizzare il progetto.

Dopo una missione di verifica in loco e una rimodulazione del quadro economico, la prima tranche viene accreditata alla fine del 2017, e i lavori iniziano a febbraio 2018.

particelle per coltivazioni dimostrative -2019

Investimenti

Tra il 2018 ed il 2020 si procede alla recinzione dell’intera proprietà e al rifacimento dell’impianto di irrigazione, per il pompaggio dell’acqua del fiume Yala sino alla parte sommitale della fattoria, dove vengono collocati quattro serbatoi sopraelevati da 10mila litri e un quinto da 6mila, che poi la distribuiscono per caduta ai vari appezzamenti coltivati. Vengono ristrutturati alcuni edifici già presenti, ricavandone un ufficio con la necessaria dotazione tecnologica, una sala riunioni, una cucina condivisa e alcuni alloggi per i dipendenti, con servizi igienici. Nel tempo arriva anche l’allacciamento alla rete elettrica che consente la sostituzione della vecchia pompa a diesel e l’illuminazione dei fabbricati. Viene acquistata una moto per gli spostamenti del personale e anche tendoni e sedie per ospitare i seminari di formazione.

La gente di Manyonge ha sempre utilizzato l’acqua del fiume anche per usi domestici, limitandosi a farla bollire. Il progetto iniziale prevede soltanto la realizzazione di un serbatoio e di un impianto di filtraggio per distribuirla chiarificata in prossimità del villaggio, evitando alla popolazione una lunga discesa sino alla riva dello Yala, sempre con l’occhio attento ai coccodrilli.

Ci si accorge ben presto che non è una soluzione sufficiente e Avi riesce a ricavare dal proprio bilancio ulteriori risorse per realizzare un pozzo che pesca l’acqua potabile a 80 metri di profondità. Per la comunità di Manyonge, e soprattutto per i bambini, più esposti alle patologie intestinali, la qualità della vita fa un gigantesco passo avanti.

S.P. e sr. Gladys all’uscita da un ufficio governativo a Siaya -2016

Produzioni

Vengono selezionati e messi a dimora piante particolarmente adatte alla tipologia di terreno e al clima, resistenti alle fitopatie e alla siccità, e allo stesso tempo rispondenti alle abitudini alimentari della popolazione. Alle orticole e alle leguminose si affianca la frutta tropicale per la quale il Kenya è famoso: ananas, banano, papaya, frutto della passione, mango, avocado, ma anche arance e meloni.

Il progetto prevede pure la costruzione di una stalla e l’acquisto di cinque mucche da latte, libere di muoversi in un’area a pascolo dove vengono seminate erbe specifiche per l’alimentazione bovina, mentre il letame viene reimpiegato per la fertilizzazione del terreno.

A seconda delle stagioni, la produzione oscilla dai venti ai quaranta litri di latte al giorno, sufficiente per soddisfare le esigenze di una trentina di famiglie, ma la domanda è molto più alta.

Allevamento, orticoltura e attività agroforestali sono praticate in sinergia, con gli obiettivi di ottenere un buon livello di fertilità del terreno, alternare le aree a pascolo con le aree coltivate, nutrire gli animali con foraggio e fieno autoprodotti, ottenere alimenti sani e vitali, instaurare un ciclo produttivo virtuoso per l’uomo e per l’ambiente e incentivare gli agricoltori locali a riprodurlo nelle rispettive piccole proprietà.

La produzione del centro comunitario viene venduta sul mercato locale: in parte alle mense scolastiche della subcontea, in parte alla popolazione delle immediate vicinanze che la acquista all’ingrosso per rivenderla al mercato e incrementare il proprio reddito. I ricavi ottenuti dalla vendita permettono al centro di sostenere le proprie attività al servizio della comunità.

Incontro volontari AVI con gruppi femminili della comunità di Manyonge -2016

Formazione

Alla Rieti farm viene introdotta la riforestazione, piantando oltre tremila alberi per contrastare l’erosione del suolo, fungere da barriera frangivento e ombreggiare il terreno, in modo da conservarne l’umidità e proteggere le orticole e le piante da frutto dal torrido sole tropicale.

La presenza di varietà arboree è di importanza strategica per la funzione educativa del centro, dove i piccoli produttori locali apprendono un nuovo approccio all’agricoltura che integra consapevolezza ecologica e conservazione ambientale.

Parte del terreno viene destinata a produzioni dimostrative che consentono di trasmettere la pratica della pacciamatura (tecnica agricola di protezione del suolo intorno alle piante, ndr) per conservare al massimo l’umidità naturale, la rotazione delle coltivazioni.

Le attività formative prevedono anche l’organizzazione di visite guidate in altre fattorie della regione, strategie di diversificazione del reddito domestico incentrate su pollicoltura e apicoltura, strategie di commercializzazione dei prodotti agricoli e tecniche di conservazione e stoccaggio dell’ortofrutta e dei prodotti caseari.

Attenzione particolare viene dedicata alla gestione dell’acqua, alle tecniche di potabilizzazione domestica, alle malattie veicolate da acqua infetta e alla loro prevenzione, e anche al riutilizzo a scopi irrigui.

Altri percorsi formativi sono incentrati su gestione della salute e la prevenzione delle patologie più comuni nella zona, come la malaria, la nutrizione bilanciata e le tecniche di conservazione e la preparazione del cibo, le dinamiche familiari, il ruolo maschile e femminile e quello dei giovani, i cambiamenti culturali e i conflitti intergenerazionali.

Durante l’emergenza Covid questi incontri hanno confortato e supportato una comunità disorientata e allarmata, e il centro ha assunto anche un ruolo di ammortizzatore sociale, interfacciandosi con le istituzioni locali e offrendo alla popolazione informazioni e materiali utili alla prevenzione del contagio.

Visitatori speciali

il nuovo apiario e l’arrivo delle attrezzature per la lavorazione del miele

L’attività del Centro è stata occasione formativa anche per alcuni studenti dell’istituto agrario Sartor di Castelfranco Veneto (Tv), che, nel 2018 e nel 2019, ha organizzato due visite in loco di altrettanti gruppi di studenti guidate dalla dirigente Antonella Alban, che lasceranno un ricordo indelebile nei giovani partecipanti.

Nel tempo la Rieti farm è diventata una tappa obbligata anche per chi si avvicina all’Avi per dedicare le proprie vacanze a visitare i suoi progetti di cooperazione internazionale.

Nuove idee, nuovo progetto

La pandemia ha dilatato di circa un anno i tempi di realizzazione del progetto, e la decisione del governo del Kenya di chiudere per l’intero anno scolastico 2020  tutte le scuole ha fortemente penalizzato la vendita dei prodotti alle mense, che dopo l’emergenza è fortunatamente ripresa.

Suor Gladys viene scherzosamente ribattezzata Iron sister per la tenacia e l’energia con le quali, a dispetto del suo fisico minuto, riesce a coordinare ogni cosa, mentre Sara svolge dall’Italia un lavoro certosino e prezioso di gestione contabile. Da questo scambio continuo nascono fatalmente nuove idee, anche per rispondere alle nuove fragilità sociali che la pandemia ha portato con sé.

Nasce così il nuovo progetto «A rural hub for change» con l’obiettivo di affrontare la crisi sociale ed economica che il Covid-19 ha lasciato in eredità, allargando l’ambito di azione anche ad altri villaggi della contea e perseguendo due obiettivi specifici: il contrasto alla disoccupazione giovanile e la valorizzazione del ruolo femminile nei processi di trasformazione e sviluppo delle comunità rurali.

Il sostegno al piccolo allevamento come attività integrativa di reddito

Sara e Gladys definiscono precise linee strategiche di intervento, volte a consolidare i risultati già acquisiti e a raggiungerne di nuovi: produzione agricola basata sulla diversificazione e sull’introduzione di nuovi prodotti come miele e funghi shitake; acquisto di nuove mucche da latte; realizzazione di un laboratorio per la trasformazione dei prodotti; formazione di gruppi di giovani e di donne in attività agricole sostenibili e generatrici di reddito. Ma anche consulenza per l’avvio di piccole imprese agricole; formazione nell’ambito della promozione della salute, della prevenzione, della nutrizione, dell’ecologia e della sostenibilità ambientale; promozione della cultura e dell’informazione attraverso la creazione di una biblioteca di comunità.

Gli investimenti prevedono l’acquisto di un trattore per ridurre la necessità di lavoro manuale e garantire alle lavoratrici una maggiore disponibilità di tempo per la vita familiare e la formazione personale; la costruzione di un apiario e di una fungaia; la realizzazione di un vivaio per diffondere l’agroforestazione, la realizzazione di un laboratorio per la produzione di marmellate, conserve e altri trasformati e, non ultimo, la costruzione di una biblioteca comunitaria, con annessa sala riunioni, a supporto delle attività educative e formative.

Il sostegno al piccolo allevamento come attività integrativa di reddito

In questa nuova fase vengono individuati come possibili beneficiari delle azioni di supporto alla piccola imprenditoria locale 250 giovani tra i 18 ed i 35 anni, e 150 donne. Mentre le attività formative e il servizio biblioteca si stima possano raggiungere 900 persone tra adulti e minori.

Nel frattempo, il Centro comunitario Rieti farm è diventato un punto di riferimento per le istituzioni locali, come gli uffici regionali del ministero dell’Agricoltura, la Jooust University di Bondo e due istituti agrari della contea, e ha istaurato collaborazioni e scambi anche con altri progetti di agricoltura sostenibile promossa nella regione da varie organizzazioni internazionali.

Avi, Montebelluna

cancello e viale di ingresso alla fattoria




Donne che scrivono la storia


Cosa accade quando le vicende della gente commune si incontrano con la grande Storia? Ce lo illustrano le autrici de «Le storie siamo noi». Una preziosa operazione di riscatto della memoria e della tradizione orale, in cui emerge il ruolo di avanguardia delle donne, protagoniste spesso dimenticate.

«Ognuno di noi lascia una traccia. Quando si cammina scalzi sulla spiaggia, sul prato bagnato, nel fango, i piedi imprimono un’orma. Dentro c’è la nostra biografia rara, anzi unica».

Così scrive Anna Grieco ne La notte uterina, uno dei 59 racconti contenuti nel volume «Le storie siamo noi», pubblicato nel febbraio scorso dall’editore Fernandel di Ravenna.

La raccolta, realizzata da diciotto autrici di età compresa tra i 45 e gli 80 anni, ci guida attraverso un inedito viaggio nel tempo: dal 1908 ai giorni nostri la «Storia» con la S maiuscola incrocia le vicende della gente comune, vissute in prima persona da chi scrive o sentite narrare dai propri famigliari e da testimoni ormai scomparsi.

Si tratta di una preziosa operazione di riscatto della memoria e della tradizione orale, che permette di salvare dall’oblio persone, avvenimenti, territori altrimenti destinati a essere cancellati per sempre dallo scorrere del tempo.

Centrodonna della cascina Marchesa (torino) evento per l’8 marzo, con copertina del libro. Massimo Maiorino.

Donne resilienti

L’idea di realizzare questa raccolta è nata all’interno delle «Donne di parola», un gruppo di scrittura attivo dal 1997 nella periferia nord di Torino, coordinato da Claudia Manselli.

«All’epoca il Centrodonna della VI Circoscrizione, nel quartiere popolare Barriera di Milano, propose un corso di avvicinamento alla scrittura pensato per le donne, cui si chiedeva il coraggio di mettersi in gioco, di cercare la propria voce, vincendo insicurezze e tabù», ricorda Claudia. «Ci s’incontrava e si scriveva una volta alla settimana, dalle cinque alle sette. Molte donne erano sorprese dalle loro capacità, sperimentate prima solo nella costrizione dei temi scolastici.

Leggere ad alta voce un proprio testo risultava sconcertante anche quando apparivano doti inaspettate.

Alcune cercavano di schermirsi, quasi sempre svalutandosi».

Da quella prima esperienza è scaturito il desiderio di continuare l’avventura, grazie anche alla disponibilità di Claudia che a un certo punto ha scelto di offrire i suoi insegnamenti a titolo gratuito, «perché i rapporti tra noi fossero liberi da secondi fini».

Per oltre vent’anni le Donne di parola hanno perseverato nella loro ricerca di una scrittura personale, capace di rompere il silenzio dettato dalle convenzioni e dalle convenienze sociali, rivendicando il diritto, la libertà e la gioia di esprimersi.

La musa ispiratrice del gruppo  – formato oggi da casalinghe, impiegate, docenti, assistenti sociali, pensionate, ecc. – è stata da sempre Professioni per le donne di Virginia Woolf, in cui la scrittrice inglese uccide simbolicamente l’angelo del focolare colpevole di inibire la creatività femminile.

Con l’arrivo della pandemia la potenza della parola, fino a quel momento impiegata per ripensare le proprie esistenze e le proprie identità creando condivisione e scambi culturali, si è trasformata anche in uno strumento di resilienza e di rivincita contro l’isolamento.

«Durante il lockdown, quand’eravamo rinchiusi in casa, impossibilitati a portare avanti le nostre attività e a incontrare le persone care, ero piuttosto abbattuta, perciò ho accolto con piacere l’invito di un’amica, “veterana” del gruppo, a cimentarmi anch’io negli esercizi di scrittura che Claudia proponeva ogni settimana e su cui ci confrontavamo in videoconferenza», racconta Stefania Garini. «Ero abituata a scrivere per lavoro ma non mi ero mai dedicata alla scrittura creativa, ed ero convinta di non avere fantasia; grazie a questa esperienza ho scoperto di possedere qualità che ignoravo. Sono grata alle Donne di parola che mi hanno accolta tra loro e mi hanno insegnato tanto.

Nei due anni più gravi della pandemia, l’esperienza nel gruppo è stata per me una sorta di prevenzione dal disagio psichico, che mi ha permesso di sentirmi meno sola, occupare il tempo e trovare un senso nuovo a giornate in tono minore».

Proprio durante la pandemia Claudia Manselli ha avuto un’idea: perché non creare una raccolta di fatti originali, facendo emergere i momenti in cui le storie individuali – quelle di cui magari rimane solo un oggetto, una foto, un ricordo personale che altrimenti andrebbe perduto – si sono imbattute nella storia collettiva?

Alcune autrici del libro, in occasione della presentazione l’8 marzo 2023. Massimo Maiorino.

Rapporti di forza

Ecco dunque fissate sulla carta vicende che si intersecano con le due guerre mondiali, il fascismo, le migrazioni, il ’68, la legge Basaglia, il terrorismo, i referendum su divorzio e aborto, le stragi di mafia. E ancora l’incendio al cinema Statuto, i mondiali di calcio, le vittime dell’Eternit, fino alla pandemia da Covid-19.

In alcuni casi «Le storie siamo noi» racconta fatti direttamente legati agli eventi della grande storia: il bambino che a cinque anni conosce per la prima volta il padre, reduce di guerra; la piccola sfollata in seguito all’alluvione del ‘66, costretta ad andare a servizio da una famiglia che la relega nello sgabuzzino; gli studenti che manifestano contro la guerra del Vietnam; il giovane obbligato a sposarsi con rito civile perché il Sant’Uffizio ha lanciato una scomunica contro gli aderenti al partito comunista; il malato di mente torturato nel manicomio dove l’elettrochoc è ancora la norma.

In altri racconti gli avvenimenti storici restano sullo sfondo e a emergere sono i dettagli della vita quotidiana e del folclore: il lavoro nei campi, i chilometri a piedi per raggiungere la scuola, le vacanze in colonia, il festival di Sanremo visto in tv al bar del paese, l’ascensore che funziona inserendo monete da dieci lire.

A volte bastano poche, semplici pennellate per ricostruire un’intera epoca, con i suoi processi produttivi e le sue gerarchie sociali. Scrive Pierisa Cavallero in Nascite e prodigi: «Nelle stanze di sopra si allestivano i graticci per i futuri bachi da seta. Si sceglievano i locali più luminosi e meno umidi, quelli che si potevano aerare. […] La famiglia dormiva nelle stanzette accanto alla stalla. Si mettevano diversi materassi di foglie di granturco a terra e ci si accampava lì. Solo gli anziani suoceri avevano il privilegio di riposare su un pagliericcio coperto da un piumino d’oca».

Nel racconto Oro, Maria Muresan ricorda l’infanzia in Romania, quando i contadini dei collettivi dovevano cedere allo Stato tre quarti del raccolto: «Per poter vivere, di notte si andava a rubare quello che si lavorava di giorno, cioè il mais, le barbabietole, il grano. Una sera io, che avrò avuto nove anni, e mia sorella Violeta, che aveva un anno e mezzo di più, siamo andate a rubare le nostre patate. Nello stesso campo abbiamo incontrato i figli dei vicini, bambini come noi. Ci siamo spaventati tutti, ma una volta capito chi eravamo, abbiamo iniziato a giocare a nascondino».

Un antidoto al «presentismo»

Come scrive nell’introduzione al volume Valentina Pazè, docente di filosofia politica all’Università di Torino: «Grande è l’attenzione per i dettagli, a partire dalla descrizione degli ambienti e degli oggetti della vita quotidiana: le case di ringhiera della Torino di inizio secolo, le battane e le fiocine usate dai ladri di anguille, l’acqua di rose per farsi belle il giorno del matrimonio, lo sciaraball (carretto, nda) per muoversi nelle campagne, il lume a petrolio che rischiara le stanze degli anni Sessanta ancora prive di elettricità. Le vicende rimandano in parte a un mondo che non c’è più (i maestri che bacchettano sulle mani gli scolari, le lenzuola d’inverno intiepidite con un mattone caldo, l’olio di fegato di merluzzo, i peccati mortali e veniali da studiare a memoria al catechismo, il Carosello prima di andare a dormire), in parte a eventi e sentimenti perenni: la nascita, la morte, l’amicizia, l’abbandono, lo sconforto, la paura, la ribellione. E lo spaesamento di chi vive diviso tra due mondi, come testimoniano le molte storie dedicate al tema dell’emigrazione».

Le vicende narrate permettono di spostarsi non solo nel tempo ma anche nello spazio, attraverso il nostro Paese e oltre:
dal Piemonte alla Campania, dal Veneto alla Puglia fino alla Transilvania, al Burkina Faso, a Cuba, agli Stati Uniti e nelle terre dell’emigrazione italiana, in un viaggio storico-geografico ma soprattutto antropologico.
I lettori più anziani possono ritrovare pezzi e ricordi della propria giovinezza, rivivere momenti che sono stati importanti per la loro emancipazione, mentre i più giovani possono trarne una migliore comprensione del passato e confrontarsi pure con memorie più recenti che coinvolgono anche loro.

In questo senso, secondo Pazè, il libro costituisce un «antidoto alle amnesie e al “presentismo” (considerare solo il presente, dimenticando il passato, ndr) di cui è malato il nostro tempo».

Spinte in avanti

A differenza di quello che molti si aspettano dalla letteratura femminile, in «Le storie siamo noi» l’argomento sentimentale viene solo sfiorato dalle varie autrici, interessate piuttosto a dinamiche di solidarietà sociale, riconoscimento dei diritti umani e civili, impegno politico. In linea con José Saramago, quando afferma che «la storia è spuma che arriva alla spiaggia del presente, mare che muove quell’onda e ci spinge avanti».

In particolare, quel che emerge ai margini della storia è il ruolo delle donne, depositarie da sempre di drammi, gioie, scelte eroiche, cambiamenti epocali. «Insieme abbiamo scoperto che la verità, quella profonda, deve essere faticosamente cercata, anche con dolore», ci dicono le Donne di Parola. E può accadere che il prezzo da pagare sia troppo alto. Questo spiega perché, dei sessanta racconti originari, uno sia stato escluso dalla pubblicazione per scelta dell’autrice: avrebbe causato troppo dolore ad alcuni dei discendenti, ancora in vita, della protagonista del racconto, una donna che nel ’46 ha compiuto atti coraggiosi, ma anche scabrosi per i suoi tempi. Una donna le cui tracce sulla sabbia verranno cancellate dalla spuma del mare.

Nel libro un’attenzione importante è dedicata alla natura, presenza costante che emerge a tratti con il suo volto più duro (quando si presenta come siccità, grandinate, alluvioni), ma più spesso si mostra quale fonte di vita, rigenerazione fisica e morale, energia spirituale.

È qui, come leggiamo nel racconto Bosco del Vaj, di Elena Leonelli, che «troviamo la quiete e la forza di reagire alla barbarie dei nostri tempi». Ed è sempre nella natura – come anche nella scrittura – «che cresce il desiderio di un mondo migliore, la speranza nelle nuove generazioni, la necessità di un contatto più stretto con le radici del bene e con la parte più vera di noi».

Stefania Maiorino




Niger: la via dei giovani africani


Niger, Niamey, micro entreprise Nutrisat, de Esther Dossa Godo

Sommario

Niger, Niamey, micro entreprise Sonix automobile de Abdoul-Razak Halidou Moussa.

Introduzione: Nuove speranze per l’Africa

Mentre in Niger (e nel Sahel) la situazione economica e sociale si deteriora, le forze vive della nazione si organizzano e creano lavoro per sé e i loro coetanei.

Il Niger è uno dei paesi più poveri del mondo (secondo i parametri delle Nazioni Unite), ma è diventato anche uno snodo strategico fondamentale, per Europa e Africa. I migranti da Africa dell’Ovest e Africa centrale convergono qui, e tentano l’attraversamento del Sahara passando da Algeria o Libia, diventando merce di traffico per gruppi più o meno armati. In Libia i migranti sono incarcerati e torturati, in Algeria spesso arrestati ed espulsi, abbandonati in pieno deserto, in Niger, appena oltre frontiera.

Il Niger è anche incastrato in un’area a elevata instabilità. Mali, Burkina Faso, Ciad, sono oggi paesi diretti da giunte militari. La Nigeria è il gigante africano più problematico a livello sociale.

In quest’area combattono e occupano porzioni di territorio gruppi armati appartenenti a diverse galassie jihadiste: Al Qaeda, Stato Islamico, Boko Haram (vedi bibliografia sul sito MC). L’Unione europea e i suoi paesi membri firmano accordi con il governo del Niger (un tempo sconosciuto, oggi ben noto a Bruxelles e alle cancellerie occidentali), e inviano truppe, blindati, elicotteri, soldi.

Ma in questo dossier è un’altra la storia che vogliamo raccontare. È quella di giovani africani che, consapevoli di non trovare un impiego nel loro paese, si inventano loro stessi un lavoro. Diventano imprenditori, sovente con un approccio «green» rispettoso dell’ambiente, come solo i giovani sanno fare. Tutti con una grande passione, e un sogno che spinge per realizzarsi. Spesso hanno successo e riescono pure a dare lavoro a loro coetanei. Ci raccontano come sono nate le loro imprese, i primi passi e le difficoltà. E quali sono i loro piani per il futuro.

Che sia questa la via per l’Africa?

Ma.Bel.

Niger. Niamey. micro entreprise Yalis, de Blandine Akitan

Niger: Migranti, militari, jihadisti. la situazione

Il dialogo contro le armi

Crocevia di flussi migratori, terra di scorribande jihadiste, il Niger vede aumentare la presenza di eserciti stranieri (formali e non) sul suo territorio. Paese strategico, cerniera tra l’Africa continentale e gli stati sulla sponda del Mediterraneo, è corteggiato da Unione europea e alcuni suoi paesi membri, tra i quali l’Italia. Ma c’è chi dice: non è l’opzione militare che risolverà la crisi.

Atterriamo a Niamey nel pomeriggio. Per la prima volta, uscendo dall’aereo, non mettiamo il piede direttamente sul suolo africano. L’aeroporto internazionale Diori Hamani, vetrina per il viaggiatore, è oggi completamente nuovo. Una manica chiusa ci porta dall’aereo alla moderna struttura. Manchiamo dal Niger da tre anni e il nuovo edificio ci sorprende. Per fortuna, appena fuori ritroviamo il colore ocra della sabbia e degli edifici, le auto scarburate, gli asini che tirano carretti, e uomini e donne nei vestiti locali a prova di calore. Gli odori e la temperatura ci riportano velocemente a qualcosa di noto.

Il Niger occupa una superficie di 1,2 milioni di chilometri quadrati (quattro volte l’Italia), incastonati tra Sahel e Sahara, dei quali la maggior parte sono prateria arida e deserto. La popolazione, di circa 20 milioni, vive prevalentemente in una fascia a Sud del paese, lungo le frontiere con il Burkina Faso e la Nigeria, e nel tratto in cui scorre il grande fiume Niger.

Secondo l’indice di sviluppo umano del Programma nelle Nazioni Unite per lo sviluppo (che misura speranza di vita, educazione e livello economico), il Niger ha sempre occupato uno degli ultimi tre posti della graduatoria. Nel 2020 era l’ultimo su 191 paesi, l’anno dopo è stato «superato» da Ciad e Sud Sudan, salendo al terzultimo posto. Indici, non assoluti, che però ci danno un’idea grossolana del posizionamento di un paese a livello mondiale.

Sicurezza, sempre meno?

Eppure, in questi anni qualcosa è cambiato, oltre all’aeroporto. I gruppi armati della jihad islamista, che pure erano già sul terreno, oggi sono più vicini alle città e la loro presenza si sente.

Il 9 agosto 2020 in un attacco nei pressi di Kouré, il parco delle giraffe a circa 50 km da Niamey, sono morti sei ragazzi francesi, di età compresa tra i 25 e i 30 anni, operatori dell’Ong Acted, e due nigerini, l’autista di Acted, e il presidente delle guide turistiche. Dopo il massacro, il paese è stato dichiarato «zona rossa» in ambito umanitario, e gli spostamenti via terra sconsigliati o proibiti da ambasciate e Ong.

Oltre questo attacco di livello superiore, in quanto verso stranieri, la situazione si è notevolmente degradata a spese della popolazione locale.

Lungo la strada principale verso il Burkina Faso, a Ovest, si sono verificati diversi attacchi nei confronti dei civili, che fuggono dai villaggi e si radunano in alcune città.

Anche la strada che porta in Mali, a Nord Ovest, nella regione di Tillaberi, è diventata molto insicura perché teatro di frequenti blitz dei terroristi, che sconfinano dai paesi vicini e attaccano posizioni militari e villaggi.

Nell’estremo Est del paese nella regione di Diffa, invece, è sempre attivo il gruppo Boko Haram (cfr MC gennaio 2021), sulla frontiera quadrupla con Nigeria, Ciad e Camerun. Sebbene si sia diviso in più fazioni e abbia perso, al momento, aggressività.

Niger, Niamey, micro entreprise Nutrisat, de Esther Dossa Godo

Cosa fa la Chiesa

Ci troviamo nell’arcidiocesi di Niamey che si estende per circa 200 chilometri quadrati nell’Ovest del paese. «Il grande problema che abbiamo nell’arcidiocesi di Niamey sono gli sfollati, la gente che scappa dalla zona di Tillaberi (area detta delle tre frontiere, tra Niger, Mali e Burkina Faso, ndr) e anche da Torodi e Makalondi (lungo la strada verso il Burkina Faso, ndr).

I jihadisti arrivano con le moto, ammazzano, bruciano, e costringono la gente ad andarsene. Così sono migliaia che lasciano i propri villaggi e si raggruppano in luoghi più sicuri cercando di andare verso la capitale. Ad esempio, a Makalondi ce ne sono molti accampati come si può». Chi ci parla è don Giuseppe Noli, missionario fidei donum dell’arcidiocesi di Milano, da otto anni presente nel paese. Lo incontriamo nel cortile della sede diocesana, dove si sta svolgendo una chiassosa festa della minoranza anglofona, in gran parte di origine nigeriana.

«Agli sfollati manca cibo, acqua, e anche la casa. La Chiesa cerca di fare qualcosa, dare un minimo di assistenza e risolvere i bisogni di base. Inoltre c’è il problema delle scuole chiuse, alcune oramai da oltre un anno, sempre a causa degli attacchi. Così la Chiesa organizza dei corsi per i bambini fuggiti dai loro villaggi».

Don Giuseppe ci parla dell’impegno di monsignor Laurent Lompo, arcivescovo di Niamey, noto ai lettori di MC (intervista su MC aprile 2019): «Il vescovo è molto attivo sull’emergenza sfollati, e ha due punti a suo favore: è nigerino, per cui parla molte lingue locali ed è ascoltato; è libero, nel senso che non dipende da fondi statali, ma cerca finanziamenti all’estero per la diocesi. Inoltre, è una persona che parla chiaramente, senza paura».

Don Giuseppe ci esprime il suo sconcerto: «Non si capisce che strategia ci sia dietro il modo di operare dei gruppi armati, è distruttivo e non sembra che porti a qualcosa».

Eserciti stranieri

Intanto si rafforza la presenza militare straniera nel paese. Sono infatti diversi gli eserciti presenti in Niger, con la missione di lottare contro il terrorismo jihadista.

Recentemente, anche il contingente principale della missione francese Barkhane e di quella europea Takuba, di stanza in Mali da 10 anni (la prima, chiamata inizialmente Sérval), si è trasferita in Niger, perché non «gradita» all’attuale giunta militare maliana.

All’aeroporto c’è anche una base dell’esercito Usa, che, tra l’altro, impiega droni pilotati da remoto per combattere contro Boko Haram nell’Est del paese. È presente un contingente tedesco, con uomini e mezzi blindati. E, dal 2018 c’è anche una missione militare italiana, attualmente di circa 200 unità (cfr. MC marzo 2018).

Dal 2012, inoltre, è presente Eucap Sahel Niger, missione civile di esperti delle forze di polizia di paesi europei, con la missione di formare le forze di sicurezza nigerine allo scopo di combattere il terrorismo. La missione è stata recentemente prolungata fino al settembre 2024. È composta da un centinaio di esperti e ha una dotazione di 72 milioni di euro.

Una nuova missione, l’Eumpm (Missione di partenariato militare della Ue), è stata istituita dal Consiglio europeo il 12 dicembre scorso, nell’ambito della Politica di sicurezza e di difesa comune (Psdc) «per sostenere il Niger nella lotta contro i gruppi terroristici armati […] rafforzerà la capacità delle forze armate del Niger di contenere la minaccia, proteggere la popolazione e assicurare un ambiente sicuro e protetto, nel rispetto del diritto in materia di diritti umani e del diritto internazionale umanitario», si legge sul comunicato stampa. Il suo mandato durerà tre anni con un budget previsto di 27,3 milioni di euro.

Insomma, un bel po’ di militari stranieri – e di personale dei servizi segreti dei diversi paesi – che capita di incrociare nei locali di Niamey.

Combattere il terrorismo

«Tutti questi eserciti stranieri stanno perdendo il loro tempo e i loro soldi. Farebbero meglio ad andarsene», ci dice Moussa Tchangari, leader della società civile e fondatore di Alternative espaces citoyens, che incontriamo nel suo ufficio di Niamey. «La gente non vede in cosa siano efficaci, perché non hanno dato risultati, infatti i gruppi jihadisti stanno progredendo. La popolazione vede forze militari straniere, ben equipaggiate, ma non vede cosa fanno. Allora può addirittura pensare che i paesi che le inviano siano dietro a tutto quello che sta succedendo. Purtroppo, è un’idea che sta prendendo terreno. Non solo qui, ma anche in Mali e in Burkina Faso.

L’errore fondamentale del governo e dei suoi partner stranieri è di pensare che si possa risolvere il problema del terrorismo con la forza. Partendo da questa idea sbagliata, chi governa ha accettato che venissero eserciti stranieri. Questi sono venuti, perché pensano che la soluzione sia militare, ma anche perché la vedono come un’opportunità. Ma se vieni con uomini e mezzi e non porti risultati, il rischio è un effetto boomerang». Questo è quanto sta succedendo, e si inizia a percepire la diffusione di un sentimento antiimperialista in generale, a fianco di quello antifrancese storico (dovuto alla colonizzazione).

«La colonizzazione stessa è finita perché le grandi potenze non potevano preservare la loro egemonia con la forza delle armi. Sono stati vinti dai popoli colonizzati che non avevano eserciti potenti. L’errore fondamentale è credere che la soluzione sia militare, e trascurare tutte le altre opzioni».

Niger, Niamey, micro entrepreise RAM’s transformation, de Ramatou Chaibou.

Dialogo, non armi

Secondo Tchangari, i gruppi armati jihadisti sono attori politici, e «il loro obiettivo è prendere il potere». La soluzione per risolvere la crisi, secondo lui, starebbe nel riuscire a intavolare un dialogo con loro: «Se non vuoi la guerra, l’unico modo per risolvere la situazione è la discussione. Si parla con chiunque, quindi si può discutere anche con questi qui, che sono in maggioranza originari di quest’area. In ogni caso, si dovrà arrivare a farlo. Speriamo che, quando si farà, non sia troppo tardi e che non abbiano guadagnato troppo terreno».

Tchangari analizza la situazione sul campo sulla base delle sue informazioni: «D’altronde il popolo discute con loro. Siamo noi delle élite, gente di città, che ha studiato, che abbiamo problemi. La gente dei villaggi fa accordi locali con i gruppi armati. Succede in Mali e in Burkina. Qui capita che un gruppo jihadista controlli un territorio, metta delle tasse, mantenga la sicurezza, permetta agli autobus di circolare». Su questo aspetto abbiamo anche altre testimonianze a conferma: controlli di documenti di passeggeri di minibus, non da parte delle forze dell’ordine, ma di miliziani.

«Pensate che quello che vogliono fare sia un problema per il popolo? Se prendiamo un ladro gli tagliamo un braccio, se vediamo qualcuno che fa adulterio lo lapidiamo, se chiudiamo i bar, se le donne devono portare il velo, e nelle scuole si separano maschi e femmine, tutto questo, per la gente ordinaria fa parte in qualche modo della loro visione. La differenza tra il popolo e i gruppi armati, è che questi ultimi vogliono imporlo con la forza a tutti, mentre il nigerino medio pensa che sia bene, ma non vuole imporlo ai vicini».

Chiediamo allora perché ci sono i massacri e la gente scappa. «Non è sistematico. L’idea dei jihadisti criminali che vanno da un villaggio all’altro uccidendo non è la realtà. Se avessero fatto così, avrebbero fallito da tempo. Sono attori politici, che possono uccidere, ma fanno anche attenzione. In alcuni luoghi hanno commesso violazioni dei diritti, ucciso. Ci sono motivi: presenza di milizie di autodifesa, rifiuto della loro autorità. Quando andate a chiedere alla popolazione: chi vi fa più paura incontrare? L’esercito o i jihadisti? Spesso rispondono: l’esercito».

Strade migranti

Niger, Niamey, fromagerie A’masi, de Ami Issoufou Bickou

La migrazione rimane un tema caldo in Niger, per autorità locali e paesi stranieri. Tchangari ci parla della situazione attuale. Il Niger è ancora il crocevia principale dei flussi dell’Ovest e del Sud, verso Nord: Libia e Algeria, e quindi coste del Mediterraneo. Anche questo è un motivo della presenza militare europea sul suo territorio. «I numeri non sono cambiati negli ultimi anni. Ci sono ancora molte ragioni che spingono la gente a muoversi. Chi viene da Nigeria, Mali o Burkina Faso, parte a causa dell’insicurezza. Ma le motivazioni sono anche altre e i movimenti sono tanti. In generale sono le difficili condizioni economiche o sociali che spingono la gente a partire, ma non è solo materiale la motivazione alla migrazione. C’è gente che si muove perché pensa che sia bene cambiare ambiente, anche culturale. Pure dal paese più ricco la gente migra, va altrove per fare altre cose.

Penso che sia impossibile trovare il modo di tenere la gente a casa loro e fare sì che non parta».

Al momento di salutarci Moussa Tchangari ci accompagna nel cortile della sede di Alternative. Qui vediamo molti giovani indaffarati. Sono ragazzi e ragazze che seguono diverse formazioni, ci spiega il nostro interlocutore: «È bene dare quesat possibilità, ma non basta. Quello che facciamo noi non è niente rispetto alla massa dei giovani che hanno bisogno. Potrebbe diventare un’alternativa solo se si facesse su larga scala».

Marco Bello

Niger, Niamey, micro entreprise Nutrisat, de Esther Dossa Godo

Esther: donna, madre, imprenditrice

La regina della moringa

Dopo dieci anni di lavoro per altri, Esther decide di fondare la propra impresa. Si butta sul settore benessere e bio, diventa esperta di erbe e lancia prodotti innovativi. Oggi impiega sette persone e ha aperto un negozio senza aiuti esterni.

Siamo in un quartiere centrale di Niamey, su una strada di terra, non certo commerciale. Arriviamo a una boutique con insegne di colore verde e rosso. A fianco a un logo ben studiato, nel quale appare una figura umana (rossa) accanto a una foglia (verde), c’è scritto: «NutriSat», e sotto «production de produits agroalimentaires pour le bien etre de la famille» (produzione di prodotti agroalimentari per il benessere della famiglia). Un pannello più in basso elenca i prodotti che si possono reperire: «Tisane, infusioni, spezie, succhi naturali, miele puro».

Entriamo. Nel negozietto ci accoglie una giovane donna, vestita in abiti sgargianti di taglio africano e buona fattura. Non porta il velo, come invece la maggior parte delle donne del Niger che hanno superato gli otto, nove anni di età. «Sono Esther Dossa Godo, ho 34 anni e quattro figli. Sono nata e cresciuta a Niamey, ma i miei genitori sono migrati dal Benin. Ho studiato marketing e gestione d’impresa e ho lavorato per 10 anni presso privati, prima di decidere di creare la mia impresa», ci racconta Esther seduta alla sua scrivania, mentre di fronte la sua assistente si occupa della contabilità.

«Il settore che mi è subito interessato è quello della trasformazione agroalimentare di erbe per il benessere, e l’approccio “bio”. In un periodo della mia vita sono stata poco bene, e le tisane di erbe mi hanno molto aiutata. Così nel 2018 ho iniziato a provare la produzione artigianale di tisane, e l’anno successivo ho registrato la mia impresa NutriSat».

Esther ci racconta le difficoltà, avute come donna e come imprenditrice: «Siamo in Sahel, ci sono molti vincoli sociali ed economici sulle donne. Il nostro ruolo è visto come aiuto dell’uomo, in casa per cucinare, occuparsi dei figli. Quando una donna vuole affermarsi come leader o come imprenditrice si deve confrontare con diversi impedimenti a livello sociale. Io ho dovuto impormi, anche con la mia famiglia».

Niger, Niamey, micro entreprise Nutrisat, de Esther Dossa Godo

Prodotti naturali

L’elemento base utilizzato da NutriSat è la moringa. Un albero, originario dell’India, che si sta diffondendo rapidamente in Africa, e ha molte proprietà benefiche come integratore alimentare biologico: antiossidante naturale, ricco di vitamine, proteine e calcio. «Trasformiamo le foglie di moringa per farne la polvere che si mette sui cibi, e tisane di diverse qualità. Adesso stiamo studiando un prodotto nuovo da lanciare sul mercato: il succo di moringa.
Realizziamo inoltre prodotti a base di spezie, zenzero, curcuma, polvere di baobab e miele.

NutriSat non ha campi di moringa, ma siamo in partenariato con dei produttori locali e prendiamo da loro la nostra materia prima. Per loro è diventata una fonte sicura di reddito. Attualmente trasformiamo 200 chili di foglie a settimana.

Vorrei far notare che abbiamo portato una rivoluzione nella filiera della moringa. In Niger è un ingrediente di cucina e abitualmente è consumata insieme a un alimento, ma noi l’abbiamo trasformata per presentarla sotto forma di tisana. Questa è stata un’innovazione».

Esther ci tiene a dire che NutriSat punta al riconoscimento bio: «Con i produttori facciamo delle sensibilizzazioni sull’uso dei concimi e i loro effetti indesiderati, e privilegiamo il fatto che i prodotti siano trattati in modo naturale, senza pesticidi chimici. I prodotti sono bio, ma stiamo aspettando una certificazione ecocert».

Generare lavoro

Esther ci spiega che NutriSat impiega oggi sette persone, compresa la fondatrice. Ci sono dei ragazzi che si occupano della trasformazione, e altri che fanno la produzione e vendita. «Sono giovani senza formazione, noi abbiamo insegnato loro un mestiere che gli permette di avere un reddito sicuro.

Oltre a loro, abbiamo dei collaboratori: giovani che vengono a prendere i prodotti per andare a venderli. Alla fine della giornata tornano, ci danno il costo del prodotto venduto e ricavano il loro beneficio. Distribuiamo poi nei negozi che prendono i prodotti e hanno un loro guadagno».

Niger, Niamey, micro entreprise Nutrisat, de Esther Dossa Godo

Una finestra di visibilità

«All’inizio non avevamo il nostro punto vendita, e ci siamo chiesti come fare. Montavamo un banchetto allo stadio Seyni Kountché, dove vanno gli sportivi ad allenarsi. Abbiamo offerto delle degustazioni, e così ci siamo creati una clientela. Quindi abbiamo iniziato a vendere sui social

network e abbiamo creato una boutique virtuale, oltre a quella fisica mobile, che allestivamo tutti i giorni allo stadio».

Parte del ricavato ha poi permesso a Esther di costruire la boutique fissa dove ci troviamo: «Interamente fatta reinvestendo fondi dell’impresa – dice con orgoglio -. L’abbiamo lanciata a febbraio 2022».

NutriSat ha anche iniziato a distribuire tramite alcune farmacie partner, che ora sono una decina.

Ci sono poi delle piccole boutique, specializzate nella vendita di prodotti bio o naturali, che ci distribuiscono. «Stiamo andando nei paesi confinanti, e stiamo proponendo i nostri prodotti ad alcuni supermercati. Inoltre, partecipiamo alle fiere internazionali in Africa dell’Ovest, per presentare i nostri prodotti e farli degustare. Quando i clienti apprezzano, indichiamo loro il punto vendita presente nella loro città.

Oltre a questo, facciamo del porta a porta. Con i nostri giovani, andiamo nelle imprese per proporre dei prodotti e spiegarne i benefici».

Chiediamo a Esther un messaggio per i ragazzi che vorrebbero seguire la sua strada: «Non bisogna scegliere di fare gli imprenditori avendo come primo obiettivo i soldi. Se lo fate, non riuscirete. Andate con la passione, fate quello che vi appassiona e a quel punto riuscirete».

Marco Bello

I succhi di Blandine

Niger. Niamey. micro entreprise Yalis, de Blandine Akitan

A rriviamo alla periferia di Niamey. Lungo una strada sterrata ci aspetta una signora ben vestita, davanti a un cancello di metallo. Entriamo in un piccolo cortile con poche piante. Sulla destra uno spazio di pochi metri quadri coperto da una tettoia. Vi vediamo una cucina a gas e alcuni contenitori di metallo.

Ci aspetta una ragazza vestita all’africana, con un sorriso particolare.

«Mi chiamo Blandine Akitan e sono nata a Niamey. Sono la promotrice della micro impresa Yalis succhi naturali», ci dice subito molto soddisfatta. «Mia madre mi ha sempre insegnato che bisogna lavorare duro per prendere in mano la propria vita.

Quando ero piccola, vendevo caramelle in strada, così mi sono subito fatta una mentalità  commerciale. Da giovane studentessa, nel tempo libero vendevo succhi prodotti da altri, ma poi ho pensato a diventare io stessa imprenditrice».

Era il 2019 e Blandine aveva 28 anni, quando ha dato forma alla sua idea.

«Si tratta di una start up e, al momento, ci lavoriamo io, mia madre e mio fratello. Trasformiamo tutto quello che è frutta e verdura in succhi naturali. Facciamo anche dei mix tra frutti e verdure diversi. La gente ama queste bevande, prive di conservanti, che fanno bene alla salute. Ma la prima difficoltà che abbiamo incontrato è stata la loro conservazione.

Mia zia è stata in Burkina Faso a seguire alcune formazioni e le hanno insegnato delle tecniche. È così che abbiamo imparato a fare la pastorizzazione. Oggi produciamo i nostri succhi qui e li commercializziamo in tutto il Niger. Li mandiamo in diverse città con gli autobus di linea, ben imballati in casse».

Un’altra problematica è stata l’approvvigionamento dei contenitori: «Le bottigliette sono riciclabili, ma in Niger non le troviamo. Le facciamo arrivare dal Benin. Così anche i tappi a corona. Mentre le etichette si troverebbero, ma costano più care. Ora, alcuni clienti, ci hanno chiesto i tappi a vite, e vediamo come organizzarci».

La Yalis, attualmente, nel piccolo spazio che ha a disposizione, produce tra i 45 e i 60 pacchi da 24 bottiglie ogni settimana. Con il desiderio di aumentare il volume: «I nostri clienti sono alberghi, ristoranti e privati che organizzano cerimonie varie, come matrimoni, battesimi, incontri tra amici e tornei sportivi».

Questa piccola impresa famigliare ha grandi ambizioni: «Vogliamo ingrandirci, produrremo in locali più grandi che stiamo sistemando, li attrezzeremo con strumenti di trasformazione più moderni e acquisteremo un mezzo per le consegne in città. L’idea è poi vendere anche in altri paesi della regione».

Blandine ci lascia un messaggio per i più giovani, che sono interessati a iniziare un’attività: «Questa è una terra vergine per la nuova imprenditoria. Quello che i giovani cercano all’estero, si trova già qui in Niger. C’è la terra da coltivare, ci sono molti prodotti da trasformare. Con molta tenacia e coraggio, insieme cambieremo della nostra società».

Ma.Bel.

Niger, Niamey, fromagerie A’masi, de Ami Issoufou Bickou

Ami e Aicha: dalla tradizione ai supermercati

La via del formaggio

Ami viene da una famiglia di veterinari. Ha studiato diritto e marketing, ma decide di fondare la propria impresa. Sceglie il settore caseario e ha in programma una forte espansione.

Niamey. Arriviamo in un quartiere ai limiti della città, dove si trovano grandi case con ampi cortili e terreni non edificati pieni di immondizia e sacchetti di plastica.

Entriamo in una di queste abitazioni, dove ci accolgono due giovani donne. Siamo nella sede di Amansi, micro impresa produttrice di formaggio.

Le due donne, velate con hijab, ci ricevono con un largo sorriso. La responsabile prende la parola: «Mi chiamo Ami Bickou. Sono nata nel 1990 a Tanout, dove il deserto incontra la savana, nel Niger profondo. La mia è una famiglia di veterinari, per questo motivo conosco gli animali e il latte. Dopo gli studi in diritto e marketing, iniziare a lavorare era complicato. Per questo motivo ho scelto di fare l’imprenditrice e mi sono interessata al settore caseario, nel quale avevo già qualche competenza e alcuni contatti. Ho iniziato nel 2020 e oggi siamo in tre: io, la mia assistente, Aicha, qui presente, e un collaboratore».

Ci raccontano che producono tre tipi di formaggio, dei quali uno fresco, un formaggio peul (etnia di allevatori, ndr) e un altro tradizionale, chiamato «chuku», molto consumato nella zona.

La produzione la fanno in una piccola costruzione con il tetto di lamiera, in un angolo del cortile, nella quale ci sono tutte le attrezzature di Amansi.

Arriva un uomo con un bidone di latte sulla bicicletta e lo passa ad Aicha che lo filtra accuratamente. Poi le due donne iniziano per noi una lavorazione. Fanno bollire il latte, ne misurano temperatura e densità. Intanto Ami ci descrive il processo: «Acquistiamo il latte fresco da gruppi peul oppure da una fattoria moderna non lontano da qui. La prima operazione è filtrarlo e verificarlo con un latto-densimetro per controllarne la qualità».

Sul volume lavorato precisa: «Attualmente trasformiamo 1.400 litri a settimana. Abbiamo molte prenotazioni, ma non possiamo produrre grandi quantità perché non abbiamo spazio in ambienti idonei alla conservazione. Quindi talvolta, facciamo la lavorazione due volte al giorno. Inoltre, durante la stagione calda, ci sono problemi di elettricità, per cui vorremmo mettere dei pannelli solari per alimentare alcuni frigoriferi».

Progetti futuri

Mentre parliamo, Ami e Aicha procedono con la trasformazione, ottenendo del formaggio fresco e del chuku. Per quest’ultimo dispongono delle forme rettangolari sopra una rete per sgocciolare. Il formaggio, alla fine, avrà la forma di fogli sottili.

«Nel nostro business plan è previsto l’acquisto di materiale che ci permetta di lavorare meglio rispetto al processo che utilizziamo ora che è molto artigianale. Vogliamo fare un controllo più completo del latte e produrre maggiori quantità di formaggio. Lo spazio per la lavorazione è piccolo, per cui vogliamo estendere la formaggeria Amansi costruendo nuovi locali. La domanda è molta e i prezzi del prodotto finito stanno aumentando. In tre anni vorremmo essere a regime con la nuova struttura».

Per la distribuzione si appoggiano ad alcuni negozi, ma non solo: «Portiamo i nostri formaggi in diversi negozi di alimentari in centro città e in altri quartieri. Inoltre abbiamo iniziato una vendita online. Abbiamo un sito web dove il cliente può prenotare il prodotto, oppure con Facebook o Whatsapp. Ci indica dove portarlo e paga alla consegna. Stiamo inoltre attivando il sistema di pagamento tramite cellulare».

Chiediamo ad Ami le difficoltà che ha incontrato: «Come donna imprenditrice ci possono essere più ostacoli nella nostra società. Occorre viaggiare, assistere a riunioni. Ma non è così difficile quando la famiglia ti sostiene, e io ho un marito molto comprensivo. Poi ho tre figli maschi e un quarto in arrivo. Spero che sia una bambina!».

Marco Bello

Niger, Niamey, micro entreprise transformation du lait, production du yaourt, de Saratou Abdou et associés

Yogurt, che passione!

Niger, Niamey, micro entreprise transformation du lait, production du yaourt, de Saratou Abdou et associés

«Mi chiamo Arrafat Abdourahamane, ho 32 anni, e nel 2019 lavoravo in un incubatore (società che aiuta le micro imprese, ndr) con altri amici. Accompagnavamo giovani a creare la propria impresa. A un certo punto ci siamo detti: anche noi dovremmo fare gli imprenditori, se vogliamo davvero accompagnare gli altri. Ci è venuta l’idea di lavorare sulla filiera del latte.

All’inizio eravamo in tre. Ci siamo informati e abbiamo fondato la microimpresa Sudu-kossam. Facevamo tutto: raccolta del latte, produzione, consegna. Abbiamo cominciato trasformando 20 litri al giorno, abbiamo sempre incrementato a piccoli passi. Oggi siamo a 300-400 litri, e vogliamo arrivare fino a mille.

Le mie socie sono Saratou Abdou, che si occupa dell’amministrazione, e Adama Mahamadou, responsabile della produzione. Io seguo gli aspetti finanziari. Adesso abbiamo una decina di collaboratori che lavorano nella produzione, pulizia, trasporto e ricerca clienti. Noi associati, per ora, non abbiamo salario. Quando c’è del margine, lo reinvestiamo nell’impresa, per espandere l’attività. Siamo convinti che quando questa decollerà, avremo i nostri benefici.

I n un paese come il nostro ci sono grossi gruppi nel settore del latte. Dovevamo quindi smarcarci da essi. Abbiamo dunque scelto di produrre yougurt al naturale al 100%, e questa è la nostra eccellenza. Stiamo mantenendo questo standard, ma adesso vorremmo fare un salto quantitativo di produzione. Per fare questo dobbiamo anche migliorare la comunicazione.

Per la distribuzione abbiamo ottanta punti vendita in città: supermercati, negozi e anche privati. Usiamo pure Whatsapp per prendere le prenotazioni. Clienti che fanno cerimonie come matrimoni e battesimi ci ordinano i prodotti. Abbiamo anche una strategia di ricerca di nuovi clienti.

Per promuovere la micro imprenditoria, occorre fare un lavoro di fondo con i nostri giovani. Prima di tutto far capire loro l’importanza di essere imprenditori. Chi va a scuola deve sapere che non è detto che qualche azienda lo assumerà.

Poi, nel Sahel, abbiamo un problema di sicurezza. Avere un lavoro è una questione primordiale: chi ha un lavoro non penserà tanto a migrare e neppure a fare il terrorista. Ed essere imprenditore è un’opzione, non semplice, ma percorribile».

Ma.Bel.

Niger, Niamey, micro entrepreise RAM’s transformation, de Ramatou Chaibou.

Il nutrizionista e l’alga miracolosa

Mister spirulina

Laureato in biochimica e nutrizione e studente di dottorato, Amadou crea prodotti altamente nutritivi per grandi e piccoli. Si basano sulla spirulina, alga che coltiva lui stesso. La sua micro impresa è appoggiata dall’incubatore dell’Università.

Lasciamo il centro di Niamey e inforchiamo il ponte Kennedy, immersi in un traffico di motorini e auto scarburate. Questo ponte fu il primo a collegare le due sponde del fiume Niger nella capitale nel 1970, ed è stato poi seguito da altri due, realizzati con fondi e da imprese cinesi. L’ultimo di questi, chiamato ponte Generale Seyni Kountché, già capo di stato, è stato inaugurato due anni fa.

Sulla sponda destra del fiume si è sviluppata l’Università Abdou Moumouni, ed è lì che ci stiamo dirigendo.

Da alcuni anni è stato creato il Centre incubateur, ovvero un incubatore di microimprese. Il suo motto è «Per l’accompagnamento efficace alla creazione e allo sviluppo di imprese innovative in Niger». Il centro offre servizi a giovani universitari talentuosi che si lanciano nel mondo dell’impresa. Fornisce uno spazio per lavorare con uffici e sale riunioni, una sala computer, formazioni in gestione d’impresa, contabilità e molto altro. Organizza fiere per le imprese innovative.

Qui incontriamo un giovane vestito con una lunga tunica bianca, alla nigerina. È Amadou Abdoul
Razak, 31 anni, laureato in biochimica, con un master in nutrizione e studente di dottorato sullo stesso tema. Amadou, con l’aiuto dell’incubatore, ha fondato la Nutrisev+ una micro impresa che produce integratori alimentari.

Ci porta in un campo vicino, dove un recinto racchiude alberi e arbusti cresciuti su un suolo arido. Qui ci mostra il suo tesoro: una grande vasca di cemento, protetta da un telo dal forte sole saheliano. L’acqua non è limpida, ma verdastra. Amadou ne preleva un po’ con una paletta e vediamo in dettaglio una schiuma verde. Sono alghe: è la famosa spirulina, dalle proprietà sorprendenti.

Un prodotto speciale

«Quest’alga è molto ricca di ferro. Fa molto bene a persone anemiche o con emoglobinopatia. Grazie alle mie ricerche ho sviluppato anche un altro prodotto, oltre alla polvere di spirulina essicata. Si tratta di una farina nutrizionale per bambini da 6 mesi a 5 anni, sia per bimbi malnutriti che per lo svezzamento. È composta da spirulina, mais, soia, e altri elementi nutritivi».

Da queste ricerche è nata appunto Nutrisev+, che produce farine pediatriche e prodotti terapeutici come integratori per donne incinte e per bambini. Ma anche per gli sportivi o chi ha carenze di ferro, vitamine o elementi nutritivi in genere.

Amadou si racconta: «Facevo pratica negli ospedali e nei centri nutrizionali, e ho potuto constatare che i prodotti utilizzati normalmente non raggiungono l’obiettivo del recupero nutrizionale. Da qui l’idea di trovare qualcosa che la gente possa utilizzare senza problemi, e di creare una  farina di svezzamento. Era il 2019. Volevo valorizzare il risultato dei miei studi di master in nutrizione. Ho formulato una farina, e l’ho messa a disposizione di alcuni bambini malnutriti all’ospedale, e ha dato dei risultati molto interessanti».

Incubato

Così Amadou ha presentato un progetto d’impresa all’incubatore dell’università, e il suo progetto è stato selezionato tra molti altri. Così viene «incubato»: ha uno spazio per lavorare e riceve formazione per imparare a fare il piano d’affari, i piani strategico di marketing, relazionale e commerciale, lo studio di mercato, su come affrontare il pubblico selezionato per il prodotto e avere feed back sullo stesso.

«Vogliamo valorizzare ancora di più la spirulina producendo delle compresse, per permettere alle persone che non possono usare la farina di assumerla comunque.

Abbiamo fatto lo studio di mercato, il business plan dell’impresa e identificato i prezzi per i prodotti. Oggi siamo in tre a lavorarci, ma in futuro dovremmo essere di più. Penso a operatori per le macchine di essiccazione, un contabile, un guardiano, e alcuni ambulanti che vadano a distribuire il prodotto. Vorremmo, inoltre, mettere chioschi di vendita nei comuni, e creare dei punti di distribuzione nei dispensari e nelle farmacie. Faremo una campagna di sensibilizzazione nutrizionale, per far conoscere questi prodotti. Apriremo un ufficio in centro, lasciando dunque l’incubatore».

Intanto Amadou ci ha condotti in un piccolo stabile dove la spirulina e gli altri prodotti vengono lavorati e dove si realizzano le miscele di farine. Ci mostra alcuni imballaggi, dicendo che sono dimostrativi e che stanno studiando, con una ditta specializzata, quali contenitori utilizzare per il mercato.

Perseverare

Passare dalla ricerca all’impresa è complesso: «Non è facile valorizzare i propri studi. Quando proponiamo la nostra idea a qualcuno, questo inizia a dire che è troppo complicato, non può funzionare, ti servono tutte queste macchine, non hai tutti questi mezzi. Insomma, cercano di distruggere la tua idea. È una prima difficoltà. Alcuni vogliono rubarti il sogno usando parole che ti scoraggiano. Non bisogna lasciarsi abbattere, bisogna perseverare».

E ai giovani nigerini che vedono il loro futuro altrove, Amadou dice: «Tutti i paesi che si sono sviluppati, lo hanno fatto grazie alla gioventù. Il sapere che i giovani hanno acquisito lo hanno materializzato nei loro paesi. Oggi, in Niger, molti studenti finiscono gli studi e hanno il diploma, ma vanno a cercare il lavoro altrove. Lo stato non riesce più a impiegarli, come neppure le imprese e le Ong. Allora perché non valorizzare il loro sapere, producendo qualcosa che si tocca con mano e va a profitto loro e della popolazione?».

Marco Bello

Niger, Niamey, micro entrepreise RAM’s transformation, de Ramatou Chaibou.

Passata «made in Niger»

«M i chiamo Ramatou Chaibou, sono nata a Niamey nel 1996 e sono la promotrice di Ram’s agrobusiness, un’impresa di trasformazione agroalimentare. La Ram’s trasforma prodotti orticoli con metodi naturali, in particolare la cipolla in polvere e purea, e il pomodoro fresco in passata e polvere.

L’idea è nata dalla constatazione che in Niger si consuma molta cipolla, e si coltiva una varietà particolarmente rinomata, la Violet de Galmi. Quando è tempo di raccolta, il prodotto invade il mercato e i prezzi sono di circa 6mila franchi al sacco (9 euro, ndr). Passato il periodo, le cipolle iniziano a scarseggiare, e quelle che si trovano arrivano a costare fino a 16mila franchi il sacco (24 euro, ndr). Per la gente comune diventa proibitivo continuare e consumare cipolla. La trasformazione ci permette di avere questo prodotto tutto l’anno a prezzi ragionevoli.

Niger, Niamey, micro entrepreise RAM’s transformation, de Ramatou Chaibou.

Ho avuto l’idea nel 2016, quando ero al primo anno di università. Così ho partecipato a formazioni sulla gestione d’impresa, fornite dalla camera di commercio e varie associazioni. Volevo darmi degli strumenti. Devo dire, inoltre, che fin dal liceo ho gestito piccole attività commerciali. Cucinavo cavallette e le vendevo, insieme a caramelle, biscotti, sigarette.

Nel 2020 sono riuscita a iscrivermi all’incubatore dell’università di Niamey. Qui ci hanno messo a disposizione dei mentori, persone esperte. E la mia è stata Esther Godo (vedi pag. 41).

Intanto, studiavo gestione commerciale e poi ho affrontato un master in gestione dei progetti, con l’ambizione di avere le competenze necessarie per gestire una grande impresa.

Adesso siamo tre: io, la mia assistente, e mio marito che ci dà una mano nell’uso delle macchine. Non vogliamo indugiare troppo sull’aspetto start up ma, in due o tre anni, vorremmo crescere e tessere dei partenariati con grandi strutture di distribuzione, sia a Niamey, sia in altre regioni, e magari in città dei paesi confinanti.

Ma occorre fare degli investimenti. Ci servono attrezzature di trasformazione per aumentare le quantità, avere un punto vendita in centro città, per mostrare e vendere i prodotti e, inoltre, ci serve un mezzo di trasporto per approvvigionamento e distribuzione.

Al momento non abbiamo diffusione nei grandi supermercati. Sono io che porto i prodotti negli uffici e nelle case dei nostri clienti e una parte nei negozi di quartiere.

Devo dire che abbiamo un’attenzione particolare verso i clienti. Chi prova i nostri prodotti riceve un messaggio per sapere se sono di loro gradimento, commentare e dare suggerimenti per migliorare. Stiamo ricevendo apprezzamenti sulla nostra qualità.

Vorrei ricordare ai giovani che la prima cosa è credere in se stessi, in quello che si vuole fare ed essere molto motivati. Perché fare impresa è qualcosa che richiede tanta perseveranza, pazienza e motivazione. Se si hanno queste tre cose, si può riuscire, non si ha bisogno di cercare fortuna altrove».

Ma.Bel.

Niger, Niamey, micro entreprise Sonix automobile de Abdoul-Razak Halidou Moussa.

Il genio dell’automobile

«Sono Abdoul Razak Halidou. Ho studiato ingegneria elettromeccanica a Niamey e, fin da bambino, sono appassionato di automobili. Ho lavorato un po’ nell’energia solare, ma poi ho preferito seguire la mia passione. Ho capito che sarebbe stato necessario andare a fare pratica da un vero meccanico. Qui la meccanica dell’auto si impara sul campo, con un riparatore esperto. Non si studia a scuola.

Ma le auto di oggi hanno anche molta elettronica. Con le mie conoscenze ho capito cosa occorreva sviluppare per migliorare il lavoro, perché a volte i meccanici non riescono a identificare il guasto e cambiano i pezzi un po’ a caso.

Ho anche capito che dovevo formarmi ancora, assumere altre competenze, per poi creare qualcosa di solido. Così ho continuato a seguire corsi di formazione specialistici.

Mi sono associato con un meccanico e abbiamo creato la Sonix, Société nigeriénne d’expertise automobile. Il nostro motto è: «Il genio dell’automobile», una frase che deve incuriosire e attrarre il cliente.

Io verifico il motore con uno strumento collegato a una App del telefono, faccio il diagnostico, indico con esattezza il problema e poi il meccanico lo ripara. Non andiamo più a caso. Inoltre faccio la riprogrammazione delle centraline e altri interventi sulla parte elettronica.

In programma c’è l’acquisto di un apparecchio diagnostico completo e altra strumentazione per migliorare ancora. Adesso non ho abbastanza strumenti per soddisfare tutte le richieste.

Il mio sogno è che tra cinque anni Sonix sia presente in tutto il paese, e poi voglio separare l’area della meccanica da quella dell’elettronica, perché hanno esigenze diverse, di spazio e di pulizia.

Usiamo la comunicazione su Facebook e gruppi Whatsapp per promuoverci. Senza dimenticare il passaparola dei nostri clienti soddisfatti.

Io sono nigerino di Niamey e ho trent’anni. Con il mio socio abbiamo cominciato nel 2019, e funziona».

Ma.Bel.

Niger, Niamey, micro entreprise Sonix automobile de Abdoul-Razak Halidou Moussa.


Ha firmato il dossier:

Marco Bello, Giornalista redazione MC.

Archivio MC sul Niger:
Marco Bello, Africa «coast to coast», aprile 2019.
M. Bello, Siamo in un mondo al contrario, maggio 2019.
M. Bello, Ci legavano con corde e catene, aprile 2018.
M. Bello, Niger, frontiera d’Europa, marzo 2018.

Si ringraziano:
Filippo Acasto e Issa Yacouba dell’équipe Cisv Niger, Giada Martin raccolta fondi e comunicazione Cisv, e tutti i giovani imprenditori e imprenditrici nigerini che ci hanno dedicato il loro tempo.

Il progetto:
Le microimprese presentate in questo dossier sono sostenute dal progetto «Obiettivo lavoro», realizzato dalle Ong Cisv e Africa70, con il supporto del ministero dell’Interno italiano. www.cisvto.org

Niger, Niamey, fromagerie A’masi, de Ami Issoufou Bickou

 

 




Brasile. La riscossa delle donne


Sonia, Anielle, Margareth, Marina. Il governo del neo presidente Lula pensa ai popoli indigeni e scommette sulle donne.

Marina Da Silva, ministra dell’ambiente del nuovo Governo Lula. Foto José Cruz – Agência Brasil.

Indigene e afrodiscendenti, ex faveladas e seringueiras: le donne dei ministeri chiave del nuovo governo del presidente Lula provengono dalle periferie geografiche e simboliche, militano nel movimento indigeno, femminista e ambientalista e avranno il compito di rivoluzionare la politica per costruire un paese veramente plurale. I nomi erano stati annunciati già lo scorso dicembre. Tuttavia, assistere alle cerimonie di insediamento di Marina Silva al ministero per l’Ambiente e il contrasto al Cambiamento climatico, di Margareth Menezes al rinato ministero della Cultura e, soprattutto, di Anielle Franco e Sonia Guajajara ai nuovi ministeri dell’Uguaglianza etnica e dei Popoli indigeni, è stato motivo di euforia e rinnovata speranza.

Sonia Guajajara

Sonia Guajajara. Foto Valter Campanato/Agência Brasil/EBC

Sonia è nata nella terra indigena Arariboia, nel Maranhão, uno stato che, pur conservando solo il 20% di foresta primaria, è abitato da una decina di popoli indigeni, compresi alcuni gruppi isolati del popolo Awa Guajà. Dal 2013 è stata coordinatrice dell’Apib, che riunisce le principali organizzazioni indigene del paese, e nel 2018 è stata candidata per il Psol (socialismo e libertà) a vicepresidente della repubblica. Presentatasi alle recenti elezioni, è stata eletta deputata federale per lo stato di San Paolo, incarico a cui ha rinunciato per diventare ministra. Ha aperto la cerimonia del suo insediamento scuotendo un maracà, quasi a voler adunare non solo i presenti ma anche gli spiriti degli antenati. In quello che ha descritto come un momento emblematico della storia del Brasile, davanti a un pubblico composto anche da diversi leader indigeni, ha dichiarato: «Il mio insediamento e quello della ministra per l’Uguaglianza etnica, sono il simbolo della resistenza secolare nera e indigena».

Ricordando i doni ricevuti ancora adolescente dalla zia, una collana e il maracà, e soprattutto il «potere della parola», ha aggiunto: «Oggi non sono qui da sola ma accompagnata dalla forza della nostra ancestralità. La società fa una lettura totalmente distorta della realtà dei popoli indigeni: o ci idealizzano o ci demonizzano. Al contrario di come ci ritraggono i libri di storia, noi esistiamo in forme molto diverse: siamo nelle città, nei villaggi, esercitando i mestieri più vari; viviamo nel vostro stesso tempo e spazio, siamo contemporanei di questo presente e costruiremo il Brasile del futuro, perché il futuro del pianeta è ancestrale».

Joenia Wapishana

L’attivista indigena Celia Xacriabà, eletta al Congresso brasiliano. Foto Raquel Aviani – Secom UnB.

Joenia Wapishana. Foto Valter Campanato – Agência Brasil.

Oltre a un ministero e due seggi in parlamento (anche Celia Xacriabà è stata eletta per lo stato di Minas Gerais), il movimento delle donne indigene ha ottenuto anche un’altra vittoria. Joenia Wapishana è stata eletta presidente della Funai: per la prima volta una rappresentante dei popoli indigeni a guidare l’organo responsabile della loro protezione (*). Ancora un primato per l’avvocatessa di Roraima, visto che già era stata la prima donna indigena a entrare in Parlamento nel 2018. Il suo insediamento è stato visto come simbolica «retomada» di un’istituzione che è stata completamente smantellata dal governo precedente.

Queste donne hanno aperto, dunque, la strada per «aldear a politica» (vedi glossario), slogan della loro campagna elettorale, rafforzando il protagonismo indigeno nelle istituzioni e nello scenario politico brasiliano.

D’altronde si tratta di un processo già in atto in altri paesi latinoamericani come il Cile, dove la mapuche Elisa Logon è stata eletta a capo dell’Assemblea costituente, e la Bolivia, che ha affidato a una donna quechua, Sabina Orellana, il ministero per la Cultura, la decolonizzazione e la depatriarcalizzazione, a dimostrazione del fatto che le rivendicazioni per una maggiore presenza indigena nella politica vanno di pari passo con quelle per l’emancipazione delle donne dal dominio maschile.

Anielle Franco

Anielle Franco, ministra per l’Uguaglianza etnica. Foto Valter Campanato – Agência Brasil.

Contemporaneamente all’affermazione delle donne indigene, dai villaggi alla scena nazionale, giovani donne nere faveladas assumono la leadership di associazioni e collettivi per contrastare la violenza (domestica, di genere, della polizia) che affligge le proprie comunità. Nel 2016, una rappresentanza di queste lanciava il movimento «Occupare la politica», eleggendo diverse deputate a livello municipale, statale e federale.

La nuova ministra per l’Uguaglianza etnica, Anielle Franco, sorella di Marielle (la consigliera comunale carioca impegnata nella difesa dei diritti delle donne nere, del movimento omosessuale – in sigla, Lgbtqiap+ – e delle persone che vivono nelle periferie, barbaramente uccisa il 14 marzo 2018), condivide con le donne di questo movimento la stessa origine, essendo nata e cresciuta nella Marè (una
favela di Rio de

Janeiro) e gli stessi obiettivi: abbattere i privilegi dell’élite bianca e garantire l’accesso universale ai servizi di base ai segmenti della popolazione più svantaggiati ed emarginati.

Anielle ha promesso di portare avanti la sua battaglia per porre fine allo stato di guerra nelle favelas e nelle periferie, alle incarcerazioni di massa e agli abusi della polizia, parte del progetto genocida nei confronti della popolazione nera. Nel suo discorso le parole ricorrenti sono state: «unità e ricostruzione», ma anche «riparazione e memoria», perché «solo ripagando i debiti del passato e restituendo dignità a coloro che hanno resistito a secoli di violenza di stato, si potrà costruire il Brasile del futuro».

La ricostruzione del paese è possibile soltanto se si riconoscono e riscattano le radici ancestrali. Per questo, in un passaggio toccante, anche Anielle ha rivolto una richiesta a tutto il popolo brasiliano: «Camminate con noi finché il nostro popolo non sarà veramente libero, protagonista della propria traiettoria accedendo a diritti, dignità e ad una vita piena. Camminate con noi finché i sogni dei nostri antenati non diventino realtà».

Silvia Zaccaria

(*) Mentre scriviamo, il mondo pare essersi accorto del genocidio degli Yanomami, di cui MC si è sempre occupata. Ci torneremo prossimamente.


 Incontro con Sydney Possuelo

Il sertanista Sydney Possuelo con un indigeno Akuntsu di Rondonia. Foto archivio Sydney Possuelo.

Anche gli indigeni sono uomini

Sydney Possuelo, esperto di indios isolati («sertanista», nel gergo tecnico), è stato presidente della Fondazione nazionale per l’indio (Funai) e direttore del Dipartimento per gli indios isolati, da lui creato nel 1987. Durante il periodo di permanenza alla guida dell’organo indigenista, è stata riconosciuta l’area indigena degli Yanomami (1992).

Per le operazioni di delimitazione fisica del territorio e il coordinamento delle operazioni di espulsione dei cercatori d’oro (i garimpeiros), il sertanista aveva scelto la Missione Catrimani dei missionari della Consolata come uno dei suoi centri operativi. In quell’occasione, padre Silviano Sabatini ebbe modo di conoscerlo e apprezzare il suo operato, benché – fino ad allora – i rapporti dei missionari della Consolata con la Funai fossero sempre stati difficili.

Per il suo impegno a favore dei popoli indigeni, Possuelo ha ricevuto numerosi riconoscimenti. Tra questi, la medaglia al Merito indigenista che ha deciso di restituire nell’aprile scorso, perché la stessa onorificenza era stata conferita a Bolsonaro e ai suoi ministri.

Sydney, qual è oggi lo stato di salute dei popoli indigeni in Brasile?

«La situazione dei popoli indigeni del Brasile non è mai stata esaltante, ma con l’amministrazione Bolsonaro è drammaticamente peggiorata sul piano sanitario, della sostenibilità economica e ambientale e del diritto alla terra.

L’ex presidente ha presentato in parlamento proposte di legge [dalla 191/2020 che prevede la legalizzazione dello sfruttamento minerario nelle terre indigene, al vecchio progetto 490/2007 conosciuto anche come “Marco temporal” che altererebbe i criteri per il loro riconoscimento, ostacolando l’espansione delle terre già delimitate] che, se fosse stato rieletto, avrebbero determinato un ulteriore arretramento dei loro diritti».

Bolsonaro è stato sconfiitto. Pensi che ci saranno dei cambiamenti con Lula al governo?

«Viste le premesse – creazione di un ministero dei popoli indigeni; leadership indigena della Funai; ripristino del Fondo per l’Amazzonia – ritengo che Lula possa determinare un cambiamento di rotta non solo per la questione indigena, ma anche per quella ambientale, perché non possiamo parlare dei popoli indigeni senza parlare di ambiente, da cui questi popoli dipendono.

Sotto il governo Bolsonaro abbiamo assistito a una devastazione senza precedenti e a una nuova invasione delle terre indigene, da parte di madeireiros, garimpeiros, cacciatori e pescatori di frodo, fazendeiros e grileiros.

Per citare il caso più eclatante, quello della Terra indigena Yanomami, a dicembre 2022 si stimavano più di 20mila cercatori d’oro nell’area, quando all’epoca della demarcazione [nei primi anni Novanta] eravamo riusciti a espellere tutti i 40mila garimpeiros presenti al suo interno. Tra le priorità del suo governo, Lula dovrà, dunque, contrastare questo fenomeno».

La società brasiliana come percepisce l’indigeno?

«Storicamente, l’indio è stato sempre visto in modo negativo dai governi e dalla società nazionale, a eccezione di una piccola fetta di intellettuali, scrittori, giornalisti e antropologi.

La maggior parte della popolazione brasiliana continua, però, a essergli ostile, considerando gli indigeni come subumani [gli “animali da giardino zoologico” dell’ex capo dello stato] o comunque reietti della società, alla stregua dei gruppi emarginati delle città, oppure, nella migliore delle ipotesi, come attrazione da manifestazione folcloristica o da festival tribale. Addirittura, i caboclosribeirinhos che condividono lo stesso ambiente e la stessa origine – sono nemici dei popoli indigeni».

Qualche mese fa ha fatto il giro del mondo la notizia della morte (agosto 2022) del cosiddetto «indio del buco» (indio do buraco, ndr) definito dai media «l’uomo più solo al mondo», per aver vissuto per almeno 26 anni isolato in un’area di foresta dello stato di Rondônia. Cosa hai provato alla notizia della sua morte?

«Nella regione del Tanarù (nome dell’area interdetta, ndr) è operativa una delle sei “frentes de Proteção etnoambiental” che io stesso ho creato in Amazzonia, quando ho fondato il Dipartimento per la protezione degli indios isolati. Da allora questo “fronte” si occupa di monitorare due gruppi indigeni, oltre all’“indio del buco”.

Negli anni abbiamo provato a comunicare con lui, ma non parlava. E non abbiamo mai saputo se non parlava perché non voleva o perché non sapeva parlare. Abbiamo anche provato ad avvicinarci a lui e abbiamo trovato diverse capanne di paglia di forma triangolare con una buca di circa due metri al centro. Non sappiamo perché scavasse quelle buche, se per proteggersi o per catturare animali.

Quando è morto sono usciti vari articoli ma si tratta di speculazioni, perché non sappiamo se fosse effettivamente l’ultimo membro di un gruppo indigeno o se sia stato abbandonato nella foresta ancora bambino. Storie come questa sono peculiari di luoghi distanti e inaccessibili come l’Amazzonia, ed è naturale che restino avvolte in un alone di mistero, vista la sua impenetrabilità e la difficoltà a ricostruire i contorni reali degli eventi che in essa si verificano».

Cosa ha rappresentato la Funai sotto Bolsonaro?

«La Funai è stata militarizzata e svuotata di risorse economiche e umane. Portando avanti la politica apertamente anti-indigena del governo, tanto da essere definita, con un rimaneggiamento sarcastico dell’acronimo, un’“anti Funai” (Fundação anti indìgena, ndr), ha tradito il proprio mandato, cioè quello di identificare e delimitare le terre e proteggere i popoli indigeni.

La maggior parte dei sertanistas e degli antropologi della vecchia guardia, con l’ascesa di Bolsonaro sono stati rimossi e sostituiti da missionari evangelici e militari, di certo non fedeli al motto del generale Rondon, padre dell’indigenismo: “Morire se necessario, uccidere mai”.

Qualcuno è stato vittima di atti disciplinari e altri, come Bruno Pereira (indigenista assassinato nel giugno 2022, ndr), ha pagato con la vita il proprio impegno per la causa indigena».

Quale messaggio vorresti mandare al presidente Lula?

«Vorrei chiedergli innanzitutto di riprendere il processo di riconoscimento delle terre indigene che è stato vergognosamente paralizzato durante il governo Bolsonaro – che aveva tra i propri slogan “neanche un centimetro in più di terra per gli indigeni” – e di tutelare la volontà dei popoli indigeni in isolamento di non essere contattati.

Ciò può essere realizzato soltanto restituendo dignità alla Funai, dotandola cioè delle risorse umane e finanziare necessarie per onorare il proprio mandato.

La creazione di un ministero dei popoli indigeni, diretto da un rappresentante, per giunta una donna, di quei popoli, è un atto senza precedenti ma, come qualsiasi ministero, può essere abolito dai successori. La Funai, invece, è un organo creato per legge, quindi più solida e duratura in quanto, per abolirla, sarebbe necessario passare per il parlamento».

Si.Za.


Glossario

  • Aldear: «indigenizzare» la politica, rendendola meno dominata dai «bianchi».
  • Caboclos ribeirinhos: popolazione tradizionale che abita lungo i fiumi amazzonici derivante dall’incrocio tra discendenti di popoli indigeni, «bianchi» (soprattutto nordestini) e afrodiscendenti.
  • Grileiros: speculatori fondiari.
  • Madeireiros: commercianti di legname.
  • Faveladas: donne residenti in comunità spesso prive dei servizi di base.
  • Frentes de proteção etnoambiental: équipe specializzate nella protezione etnoambientale, composte da conoscitori della zona (mateiros) e esperti in tecniche di contatto (sertanistas) che hanno il compito di localizzare i popoli indigeni isolati e di recente contatto, di monitorarne gli spostamenti e le condizioni di salute e vigilare sulle aree da questi abitate.
  • Remotada: riconquista non violenta, da parte degli indigeni, di un territorio tradizionale.
  • Seringueiras: lavoratrici rurali dedite all’agroestrattivismo, in particolare all’estrazione del lattice dall’Hevea brasiliensis, l’albero della gomma.

Si.Za.




Castità, via di pace

L’8 marzo è la «Giornata internazionale dei diritti della donna», conosciuta più semplicemente come «Festa della donna». È una giornata che, al di là del tanto parlarne che se ne fa in questi giorni, richiede una seria riflessione da parte di tutti, uomini e donne, chiamati a compiere assieme un cambiamento di mentalità.

Quanti fatti sono davanti ai nostri occhi: lo stupro usato come arma di guerra in Ucraina, ma non solo; i jihadisti di varie tendenze che, nell’Africa subsahariana, rapiscono donne e bambine per usarle come schiave, emulati in questo dai miliziani che razziano il Nord Est della Rd Congo; la mutilazione genitale femminile, che in diverse regioni a influenza islamica prende la forma estrema di infibulazione; la pratica delle nascite selettive, per cui le bambine vengono soppresse. Aggiungi la tratta di persone che coinvolge soprattutto giovani donne e bambine sia per la prostituzione su strada che per il lavoro schiavo. Senza dimenticare la brutalità della repressione in Iran, dove in nome di Dio (che bestemmia!) giovani donne vengono torturate, abusate, stuprate e uccise proprio da chi si proclama difensore della religione e della famiglia; mentre in Afghanistan le donne sono imprigionate dentro il burqa e private di libertà, di diritti e di educazione, anche qui in nome di Dio (ma quale Dio?).

Se quelle citate sopra possono sembrare (ma non lo sono) vicende lontane, anche guardando più vicino a noi, in Europa, troviamo molto da lavorare: dalla pedopornografia online che domanda efferatezze e violenze sempre più estreme, ai 120 femminicidi avvenuti in Italia nel 2022 più i cinque che hanno già marcato lo scorso gennaio; dalle discriminazioni nelle carriere e nei salari ai licenziamenti o penalizzazione sul lavoro delle donne incinte.

Smetto di elencare, e vengo al punto. Una lettura onesta di questa situazione deve essere per tutti, donne e uomini (in particolare), un pugno nello stomaco che provochi una vera revisione di tutto il nostro modo di essere, di pensare e di agire. E non solo: deve mettere in discussione le idee che abbiamo circa l’identità maschile e quella femminile, la posizione nel mondo che ciascuna delle due ha, e le diverse e specifiche modalità di relazionarsi con l’altro, con la natura e con Dio. A maggior ragione questo deve farlo chi si dice credente, perché proprio nella Parola di Dio trova i criteri per essere uomo e donna in modo nuovo. È nella Scrittura che chi si dice cristiano trova quelle linee guida fondamentali di castità che dovrebbero essere alla base di tutte le relazioni.

Qualcuno si potrebbe domandare: cosa c’entra la castità ora? Mica possiamo vivere tutti come frati o suore? C’entra, perché la castità non è solo astensione dal sesso, è qualcosa di diverso e molto più profondo. Ricordo sempre quando il nostro professore di Bibbia, arrivato al testo di Matteo 5,28: «chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel proprio cuore», lo ha parafrasato dicendo «smettetela di guardare le donne solo come un oggetto». Di fatto essere casti non è semplicemente non fare sesso, ma è vivere in modo nuovo le relazioni mettendo al centro il rispetto, l’amore che non mercifica, la ricerca del vero bene dell’altra/o, e la promozione della sua dignità e libertà.

Castità indica certo un mondo di relazioni dove la sessualità ha il suo ruolo importante per esprimere la donazione totale che due persone si fanno a vicenda, unendosi in un progetto di vita, ma esprime anzitutto un rapporto dove si mette al centro la libertà, la gratuità e il benessere dell’altra/o. La castità è il contrario di ogni atteggiamento padronale, è contestazione di ogni possesso o dominio. Nella castità la relazione è dono, non diritto o imposizione. Questo tipo di relazione non si applica solo tra due persone fidanzate o sposate, ma diventa l’anima del vivere insieme, delle relazioni interpersonali, dei rapporti di lavoro, del modo in cui si guarda la tv, si naviga il web, si vedono le persone attorno a noi.

Di questi tempi la castità non ha molta cittadinanza nella nostra cultura, schiacciata com’è dal fraintendimento di un altro grande dono che abbiamo tutti ricevuto: la libertà. Se la libertà, infatti, è solo «libertà da» ogni costrizione e legame, e «libertà di» fare tutto ciò che si vuole perché ci si percepisce come padroni assoluti della propria vita, la relazione intesa come dono perde la sua attrattiva. Castità invece si coniuga con «libertà per» amare con gratuità e rispetto, diventando così un grande cammino per costruire davvero un’umanità nuova, libera, inclusiva, dove ogni persona possa realizzare la propria vocazione e vivere in pace in un mondo amato, curato e rispettato.

Sì, allora castità diventa vera via alla pace.




«Talitha, kum» – «Fanciulla, alzati»


Sommario

Una rete mondiale che lotta contro la tratta di persone

Per un mondo senza tratta

Il traffico di esseri umani è un crimine grave, molto diffuso nel mondo, a tutte le latitudini. Nel 2009 diverse realtà in lotta contro questo flagello si sono unite dando vita a una rete globale. Pubblichiamo in questo dossier un’intervista esclusiva alla sua coordinatrice internazionale e riportiamo alcuni estratti dell’ultimo rapporto che presenta attività e risultati raggiunti dalla rete.

La «tratta di esseri umani» è il processo tramite il quale una persona viene obbligata o allettata da false prospettive, impiegata o trasferita in un altro luogo e costretta a lavorare e vivere in condizioni di sfruttamento e di abuso.

I trafficanti hanno come bersaglio le persone che vivono in contesti di vulnerabilità. Sfruttano il fatto che queste desiderino una vita migliore e che vogliano potenziare la propria situazione finanziaria, sviluppare le proprie abilità e talenti o, più semplicemente, trovare un ambiente in cui vivere in sicurezza.

Le vittime della tratta possono essere costrette a sfruttamento sessuale, a contrarre matrimoni forzati o precoci (persino in età infantile) o a lavorare in condizioni sottopagate, per esempio nei settori dell’assistenza domestica, dell’agricoltura, dell’ospitalità, dell’industria mineraria o della manifattura. Le persone vengono sfruttate contro la loro volontà, sono limitate nella libertà e subiscono un potere che viene esercitato su di loro attraverso minacce, violenza e punizioni. La tratta di persone toglie alle vittime la dignità, il diritto di disporre della propria vita e di vivere in sicurezza e libertà.

La tratta di persone miete milioni di vittime, ovunque. Esse non rientrano tutte in un unico profilo. Tuttavia, le diseguaglianze economiche, sociali, familiari, culturali e religiose rendono donne e bambine particolarmente vulnerabili. Le Nazioni Unite riferiscono che oltre il 72% delle persone individuate come vittime di tratta sono donne e bambine. A livello globale una vittima ogni tre identificate non ha ancora compiuto i 18 anni.

Il traffico di persone è un’attività illegale ad alto rendimento: 150,2 miliardi di dollari sono i profitti annuali derivanti dalla tratta nel mondo, di cui due terzi dallo sfruttamento sessuale. 34.800 dollari sono i profitti annuali per ogni vittima di tratta nelle economie avanzate, 15.000 dollari nel Medio Oriente, 7.500 in America Latina e Caraibi, 5.000 nell’Asia e Pacifico, 3.900 in Africa. Il 50% dei lavoratori sfruttati svolge un lavoro forzato a risarcimento di un debito (Profits and poverty: the economics of forced labour, International Labour Organization, 2014).

Cos’è Talitha Kum

«Talitha Kum. Fanciulla, io ti dico: alzati!».

Gesù rivolse queste parole alla figlia di Giairo, una ragazza di 12 anni che giaceva apparentemente morta. Quando Gesù le prese la mano, lei subito si alzò, cominciando a camminare.

Queste due parole trasmettono un messaggio forte e sono state scelte come nome per Talitha Kum, la «Rete internazionale contro la tratta di esseri umani».

Queste parole invitano le reti che fanno parte di Talitha Kum ad alzarsi con coraggio e speranza, rimanendo accanto alle vittime e ai sopravvissuti alla tratta di persone, che tendono le mani verso di noi e a promuovere un mondo più giusto in cui ogni essere umano possa vivere in dignità e pienezza, realizzando così il messaggio di Cristo: «Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza» (Gv. 10,10).

Formalmente fondata nel 2009 presso l’Unione internazionale delle superiore generali degli isituti religiosi femminili (Uisg) come iniziativa contro la tratta di esseri umani e lo sfruttamento, Talitha Kum promuove la collaborazione tra reti organizzate a livello nazionale, regionale e continentale, sostenendo attivamente le vittime, i sopravvissuti e le persone a rischio.

Ogni rete di Talitha Kum mantiene la sua identità unica e opera all’interno del proprio paese o regione, mentre il Coordinamento internazionale presso la Uisg sostiene lo sviluppo delle competenze e la formazione delle reti e dei membri, facilitando la condivisione di informazioni, risorse ed esperienze.

La forza di Talitha Kum

La forza della rete Talitha Kum risiede nell’impegno della sua base attraverso una strategia bottom-up (dal basso verso l’alto) e nella sua impostazione incentrata sulla persona e sulla comunità, che garantisce la vicinanza alle vittime e ai sopravvissuti alla tratta, alle loro famiglie e a coloro che sono a rischio di sfruttamento.

La tratta di persone è un fenomeno complesso e multidimensionale che ferisce decine di milioni di individui e l’intera società umana. La parola «Talitha Kum» è un invito rivolto a tutti ad alzarsi in piedi per contrastare con la nostra voce, le nostre azioni, le scelte quotidiane e le nostre vite tutto ciò che promuove e sostiene la tratta di persone, denunciando l’arroganza e la violenza del potere economico finanziario quando agisce contro la dignità della persona.

In una relazione tra pari, camminiamo insieme alle vittime lungo il percorso di guarigione mentre queste ultime riacquistano una profonda consapevolezza del proprio valore interiore come individui e membri delle loro famiglie e comunità.

In questo modo, Talitha Kum affronta le cause sistemiche che espongono le persone al rischio di cadere nelle mani delle reti della tratta, coinvolgendo le famiglie e le comunità locali, insieme ai principali stakeholder (attori, ndr) sia a livello nazionale che internazionale.

In linea con tale approccio, chi aderisce ai valori di Talitha Kum si impegna a farsi prossimo di coloro che soffrono le serie conseguenze della tratta di persone, donne, bambini, uomini e le loro famiglie. Le azioni di Talitha Kum sono rivolte a tutti coloro che sono deturpati della dignità e privati della libertà, indipendentemente dal loro stile di vita, etnia, religione, condizioni economiche o orientamento sessuale. I membri di Talitha Kum riconoscono e testimoniano i valori cristiani, in dialogo e nel rispetto delle diverse tradizioni religiose e di chi non crede.

La missione di Talitha Kum è porre fine alla tratta di esseri umani e allo sfruttamento attraverso iniziative di collaborazione incentrate su prevenzione, protezione, reinserimento sociale e riabilitazione dei sopravvissuti, partenariato e difesa, promuovendo azioni che incidono sulle cause sistemiche.

rete Talitha Kum

Incontro con suor Abby, coordinatrice internazionale

Puntare sulla prevenzione

Filippina, missionaria in Giappone, dove contribuisce a fondare la rete Talitha Kum Japan, per poi diventare referente per l’intera Asia. Da settembre è coordinatrice internazionale. Le sfide sono numerose, perché la tratta di esseri umani è in espansione, ma anche Talitha Kum sta aumentando il numero di reti associate e di paesi in cui opera. Suor Abby Avelino ci racconta come funziona.

Dal settembre scorso, Talitha Kum ha una nuova coordinatrice internazionale. Si tratta di suor Abby Avelino, che succede alla comboniana suor Gabriella Bottani, coordinatrice per quasi otto anni.

Di origini filippine, è migrata con la sua famiglia negli Stati Uniti. Qui è diventata ingegnere meccanico. Qualcosa è poi maturato in lei fino a farle comprendere il suo desiderio di mettersi al servizio in ambito sociale. È entrata in contatto con le missionarie Maryknoll e ha iniziato a frequentarle. È quindi entrata nella congregazione nel 2006, ed è stata poi mandata missionaria in Giappone, presso una parrocchia nella quale si è occupata dei migranti asiatici (e non solo). I voti perpetui li ha presi nel 2014.

Nell’ambito del suo servizio, è entrata in contatto con la rete mondiale Talitha Kum e si è adoperata per fondarne la sezione giapponese, nel 2016. Cinque anni dopo è diventata referente regionale per l’Asia, contribuendo allo sviluppo delle reti di Talitha Kum nel continente. Oggi vive a Roma dove coordina la squadra internazionale.

L’abbiamo raggiunta telefonicamente nella sede della capitale, in un momento tra i suoi tanti impegni.

Suor Abby, ci spiega come è organizzata Talitha Kum?

«A Roma c’è il coordinamento internazionale, sotto il cappello dell’Unione internazionale delle superiore generali (Uisg). La nostra squadra è composta da sei persone più la sottoscritta, scelte dalle nostre superiore. Ognuna rappresenta un continente: Africa, Asia, Europa, Oceania, Amerca del Nord e America Latina. Il nostro lavoro consiste nel relazionarci con le reti locali nei continenti che chiamiamo regioni. Il mio ruolo è adesso quello di coordinatrice internazionale, ovvero dirigo questa squadra. Ci sono poi le reti locali che sono a livello della base, dove lavoriamo con i nostri partner, come governi, Ong, e gruppi religiosi.

Nel mio ruolo attuale mi relaziono molto con i nostri partner e collaboratori. Ad esempio, a Roma, con le agenzie internazionali (come quelle dell’Onu, ndr) e con i dicasteri del Vaticano».

Lei ha lavorato molto con la base, in particolare in Giappone.

«Ho iniziato a livello locale, ero membro di Talitha Kum Giappone. Poi ho avuto un doppio ruolo, quando sono stata anche coordinatrice per l’Asia. Seguivo allora 14 reti nazionali in altrettanti paesi (oggi sono 18 contando il Medio Oriente) e facevo parte del comitato di coordinamento.

Io sono originaria delle Filippine, e lavoravo in una parrocchia a Tokyo, con migranti e rifugiati. Molti erano filippini, ma anche indonesiani, thailandesi e di altre nazionalità, e alcuni di paesi africani. Lavoravo in particolare con donne e bambini. Io e le mie consorelle abbiamo saputo di questa organizzazione dalla nostra conferenza delle superiore. Quindi abbiamo iniziato a coordinarci con il contesto asiatico di Talitha Kum, in particolare con la coordinatrice Asia di quel periodo. Quindi abbiamo iniziato formalmente
Talitha Kum Giappone, iniziativa di quattro suore. In Giappone Talitha Kum si focalizza sul lavoro sfruttato (e sottopagato)».

Quali erano i problemi che affrontavate in Giappone?

«Il lavoro con i migranti è vasto, e affronta molte tematiche. Ad esempio, i rifugiati, la violenza domestica e gli abusi, le vittime migranti provenienti da diversi paesi. Abbiamo scoperto un grande fenomeno di traffico in Giappone. È in crescita lo sfruttamento in ambito lavorativo. Sfruttamento sessuale, specialmente per le donne migranti, in particolare dalle Filippine. Anche per questo abbiamo deciso di organizzare una rete Talitha Kum a livello giapponese.

Quindi, inizialmente ci siamo concentrate a fare rete con i paesi di provenienza delle migranti e con il Giappone, che è la principale destinazione migratoria dell’area. Quindi “fare rete” è stato molto importante per noi. Ad esempio, ci siamo connesse con alcune sorelle nelle Filippine, per affrontare insieme il traffico di persone tra quel paese e il Giappone. Lo stesso abbiamo fatto per un canale di traffico dalla Cambogia e dalla Thailandia. Grazie a Talitha Kum è stato più facile per noi metterci in rete e collaborare».

Ci può fare qualche esempio concreto di intervento?

«Avevamo alcune vittime delle Filippine, che è il paese principale di origine del traffico. Il collegamento tra le sorelle nelle Filippine e noi in Giappone ci ha permesso di identificare le vittime e intervenire. Abbiamo verificato chi erano quelle persone, e di cosa avevano bisogno. Siamo state in grado di isolare i trafficanti, e siamo riuscite ad aiutare quelle donne a tornare nelle Filippine con dignità. Erano state ingannate, con la promessa di arrivare in Giappone e avere un lavoro dignitoso, invece sono state sfruttate, sono state messe a lavorare molte ore al giorno, per di più sottopagate. È successo lo stesso anche con delle vietnamite che erano state portate in Giappone con la promessa di un lavoro in una fabbrica della carta, ma in realtà erano state messe in un’industria della pesca, a lavorare con orari eccessivi e paga ridotta. Sono state abusate fisicamente, verbalmente e sfruttate».

Come arrivano i casi di violazioni da voi?

«Molte volte veniamo a conoscenza delle violazioni solo quando sono già in corso. I casi arrivano in modo spontaneo. I nostri gruppi vengono a conoscenza dei casi, oppure le denunce arrivano attraverso una linea telefonica dedicata, o i social media e il sito web. Ma anche le parrocchie, oppure altre Ong con le quali siamo in rete, ci avvisano o mandano i casi. Una volta ricevute le segnalazioni, cerchiamo di prenderci cura delle vittime. Anche per la protezione, offriamo dei luoghi dove stare, assistenza di vario tipo, a seconda dei bisogni della persona, e cerchiamo di fare un accompagnamento psicologico, giuridico o altro a seconda dei bisogni.

Lo stesso metodo lo usiamo in tutti i continenti, declinato nella realtà di ogni paese. La cosa fondamentale è il networking (fare rete, ndr).

Ad esempio, se in un paese c’è una donna immigrata che ha bisogno di supporto psicologico o di protezione, e qualcuno riceve il suo caso (una parrocchia, una Ong, ecc), contatta noi del coordinamento internazionale. Noi ci connettiamo alla nostra rete presente in quel paese per capire chi può appoggiare la donna.

In un altro caso, in Asia, abbiamo ricevuto una segnalazione, ma Talitha Kum non riusciva a intervenire da sola, allora ci siamo connessi con altre organizzazioni che lavorano sul tema della tratta.

Ma oggi puntiamo alla prevenzione, ovvero fare in modo che non succeda che i migranti si trovino in difficoltà e diventino vittime».

 

E per la prevenzione cosa fate?

«Lavoriamo a livello locale per dare informazioni e facciamo campagne di sensibilizzazione, orientate a una migrazione “in sicurezza”.

Intendiamo fornire informazioni di base a chi vuole migrare: ad esempio, quando si arriva in un paese, non è bene dare il proprio passaporto a qualcuno o, quando si firma un contratto, occorre essere sicuri di quello che c’è scritto. Cerchiamo di offrire un’introduzione di base alla lingua, perché per le migranti può essere molto difficile. Spesso non capiscono quello che stanno firmando. Talvolta riusciamo a tradurre i contratti nella loro lingua. Nei paesi di destinazione cerchiamo di connetterle con qualche organizzazione di base o rete, magari cattolica, che possa aiutarle al loro arrivo.

Ma non è facile: per molte di loro non abbiamo informazioni, possiamo averle forse per il 20%».

Che lavoro fate con le vittime?

«Le sopravvissute, che non sono più vittime, le supportiamo in modo da fare loro rielaborare il trauma, poi le accompagniamo cercando di integrarle nella società o nella comunità. Non è facile, ma le seguiamo almeno finché non siano completamente recuperate.

Ci sono molti modi: con interventi psicosociali, aiutandole ad avere una vita sostenibile, facendo loro formazione, e aiutandole nel recupero. Abbiamo casi di successo e altri di fallimento. Cerchiamo di integrarle e renderle indipendenti, ma non sempre ci riusciamo.

Qualche partner ci aiuta a lavorare con i giovani, per metterli in guardia, sensibilizzarli, ovvero fare prevenzione con loro.

Se una sopravvissuta vuole tornare al suo paese, noi collaboriamo con agenzie internazionali, o con il governo, per il rimpatrio. Ma prima ci accertiamo che chi torna nel proprio paese lo faccia in condizioni di sicurezza. Questo cerchiamo di farlo anche attraverso le nostre reti».

Nel 2019 avete realizzato l’assemblea generale dei primi dieci anni di Talitha Kum. Che cosa avete deciso?

«Sono state definite tre priorità sulle quali focalizzarci per rafforzarci nel periodo 2020-25: educazione e prevenzione, collaborazione con le sopravvissute e advocacy (campagne d’influenza rivolte all’opinione pubblica, ndr). Inoltre si sono definiti come prioritari i continenti Africa e Asia.

Stiamo operando per integrare e rinforzare la nostra comunicazione, per migliorare la prevenzione, e siamo forti nella formazione. Da tre anni, facciamo una formazione a 33 dei nostri leader, sui programmi di Talitha Kum. Facciamo pure formazione a livello locale, e più comunicazione, perché questa può aiutare per la sopravvivenza della vittima. Usiamo le piattaforme social media.

Inoltre, abbiamo iniziato ad avvalerci dell’aiuto di giovani, che chiamiamo “giovani ambasciatori”.

È un programma nato inizialmente in Asia. Si tratta di un gruppo di giovani, ai quali facciamo dei training, in modo che poi ci aiutino nella formazione e sensibilizzazione tra pari. Sono attivi nelle campagne di comunicazione, in particolare attraverso i social. Siamo al secondo anno, con altre 30 persone in differenti continenti. In Africa abbiamo iniziato in Kenya e Sud Sudan, e in Medio Oriente in Giordania. È un’attività che stiamo cercando di far crescere.

Produciamo poi degli strumenti per i nostri collaboratori nelle reti, documenti per fare advocay sulle questioni legate alle migrazioni, sull’economia, perché è questo uno dei fattori che fa aumentare il traffico, ovvero il neoliberismo, e anche sulla violenza di genere».

Cos’è la vostra «call to action»?

«Nel novembre 2021, nel settore dell’advocacy, abbiamo realizzato una “call to action”: è un documento utile per guidarci, ma anche da fornire ai nostri partner affinché siano più coscienti di cosa sta succedendo, e su cosa vogliamo lavorare e in che modo. Come ad esempio l’empowerment delle donne e delle ragazze, lo studio dei percorsi di migrazione, ecc. Il tutto per essere più efficienti».

Nell’ultimo rapporto, uscito a giugno 2022, ripotate che il 24% delle reti collaborano con altre religioni.

«Ci sono alcune reti interreligiose, stiamo cercando di collaborare con gruppi di base di altre fedi, in Asia, Medio Oriente, per crescere ancora di più sul nostro fare rete».

Marco Bello

Rilanciare la rete a 13 anni dalla sua creazione

Rafforzare e comunicare

Nel 2019, a dieci anni dalla sua fondazione, un’assemblea generale della rete traccia un bilancio del trascorso e delinea le priorità future. Da allora le forze di Talitha Kum si impegnano per consolidare il proprio operato e migliorarne l’impatto nella lotta contro la tratta.

Talitha Kum è stata fondata nel 2009 per massimizzare le risorse a disposizione delle suore che operano nella lotta contro la tratta di persone. Fin dall’inizio, Talitha Kum International è stata particolarmente attiva nel promuovere il lavoro in rete, la formazione e la comunicazione tra le religiose, collaboratori e amici che si impegnano a prevenire la tratta e a sostenere le vittime, le sopravvissute e le persone a rischio. Nel 2019, durante l’ultima assemblea generale, Talitha Kum ha stabilito nuove priorità interne per far crescere e rafforzare la rete e migliorare il suo impatto per il periodo 2020-2025. Queste priorità sono: educazione e prevenzione, la collaborazione delle sopravvissute e l’advocacy, con aree prioritarie in Africa e Asia.

Rafforzare le reti

Nel 2021 ci siamo impegnate nel promuovere la cooperazione tra le congregazioni religiose – rafforzando le reti di Talitha Kum in connessione con le Conferenze nazionali dei superiori maggiori e le organizzazioni religiose – e nell’implementare la politica della Uisg di protezione dei bambini e delle persone vulnerabili. Questo ha portato alla creazione di nuove reti di Talitha Kum, all’arrivo di nuovi membri e collaboratori e al rafforzamento delle azioni di assistenza e protezione delle vittime e dei sopravvissuti della tratta a livello locale e regionale.

La formazione

Nel corso del 2021, Talitha Kum International ha continuato a offrire corsi, workshop e seminari per lo sviluppo delle capacità.

Alcuni esempi sono elencati di seguito.

  • Trentasei membri di Talitha Kum hanno ricevuto una qualifica di leadership attraverso la seconda edizione del nostro corso per leader, coordinato da Talitha Kum, dalla Pontificia università Antonianum e dal Tangaza university college (Nairobi, Kenya).
  • La formazione dei formatori di Talitha Kum ha incluso il tutoraggio di nove sorelle in Asia e tre in Africa.
  • Il corso base di Talitha Kum, dedicato allo sviluppo professionale di coloro che vogliono impegnarsi nella lotta alla tratta e accompagnare i sopravvissuti nel loro reinserimento sociale, ha avuto i seguenti momenti salienti:
  • In Asia, il corso online è stato offerto a 82 religiose in cinque paesi (Bangladesh, Pakistan, Taiwan, Vietnam e Cambogia);
  • In Africa, sono state raggiunte in presenza 116 religiose in otto paesi (Ghana, Nigeria, Burkina Faso, Kenya, Tanzania, Malawi, Sudafrica e Botswana), mentre 16 coordinatrici di Talitha Kum, tra cui nuovi religiosi, hanno richiesto un supporto online per implementare la rete in quattro paesi (Marocco, Tunisia, Mauritania e Algeria).

La comunicazione

La comunicazione è un elemento fondamentale della rete, uno strumento strategico per sensibilizzare e fare emergere il crimine nascosto della tratta di persone attraverso il lavoro delle sorelle di Talitha Kum alla base.

Nel 2021, Talitha Kum ha ampliato la raccolta dei dati dei membri della rete: il 94,5% delle reti li ha aggiornati nel 2021. La raccolta dei dati ci permette di rendere visibili i nostri sforzi, massimizzando la comunicazione e lo scambio di informazioni e buone pratiche. Talitha Kum International ha implementato un piano di comunicazione strategica per facilitare gli scambi interni della rete a diversi livelli. Abbiamo anche progettato un piano di comunicazione esterna per sistematizzare l’uso di diversi canali di social media. Quest’anno abbiamo anche realizzato un nuovo progetto di comunicazione: Journeys of liberation (Percorsi di liberazione) nel quale vengono condivise testimonianze di suore impe- gnate contro la tratta e di sopravvissute alla tratta in diversi contesti e regioni.

Talitha Kum ha anche promosso e sostenuto campagne internazionali contro la tratta. La principale è la Giornata mondiale di preghiera e riflessione contro la tratta di persone: l’8 febbraio 2021, la Giornata si è svolta per la prima volta online e il tema proposto è stato «Un’economia

senza tratta». Nel 2022 si è svolta una maratona di preghiera che ha interessato tutti i continenti ed è durata l’intera giornata. Un’altra data importante è il 30 luglio, la Giornata internazionale delle Nazioni Unite contro la tratta di persone, che abbiamo celebrato attraverso l’organizzazione di una campagna online con il titolo #CareAgainstTrafficking.

L’advocacy

Il 25 novembre 2021, il Comitato di coordinamento internazionale delle suore di Talitha Kum ha presentato la «Call to Action» (si veda articolo pag. 47) durante l’evento di lancio tenutosi a Roma al quale hanno partecipato il segretario di stato vaticano, cardinale Pietro Parolin, ambasciatori presso la Santa Sede e diversi partner che da tempo accompagnano il lavoro della rete.

La Call to Action di Talitha Kum è il primo documento di advocacy ratificato e approvato dal consiglio esecutivo dell’Unione internazionale dei superiori generali.

Questa Call to Action si rivolge agli attori della governance globale, compresi gli stati, le organizzazioni internazionali, gli attori non governativi come i gruppi della società civile, le organizzazioni del settore privato e le istituzioni accademiche, e a tutti coloro che hanno un ruolo da svolgere nell’instancabile sforzo di sradicare la tratta di persone e lo sfruttamento. Il documento si rivolge anche alle suore, alla Chiesa cattolica, ai leader di altre tradizioni religiose o spirituali, ai non credenti, ai collaboratori, agli amici e a tutte le persone di buona volontà che condividono la nostra visione di un mondo libero dalla tratta di persone e dallo sfruttamento. Un altro documento importante nell’ambito dell’advocacy è stato il «pacchetto di Talitha Kum 3 per lo studio, la preghiera e l’azione: donne e tratta di esseri umani», che rientra nella prima priorità individuata all’Assemblea generale di Talitha Kum del 2019. Questo documento continua ad approfondire e denunciare le cause della tratta di esseri umani.

Coinvolgere le sopravvissute

Nel corso del 2021, abbiamo assistito a un aumento del coinvolgimento delle sopravvissute nelle attività e nella vita di Talitha Kum: 24 reti di Talitha Kum (44%) hanno dichiarato di collaborare con i sopravvissuti (sei reti in più nel 2021). Le sopravvissute sono particolarmente impegnate nelle attività di prevenzione e nella realizzazione di progetti di empowerment per le vittime e i sopravvissuti. Nel settembre 2021, Talitha Kum International ha accolto nel suo team di Roma una sopravvissuta e giovane ambasciatrice anti tratta.

rete Talitha Kum

Le principali aree di azione

La cura e la giustizia

La lotta alla tratta si sviluppa secondo diverse direttrici. La prevenzione è fondamentale, ma poi c’è la cura delle vittime,
e l’appoggio alle stesse per un accesso alla giustizia. Tutto sempre in un lavoro di collegamento tra i molti attori radicati sul territorio.

Le reti hanno realizzato programmi educativi e formativi a medio e lungo termine nelle scuole e nelle comunità locali e hanno accompagnato e sostenuto, in modi diversi, gruppi considerati a rischio di tratta, ad esempio le donne delle comunità rurali in Asia, le donne in contesti di prostituzione in America Latina, i giovani migranti in Africa e le famiglie nelle zone di conflitto in Medio Oriente. Nel contesto delle restrizioni imposte dal Covid-19, le reti hanno adattato nuove strategie di prevenzione, soprattutto attraverso l’uso della tecnologia (ad esempio, consulenza online per i lavoratori migranti e implementazione della linea telefonica diretta per la segnalazione dei casi). Le attività di prevenzione sono state caratterizzate dall’uso dei media tradizionali (soprattutto la radio), dei social media per la promozione di varie campagne di sensibilizzazione e informazione, e dalla creazione di materiali digitali per la prevenzione online. I principali beneficiari in questo ambito sono le comunità ecclesiali, la vita consacrata, i migranti per lavoro, le famiglie in aree di conflitto, le donne, gli studenti e i giovani.

L’aumento del numero di persone beneficiate nell’area della prevenzione è notevole. Sono stati raggiunti 258.549 individui, il 47% in più rispetto al 2020. Questo dato corrisponde probabilmente all’aumento dell’uso dell’internet e delle tecnologie durante il lockdown, permettendo alle reti di raggiungere nuovi spazi per la prevenzione e la formazione.

Come operano le reti

Le reti di Talitha Kum coordinano attività di prevenzione a livello locale e internazionale. Ciascuna rete nazionale o regionale adatta il suo approccio al contesto locale, ma tutte si concentrano su tre aree principali: la sensibilizzazione, la formazione e le campagne di informazione. Queste iniziative sensibilizzano il pubblico sulla realtà della tratta, condividendo informazioni e buone pratiche. Contribuiscono a dare maggiori strumenti ai leader delle comunità, il cui ruolo è fondamentale per identificare possibili casi di tratta. Inoltre favoriscono la formazione di reti, che rinforzano la consapevolezza e motivano l’azione e il lavoro di prevenzione con gruppi a rischio. Fanno parte di queste iniziative le attività di sensibilizzazione mirate a gruppi specifici, come coloro che vivono situazioni di vulnerabilità al fine di identificare potenziali vittime di tratta, fornendo ai singoli gli strumenti e le informazioni necessari per proteggersi.

Il sostegno ai sopravvissuti, alle loro famiglie e comunità ha l’obiettivo è impedire che le vittime, una volta messe in salvo o liberate, cadano nella disperazione, si sentano in colpa o indifese.

I sopravvissuti vengono accompagnati durante l’intero percorso di cura e vengono aiutati a prendere decisioni salutari per vivere con dignità e acquisire autonomia per la realizzazione della propria vita.

Per prevenire la tratta di persone, Talitha Kum individua quei sistemi politici, culturali ed economici che consentono lo sviluppo della tratta e si impegna per dei cambiamenti efficaci e sostenibili. La rete chiede politiche e leggi che prevengano queste attività criminali, aiutino i sopravvissuti e favoriscano processi penali contro i trafficanti. Inoltre, insieme ai nostri collaboratori, continuiamo a impegnarci affinché queste leggi vengano emanate e messe in pratica a livello locale e nazionale.

Talitha Kum è convinta che una società libera dalla tratta di persone e da ogni forma di sfruttamento è possibile. Promuovere azioni che trasformano idee e comportamenti, è fondamentale per raggiungere questo obiettivo.

Cura delle vittime

Le reti hanno fornito sostegno materiale ed economico a vittime e sopravvissute, principalmente attraverso strutture di accoglienza. Hanno accompagnato nel sostegno psicosociale e materiale sopravvissute alla tratta di persone fino al loro ritorno nel paese d’origine, hanno offerto cure mediche, corsi di studio, sostegno spirituale e psicologico e assistenza legale e burocratica alle vittime.

Inoltre, hanno realizzato diversi programmi di formazione tecnica per il reinserimento sociale e professionale delle sopravvissute alla tratta e hanno svolto azioni di advocacy collaborando con le istituzioni governative e intergovernative per garantire i diritti dei lavoratori migranti, delle donne, delle ragazze e dei ragazzi.

Le vittime, le sopravvissute e le persone a rischio accompagnate da Talitha Kum nel 2021 sono state 13.404, registrando una diminuzione del 18% rispetto all’anno precedente. Questo dato potrebbe essere legato alle restrizioni imposte dalla pandemia di Covid-19, che ha influito sul sistema delle case di accoglienza in molte parti del mondo. Un’altra possibile spiegazione è legata all’aumento dei servizi forniti a sopravvissuti e vittime per l’accesso alla giustizia.

Accesso alla giustizia

Le principali attività nel settore della giustizia comprendono l’accompagnamento delle vittime nel denunciare. Alcune reti hanno fornito strumenti per la segnalazione di casi di tratta o sfruttamento lavorativo (linea telefonica e consulenza online). Le reti hanno segnalato alle autorità competenti casi di violenza, sfruttamento o potenziali casi di tratta, individuati nelle scuole e tra i lavoratori migranti.

Un’altra azione importante in questo ambito è stata il sostegno alle vittime durante il processo giudiziario fino al risarcimento dei danni.

Il numero di persone che nel 2021 hanno beneficiato del supporto delle reti per l’accesso alla giustizia è stato di 6.589, ovvero l’82% in più rispetto al 2020. La crescita dei servizi forniti dalle reti di Talitha Kum per l’accesso alla giustizia è in costante aumento dal 2019. Questo può derivare da una maggior capacità delle reti di Talitha Kum di differenziare la raccolta dei dati relativi ai servizi forniti a sopravvissuti e vittime o la reale crescita della loro capacità nell’accompagnare le vittime e i sopravvissuti ad accedere alla giustizia.

rete Talitha Kum

L’appello ai governanti (ma non solo)

Chiamata all’azione

Il 25 novembre del 2021 Talitha Kum decide di lanciare un appello, una chiamata a tutte e tutti alla responsabilità e all’impegno. Perché occorre unire le forze per farla finita con il traffico di persone. Per passare dall’economia della tratta all’economia della cura.

La Call to action (chiamata all’azione) di Talitha Kum è rivolta alle suore, alla Chiesa cattolica, ai leader di altre tradizioni religiose o spirituali, ai non credenti, ai collaboratori, agli amici e a tutte le persone di buona volontà che condividono la nostra visione di un mondo libero dalla tratta di persone e dallo sfruttamento. In particolare, questa chiamata all’azione vuole raggiungere i protagonisti della governance globale, compresi gli stati, le organizzazioni internazionali, i protagonisti non statali come i gruppi della società civile, le organizzazioni del settore privato e le istituzioni accademiche, e tutti coloro che hanno un compito da svolgere nello sforzo instancabile verso l’eliminazione della tratta di persone e dello sfruttamento.

Attingendo alle intuizioni delle reti e dei membri di Talitha Kum che lavorano sul campo come anche alla dichiarazione del 27 settembre 2019 che segna il decimo anniversario di Talitha Kum, questa chiamata all’azione è modellata intorno a quattro obiettivi principali: curare le vittime della tratta e dello sfruttamento umano e le persone a rischio; guarire le ferite fisiche, psicosociali e spirituali; empower (rafforzare, dare consapevolezza, ndr) le vittime e i sopravvissuti, così come le persone a rischio, amplificando le loro voci; rigenerare la dignità umana promuovendo l’accesso alla giustizia.

Al fine di raggiungere questi obiettivi, Talitha Kum desidera invitare le parti interessate a unire le forze nelle seguenti aree di impegno, che hanno un impatto particolare a livello di individui, comunità e sistemi.

Giustizia e assistenza

Garantire l’accesso alla giustizia e all’assistenza psicosociale e sanitaria a lungo termine, sostenuta dallo stato, nonché a permessi di lavoro e di soggiorno per le vittime nei paesi di destinazione.

«Le vittime sono le prime a dover essere riabilitate e reintegrate nella società». «Tutta la società è chiamata a crescere in questa consapevolezza, soprattutto per quanto riguarda la legislazione nazionale e internazionale, al fine di poter garantire che i trafficanti siano assicurati alla giustizia e i loro guadagni ingiusti reindirizzati per la riabilitazione delle vittime», papa Francesco.

Inoltre, ci ricorda suor Gabriella Bottani: «Essere riconosciuti come vittime è un lavoro duro. Quando si assistono le vittime nell’affrontare le procedure legali burocratiche, le suore si trovano di solito di fronte alla fatica di dimostrare che le persone trafficate non sono colpevoli di reati, come la violazione delle leggi sull’immigrazione, sul lavoro, sulla famiglia o altre disposizioni del codice penale. Inoltre, le vittime di solito devono dimostrare che, in quanto vittime di tratta, non hanno acconsentito al loro sfruttamento, cosa che spesso può essere impegnativa». Talitha Kum crede che le vittime debbano essere trattate con compassione, oltre che con pieno rispetto e riconoscimento della loro dignità.

A tal fine, la rete si rivolge in particolare agli attori della governance mondiale per: la fornitura di servizi legali supportati dallo stato alle vittime della tratta, con misure appropriate per garantire la loro sicurezza e quella di chi le assiste; l’applicazione della clausola di non punibilità alle vittime presunte e di fatto per i reati commessi come conseguenza o nel corso della tratta; l’accesso a un’assistenza psicosociale e sanitaria efficace, a lungo termine, sostenuta dallo stato, come anche permessi e opportunità di residenza e di lavoro, fondamentali per le vittime per riacquistare autostima e fiducia evitando così una nuova vittimizzazione; strategie investigative e processuali incentrate sul trafficante, anche in ambienti difficili come il web e i social media; la promozione di forme ben calibrate di giustizia procedurale, riparativa e di transizione che garantiscano il processo di guarigione delle vittime e dei sopravvissuti.

L’empowering di donne e bambine, così come delle loro famiglie e comunità

Talitha Kum è determinata a contrastare il divario di potere tra uomini e donne in tutti i settori – economico, sociale, familiare, politico, culturale e religioso – come fattore chiave che contribuisce all’oggettivazione e denigrazione delle donne e alla conseguente cultura della violenza, di cui un’espressione atroce è la tratta di persone per lo sfruttamento sessuale, lo sfruttamento lavorativo e altre forme di sfruttamento.

A tal fine Talitha Kum si rivolge in particolare agli attori della governance mondiale per migliorare la consapevolezza e promuovere azioni per eliminare gli squilibri di potere di genere, tenendo conto delle intersezioni tra il genere e altre categorie sociali come l’origine etnica, lo status sociale e la disabilità, e gli effetti cumulativi prodotti da molteplici forme di discriminazione. Garantire la parità di accesso a un’istruzione di qualità, alla formazione professionale e alle opportunità di lavoro per le ragazze e le donne, in particolare per le sopravvissute alla tratta di persone e per quelle a rischio di essere trafficate. Infine, garantire pari diritti al lavoro per le donne, in particolare in settori a predominanza femminile e più inclini allo sfruttamento, come il lavoro domestico e di cura, l’agricoltura, la lavorazione e il confezionamento degli alimenti, il turismo e l’ospitalità.

 

Sostenere percorsi di migrazione sicuri e legali

Talitha Kum riconosce che i percorsi di migrazione legale si sono ridotti a livello globale, anche nei casi di migrazione forzata, riducendo la possibilità di viaggiare attraverso canali sicuri. Agli individui che fuggono da conflitti prolungati, povertà, instabilità, disastri, mancanza di opportunità socioeconomiche, violazioni dei diritti umani e da altre situazioni, viene sempre più impedito lo spostamento al di fuori del proprio paese per accedere a opportunità di sicurezza e sviluppo umano. Questo approccio – spesso accompagnato da una retorica politica che fomenta l’odio, il razzismo e la xenofobia – ostacola la sicurezza, la dignità, i diritti umani e le libertà fondamentali di migranti, richiedenti asilo e rifugia- ti, comprese le vittime della tratta di persone e altri gruppi vulnerabili.

Per promuovere percorsi migratori efficaci e legali, Talitha Kum si rivolge in particolare agli attori della governance mondiale per: l’individua-

zione precoce delle situazioni di sfruttamento subite dai migranti, compresi i richiedenti asilo, i rifugiati e gli sfollati; la promozione di attività di sensibilizzazione rivolte a presentare i rischi di abuso, violenza e sfruttamento lungo i percorsi migratori e nei paesi di destinazione; la creazione di percorsi migratori sicuri e legali, con particolare attenzione alle donne e alle bambine, anche in situazioni di migrazione forzata; l’assunzione e il trattamento equo dei lavoratori migranti nel mercato del lavoro, indipendentemen- te dal loro status giuridico, con particolare attenzione alle donne e alle ragazze.

Così facendo, Talitha Kum sostiene l’invito di papa Francesco ad accogliere, proteggere, promuovere e integrare migranti, rifugiati e sfollati, per evitare che cadano nelle mani dei trafficanti di esseri umani.

Promuovere un’economia della cura e della solidarietà

Talitha Kum aderisce al messaggio di papa Francesco per la 7° Giornata mondiale di preghiera e riflessione contro la tratta di persone (8 febbraio 2021): «Un’economia senza tratta è un’economia di cura. La cura può essere intesa come prendersi cura delle persone e della natura, offrendo prodotti e servizi per la crescita del bene comune. Un’economia che ha cura del lavoro, creando opportunità di impiego che non sfruttano il lavoratore per condizioni di lavoro degradanti e orari estenuanti».

Così facendo, Talitha Kum riconosce che le crescenti disparità socioeconomiche forniscono un terreno fertile per il fiorire della tratta di persone, e si impegna per una trasformazione, sistemica e a lungo termine, da un’economia della tratta a un’economia della cura e della solidarietà. Quest’ultima deve anche favorire uno sviluppo sostenibile e integrale, alla luce della crisi ambientale che colpisce la nostra casa comune, la Terra.

Pertanto, la rete si rivolge in particolare ai governanti mondiali per: modelli di business e di consumo etici e responsabili che siano basati su catene globali del valore non legate alla tratta di persone e allo sfruttamento e che promuovano la dignità umana e la sostenibilità ambientale, comprese iniziative volte a contrastare il cambiamento climatico; l’integrazione e l’inclusione socioeconomica dei sopravvissuti alla tratta di persone e degli individui a rischio.

rete Talitha Kum

I numeri della rete

Nonostante le sfide della pandemia di Covid-19, nel 2021 le reti di Talitha Kum sono cresciute, mostrando maggiore capacità di coordinamento a diversi livelli.

Nel 2021 Talitha Kum era presente in 92 paesi, organizzata in 55 reti nazionali, 9 comitati di coordinamento regionali e 3 continentali, sostenendo attivamente vittime, sopravvissuti e persone a rischio. Nell’anno sono state create cinque nuove reti: in Africa (Zambia), in
America Latina (Ecuador), in Asia (Bangladesh e Vietnam) e in Medio Oriente – collegato all’Africa – (Egitto). Il numero di paesi in cui
Talitha Kum è presente è aumentato di tre unità rispetto al 2020.

Il numero assoluto di suddivisioni (sotto reti) delle reti nazionali riportato nel 2021 è aumentato del 15% rispetto all’anno precedente. Dal 2019, il numero di suddivisioni è stato stabile e costante, questo dato dimostra la capacità delle reti Talitha Kum di creare suddivisioni e gruppi di lavoro decentrati.

Il 2021 mostra una crescita del numero totale di membri e collaboratori, confermando la tendenza dell’anno precedente. Con un aumento del 72% rispetto al 2020, le reti Talitha Kum dimostrano la loro capacità di coinvolgere personale volontario e collaboratori laici. Il volontariato è una caratteristica fondamentale delle reti Talitha Kum e rappresenta il 94% dei collaboratori.

Un altro dato importante di crescita riguarda il coinvolgimento dei sopravvissuti e delle loro famiglie nelle azioni.

Nel 2021, 24 reti hanno segnalato la partecipazione di sopravvissuti nelle diverse azioni, evidenziando una crescita del 7% rispetto ai numeri del 2020. Questo dato conferma l’impegno delle reti nell’implementare le priorità comuni identificate dall’Assemblea del 2019. I sopravvissuti si sono coinvolti in particolare nelle attività di prevenzione e assistenza alle vittime.

La partecipazione e il coinvolgimento delle congregazioni religiose all’interno delle reti Talitha Kum nel 2021 sono diminuiti del 5%. Questo processo è iniziato nel 2020, come possibile conseguenza dell’impatto della pandemia del Covid-19. Il tasso di congregazioni religiose maschili coinvolte in Talitha Kum rispetto al 2020 mostra la riduzione di un punto percentuale, rappresentando nel 2021 l’8% del totale delle congregazioni religiose coinvolte.

Nel 2021 sono state inoltre raccolte informazioni per mappare la capacità di collaborazione interreligiosa delle reti di Talitha Kum. Tredici reti, pari al 24% del totale, hanno dichiarato di aver avuto collaborazione interreligiosa, in particolare in Asia e in Africa.

rete Talitha Kum

Camminare per la dignità

Talitha Kum ha lanciato la «IX giornata mondiale di preghiera e riflessione contro la tratta di persone» con tema «Camminare per la dignità». Un invito a camminare con le popolazioni migranti, come pellegrine e pellegrini della dignità umana.

L’8 febbraio 2023 si terrà un «Pellegrinaggio online», una maratona di preghiera sul web alla quale parteciperanno tutte le reti antitratta del mondo, diverse organizzazioni e partner. Uno spazio mondiale per pregare insieme contro la tratta e riflettere su questo fenomeno.

Per saperne di più:


 

Hanno firmato il dossier:

Talitha kum
Diversi testi di questo dossier sono tratti dall’ultimo rapporto di Talitha Kum, presentato a giugno 2022 e riferito a dati e attività del 2021.

Marco Bello
Giornalista redazione MC che ha curato il dossier

Archivio MC sulla tratta:

Si ringraziano:
Anna Pozzi, Stefano dal Pozzolo e sr Mayra  Cuellar per le foto fornite per questo dossier.

 




Velo, pallone e turbante


Tutto è iniziato con la rivolta delle donne contro l’obbligo del velo. Poi, sono arrivati i mondiali di calcio con le proteste (più caute) dei calciatori. Il clero sciita al potere ha risposto con la repressione e la violenza. Basterà per fermare un popolo stanco della dittatura teocratica?

Nella prima partita dei mondiali di calcio in Qatar, quando la nazionale iraniana e la nazionale britannica sono entrate in campo, il primo pensiero è andato a come si sarebbero comportati i giocatori dell’Iran.

A cantare subito l’inno, lunedì 21 novembre, sono stati gli inglesi. Per la prima volta, hanno intonato a un mondiale «God save the king». Quando lo speaker dello stadio di Doha ha annunciato l’inno iraniano, sono partite le note. Ma, in solidarietà con le proteste, nessuno degli undici calciatori ha cantato i suoi versi:

«Verso l’alto, all’orizzonte, sorge il sole orientale / La luce negli occhi dei credenti nella giustizia / Bahman è lo zenith della nostra fede / Il tuo messaggio, oh Imam, d’indipendenza, libertà / Oh martiri, i vostri clamori risuonano nelle orecchie del tempo / Duratura, continua ed eterna / La Repubblica islamica dell’Iran!»

Di fronte alle bocche cucite dei calciatori, i tifosi iraniani hanno reagito in modo diverso tra loro. Ci sono state donne – con il velo – che non hanno trattenuto la commozione per il gesto dei giocatori, ritenuto coraggioso. Dalla tribuna c’è stato invece chi ha contestato fortemente la scelta della squadra, rivolgendo il dito medio o il pollice in direzione del campo. In realtà, le contestazioni ai calciatori non sarebbero state fatte solo perché essi si sono astenuti dal cantare l’inno, ma anche perché due giorni prima erano stati convocati dal presidente della Repubblica islamica Ebrahim Raisi (in carica dal 3 agosto 2021, ndr) e davanti a lui si erano inchinati. L’impressione è stata, quindi, che i giocatori abbiano voluto dare un colpo al cerchio e uno alla botte, compiacendo sia le autorità iraniane sia i loro connazionali che rischiano la vita protestando in strada. Per questo motivo, in quella partita, sui social, tanti iraniani e iraniane hanno fatto il tifo per la squadra avversaria. Hanno vinto loro, gli inglesi, e già questo è stato uno smacco perché, da sempre, il Regno Unito interferisce nelle questioni interne all’Iran.

Elnaz Rekabi, campionessa iraniana di arrampicata, ha gareggiato senza velo in segno di protesta contro il regime e di solidarietà con le donne. Foto dal web.

Inglesi e americani

Nel 1953, furono i servizi segreti inglesi, il cosiddetto MI6, a rovesciare il premier Mohammad Mossadeq che stava trasformando l’Iran in una monarchia costituzionale, percorrendo un cammino democratico. Due anni prima il politico iraniano, esponente del Fronte nazionale, aveva osato nazionalizzare il petrolio, fino a quel momento ampiamente sfruttato dagli inglesi, che agli iraniani lasciavano le briciole. Dopo due anni di embargo, con l’industria petrolifera allo stremo, Mossadeq fu rovesciato da un colpo di stato. La Cia si prese il merito di quella operazione, passata alla storia con il nome «Ajax». Come, però, ben racconta il documentario «Coup53» del regista Taghi Amirani, fu in realtà la spia inglese Norman Derbyshire (1924-1993) a fare in modo che lo scià Muhammad Reza Pahlavi potesse tornare sul trono del pavone.

Rimesso al potere dagli occidentali, per contenere il dissenso, lo scià creò la polizia segreta Savak che mise in atto una durissima repressione nei confronti degli oppositori. Seguirono decenni segnati da gravi violazioni dei diritti umani, tollerati dall’Occidente perché lo scià era un loro alleato.

A Doha, Al Thani (a destra), emiro del Qatar, presenta la maglia della sua nazionale di calcio a Ebrahim Raisi, presidente iraniano (21 febbraio 2022). Foto Iranian Presidency – AFP.

Il velo di Masha Amini

Oggi come allora gli iraniani reclamano diritti e libertà. Le proteste di questi mesi sono state innescate dalla morte di Mahsa Amini. Il 13 settembre 2022 la ragazza viene fermata all’uscita della metropolitana a Teheran, dove si trova in vacanza con i genitori prima dell’inizio dell’anno accademico. «Studiava microbiologia, voleva diventare dottore», racconterà il padre alla Bbc. Forse le spunta una ciocca di capelli dal velo. Forse indossa pantaloni troppo stretti, oppure si intravede un pezzo di caviglia. Fatto sta che trasgredisce il severo codice di abbigliamento della Repubblica islamica, imposto con maggiore severità – rispetto al passato – dal presidente ultraconservatore Ebrahim Raisi. Un codice di abbigliamento inclemente anche per i ragazzi, che possono essere fermati se i capelli sono troppo lunghi e le magliette troppo attillate o con maniche troppo corte.

Mahsa ha ventidue anni e vive a Saghez, un’area rurale nel Kurdistan iraniano (zona occidentale del paese), dove l’abbigliamento tradizionale non risponde a codici rigorosi. È, quindi, poco avvezza alle retate della Gasht-e Ershad, la «buoncostume» che si sposta con le camionette bianche contraddistinte da una fascia verde orizzontale. Quel 13 settembre è una giornata soleggiata. Quando Mahsa viene presa di mira dalle poliziotte, il fratello minore (di diciassette anni) cerca di proteggerla. Invano. Malmenato, si ritrova con gli abiti stracciati. Le poliziotte caricano Mahsa sulla camionetta e la portano nel centro di riabilitazione, dove le chadorì (in questo caso le filogovernative con il chador nero dalla testa ai piedi) insegnano alle bad-hejabì (le «mal velate») come vestirsi. La ragazza viene picchiata e il giorno stesso entra in coma. Dopo tre giorni, il 16 settembre, muore nell’ospedale Kasra di Teheran. Il decesso viene dapprima imputato a un «arresto cardiaco» e poi definito un «incidente», dovuto a «malattie pregresse» e in particolare alle «conseguenze di un tumore al cervello di cui aveva sofferto quand’era bambina», una patologia che i genitori negheranno. Nel frattempo, la notizia si diffonde sui social media. La televisione di stato manda in onda due brevi video per dimostrare che non ci sarebbe stato contatto fisico tra gli agenti e la ragazza. Nel primo, in quello che, verosimilmente, è un commissariato di polizia, si vedono numerose donne. Una di loro, presentata come Mahsa Amini, si alza per discutere con una poliziotta in merito al proprio abbigliamento, dopodiché sviene. In un altro video, il corpo della giovane viene trasportato verso l’ambulanza.

Intanto, visto che la morte della ragazza suscita indignazione tra gli iraniani in patria e all’estero, il presidente Ebrahim Raisi incarica il ministro dell’Interno di aprire un’inchiesta. Il capo dei medici legali di Teheran dichiara alla televisione di stato che le indagini sono in corso e che ci vorranno tre settimane. Le autorità intimano alla famiglia di seppellire Mahsa la notte, per evitare assembramenti. Ma i genitori decidono altrimenti e sabato 17 il funerale nella città natale di Saghez si trasforma in una manifestazione di protesta. I manifestanti si riuniscono davanti agli uffici governativi.

Saeed Piramoon, noto giocatore iraniano di beach soccer, fa il gesto di tagliarsi i capelli in segno di protesta e solidarietà con le donne del suo paese. Foto dal web.

Un potere repressivo e corrotto

Quelle scatenate dalla morte di Mahsa Amini sono le manifestazioni più importanti dall’istituzione della Repubblica islamica all’indomani della rivoluzione del 1979, diverse da quelle degli scorsi anni per portata, significato e istanze.

La causa del risentimento di tanti iraniani verso la Repubblica islamica non è solo l’obbligo del velo di per sé, ma anche la grave crisi economica e – soprattutto – l’approccio violento delle autorità – nelle loro diverse declinazioni – nei confronti dei cittadini che vorrebbero poter scegliere liberamente. La violenza sistematica delle forze dell’ordine è la prova della perdita di legittimità di un sistema politico corrotto, che non ha altra scelta se non la repressione che l’allontana sempre di più dai suoi giovani e dal suo popolo.

Tra gli slogan di questi mesi, i dimostranti hanno scandito Zan, zendeghì, azadì («Donna, vita, libertà») e Na be hejab-e ejbari («No al velo obbligatorio», imposto dal 1979), Na be ‘amame («No al turbante», portato dai religiosi del clero sciita).

Un gruppo di donne iraniane pro-regime protestano davanti all’ambasciata tedesca a Tehran (1 novembre 2022).
Foto Atta Kenare – AFP.

Nika e Sarina

Nonostante fin dall’inizo le forze di sicurezza disperdano i manifestanti usando i lacrimogeni, le proteste si diffondono rapidamente in tutto l’Iran. Nel giro di qualche giorno coinvolgono tantissime città e cittadine. Mahsa era una ragazza di provincia, non abitava nei quartieri chic di Teheran Nord; quindi, è facile identificarsi in lei e nel dolore della sua famiglia. A morire, e a diventare un simbolo delle proteste, sono anche le adolescenti Nika Shakarami e Sarina Esmailzadeh. Nel caso di Nika, nel certificato di morte ottenuto dai reporter di Bbc Persian si legge che il decesso sarebbe dovuto a «ferite multiple causate da percosse con un oggetto duro». La versione ufficiale della magistratura di Teheran è, invece, che sia morta «dopo essere caduta da un edificio». In un altro caso, nelle proteste a Karaj, a Est della capitale, le forze di sicurezza uccidono la sedicenne Sarina Esmailzadeh.

Per la prima volta nella storia dell’Iran, nelle manifestazioni di piazza gli uomini sono accanto alle loro donne. In ogni caso, le iraniane si stanno dimostrando decisamente più coraggiose degli uomini. Anche nello sport. Pensiamo a Elnaz Rekabi, la campionessa di arrampicata che, nei campionati di Seoul, gareggia senza velo in segno di solidarietà. A distanza di qualche settimana si viene a sapere che la casa della sua famiglia, assai benestante, è a rischio esproprio e per questo è obbligata a tacere. Inutilmente: la casa viene demolita.

Non si tratta di una novità del governo dell’ultraconservatore Raisi: le stesse misure intimidatorie erano state prese negli scorsi anni nei confronti del filosofo Ramin Jahanbegloo, rilasciato su cauzione, e di tanti altri intellettuali che avevano criticato il sistema politico iraniano e avanzato l’ipotesi di una qualche riforma. Ma intanto Elnaz Rekabi si è tolta il velo in pubblico e il suo gesto, pagato a caro prezzo, ha lasciato il segno.

A Los Angeles, uno striscione si augura che le proteste iraniane si trasformino in una rivoluzione. Foto Craig Melville – Unsplash.

Le donne del cinema si schierano

Nelle proteste del 2022 le iraniane si stanno dimostrando più coraggiose degli uomini anche nel mondo della cultura. Pensiamo alla regista Rakhshan Bani-Etemad che in un video ha dichiarato: «Se fino ad oggi sono stata zitta e non ho detto una parola, è stato solo per affetto materno e amore incondizionato. Non mi sono concessa di parlare perché non volevo che il mio sostegno alle legittime proteste dei giovani cagionasse anche solo un morto in più. Ma la vostra violenza non conosce fine e non conosce confini. In ogni angolo di questo paese, ovunque, scorre il sangue di giovani e bambini abbattuti come passerotti in volo. Quanto ancora dovremo pazientare? Fin dove potremo sopportare? Governare un popolo straziato, inconsolabile, ferito, disarmato e ignorato… Quale merito o valore può mai avere? Io mi auguro solo una cosa: se il sangue versato da tutti questi giovani nel corso di tutti questi anni ancora non vi ha fatto rinsavire, che la morte di Kian [Pirfalak], bambino innocente di appena nove anni, vi tolga il sonno per il resto della vostra vita».

A causa di questo video, a causa di queste parole, la figlia della regista è stata convocata dalla magistratura di Teheran: il regime se la prende spesso anche con i familiari di coloro che osano esprimere il dissenso. Rakhshan Bani-Etemad ha sessantotto anni e vive nella capitale iraniana. Tra i registi della sua generazione, è la donna di maggior spicco.

È andata peggio a Mitra Hajjar, una delle attrici iraniane più conosciute, arrestata lo scorso 3 dicembre. E, mentre scriviamo, pare correre rischi anche un’altra nota attrice iraniana, Shaghayegh Dehghan.

Con i pasdaran alla finestra

Le difficoltà economiche sono al centro delle proteste. In Iran un litro di latte costa l’equivalente di 90 centesimi di euro, una pagnotta 30 centesimi, un chilo di pollo tre euro. Ma un maestro porta a casa uno stipendio equivalente a soli 250 euro. Con l’inflazione al 41 per cento, tirare a campare è complicato.

È difficile prevedere quale esito possano avere le proteste in corso. La macchina repressiva funziona molto bene, purtroppo. La variabile è rappresentata dai pasdaran, ovvero dalle Guardie rivoluzionarie istituite dall’ayatollah Khomeini all’indomani della rivoluzione del 1979. Fedeli alla sua ideologia, sono loro a controllare l’economia e a reprimere il dissenso. Tenuto conto che in questi quarantatré anni il clero sciita non è stato in grado (o forse non ha voluto) di far crescere una nuova generazione di teologi a cui passare il testimone, potrebbero essere loro – i pasdaran – a prendere il potere nel caso in cui i manifestanti riuscissero a scalfire la repubblica degli ayatollah. Si passerebbe così da una repubblica islamica a una repubblica non più a carattere religioso, ma dominata dai militari. Dalla padella alla brace.

Farian Sabahi

L’autrice

  • Farian Sabahi è iranista, islamologa, professore universitario e giornalista professionista. È autrice di numerosi articoli scientifici e saggi pubblicati da editori italiani e internazionali. Questa è la sua prima collaborazione con MC. Sito: www.fariansabahi.com

La guida suprema Ali Khamenei interviene sulle proteste di piazza (12 ottobre 2022). Foto Iranian leader Press office – AFP.


Repressione, esecuzioni, resistenza

La teocrazia impicca (ma barcolla)

Mohsen Shekari è stato impiccato l’8 dicembre, accusato di moharebeh («avversione verso Dio»). Aveva attaccato un basij (miliziano volontario) in una manifestazione del 25 settembre. Il 12 dicembre è toccato a Majidreza Rahnavard, giustiziato dopo soli 23 giorni dal suo arresto. Risulta difficile scegliere gli aggettivi più adatti per definire il comportamento dei teocrati islamisti che tengono in ostaggio l’Iran e il suo popolo. Mentre scriviamo, i morti di queste proteste che vorrebbero diventare rivoluzione sono 458 (compresi 60 bambini e 29 donne, al 12 dicembre, secondo il sito di Iran human rights), con migliaia di persone arrestate in un crescendo di tensioni.

Durante i mondiali di calcio del Qatar, la protesta dei calciatori della squadra iraniana è durata lo spazio della prima partita. Nelle due successive, anch’essi si sono dovuti adeguare alle pressioni e minacce del regime, cantando (sussurrando) l’inno nazionale, anche su spinta dell’allenatore, il portoghese Carlos Queiroz, accusato di essere al servizio del regime dal sito Iran wire.

A inizio dicembre, poco dopo la demolizione della casa di Elnaz Rekabi (la climber che, in Corea del Sud, aveva osato gareggiare senza hijab), è stata fatta circolare la notizia della soppressione del corpo della «polizia morale», prima responsabile della morte di Masha Amini. Negli stessi giorni, nonostante repressione, vendette e condanne a morte per impiccagione, è stato proclamato uno sciopero generale che, nelle città, ha avuto adesioni altissime. Il governo islamista è in difficoltà internamente e isolato a livello internazionale.

Lo scorso 19 luglio, il leader supremo, l’ayatollah Ali Kamenei, aveva incontrato a Teheran Vladimir Putin per esprimere il proprio appoggio alla Russia contro «l’aggressione della Nato». Peraltro, nonostante le smentite, è assodato che l’Iran fornisca a Mosca droni da combattimento per sostenere la sua guerra contro l’Ucraina.

A dispetto di tutto questo e delle sanzioni imposte al paese, con l’Iran la diplomazia internazionale rimane cauta per due ragioni di banale real politik: le immense risorse petrolifere del paese e l’incertezza rispetto al suo arsenale nucleare. Nel frattempo, tocca soprattutto alle donne iraniane combattere a volto scoperto e mani nude contro gli uomini del regime teocratico.

Paolo Moiola

Una camionetta della famigerata polizia morale (Gasht-e Ershad), che ha arrestato anche la giovane Masha Amini. Foto dal web.




Donne e libertà senza frontiere

Una pluralità di sguardi al femminile

Una raccolta di interventi di donne su come far uscire dall’angolo il ruolo femminile nella società. Uno sguardo sulla deriva securitaria e punitiva della nostra democrazia. Un racconto laicale e femminile di missione ad gentes e di famiglia multiculturale tra Kenya e Italia.

Adesso tocca a noi

Mentre scrivo, in Iran le proteste durano già da qualche settimana. Iniziate dopo la morte, il 16 settembre scorso, di Mahsa Amini, una ragazza arrestata dalla «polizia morale» perché non portava correttamente il velo, ancora non si fermano.

Secondo l’Iran human rights, a inizio novembre, sono già morte 277 persone, tra cui 40 minori.

Al grido di «donna, vita, libertà», nel mondo si sono moltiplicate le manifestazioni a sostegno della contestazione.

Mi sembra quindi doveroso segnalare un’uscita recente per Edizioni Terrasanta: Adesso tocca a noi. Donne, leadership e altri misfatti. A curarlo è Chiara Tintori, politologa e saggista che ha svolto attività di ricerca e di docenza in varie università italiane. Fino al 2018 ha lavorato nella redazione della rivista «Aggiornamenti Sociali».

L’Italia non è l’Iran, certo, però anche qui, da anni, il ruolo della donna continua a essere marginale nei processi decisionali.

Adesso tocca a noi non è un libro rivendicativo sulla parità tra uomo e donna, ma porta la testimonianza di donne che, là dove sono, stanno provando a fare la differenza. Quella stessa differenza che, quando è assente, frena lo sviluppo sociale, politico ed economico del paese.

Le voci femminili di questo libro (da Susanna Camusso a Letizia Moratti, da Maura Gangitano a Cristina Simonelli) ci ricordano che riconoscere alle donne ciò che meritano, sulla base di competenze e talenti, è una questione di dignità che riguarda non solo il valore delle persone, ma anche la dimensione etica e culturale della nostra società.

Difficilmente il nostro ritardo verrà colmato dal fatto che oggi il presidente del Consiglio dei ministri in Italia è una donna, se non crescerà la consapevolezza che il «pinkwashing» dietro il quale spesso ci nascondiamo rivela debolezza culturale.

Per comprendere meglio le radici di quanto sta capitando nella regione persiana può essere utile recuperare un libro del 2016, edito da Bompiani: Finché non saremo liberi, del premio Nobel per la pace Shirin Ebadi, la prima donna musulmana a riceverlo. Con il suo impegno da avvocato per i diritti umani, difendendo soprattutto le donne e i bambini dal brutale regime iraniano, ha ispirato una generazione intera. Per questo il governo ha cercato di ostacolarla, ha intercettato le sue telefonate, ha messo sotto sorveglianza il suo ufficio, l’ha fatta pedinare, ha minacciato lei e i suoi cari con metodi violenti.

Nel libro ripercorre non solo la sua vicenda personale, ma la contestualizza rendendo comprensibile ai nostri occhi la follia alla quale stiamo assistendo in questi giorni.

Il malinteso della vittima

Guardando la questione femminile da un altro punto di vista, segnalo Il malinteso della vittima. Una lettura femminista della cultura punitiva, uscito in settembre per Edizioni Gruppo Abele e scritto dalla sociologa e filosofa del diritto Tamar Pitch.

Il libro è una critica serrata alla deriva securitaria della società che trasforma tutte le persone, e le donne in particolare, in potenziali vittime.

«Il termine “sicurezza” – spiega l’autrice – si è spogliato, ormai da parecchi anni, delle caratteristiche sociali cui era legato (lavoro, salute, diritti): oggi ci si sente al sicuro con condizioni che ci proteggono individualmente dal rischio di diventare “vittime” di comportamenti dannosi. Da qui l’assunto che tutte e tutti siamo vittime potenziali; quindi fenomeni sociali complessi vengono governati con il codice penale e, di fatto, si criminalizza la povertà, la marginalità sociale, l’immigrazione. Ma com’è successo tutto questo? E soprattutto, com’è successo che a questa deriva securitaria aderiscano “movimenti politici il cui obiettivo è la libertà dallo sfruttamento, dall’oppressione, dalla violenza dei gruppi di cui si fanno portavoce? Perché, in particolare, questo succede in un movimento come quello femminista, che è ri-nato (in Italia, ma non solo) contro la rappresentanza (ognuna parla per sé, a partire da sé), nel contesto delle spinte antiautoritarie degli anni Sessanta?”».

Senza frontiere

L’ultima segnalazione riguarda il volume Senza frontiere. Diario di una missionaria laica in Kenya. Arriva dall’Editrice Ave e porta la firma di Patrizia Manzone, originaria di Monforte d’Alba (Cn), classe 1979. Laureata in Scienze religiose e attiva nella pastorale giovanile e missionaria della diocesi di Alba, nel 2008 è inviata come laica missionaria a Marsabit, diocesi nel Nord del Kenya, legata fin dagli anni Sessanta a quella di Alba.

Trascorre quattordici anni in terra keniana, durante i quali si sposa con Michael, farmacista a Nairobi. Nel 2022, con il marito keniano e i tre figli, intraprende una nuova missione, in Italia, come «Famiglia missionaria a km 0» nella parrocchia di Cherasco, sempre nel cuneese.

«Ricordo il giorno in cui, incontrando il mio viceparroco in oratorio, gli dissi: “A diciotto anni andrò in Africa!” – racconta Patrizia Manzone -. Lui mi chiese stupito: “Per fare cosa?”. Sono rimasta in silenzio: io volevo solo “stare”. Ma stare per fare cosa? Niente di eccezionale, le stesse cose che faccio qui. “Essere cristiana con loro, tra loro”, mi viene da rispondere adesso. Vivere il più vicino possibile alla gente del posto, consapevole che io non sarò mai un’africana (perché ho sempre una garanzia, una casa, una famiglia, un ospedale europei dove posso tornare), e continuare a imparare da loro la libertà e la semplicità dei figli di Dio e dare quello che sono».

In un’intervista a «La Stampa» di qualche tempo fa raccontava: «In questi anni di permanenza in Kenya, abbiamo cercato di aprire gli occhi, abbandonando la nostra zona “comfort” che ci fa sentire giusti, sicuri e protetti, per metterci in ascolto di culture e modi di vivere diversi dal nostro […]. Alla base […] il concetto di scambio, per mettere a frutto le capacità della persona e non un’assistenza caritativa a senso unico, che intrappola e rende dipendenti».

Un piccolo semplice manifesto per un mondo migliore. Dall’Iran fino al Kenya, passando da casa nostra.

Sante Altizio