Italia. Studenti di serie B

 

La scuola italiana fa fatica a sviluppare una didattica inclusiva e interculturale e a superare gli stereotipi sulla migrazione. Una ricerca su cinque città italiane conferma fenomeni di segregazione.

 

In un mondo attraversato da continui flussi migratori, l’intercultura, la condivisione e lo scambio sono sempre più urgenti, e la scuola è uno dei luoghi dove lo sono di più.

L’istruzione, infatti, ha un ruolo cruciale nel determinare il futuro dei giovani. Può essere un potente vettore di emancipazione, tanto più se i ragazzi provengono da situazioni di povertà ed esclusione sociale, come quelli che hanno alle spalle un background migratorio. Ma questo avviene a condizione che l’ambiente scolastico combatta le diseguaglianze educative e favorisca incontro e scambio tra culture, saperi e lingue.

 

Il progetto Integration mapping of refugee and migrant children in schools and other experiential environments in Europe (Immerse, Mappatura dell’integrazione dei bambini rifugiati e migranti nelle scuole e in altri ambienti esperienziali in Europa), finanziato dal programma Horizon 2020, ha analizzato l’inclusione scolastica e sociale di minori migranti e rifugiati in Belgio, Germania, Grecia, Irlanda, Italia e Spagna.

In Italia, la ricerca è stata condotta da Save the Children e ha coinvolto 7.168 studenti tra 10 e 17 anni delle città di Catania, Milano, Napoli, Roma e Torino.

Il rapporto conclusivo, Il mondo in una classe. Un’indagine sul pluralismo culturale nelle scuole italiane, denuncia la mancanza di risorse economiche e professionali, soprattutto negli istituti presenti in aree svantaggiate. L’Ong evidenzia le difficoltà della scuola italiana nello sviluppare approcci didattici inclusivi e interculturali e nel superare gli stereotipi sulla migrazione.

 

Molti istituti, soprattutto in aree periferiche, manifestano fenomeni di segregazione. Il white flight, ad esempio, è la tendenza delle famiglie italiane a iscrivere i figli nelle scuole di aree centrali o in istituti privati, incentivando la concentrazione di alunni stranieri nelle periferie. Altro fenomeno riguarda la propensione, denunciata dalla Fondazione Ismu – Iniziative e studi sulla multietnicità, ad assegnare docenti meno preparati e motivati alle classi con maggiore concentrazione di studenti stranieri.

L’abitudine a inserire gli studenti di origine straniera in classi inferiori alla loro età, il mancato riconoscimento di titoli di studio conseguiti nei Paesi di origine e la scarsa offerta di attività extra-scolastiche, sono altri fattori di marginalizzazione.

 

Nell’anno scolastico 2021/2022, l’11% degli studenti con background migratorio ha dichiarato di non aver frequentato la scuola per sei mesi o più (a fronte del 5,9% tra gli italiani). Alcune delle motivazioni addotte (barriere linguistiche, necessità di aiutare i genitori, inutilità della scuola) sottolineano l’incapacità inclusiva del sistema scolastico.

Allo stesso modo, gli studenti con background migratorio hanno un minore accesso alle attività extra scolastiche: corsi di sport, arte e musica sono frequentati dal 20% degli studenti stranieri e dal 43% di quelli italiani.

 

Preoccupante è anche il rapporto con i docenti: se il 64,5% degli studenti italiani ritiene di avere sempre o quasi la fiducia degli insegnanti, tra gli alunni di origine straniera lo pensa solo il 53,4%. Inoltre, il consiglio orientativo dei docenti per la scelta della scuola superiore mostra la tendenza a sottovalutare il potenziale di questi alunni: a parità di risultati nelle prove Invalsi, essi ricevono meno frequentemente il consiglio di iscriversi a un liceo.

 

In Italia, l’acquisizione della cittadinanza è regolata dalla legge 91 del 1992 che stabilisce il principio dello ius sanguinis: si diventa cittadini alla nascita se si è figli di uno o due genitori italiani. Chi è nato in Italia da genitori stranieri può acquisire la cittadinanza a diciotto anni se ha risieduto legalmente e senza interruzione nel Paese. Fino a quell’età, quindi, molti ragazzi, nati e cresciuti in Italia, restano esclusi dalla cittadinanza.

 

Alcuni studi condotti in diversi Paesi europei hanno evidenziato una correlazione positiva tra successo scolastico e cittadinanza. Save the Children conferma questa tendenza anche in Italia: la cittadinanza favorisce un livello più elevato di istruzione: il 46% di italiani e il 43% di alunni con background migratorio ma cittadini italiani aspirano a laurea, master o dottorato. Tra coloro che non hanno la cittadinanza solo il 35%.

 

Per rendere la scuola italiana un ambiente inclusivo e interculturale, in grado di valorizzare il potenziale di tutti i giovani, la strada è ancora lunga. Non si tratta solo di intervenire sulla qualità delle istituzioni scolastiche e dell’insegnamento ma anche di garantire pari opportunità nella sfera socioeconomica e, soprattutto, dei diritti umani.

Aurora Guainazzi




Ribaltare la prospettiva


Esiste un luogo, nei Caraibi, dove il tempo sembra essersi fermato. Nelle piantagioni di canna da zucchero lavorano gli haitiani, quasi in schiavitù. In questa società le donne hanno un ruolo centrale. Ma spesso non è tenuto in conto, perché non lavorano nel campo. Un giovane antropologo ci porta a incontrarle.

«Non so cosa sia l’amore – afferma Nora -. Non mi sono mai innamorata in vita mia. Ogni volta che poteva capitare mi fermavo a pensare e mi dicevo: non posso innamorarmi, perché chi mi aiuterà? Chi si farà carico di me? Nella mia vita ho sempre avuto paura di fallire e ho sempre pensato ai miei figli».

«Il futuro? – si domanda Anabel – Non saprei… Penso solo a come vivere oggi, a come crescere i miei figli, perché è già molto duro il presente e non ho tempo per pensare al futuro. E poi quello che vogliamo noi non conta: puoi desiderare una bella vita, una casa grande con un giardino e tante belle cose, ma sono solo sogni e i sogni ci rovinano la vita, te la rendono amara, perché non si avverano mai». Nora e Anabel sono due delle donne che hanno «scritto» insieme a Raúl Zecca Castel, il libro «Mujeres. Frammenti di vita dal cuore dei Caraibi».

Raúl è un antropologo che ha fatto la sua tesi di dottorato con una ricerca sul campo nei bateyes della Repubblica Dominicana (Rd). I bateyes sono le comunità dei coltivatori di canna da zucchero: normalmente haitiani, migranti o nati sul posto. In queste piantagioni si lavora in condizioni molto simili a quelle dei secoli della schiavitù, quando Hispaniola (così si chiama l’isola delle Grandi Antille condivisa da Haiti e Repubblica Dominicana), nel XVIII secolo, era la colonia che esportava la maggiore quantità di zucchero e quindi la più redditizia del mondo.

Dalla tesi di dottorato di Raúl è nato un volume di taglio antropologico, dal titolo «Mastico y trago» (mastico e ingoio), pubblicato nel 2023. L’antropologo ha però voluto allargare la diffusione di alcuni aspetti. Ha selezionato le «voci» di sette donne per realizzare un altro libro, agile e diretto, ma allo stesso tempo duro, come è dura la realtà nella quale ci porta, senza filtri.

L’autore scrive nell’introduzione: «Il tentativo è quello di decolonizzare l’immagine astratta della donna a favore del suo riconoscimento come soggetto concreto e reale, dunque nella sua infinita molteplicità. Le voci di questo libro, perciò, raccontano e rappresentano unicamente se stesse».

E continua: «Il volume, nell’offrire al lettore le testimonianze dirette di sette donne, a tutti gli effetti le vere autrici, non intende occuparsi di loro né intende coglierne il loro presunto punto di vista e, soprattutto, non intende proporre alcune interpretazioni, né alcun giudizio morale sulle loro scelte di vita».

Perché Mujeres

Raúl Zecca Castel è oggi assegnista di ricerca in antropologia culturale all’Università di Milano Bicocca, dove segue un progetto sul lavoro afrodiscendente informale nelle discariche in Repubblica Dominicana. Allo stesso tempo insegna antropologia culturale alla scuola di Interior design, decorazione e didattica museale all’Accademia delle belle arti di Brescia, e tiene un altro insegnamento di storia sociale dei media, nel corso di laurea di Comunicazione e società all’Università statale di Milano.

Lo abbiamo incontrato a una presentazione dei suoi libri. Ci spiega come nasce l’idea di Mujeres.

«Nel 2013 avevo compiuto una prima ricerca dedicata esclusivamente alla manodopera maschile, i braccianti tagliatori di canna. L’idea era quella di verificare cosa fosse cambiato per chi lavora ancora oggi nelle piantagioni di canna da zucchero dominicane, le stesse dell’epoca coloniale, che erano state segnate da un forte regime di schiavitù.

Ancora oggi la mano d’opera è prettamente maschile, perché si tratta di un lavoro molto faticoso. Il libro che ne era uscito, una monografia etnografica, intitolata Come schiavi in libertà, da una frase di un bracciante intervistato, parlava esclusivamente di uomini. Mi sono poi reso conto, però, di aver trascurato tutta una componente importante della società di piantagione, che era quella femminile».

Così Raúl ha un’altra occasione, la tesi di dottorato: «Avevo la possibilità di rimediare a questa mancanza e ho deciso di ribaltare completamente la prospettiva, e dedicarmi unicamente alla condizione che vivono le donne in questa realtà. Non vanno nelle piantagioni, ma restano all’interno dei bateyes, e sono coloro che portano avanti la comunità dal punto di vista sociale. Da un lato riproducono la forza lavoro (in quanto madri, nda), e dall’altro dipendono dagli uomini, perché l’unico lavoro retribuito è quello nella piantagione di canna. Le donne sono quindi forzate a legarsi con gli uomini per questioni economiche e a intrattenere una serie di relazioni di convenienza, scambi sessuali, economici o di altri benefici».

Raúl ricorda il periodo della sua ricerca sul campo con una certa nostalgia, non solo professionale: «È stata un’esperienza molto immersiva. Tra il 2017 e il 2018 ho trascorso sei mesi in una comunità, il batey di Ciguapa, condividendo il mio tempo con alcune famiglie, in particolare con le donne, e ho instaurato rapporti che andavano al di là della ricerca e sono diventate relazioni di amicizia, di fiducia, costruite nel corso del tempo. A volte le donne si sono confidate, si sono aperte con me, al di là di ogni mia aspettativa. Temevo, infatti, che essendo uomo avessero delle difficoltà e resistenze, invece, proprio il fatto che per la prima volta un uomo si interessava non ai loro corpi, ma alle loro storie e alle loro vite, per loro è stata una cosa inedita, e a maggior ragione avevano voglia di parlare con me».

Mettersi in ascolto

Così è nato Mujeres: «Una selezione delle interviste realizzate con sette di queste donne, con le quali ho trascorso più tempo. Era un’esigenza di restituzione di quel debito umano che ho contratto con loro. Non si trattava di dare voce a qualcuno. Sono persone che hanno una loro voce ma spesso non viene ascoltata.

Dal punto di vista antropologico, non ho fatto altro che introdurre il contesto, quindi ho dato qualche coordinata per comprendere un minimo quella realtà. Ma sono le donne le vere autrici del libro che si raccontano attraverso una serie di riflessioni, aneddoti, desideri. Parlano dei figli, delle relazioni con gli uomini, dell’amore, di tutti gli aspetti della vita sociale, economica, politica ed emotiva che caratterizza le loro comunità, lasciando al lettore la possibilità di mettersi in ascolto».

Raúl, nella stesura del libro, è riuscito a coinvolgere direttamente le «testimoni autrici»: «Sono riuscito anche a pubblicarlo in edizione dominicana, quindi in lingua spagnola, rendendolo accessibile, per coloro che sono alfabetizzate, anche alle dirette protagoniste. In realtà, durante la stesura, avevo avuto modo di fare una restituzione con ognuna, leggendo loro le parti che le riguardavano, intervenendo nel caso in cui non si trovassero d’accordo o modificando alcune cose che magari volevano chiarire meglio. È stato un lavoro collaborativo nel senso che è nato da loro, e io ho cercato di rispettare la loro idea riguardo la loro storia di vita».

Chi sono

La fascia di età delle protagoniste va dai 30 a i 60 anni. Circa la metà sono nate ad Haiti e arrivate in Repubblica Dominicana da piccole, l’altra metà è nata da questa parte dell’isola.

Il fenomeno della migrazione haitiana in Rd è una questione storica. Ci sono ancora i migranti stagionali nei periodi di taglio della canna, quando occorre più forza lavoro, ma, ci spiega Raúl, i giovani di recente migrazione sono spesso impiegati nelle città e in altri lavori, come nell’edilizia, perché «l’economia dominicana sta cambiando, è orientata al secondario e al terziario, settori che assorbono quindi la forza lavoro migrante».  Ma i bateyes sono un fenomeno quasi storico. Gruppi di persone che vivono nei pressi delle piantagioni, quindi in luoghi remoti e difficilmente raggiungibili: «Sono comunità che nascono all’interno di un’economia improntata sulla produzione della canna da zucchero, che oggi non trova più tanto significato, ma continuano a vivere con le stesse caratteristiche dai tempi coloniali. La maggior parte di queste comunità sono ancora del tutto isolate, difficili da raggiungere. Con servizi scarsi, come l’elettricità che, se c’è, è altalenante, l’acqua presa dai pozzi e le scuole quasi inesistenti. I cicloni, molto frequenti, isolano le comunità per una o due settimane, circondandole di acqua e fango. Sono luoghi che vivono situazioni estreme dal punto di vista igienico, sanitario, sociale, economico. Di fatto, dei ghetti».

Haitiani

C’è poi la questione etnica, perché nei bateyes vivono e lavorano quasi esclusivamente haitiani o loro discendenti. I rapporti tra haitiani e dominicani sono storicamente stati sempre complicati. Haiti, prima repubblica nera a raggiungere l’indipendenza e secondo stato nelle Americhe (dopo gli Stati Uniti), ha occupato varie volte il territorio della Repubblica Dominicana. Nel paese, ancora oggi, la discriminazione degli haitiani è forte.

«C’è una storia difficile tra la Rd e Haiti. Quest’ultima è stata additata come il paese della barbarie, perché a maggioranza afro discendente. C’è quindi stata questa introiezione da parte degli stessi migranti haitiani, che spesso disconoscono le proprie radici, tra le quali la religione vodù e le loro credenze».

Come per le tradizioni, anche per la lingua: «Per lo stesso motivo, le seconde generazioni tendono a non volere imparare il creolo (kreyol, la lingua parlata ad Haiti, nda), proprio per le introiezioni dell’ostilità della società dominicana. Magari lo capiscono, ma cercano di non parlarlo in pubblico, e non hanno la smania di voler mantenere la cultura, la tradizione. Mentre, invece, i giovani migrati da poco parlano in prevalenza la lingua di origine».

Invertire i rapporti di potere

Come detto, il fatto che un uomo, per di più europeo, si interessasse alle loro storie è stata per l’antropologo una chiave di accesso, perché era un riconoscere che le loro vite sono importanti, degne di ascolto: «E anche il fatto che facessi un lavoro su di loro, era una maggiore motivazione per raccontare quello che stavano soffrendo. Erano infatti consapevoli di una condizione di sofferenza, il che permetteva a loro di riflettere e di cercare strategie di emancipazione.

Ho deciso di non intervenire in Mujeres con un mio filtro, per mostrare come, anche in situazioni così difficili, le donne trovano dei margini di rivendicazione, autonomia, attraverso una serie di narrazioni che magari non sono così aderenti alla realtà, ma che servono loro per pensare di avere uno spazio di libertà, che in alcuni casi conquistavano effettivamente».

Un esempio frequente è quello delle relazioni prostitutive: «Quella che da un certo punto di vista è una relazione di dipendenza, di subalternità dal punto di vista relazionale, loro lo ribaltavano dicendo: “Quello che io ho è un corpo, te lo faccio pagare”. In un certo senso invertivano i rapporti di potere. Come dire: sono gli uomini che dipendono da noi. Antropologicamente è interessante. Nelle nostre categorie di analisi la prostituzione è una condizione di sfruttamento delle condizioni di subalternità della donna. È così, ma ascoltando la voce delle dirette interessate c’è una narrazione che ribalta la prospettiva: siamo noi che decidiamo se a quanto e quando vendere il nostro corpo».

Le voci delle sette donne del batey Ciguapa danno origine a un racconto potente, spesso duro, ma con venature di tenerezza. Mostrano la vita concreta di ogni giorno, con le sue fatiche, le paure e le speranze. «Anche aprendo il libro a caso ci si trova immersi in quello che è un dialogo. Come se il lettore fosse presente in questo gruppo di donne che parlano tra di loro e ascoltasse le loro storie. E lui stesso ha la possibilità di farsi la sua idea, diventando attore del senso e del significato che vuole attribuire alle parole che legge».

Marco Bello




Messico. Un sogno che unisce o divide

Alla città di frontiera messicana arrivano migranti da ogni dove. Da tempo, anche ucraini e russi, che lasciano i loro paesi in guerra per tentare di entrare negli Stati Uniti. È un sogno di tanti, ma non per tutti. Con l’aiuto dei «Border Angels» di San Diego abbiamo cercato di capirne i motivi.

«Verso Nord» dice il cartello indicante le strade della California. Foto Ana Pietres – Unsplash.

Tijuana è una città dai molti record. È il centro urbano di frontiera più grande e dinamico del Messico. Accoglie la sede di centinaia di multinazionali del settore manifatturiero attratte da condizioni fiscali vantaggiose. Ha l’ambizione di diventare un vivace polo culturale del paese. Per contro, con circa cento omicidi al mese (sei al giorno, ottocento tra gennaio e giugno 2022), presenta uno dei tassi di violenza più alti al mondo. Tijuana raccoglie in se stessa le contraddizioni tipiche di una città in moto perpetuo, in una crescita scomposta e senza regole. Con i suoi 24 km di confine segnati da una lunga barriera, simile a un moderno muro di Berlino, condivisi con la città gemella di San Diego, in territorio statunitense, Tijuana è anche la città di frontiera più trafficata del mondo. Ogni giorno circa 80mila persone l’attraversano per svariati motivi, per raggiungere il posto di lavoro, fare un acquisto o abbracciare un amico che vive dall’altra parte.

A Tijuana il mondo si incontra, fiducioso e disperato allo stesso tempo. Sullo stemma della città c’è scritto «Qui inizia la patria», ma per molti, in realtà, è proprio qui che finisce lo stato e, con esso, i diritti umani.

Tijuana è la città dove migliaia di migranti provenienti dall’America Latina si ammassano con la speranza, spesso delusa, di ricevere asilo politico negli Stati Uniti, presentandosi in una delle dogane di cui è costellata la città. E non si tratta soltanto di latinoamericani. A Tijuana arriva gente anche dall’Africa, dall’Asia e dai confini dell’Europa. Qui si spinge chi ha un sogno, ma anche chi sta scappando, magari da un disastro ambientale, dalla violenza, da mancanza di opportunità lavorative o da un conflitto armato. Contro il muro della città messicana sbattono i rifugiati di ogni dove. Negli ultimi mesi, sono arrivati anche migliaia di russi e ucraini. Accomunati dallo stesso sogno: mettere piede negli Stati Uniti.

Anche dalla Russia e dall’Ucraina

Ben prima del 24 febbraio, data di inizio dell’offensiva militare russa in Ucraina, Tijuana ha assistito all’arrivo di un inizialmente invisibile, ma poi sempre più consistente, gruppo di cittadini russi che hanno cominciato a lasciare il proprio paese quando per loro erano già evidenti le avvisaglie del conflitto. A fuggire verso la frontiera Sud degli Stati Uniti sono stati proprio gli oppositori del regime di Putin che, a partire da ottobre 2021, si sono imbarcati, insieme alle proprie famiglie e grazie a un visto turistico, su voli intercontinentali con scalo in Turchia e arrivo a Città del Messico o, più spesso, a Cancún, centro dei Caraibi storicamente frequentato dal turismo russo. Da qui, affittando un’automobile è possibile arrivare a Tijuana in qualche giorno di viaggio.

L’aumento del numero di persone provenienti dalla Russia non è passato inosservato alle organizzazioni di volontari che a Tijuana si occupano di dare un sostegno umano ed economico ai migranti.

«Nell’autunno scorso centinaia di russi sono stati fermati e detenuti dalle autorità di frontiera statunitensi – spiega Dulce García, la presidente dei Border Angels, un’associazione che fornisce assistenza legale ai migranti tra San Diego e Tijuana -. Abbiamo aiutato alcuni di loro a pagare la cauzione necessaria per uscire dalle strutture detentive durante la fase di valutazione della loro richiesta di protezione internazionale. La maggior parte delle persone russe che arrivano a Tijuana cercano rifugio negli Stati Uniti, dove hanno familiari o amici».

E i dati parlano chiaro. Secondo le statistiche della U.S. Customs and border protection, l’agenzia di dogana degli Stati Uniti, a ottobre 2021 sono stati registrati in frontiera 1.577 passaporti russi, mentre nello stesso mese del 2020 i fermi erano stati sette. Il numero di arrivi ha toccato il suo apice a dicembre 2021 con 2.105 russi in frontiera contro i 53 dell’anno precedente. Dallo scorso ottobre fino ad aprile 2022, la polizia degli Stati Uniti ha registrato la presenza di 10.089 cittadini russi, un numero che va ben oltre il doppio dell’intero anno precedente.

I cittadini ucraini hanno cominciato ad arrivare in massa a Tijuana a partire da marzo 2022. Con 20.118 persone registrate sulla frontiera sud dagli Stati Uniti solamente nel mese di aprile, il numero di ucraini è aumentato esponenzialmente, se si considera che allo stesso mese dell’anno precedente erano state registrate 31 persone. Per loro il viaggio passa attraverso la Moldavia e la Romania da dove è possibile imbarcarsi per Città del Messico e, da lì, verso Tijuana, via terrestre o aerea.

L’arrivo sulla frontiera di persone in fuga dall’Ucraina ha generato scompiglio e destrutturato in parte il sistema di accoglienza degli Stati Uniti che, negli ultimi due anni, era stato caratterizzato da una chiusura pressoché totale.

Il muro di Tijuana finisce sulla spiaggia del Pacifico, dividendo la città messicana da quella statunitense di San Diego. Foto Max Böhme – Unsplash.

Il diritto d’asilo cancellato

Nel 2021, il paese del Nord America ha registrato circa 1 milione e 700mila arresti di persone migranti, un milione delle quali è stato espulso direttamente dalla frontiera senza avere l’opportunità di chiedere asilo. Nonostante la Convenzione di Ginevra (1951) obblighi i paesi a garantire il diritto d’asilo e, di conseguenza, a dare a qualsiasi individuo la possibilità di richiedere protezione internazionale, gli Stati Uniti hanno scavalcato le normative internazionali appellandosi al Titolo 42, una vecchia legge di politica sanitaria di quarantena reintrodotta, con alcune modifiche, dall’ex presidente Donald Trump a marzo 2020. Dall’inizio della pandemia, la misura è stata utilizzata per espellere direttamente dalla frontiera i migranti, ufficialmente per motivi sanitari, anche in assenza di sintomi di Covid-19. Questo procedimento, travestito da politica di sanità pubblica, non ha fatto altro che rendere il confine più inespugnabile impedendo a più di un milione di persone di far richiesta di asilo.

«Negli ultimi anni la frontiera è stata chiusa per tutti, soprattutto per chi arrivava da Haiti, Venezuela e Centro America – spiega Dulce García -. Da marzo abbiamo assistito a un cambiamento della politica migratoria degli Stati Uniti, ma solo in favore di cittadini ucraini e, successivamente, anche di russi che, per lo meno, hanno potuto fare richiesta di asilo politico. Ma anche le persone di Haiti stanno scappando da una situazione terrificante, che potremmo considerare una guerra interna. Tutti dovrebbero avere il diritto di richiedere asilo politico, ma le persone afrodiscendenti, latine e indigene sono ancora sottoposte al Titolo 42 ed espulse in forma immediata».

A Tijuana, proprio vicino ai punti di ingresso negli Stati Uniti, ogni giorno si accampano migliaia di persone che provano a fare richiesta di asilo politico, vengono respinte dalla polizia di frontiera statunitense e successivamente riprovano, in un rituale circolare che pare non avere fine.

Dopo lo scoppio della guerra in Ucraina, il presidente Joe Biden ha dichiarato di essere aperto ad accogliere i profughi provenienti dal conflitto e nei mesi di marzo e aprile i cittadini ucraini hanno potuto beneficiare di programmi di accoglienza speciale, mentre le persone di nazionalità russa, nonostante alcune iniziali espulsioni, hanno avuto la possibilità di fare richiesta di asilo politico, risultando in grande parte esenti dall’applicazione del Titolo 42.

Dal 21 aprile, inoltre, il presidente degli Stati Uniti ha lanciato il programma «Uniting for Ukraine», che permette ai cittadini ucraini con uno «sponsor» nel paese di arrivare sul suolo nazionale direttamente in aereo e ricevere un permesso di soggiorno di due anni. Questo procedimento punta ad azzerare gli arrivi dalla frontiera terrestre del Messico, ma genera un problema per chi si trova già a Tijuana. Secondo le regole del programma, le persone di nazionalità ucraina ferme sul confine Sud dovrebbero ritornare in Europa e da lì fare richiesta d’ammissione online, oppure rivolgersi all’ambasciata a Città del Messico. In attesa di uno sblocco della situazione sulla frontiera Sud, centinaia di ucraini sono stati ospitati presso la palestra comunale di Tijuana e la solidarietà è arrivata anche dalla popolazione locale messicana che ha aperto le proprie case fornendo un rifugio temporaneo a numerose famiglie.

«Da fine aprile abbiamo notato che pure i cittadini ucraini hanno cominciato ad avere problemi a entrare negli Stati Uniti. Tuttavia, anche se ci vuole del tempo, in qualche settimana le loro richieste di protezione internazionale vengono accolte – continua Dulce García -.  Siamo felici di vedere che il Titolo 42 non viene applicato alle persone ucraine o ai russi e ci auguriamo che questo sia il primo passo verso l’eliminazione completa di una legge che lede i diritti umani».

Border Angels, l’organizzazione di volontari di cui Dulce è presidente, da due anni lotta e manifesta per l’eliminazione del Titolo 42 che, in pratica, ha permesso agli Stati Uniti di smantellare quasi completamente il sistema di asilo vigente.

Scritte benauguranti su un tratto del muro di Tijuana. Foto Barbara Zandoval – Unsplash.

Joe Biden e il Titolo 42

«Ciascuno è benvenuto», ricorda la frase scritta sul muro. Foto Katie Moum – Unsplash.

Il presidente Joe Biden ha mantenuto il Titolo 42 fino a oggi, considerandolo essenziale per prevenire la diffusione del Covid-19, nonostante numerosi rappresentanti della comunità scientifica abbiano messo in evidenza che questa politica discriminatoria non ha un effetto diretto sulla diffusione della pandemia. Spinto dalle numerose critiche provenienti da organizzazioni dei diritti umani e dalla sua stessa parte politica, ad aprile 2022, il presidente degli Stati Uniti ha provato a mettere fine al programma entro il 23 maggio, ma un giudice federale della Louisana (Robert Summerhays) ha ordinato che la misura rimanesse in atto, dopo una causa mossa da alcuni stati repubblicani, per cui, al momento, la politica viene ancora attuata.

«Espellere i migranti dalla frontiera secondo il Titolo 42 significa obbligarli ad ammassarsi a Tijuana, una città pericolosa e dominata in parte dai narcos – continua Dulce García -. Molti migranti latinoamericani o africani respinti in Messico sono stati rapiti o uccisi proprio dopo il respingimento».

Secondo l’organizzazione Human rights first, si sono verificati 9.886 casi di rapimento, tortura, violenza sessuale, furti e altre violazioni ai danni delle persone migranti espulse secondo il Titolo 42 durante l’amministrazione Biden.

Questi respingimenti hanno reso Tijuana un grande campo profughi a cielo aperto, nel quale chiunque arrivi si accampa come riesce: all’angolo di una strada, a pochi metri dalle dogane, sotto qualche tettoia o nelle zone pedonali. In queste condizioni migliaia di migranti continuamente respinti assistono a un’applicazione sommaria e discriminatoria del Titolo 42 da parte della polizia di frontiera che decide chi ha diritto di chiedere protezione internazionale e chi no in base alla nazionalità delle persone.

«Non c’è violenza tra i migranti, perché nessuno si arrabbia con gli ucraini o i russi se loro passano e gli altri no – spiega Dulce García -. La frustrazione dei migranti a cui viene applicato il Titolo 42 si rivolge contro il governo degli Stati Uniti che non accetta le loro domande di asilo politico e contro quello del Messico che non garantisce standard di sicurezza sul suo territorio. Noi lottiamo per richiedere che vengano rispettati i diritti delle persone che stanno vivendo un percorso migratorio, indipendentemente dalla loro nazionalità».

Mentre gli arrivi dei cittadini russi e ucraini sulla frontiera terrestre sembrano diminuire, proprio nel mese di giugno è partita una nuova carovana di circa 15mila migranti centroamericani, provenienti in particolare dall’Honduras e dal Guatemala, che viaggiano verso gli Stati Uniti in fuga da contesti di povertà, corruzione e violenza.

Logo degli «Angeles de la frontera», associazione d’aiuto con sede a San Diego.

Migranti di «serie a» e migranti di «serie b»

Ad attenderli sul piede di guerra un fermo Joe Biden che, al IX Summit of the Americas dello scorso giugno, ha dichiarato che «la migrazione irregolare è inaccettabile» e il confine statunitense è chiuso per chi arriva senza un regolare visto. A dargli una mano ci sarà anche il presidente messicano Andrés Manuel López Obrador che ha deciso di schierare 30mila militari sulle sue frontiere proprio nei giorni in cui la carovana è partita.

«È appunto questo che lamentiamo: non esistono persone di serie A e di serie B. I richiedenti asilo non sono solamente coloro che fuggono da una guerra in Europa. Qui arrivano persone di diverse etnie e da diverse parti del mondo che si lasciano alle spalle conflitti militari, economici, sociali o politici e meritano di ricevere protezione così come qualsiasi essere umano», conclude Dulce García.

Simona Carnino

I capi di stato americani al IX «Summit of the Americas», tenutosi a Los Angeles lo scorso giugno.
Foto Alan Santos – PR.

Archivio MC

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Rom, rifugiati nei margini

8 aprile: Giornata internazionale dei Rom, Sinti e Camminanti


Antonio vive in un camper con la sua famiglia, costretto alla marginalità come decine di migliaia di altri Rom in Italia e in Europa.
Le radici della sua condizione affondano nella storia delle popolazioni romanì nel nostro continente, segnata da secoli di politiche di sterminio, sfruttamento, riduzione in schiavitù o assimilazione forzata.
Le prime tracce di Rom in Italia risalgono al XV secolo. Oggi si stima che siano tra i 130 e i 150mila, concentrati nelle grandi città. La gran parte (quella che non fa notizia) vive in case normali. Gli altri sono costretti, loro malgrado, a vivere in situazioni al limite dell’umano: nei «campi nomadi», quelli inventati dalle stesse istituzioni che a ogni campagna elettorale, li vogliono radere al suolo.



Rom, tra pandemia, sgomberi e roghi.

Una roulotte sotto casa

Antonio vive in un camper con la sua famiglia nella zona Nord di Torino. Costretto a stare per strada, è esposto ai pericoli del vivere isolato. Nei primi mesi della pandemia non può svolgere le attività informali che prima gli davano da mangiare e, in più, subisce continui controlli delle forze dell’ordine. La condizione di violazione dei diritti di centinaia di persone costrette, come Antonio, a vivere un nomadismo forzato, pare senza via d’uscita.

Tra fine febbraio e inizio marzo 2020, il numero dei contagi e delle morti provocate dal Covid-19 porta rapidamente l’Italia dentro il primo lockdown. Uscire di casa è proibito, a meno che non sia strettamente necessario. È obbligatorio compilare un’autocertificazione per qualsiasi spostamento. Se si esce di casa si può essere fermati, identificati e, nel caso di violazioni delle misure straordinarie, sanzionati.

Antonio e il nomadismo forzato

Conosciamo Antonio in un pomeriggio di marzo 2020. C’è il sole a Torino. Nei minimi spostamenti consentiti per le strade del nostro quartiere, Barriera di Milano, passiamo spesso vicino ai camper e ai furgoni di alcune famiglie. Sono persone sgomberate da «campi nomadi» legali e da baraccopoli illegali della zona Nord e disperse dalle forze dell’ordine in giro per la città.

Quello che potremmo chiamare il «popolo dei camper», è cresciuto nel territorio torinese nel giro di pochissimi anni grazie al «Progetto speciale campi nomadi» della giunta 5 Stelle che, a partire dal 2017, ha sgomberato e sfollato individui e famiglie da svariati insediamenti e baraccopoli formali, tollerate e informali in tutta la città.

Una pratica odiosa, parte di una campagna elettorale permanente sulla pelle di persone povere e senza casa, che ha provocato ulteriore sofferenza e nomadismo forzato dopo gli sgomberi della precedente giunta Pd, non ultimo quello di circa duemila persone dalla baraccopoli di Lungo Stura Lazio nel 2015.

Molti hanno deciso di vivere nei camper perché costretti dagli sgomberi, o perché in fuga dai campi autorizzati gestiti dal comune, dentro i quali i conflitti e la violenza sono intollerabili.

I campi autorizzati, infatti, non sono come gli insediamenti informali che si creano sulla base di gruppi e famiglie che si conoscono, hanno origini, lingua, tipo di attività informali comuni, e nei quali, in genere, ci sono reti di solidarietà e cooperazione. Quelli formati dal comune sono spazi di segregazione dove ogni tipo di convivenza è forzata e artificiale. Al loro interno sono costrette a convivere famiglie e gruppi che non hanno nulla da condividere se non la povertà, il mancato accesso a una casa, e l’etichetta etnica tanto cara agli uffici speciali per «nomadi» che li considera, appunto, «nomadi», e quindi adatti ad abitare nella precarietà ed emarginazione.

Fermati sei volte al giorno

I nostri vicini di casa in camper sono proprio tra quelle famiglie costrette a lasciare i campi.

Antonio vive per strada con la sua famiglia e parcheggia spesso da queste parti.

Nei giorni del lockdown ci capita di passare a salutarlo. A volte gli portiamo un pacco di mascherine difficili da trovare.

Una volta, mentre siamo con lui, veniamo avvicinati con fare aggressivo da vigili in borghese per essere identificati. Fermano solo noi, mentre altre decine di persone sostano o transitano indisturbate sullo stesso marciapiede.

Nelle settimane seguenti, Antonio, sua moglie e i suoi bambini, tutti molto piccoli, verranno identificati fino a cinque, sei volte al giorno da qualsiasi forza dell’ordine.

All’esasperazione procurata dalla cosa in sé, si aggiunge la preoccupazione per il contagio: essere avvicinati da estranei potenzialmente infetti così di frequente non lascia tranquillo Antonio.

Cosa succede in via Germagnano

Il primo lockdown stabilisce restrizioni alla libertà di movimento di tutta la popolazione.

Nel quartiere osserviamo che il comportamento delle forze di polizia diventa più aggressivo e che si concentra in particolare su chi non può «restare a casa» perché una casa non ce l’ha.

Oltre a colpire, in generale, le persone fragili o considerate problematiche, il lockdown toglie qualsiasi possibilità di reddito a chi abitualmente cerca oggetti da recuperare nei bidoni della spazzatura o ricicla e separa i metalli.

All’improvviso, a Torino, migliaia di persone che riuscivano a sopravvivere grazie alle attività informali legate al mercato di libero scambio di via Carcano e del Balon o a quello di Porta Palazzo, non possono più lavorare.

In queste stesse settimane in via Germagnano continuano le operazioni di sgombero del «Progetto speciale campi nomadi» sottoscritto nel dicembre 2019 da regione Piemonte, comune di Torino, prefettura e diocesi. Il progetto, che parla di «superamento dei campi», prevede, di fatto, di radere al suolo le baraccopoli di via Germagnano, sia quella formale costruita dal comune durante la giunta Chiamparino nel 2004 (la più grande di Torino dopo quella di Lungo Stura Lazio, sgomberata alla fine del 2015 dall’amministrazione Pd con il progetto «La città possibile»), sia quelle proliferate nell’arco di vent’anni, abitate in prevalenza da persone originarie della
Romania, e raddoppiate proprio in conseguenza dello sgombero del 2015.

Con le restrizioni dovute all’emergenza, nessuno al di fuori del campo può raggiungere le baraccopoli per capire cosa sta realmente accadendo. Alcuni amici sotto sgombero che abitano lì, possiamo solo sentirli al telefono.

Nonostante l’emergenza sanitaria, i controlli da parte del Rime, il Reparto informativo minoranze etniche, nuova denominazione politicamente corretta del «nucleo nomadi» della polizia municipale di Torino, sono continui e, non appena la persona o la famiglia non è presente, la baracca viene sequestrata e, spesso, distrutta. A volte le persone tornano a casa dopo poche ore e trovano la propria abitazione demolita con tutti i loro beni personali all’interno. Lo shock, il dolore, il senso d’impotenza, la sofferenza di fronte ad abusi che non saranno mai puniti né raccontati è terribile.

In quattrocento per strada

A metà aprile 2020, nelle varie baraccopoli di via Germagnano vivono più di 400 persone. Non possono uscire dal campo per andare ai bidoni o cercare cibo nei mercati di zona o chiederne davanti ai supermercati. Se lo fanno, ed è successo a molti, prendono multe di 400 euro e denunce penali per violazione del dpcm del 9 marzo 2020.

Varie persone, anche anziane, e famiglie intere, perdono la casa per essersi allontanate dal campo in cerca di cibo e per altre necessità.

Le baraccopoli devono essere distrutte ad ogni costo in vista delle elezioni amministrative del 2021, e quindi dell’imminente campagna elettorale. Ufficialmente, la distruzione delle baracche senza alternativa abitativa equivale, nei documenti del Comune, al «superamento dei campi» e al rispetto delle direttive dell’Unione europea.

Qualche mese dopo, nella settimana tra il 14 e il 21 agosto 2020, nel silenzio e nell’invisibilità più totali, viene distrutta la maggior parte delle baracche ancora in piedi di via Germagnano. I Rom e i poveri devono sparire. In meno di un mese vengono buttate in strada più di 200 persone.

Chi viene sgomberato si accampa dove può.

La tensione è fortissima, come la rabbia per i nuovi sgomberi di famiglie che erano già state sgomberate da poco. Nostri amici e conoscenti cercano rifugio in zone e margini invisibili ai più.

Il 1° settembre, un blitz della Rime caccia da Piazza d’Armi decine di persone che si sono accampate lì con le tende perché appena sgomberate. Mandano via anche altre persone senza casa, italiane e non, già presenti nel parco.

All’alba del 10 settembre, altre venti famiglie allontanate da via Germagnano pochi giorni prima, vengono sgomberate da un piccolo terreno nascosto e abbandonato da più di vent’anni in via Reiss Romoli. Nello stesso terreno vivono già tre nuclei famigliari sgomberati da Lungo Stura Lazio nel 2015. Loro vengono lasciati lì.

Una volta concluso lo sgombero di via Germagnano, la comunicazione ufficiale dell’amministrazione comunale e della sindaca non fa alcun riferimento alle persone buttate per strada, ma cita unicamente le operazioni di «pulizia e bonifica» della zona e la rimozione di rifiuti. Sulla stessa scia, molti giornali e media locali non parlano delle persone sfollate, ma solo, in modo paradossale, del numero di animali, cani, gatti e galline, che girano ancora tra le macerie.

Tra pandemia, sgomberi e roghi

Molte persone e famiglie si disperdono per la città in cerca di luoghi in cui poter stare, anche solo per qualche giorno, invisibili e nascosti. Non mancano nuove occupazioni di piccoli terreni e di appartamenti vuoti di proprietà Atc (l’Agenzia territoriale per la casa che gestisce il patrimonio di case popolari di Torino e Piemonte). Molte persone hanno perso tutto con la distruzione della baracca o della roulotte. Ad alcuni viene imposto di andare in altri campi.

Una roulotte, la casa di una famiglia che da vent’anni viveva in via Germagnano e che è stata sgomberata, posizionata nella «zona orti» di Lungo Stura Lazio seguendo le indicazioni della polizia municipale e in presenza della stessa, viene data alle fiamme di notte da qualcuno che non vuole «zingari» nei paraggi. Le minacce di dare tutto alle fiamme, comprese le persone, sono iniziate non appena la roulotte è stata posizionata nella zona demaniale, troppo vicina agli orti di Lungo Stura Lazio usati dai residenti della zona per grigliate e altre attività.

Malgrado la denuncia delle vittime sotto shock che, per puro caso, la notte non dormivano nella roulotte ma in una baracca di amici vicina al loro mezzo, al momento non è stata fatta alcuna indagine da parte delle forze dell’ordine. La famiglia ha perso nel rogo tutti i beni personali e i documenti.

Nell’estate del 2020 sono numerosi gli episodi di aggressioni fisiche e verbali ai danni di persone che si ritrovano di colpo per strada.

Per la grande distruzione di agosto 2020, i consiglieri di opposizione in comune – quelli che sarebbero diventati poi la maggioranza alle successive elezioni – fanno sentire la loro protesta. Non tanto, però, per la violenza degli sgomberi, avvenuti senza offrire alcuna alternativa abitativa a centinaia di persone, quanto perché, secondo loro, la giunta a 5 Stelle ha «propagato» i Rom in giro per la città. Come la peste.

Nascosti da tutti

Le segnalazioni di cittadini e imprenditori che, dalle loro case o uffici, chiamano vigili e polizia, sono continue. Anche in piena notte.

Molto spesso l’esito delle chiamate è l’allontanamento delle persone e del loro mezzo, che si sposteranno in qualche altro luogo nel quale, di nuovo, non saranno graditi.

Al pregiudizio e all’odio, poi, si aggiunge il clima pesante della pandemia. A chi ha bambini piccoli e minori, viene intimato di tenerli tutti rinchiusi dentro i camper. Diverse persone dentro pochi metri quadrati. Perché «i cittadini vedono dalle finestre i bambini giocare sul marciapiede».

Vale la pena raccontare un ultimo episodio risalente all’estate 2021 e passato sotto silenzio: il rogo notturno di un altro camper parcheggiato in un luogo isolato, alle Vallette, Torino Nord. Questa volta nel camper dorme un’intera famiglia di Rom, e viene sfiorata la strage. È il pianto di un neonato che salva tutti svegliando la mamma giusto in tempo perché si accorga del fuoco e metta in salvo i figli. Del camper non rimane nulla. Pare che, prima del rogo, sia stato cosparso di benzina con grande perizia. Sotto il mezzo sono rinvenuti due secchi colmi di combustibile e un’altra tanica piena viene trovata a pochi metri.

La richiesta delle istituzioni nei confronti di chi è Rom, di chi è povero e senza casa, è sempre la stessa, e produce i suoi effetti: devono essere invisibili, devono sparire appena arriva un controllo, parcheggiare lontano dalle case, nascondersi alla vista dei cittadini «perbene».

È fondamentale che siano lontani da tutto e da tutti. Anche per bruciare.

Manuela Cencetti


Il docufilm

La versione di Jean è la storia di un uomo che vive nel «campo rom» di Lungo Stura Lazio, nella periferia Nord di Torino. Jean mostra, con i suoi filmati e con quelli di altri abitanti della baraccopoli, un mondo precario, continuamente distrutto da «progetti speciali» per i Rom, da improvvisi sequestri giudiziari e sgomberi forzati. Un punto di vista che, per una volta, viene dall’interno.

Il film, prodotto nel 2020 da Manuela Cencetti, autrice di questo dossier, Jean Diaconescu e Stella Iannitto, ha partecipato al 38° Torino Film Festival.


Secoli di schiavitù, sfruttamento, esclusione.

Fino al «grande divoramento»

In Europa, la storia delle popolazioni romanì coincide con secoli di politiche di sterminio, sfruttamento, riduzione in schiavitù o assimilazione forzata. Dal loro probabile arrivo nel vecchio continente dall’India intorno al Mille dopo Cristo, la loro esclusione e persecuzione si fa via via sempre più strutturata e spietata, fino alla sciagura nazista che uccide 500mila Rom in quello che loro chiamano il «barò porrajmos».

Sul numero di individui e famiglie rom, o che si autodefiniscono tali, presenti in Europa, non esistono rilevazioni recenti o precise. Quantomeno, è difficile fare una stima attendibile. Anche perché, nei secoli, dichiarare le proprie origini rom ha sempre comportato il rischio, o la certezza, di essere stigmatizzati, perseguitati, banditi, ridotti in schiavitù. E nasconderle ha spesso garantito maggiori possibilità di sopravvivenza, specie dopo la Seconda guerra mondiale.

Storicamente, sotto la definizione di Rom si riunisce una varietà molto ampia di gruppi che mostrano tra loro diversità culturali anche notevoli, a cominciare dalla lingua. Se la lingua comune, infatti, è il romanés, nelle diverse regioni e paesi nei quali vivono, essa presenta molte varianti.

Il romanés è una lingua e al contempo un continuum di dialetti molto contaminati dalle lingue dei gagé (i non rom) presso i quali si trovano, per lessico, fonetica, grammatica.

Come sostiene l’antropologo Leonardo Piasere, al di là dei tentativi di determinare chi sia un «vero Rom», l’unico tratto davvero comune, persistente nel tempo e nello spazio, è la sua stigmatizzazione.

In Europa, la storia delle popolazioni romanì coincide con secoli di politiche di sterminio, sfruttamento, riduzione in schiavitù o assimilazione forzata. Questo continuum di violenta esclusione o di feroce inclusione ha generato nei Rom un rapporto ambivalente con la società maggioritaria dalla quale cercano di proteggersi e nella quale, al contempo, cercano di immergersi.

Tracce dei primi Rom in Europa

È difficile parlare di una supposta «vera» origine dei popoli rom. La lingua romanés porta con sé l’eredità di alcuni idiomi dell’India del Nord Ovest e delle successive migrazioni attraverso Persia, Armenia e Grecia.

È probabile che alcuni gruppi di Rom entrino nell’Impero Bizantino poco dopo l’anno Mille, e che si disperdano in Grecia e in Medio Oriente. Successivamente, dal Trecento, iniziano a migrare nello spazio europeo. Una parte di questi gruppi è ridotta in schiavitù nei principati di Valacchia e Moldavia, un’altra parte si spinge verso l’Impero Ottomano convertendosi all’Islam e migrando verso la penisola balcanica.

Come spiega Nando Sigona nel suo lavoro del 2002, Figli del ghetto, le prime tracce della loro presenza in Europa risalgono al 1362, nell’attuale Dubrovnik (Croazia). Nel Quattrocento, invece, la presenza di circa 20mila nuclei famigliari rom nei Balcani è attestata dai registri delle tasse dell’Impero Ottomano. La presenza di altri gruppi è documentata in Tracia, Macedonia, Kosovo.

Nel Basso Medioevo le comunità rom entrerebbero, dunque, in contatto con le popolazioni locali e si specializzerebbero in alcuni mestieri come la lavorazione dei metalli, l’allevamento di bestie e cavalli, l’ammaestramento di orsi e altri animali, la lavorazione di vimini e legno, le arti della danza e della musica, le arti acrobatiche.

Piasere osserva che nella zona balcanica il modello seguito è «quello dell’inserimento dei Rom nelle strutture socio economiche locali attraverso il sistema tributario e/o lo sfruttamento coatto della forza lavoro». Nell’Impero Ottomano i Rom non vengono banditi. Un altro trattamento, invece, viene riservato loro nei principati cristiani di Valacchia e Moldavia, per secoli vassalli degli imperatori ottomani. In essi è istituito il più grande sistema schiavistico di «zingari» dell’Europa moderna che durerà dal Trecento fino alla seconda metà dell’Ottocento. Nell’attuale Romania questa lunga storia di schiavitù è un argomento assente dai libri di storia.

Inizia la guerra al vagabondaggio

Nell’Europa occidentale, le persecuzioni contro i Rom iniziano nel corso del Quattrocento, quando si fortifica la struttura dello stato nazione e si iniziano a controllare maggiormente i confini. È a partire da questo periodo che per i Rom si fa sempre più difficile inserirsi nelle strutture socio economiche locali. Si trovano davanti a una scelta: l’annientamento della loro identità oppure la morte, la prigione o il bando.

Stati italici e germanici di piccole dimensioni, già a partire dal Cinquecento, sviluppano una vera e propria ossessione «antizingara». Ne è testimonianza la produzione continua di decreti: quasi uno all’anno, tra il 1493 e il 1785, nei piccoli stati italiani, compreso lo Stato della Chiesa, con forze speciali e milizie dedicate all’applicazione delle norme attraverso vere e proprie cacce a «questa razza di gente», come vengono definiti i Rom nell’Italia tra Cinquecento e Settecento.

La lotta antizingara si inserisce in una più ampia guerra al vagabondaggio, utile a proletarizzare mendicanti, reietti e fuorilegge nella transizione epocale dal feudalesimo al capitalismo.

I Rom vengono considerati, però, una categoria a parte, dato che la loro marginalità è utilizzata dagli stessi Rom per sfuggire alla proletarizzazione e mantenere la loro autonomia.

Si determina in questo modo una spirale sanguinaria: alla violenza della società maggioritaria, i Rom oppongono forme di resistenza e disobbedienza.

Nel corso del tempo, con il rafforzamento dello stato moderno e dei suoi apparati, i Rom diventano l’emblema di quello che il buon cittadino non deve essere, e quindi etichettati come non cittadini, stranieri interni, privi di diritti. Come sostiene Piasere, «lo stato moderno nasce anche sull’antiziganismo».

Molti di questi gruppi o comunità, per secoli, sono perseguitati, mettendo a dura prova la loro stessa esistenza. Nel corso del Cinquecento e del Seicento, alcuni gruppi di Rom resistono anche attraverso le armi.

Il paradosso dell’Occidente risiede nell’uso della violenza contro i «risultati» delle sue stesse politiche: più perseguita i Rom per la loro organizzazione sociale «a polvere» (come la definisce Piasere), più i Rom la fanno propria, sparpagliandosi, incontrandosi, disperdendosi.

Fino al «grande divoramento»

Nel corso del Settecento inizia a svilupparsi lo studio delle razze e l’evoluzionismo. Ora non esistono più le razze «maledette», ma quelle «selvagge», considerate inferiori perché non evolvono e presentano limiti biologici.

Più avanti, nell’Ottocento, grazie ai contributi di Lombroso, gli «zingari» smettono di essere considerati «selvaggi di casa nostra», e iniziano a essere «razza delinquente atavica».

L’Ottocento è un secolo nel quale, a seguito di diversi conflitti, riprendono i movimenti migratori dei Rom. Nuovi flussi si muovono dai Balcani verso l’Europa occidentale. Con la fine della schiavitù in Moldavia e Valacchia, la presenza delle comunità rom si espande anche nelle regioni dell’Europa centrale e, con il tempo, in Austria e Germania.

A fine Ottocento, i contributi lombrosiani alla «razziologia criminale» iniziano a rendere gli «zingari» una categoria giuridica a sé, criminalizzandola. In Germania e Francia si creano uffici appositi per la gestione dei soggetti «zingari».

Tra il 1942 e il 1945, almeno 500mila Rom sono uccisi nei lager anche in seguito a queste teorie. La Germania nazista e i paesi dell’Asse mettono in atto lo sterminio delle popolazioni romanì, chiamato dalle comunità sopravvissute il «barò porrajmos», il «grande divoramento».

La Germania nazista elimina i Rom sulla base di genealogie e «diagnosi razziali» prodotte dai due antropologi eugenisti Robert Ritter e Eva Justin. Questi stabiliscono il grado di purezza dei Rom. All’inizio, per i «Rom puri» si pensa alla creazione di una riserva affinché non si mischino con le altre razze, ma alla fine vengono comunque tutti annientati. Dopo la guerra, i due antropologi non verranno mai processati.

Il caso del fascismo romeno

In Romania, nel corso della Seconda guerra mondiale, le popolazioni rom vivono una storia di annientamento ancor meno conosciuta e indagata dello sterminio nazista. Il regime fascista del maresciallo Ion Antonescu, tra il 1942 e il 1944, deporta 25mila Rom in Transnistria, nella regione tra i fiumi Nistru e Bug. Le persone sono costrette a viaggiare a piedi o su vagoni per lunghe settimane. Le autorità spogliano di ogni bene i deportati che muoiono nudi, a cielo aperto, di freddo, di fame, di malattie e di morte violenta. Molte donne e ragazze vengono stuprate. Se si oppongono vengono uccise.

In un rapporto governativo del 1942 si legge: «Per tutto il tempo che i Rom sono stati nella caserma di Alexandrudar, hanno vissuto in una condizione di miseria indescrivibile. […] Si davano 400 grammi di pane agli adulti e 200 grammi a bambini e anziani. Gli si davano anche un po’ di patate e raramente del pesce affumicato. Perciò molti sono dimagriti talmente che sembrano scheletri. Ogni giorno muoiono dieci quindici zingari. Sono pieni di parassiti. La visita medica non viene fatta e le medicine non ci sono. Sono senza vestiti, scarpe. Alcune donne hanno il corpo vuoto, nel vero senso della parola. Il sapone non gli è stato mai distribuito, perciò non possono lavarsi, né lavare i propri indumenti. In generale la situazione degli zingari è terribile, molto vicina all’impossibile».

Manuela Cencetti


Minoranza perseguitata

È difficile stabilire quanti siano i Rom nel mondo, in Europa e nei singoli paesi. Le stime più accreditate (ad esempio dal Consiglio d’Europa) parlano di circa 15 milioni di Rom nel mondo, di cui 12 milioni in Europa. Il 60-70% di questi ultimi risiede nell’Europa centro orientale, in alcune delle regioni più povere del continente. Il 15-20% vive tra Spagna e Francia. Nella loro eterogeneità, le popolazioni romanì rappresentano la più grande minoranza nel continente e la più discriminata. Semplificando molto, possono essere identificate in cinque gruppi principali: i Rom, o Romà, o Romi; i Sinti; i Kale o Kalos; i Manuś e i Romanićels.

Italia

Come riportato nell’ultimo report dell’Associazione 21 luglio (L’esclusione nel tempo del Covid. Comunità rom negli insediamenti formali e informali in Italia. Rapporto 2021), in Italia i gruppi rom sarebbero 22, associati a differenti flussi migratori:

  • i Rom italiani di antica migrazione, giunti nel nostro paese a partire dal XV secolo e suddivisi in cinque gruppi (Rom abruzzesi, celentani, basalisk, pugliesi e calabresi);
  • i Sinti, anch’essi di antica migrazione, che comprendono nove gruppi (Sinti piemontesi, lombardi, mucini, emiliani, veneti, marchigiani, Sinti gàckanè, Sinti estrekhària, Sinti kranària);
  • i Rom balcanici di recente immigrazione, suddivisi in almeno cinque gruppi, a loro volta divisi in quelli giunti in Italia tra le due guerre e quelli arrivati tra il 1960 e la seconda metà degli anni Novanta (Rom harvati, Rom kalderasha, Rom xoraxanè, Rom sikhanè, Rom arlija/shiptaira);
  • i Rom di recente immigrazione tra i quali i Rom rumeni e i Rom bulgari.
  • Il governo italiano include nella Strategia nazionale d’inclusione dei Rom, Sinti e Camminanti, questi ultimi che sono un gruppo originario di Noto, in provincia di Siracusa.

M.C.


Italia: il «paese dei campi».

Nomadi per forza

Le prime tracce di Rom in Italia risalgono al XV secolo. Oggi si stima che siano tra i 130 e i 150mila, concentrati nelle grandi città. La gran parte (quella che non fa notizia) vive in case normali. Gli altri sono costretti, loro malgrado, a vivere in situazioni al limite dell’umano: nei «campi nomadi», quelli inventati dalle stesse istituzioni che a ogni campagna elettorale, li vogliono radere al suolo.

Sono circa 12 milioni i Rom e i Sinti europei. Circa 9-10 milioni risiedono in stati membri dell’Unione europea.
In Italia, molti vi sono presenti da secoli. In termini numerici la loro presenza varia tra le 130mila e le 150mila persone, circa lo 0,23% della popolazione (una percentuale piccola se confrontata con quella di altri paesi, per esempio l’11,5% della Macedonia, il 9,3% della Bulgaria, il 9,2% della Slovacchia, il 9% della Romania). Circa la metà, cioè più o meno 70mila persone, ha la cittadinanza italiana. Si tratta dei discendenti di gruppi giunti nella penisola a partire dal XV secolo fino al 1950 circa. Il resto proviene, invece, da vari paesi dell’ex Jugoslavia, e dai più recenti flussi migratori provenienti da Romania e Bulgaria (dunque, cittadini comunitari). La gran parte di essi risiede nelle città di Milano, Torino, Roma, Napoli, Bologna, Bari, Genova.

A causa delle politiche di esclusione, prima di tutto amministrative, il numero degli apolidi, soggetti privi di un regolare documento italiano o del paese di provenienza, è ancora alto.

Le città impossibili

Come osserva Nando Sigona, le città «incapaci di accogliere si barricano a difesa dei propri microsistemi». In questo tempo, attraverso politiche di sgombero e persecuzione, nelle città si cerca di far sparire gruppi «indecorosi» e «non docili» di poveri e senza casa, di fragili e ricattabili. Si tratta di un’umanità considerata in eccesso, sacrificabile, inutile, improduttiva, parassitaria, non adatta alle regole della società maggioritaria.

Eppure, tutta questa umanità vuole restare in città. Perché è nello spazio urbano che può sopravvivere chi non ha nulla: grazie ad attività informali come i mercatini dell’usato, il recupero di oggetti e vestiti, il riciclo di scarti e metalli, e grazie all’accesso più facile a servizi, sanità e scuola.

Le politiche di esclusione espellono persone etichettate come Rom, assieme agli altri «non recuperabili». La violenza dei continui controlli e degli sgomberi, delle pratiche amministrative che ostacolano, ad esempio, il riconoscimento della residenza e, di conseguenza, di diritti come l’iscrizione all’anagrafe, al servizio sanitario nazionale, alle scuole, rendono la vita quotidiana impossibile costringendo a volte le persone a spostamenti da un comune all’altro.

Dal Quattrocento al fascismo

I principali gruppi di Rom e Sinti in Italia, così come negli altri paesi, presentano molte differenze tra loro, sia sotto l’aspetto linguistico, sia in termini di autodenominazione.

Il gruppo più antico in Italia è quello dei Sinti. Come sostengono Tommaso Vitale ed Elena Dell’Agnese, è probabile che essi si siano stabiliti nelle regioni del Centro Nord della penisola a partire dal Quattrocento. Le comunità più numerose si trovano in Emilia-Romagna, Marche, Veneto, Lombardia e Piemonte. Probabilmente, quelle di più antico insediamento sono abruzzesi e molisane. Altre sono presenti in Campania, Puglia, Lazio, Umbria, Toscana e Alto Adige.

I Rom kalderasha e lovara (Rom danubiani) sono arrivati in Italia all’inizio del secolo scorso. La maggior parte dei Rom kalderasha ha la cittadinanza italiana, mentre il resto ha una provenienza più recente dai paesi dell’Europa centro orientale. Sono invece pochi i Rom lovara che hanno la cittadinanza italiana.

Per comprendere bene questi flussi di fine Ottocento, inizio Novecento, è importante ricordare la condizione di schiavitù in cui hanno vissuto per 500 anni le popolazioni rom nei principati di Valacchia e Moldavia, regioni molto estese che oggi fanno parte della Romania. «Gli zingari sono nati per essere schiavi, chiunque sia nato da una madre schiava non può essere altro che schiavo…», statuiva il Codice della Valacchia, all’inizio del XIX secolo. La riduzione in schiavitù dei Rom e il loro commercio è stata una prassi in quei territori a partire dal Trecento fino a metà Ottocento quando è stata ufficialmente abolita tra il 1855 e il 1856. Dopo la liberazione, un gran numero di Rom è migrato verso l’Europa centrale e occidentale, e oltreoceano, verso le Americhe.

Altri gruppi (circa 7mila persone) come i Rom harvati (croati), si sono stabiliti nel Nord Est dell’Italia a partire dal 1920. In particolare, molte comunità hanno cercato rifugio nel territorio italiano tra le due guerre mondiali per sfuggire alle persecuzioni degli ustasha e all’olocausto nazista. Gli ustasha erano un movimento nazionalista e clerico fascista croato guidato da Ante Pavelić, creato nel 1929 e alleato dei nazisti tedeschi e fascisti italiani nel corso della Seconda guerra mondiale. Le milizie ustasha hanno trucidato quasi l’intera popolazione rom allora presente nel paese, circa 25mila persone.

Alla fine della Seconda guerra mondiale, quasi nessuna famiglia è ritornata in Croazia. La maggior parte dei Rom harvati, attualmente, ha la cittadinanza italiana.

È importante ricordare che in Europa, nel corso della Seconda guerra mondiale, come ricorda Sigona, citando Giovanna Boursier, gli «zingari furono perseguitati, imprigionati, seviziati, sterilizzati, utilizzati per esperimenti medici, gasati nelle camere a gas dei campi di sterminio, perché zingari e, secondo l’ideologia nazista, razza inferiore, indegna d’esistere». Questo non è avvenuto solo in Germania, ma anche in Italia, Jugoslavia, Francia, Belgio, Olanda, Polonia.

Dal secondo dopoguerra

Dopo la Seconda guerra mondiale, in Europa si sono verificate altre crisi politiche, economiche e sociali, sono caduti regimi o si sono dissolti stati, mentre sono scoppiate nuove guerre e persecuzioni. In questo scenario, chi era più precario, povero e discriminato, ha faticato più degli altri a trovare pace e stabilità.

I Rom xoraxané, di religione musulmana e originari della Bosnia e del Montenegro, e i Rom dasikané e khanjára, di religione cristiano ortodossa, originari della Serbia, sono giunti in Italia tra fine anni ’60 e fine anni ’70. In questo periodo ne sono arrivati circa 40mila in seguito alla crisi economica causata dalla riforma finanziaria promossa da Tito che aveva portato alla chiusura di fabbriche storiche, collocate nelle aree più depresse del paese. La crisi, dopo il 1980, con la morte di Tito, si è ampliata e ha segnato la fine della convivenza interetnica in Croazia, Bosnia, Serbia e Macedonia. I flussi sono aumentati con la guerra in Bosnia scoppiata nel 1992 e, tra il 1998 e il 1999, a seguito del conflitto in Kosovo.

Dopo la caduta del regime di Ceaușescu, all’inizio degli anni ’90, la Romania ha vissuto una terribile crisi economica che ha colpito immediatamente le fasce più povere e discriminate del paese. Molti gruppi di Rom romeni sono fuggiti verso occidente a causa dei pogrom e della violenza razzista, e hanno iniziato ad arrivare anche in Italia.

Molti di loro hanno chiesto inutilmente lo status di rifugiati. Oggi sono presenti soprattutto nelle grandi città. Altre comunità rom originarie della Romania, che si autodenominano «Rom romenizzati», vivono in baraccopoli.

Come si diventa il «paese dei campi»

Per capire come si è arrivati alle politiche di segregazione abitativa e razzismo differenziale adottate in Italia nei confronti dei Rom nella seconda metà del Novecento, è utile fare riferimento alle narrazioni relative alla presunta «mobilità permanente» degli individui etichettati come «nomadi» nello spazio europeo.

Almeno fino all’inizio degli anni Settanta, in Italia, i Rom non erano oggetto di provvedimenti specifici: nel 1973, il presidente del Consiglio Giulio Andreotti affermava, infatti, che: «Nell’organizzazione giuridica italiana, non esiste alcuna disposizione che interdica il nomadismo, né delle norme particolari alle quali si debbano sottomettere i nomadi in ragione del loro modo di vivere».

Questa posizione del governo centrale, però, era ambigua, e lasciava ampia discrezionalità alle istituzioni locali che discriminavano e perseguitavano migliaia di individui rom e sinti che vivevano già in condizioni di esclusione e confina- mento nei primi «campi» e «aree sosta».

Il problema di ottenere la residenza anagrafica era già molto sentito negli anni ‘60. A questo tipo di discriminazioni amministrative, si aggiungevano pratiche già in voga da tempo, come le perquisizioni senza mandato e le espulsioni.

Risale al 1965 la costituzione dell’Opera Nomadi, associazione costituita per promuovere e tutelare gli «zingari» e favorevole all’istituzione dei «centri sosta». In quegli anni, le amministrazioni locali mettevano ovunque cartelli di divieto di sosta indirizzati ai «nomadi». Non era ancora stata emanata la prima circolare del ministero dell’Interno, datata 11 ottobre 1973, a tutela del diritto al nomadismo. Le carovane degli «zingari nomadi» erano costrette dalla polizia a spostarsi in continuazione da una località a un’altra, con effetti negativi sui loro commerci e sulle attività legate ai loro mestieri.

Nel 1970 l’Opera Nomadi è stata riconosciuta come ente morale, un passaggio che ha segnato, in qualche modo, il primo riconoscimento in Italia dell’esistenza delle popolazioni romanì. Allo stesso tempo, tuttavia, è stato la spia di una precisa tendenza politica: lo stato italiano delegava le condizioni di vita di Rom e Sinti a un’associazione privata che, man mano, ha realizzato un circuito sempre più strutturato di carità e mobilitazione di risorse, finalizzato all’assistenza e ai bisogni primari delle comunità romanì.

Questa situazione si è protratta per decenni, inducendo un po’ per volta gli stessi Rom a delegare a Opera Nomadi il ruolo di mediazione tra loro e le istituzioni. Questo ha provocato una crescente dipendenza dal circuito della carità.

Prima di arrivare agli anni ’80 e all’istituzione dei «campi», è importante capire come la segregazione spaziale, gli abusi, le persecuzioni si siano fondati su una politica nazionale di negazione del problema delle discriminazioni e, al contempo, di delega alle regioni e ai comuni. Per riprendere un’espressione impiegata dallo European Roma Rights Center in un Rapporto del 2000, l’Italia è diventata il «paese dei campi» attraverso la produzione di leggi regionali già a partire dagli anni ’80.

Due casi emblematici: Milano e Torino

Molto interessanti sono gli esempi, analizzati da Sigona, di interventi politici di due comuni del Nord nei confronti delle popolazioni rom: Milano e Torino. Nel 1965 il comune di Milano presenta un progetto pilota, definito come «innovativo e a favore degli zingari». Si vuole avviare un’azione globale per «civilizzarli», ma senza discriminazioni o paternalismi.

Secondo Leonardo Piasere, in Le pratiche di viaggio e di sosta delle popolazioni nomadi in Italia, si tratta di «un’azione concentrica di ordine educativo, sociale, sanitario ed economico (formazione al lavoro) centrata completamente sul nuovo campo sosta allestito». Proprio il campo sosta, quindi, già in questa fase, è il luogo strategico nel quale concentrare le azioni di integrazione dei Rom. Per vincere le resistenze dei «nomadi» è necessario ricorrere a un intervento su più fronti: da parte di insegnanti, assistenti sociali, datori di lavoro nei cantieri dove vengono addestrati per verificare «la loro resistenza alla fatica». La formazione al lavoro, in particolare, è considerata utile per abituare i Rom alla disciplina, agli orari, alla vita comunitaria, alla fatica.

Il problema abitativo non viene preso in considerazione: si dà per scontato che il luogo in cui i Rom devono abitare è il campo sosta.

Molti dei termini e delle «idee innovative» che caratterizzano il programma del comune di Milano del 1965 risuoneranno, pressoché identici, in discorsi politici, documenti e progetti degli anni Duemila, quando le amministrazioni locali del bel paese prevederanno spesso «iniziative a favore della popolazione Rom» (ovviamente solo in presenza di ingenti fondi da spendere). Nasceranno, quindi, a ripetizione, progetti pilota privi di qualsiasi continuità e coerenza, elaborati sempre senza interpellare o coinvolgere i beneficiari.

Questa gestione emergenziale di progetti, persone e campi, si affermerà sempre più nel corso del tempo, chiudendo ai Rom l’accesso ai percorsi normali che sarebbero predisposti per qualsiasi cittadino.

Prendono forma saperi «zingarologici» in apparenza altamente specializzati. Se «inclusione» è una parola chiave, di fatto si viene a creare una vera e propria «specializzazione dell’esclusione».

Se il caso di Milano è paradigmatico, quello di Torino lo è forse ancora di più.

Il capoluogo piemontese, infatti, vanta vari primati nella «gestione» delle popolazioni rom e sinti. Torino è stata la prima città a superare la fase transitoria: prima della legge regionale del 1993, aveva già più di un campo sosta. Alla fine degli anni ’70 se ne contavano due ufficiali e altri ufficiosi. Torino è stata anche la prima città a istituire un Ufficio stranieri e nomadi, che lo scorso anno ha cambiato nome in favore del più politicamente corretto Ufficio stranieri e minoranze etniche, sempre però all’interno del servizio Informa stranieri e nomadi della divisione servizi sociali.

Abitare nei ghetti per legge

Arriviamo quindi ai decenni nei quali, in Italia, le regioni iniziano a legiferare per tutelare il «diritto al nomadismo» e le amministrazioni delle medie e grandi città cominciano a costruire i cosiddetti «campi nomadi». Si tratta di una politica locale che si espande a partire dal Nord.

In nome dell’obiettivo dichiarato di tutelare la «loro cultura», si determina per legge una segregazione sociale e spaziale, un «abitare razzista» riservato a Rom e Sinti, considerati indistintamente «nomadi».

L’Italia, come evidenziato dal già citato report dell’European Roma Rights Center del 2000, diventa il «paese dei campi».

Uno degli esempi più tragici riguarda le popolazioni rom in fuga dalle guerre balcaniche degli anni ’90: una volta arrivate in Italia, comunità che da secoli erano stanziali in Jugoslavia e che vivevano in case, sono costrette a «riziganizzarsi» e a vivere in campi senza fognature, in abitazioni fatte di roulotte, container o baracche.

Per molti Rom, l’esperienza del campo rappresenta un vero e proprio shock. Le persone «riziganizzate» sperano che la vita in quel luogo, nella loro esistenza di profughi, sia transitoria.

I campi poi concentrano al loro interno gruppi e famiglie con origini e storie completamente diverse: non tutti, ad esempio, sono profughi di guerra, eppure, tutti sono costretti a vivere lì.

Tutte le comunità, sia quelle stanziali, sia le poche che ancora possono definirsi «nomadi», vengono accomunate da una «ragionevole» esclusione da forme abitative diverse dal campo. Tutti i campi, poi, devono essere luoghi isolati e invisibili, posti spesso nei pressi di fiumi, ferrovie e tangenziali, accanto a discariche o direttamente su terreni avvelenati di rifiuti tossici, in prossimità di svincoli autostradali e, soprattutto, con un valore fondiario molto basso.

In Piemonte, la giunta attualmente al governo ha proposto, grazie all’«ingegno» di un assessore leghista, una «nuova» legge regionale che prevede il ritorno alle «aree di transito»: i «nomadi» sarebbero autorizzati a soggiornare in queste aree per tre mesi al massimo. Per avervi accesso, essi sarebbero chiamati a soddisfare requisiti di «idoneità morale». Inoltre, è previsto un sistema di videosorveglianza in tutte le aree.

Il testo della proposta di legge regionale rende più che mai evidente quanto il processo di etnicizzazione e criminalizzazione delle popolazioni che abitano i campi sia profondo, radicato e normalizzato. E quanto sia funzionale alla propaganda politica, ossia a raccogliere qualche manciata di voti alimentando una crescente richiesta securitaria.

Manuela Cencetti


Il peso delle parole e l’emergenza abitativa

La presenza delle popolazioni romanì in Italia è molto variegata e complessa. La sua rappresentazione pubblica, veicolata spesso da personaggi politici e da un certo giornalismo, è solitamente negativa, stereotipata e pregiudiziale. Qualsiasi episodio di cronaca che riguardi più o meno da vicino una persona rom, o un insediamento nel quale vivono persone rom, rumene, slave, tutte indifferentemente etichettate come «nomadi», è sempre occasione per emettere condanne e riscuotere consensi.

La rappresentazione negativa di queste persone si è cristallizzata nell’arco di decenni anche nella produzione di leggi regionali che istituiscono i «campi sosta» come luoghi adatti alla vita di Rom e Sinti per via della loro presunta «cultura nomade», sinonimo, per secoli, di vagabondaggio, delinquenza e devianza.

Ma l’equazione «Rom = nomadi» è un’interpretazione falsa e antistorica. Essa continua a definire gruppi, famiglie, comunità intere, come non adatte al vivere «civile», asociali e sempre potenzialmente criminali. La loro presenza deve essere perennemente temporanea. Pertanto, l’unica politica abitativa pensabile per «loro» è un campo, possibilmente in un luogo isolato.

Il paradosso è che in questo modo, l’unico nomadismo che si può riscontrare in queste popolazioni è quello forzato, voluto dalle istituzioni.

È importante ricordare che dietro a ogni etichetta esiste un mondo di politiche e di pregiudizi. Attraverso le etichette si costruiscono ruoli, definizioni, identità burocratiche che servono a gestire e categorizzare «l’altro», «lo straniero», oppure gruppi o soggetti considerati devianti. Le parole tracciano confini tra la società maggioritaria e il «nemico interno», tra chi è civile, un buon cittadino, e chi non lo è.

Oltre alle etichette che definiscono soggetti o gruppi interi, esistono gli «spazi», in questo caso i «campi nomadi», che a loro volta producono gruppi precisi. Ossia, insiemi di persone che, per il solo fatto di essere residenti nel campo, vengono etichettate in un certo modo. Abbiamo, quindi, un’ulteriore equazione: le persone rom, dopo essere definite nomadi per natura, coincidono con chi vive in un campo. Non importa se gli abitanti di un campo si autodenominano Rom oppure no: vivono in un campo, quindi sono Rom e, naturalmente, nomadi. Al di fuori del campo, non godono della stessa cittadinanza né degli stessi diritti di cui godono tutti gli altri cittadini.

Baraccopoli d’Italia

Secondo l’Associazione 21 luglio la gran parte delle popolazioni romanì in Italia vive in case o in altre soluzioni abitative sicure e regolari.

Circa 17.800 Rom e Sinti, di cui più della metà minori, vivono invece in baraccopoli, legali o illegali, edifici occupati, capannoni abbandonati, casolari fatiscenti, ecc.

Usiamo il termine baraccopoli anche per riferirci ai cosiddetti «campi nomadi» formali (costituiti da baracche, roulotte, tende, container), la maggioranza dei quali si trova nelle città di Torino, Genova, Milano, Brescia, Pavia, Padova, Bologna, Reggio Emilia, Roma, Napoli, Foggia e Bari.

Essi rientrano nella definizione di baraccopoli dell’Agenzia delle Nazioni Unite Un-Habitat perché «luoghi in cui gli abitanti non hanno sicurezza di possesso, dove le abitazioni risultano estromesse dai principali servizi base e non conformi ai criteri stabiliti dai regolamenti comunali o situate in aree pericolose dal punto di vista geografico e ambientale. […] gli abitanti delle baraccopoli [inoltre] non hanno a disposizione spazi pubblici e aree verdi e sono esposti a sgomberi, malattie e violenza».

In Italia esistono 109 baraccopoli istituzionali presenti in 63 comuni e in 13 regioni. In esse vivono 11.300 persone. Di queste, il 49% ha cittadinanza italiana e il 10% cittadinanza rumena. In questi luoghi l’aspettativa di vita è di 10 anni inferiore a quella del resto della popolazione italiana. Il 55% dei loro abitanti ha meno di 18 anni.

Nelle baraccopoli informali e nei microinsediamenti la quasi totalità delle persone presenti risulta essere di origine rumena.

In base all’analisi dei dati elaborati dall’Associazione 21 luglio tra l’inizio del 2020 e la fine del primo semestre del 2021 l’Italia si conferma il «paese dei campi», il paese europeo che impiega la quantità più alta di risorse umane ed economiche per il mantenimento di questi ghetti.

M.C.


Rom «ziganizzati» in fuga dalla Romania.

Il caso Torino. Da lavoratori a zingari

Data la precarietà e il razzismo strutturale di cui sono destinatari, i Rom romeni, sedentari in patria, arrivati in città non trovano altri luoghi nei quali vivere che non siano baracche in zone periferiche e «invisibili». È il nomadismo forzato di cui sono esempi formidabili i campi di Lungo Stura Lazio e di via Germagnano nel capoluogo piemontese.

Le migrazioni internazionali di comunità rom dalla Romania diventano consistenti dalla fine del regime comunista, benché siano già iniziate a partire dai primi anni Ottanta.

Nel periodo socialista le popolazioni rom dei paesi dell’Europa centro orientale erano generalmente oggetto di politiche di assimilazione e di sedentarizzazione forzata. Questo rappresentava una grande differenza con le politiche segregazioniste o apertamente persecutorie degli stati dell’Europa occidentale nello stesso periodo.

Nei paesi dell’Europa dell’Est, migliaia di Rom erano impiegati nel sistema economico socialista, lavoravano quindi nelle fabbriche come operai poco o per nulla qualificati, confusi con gli altri lavoratori, o nelle grandi cooperative di produzione agricola. Altri erano riusciti a rimanere al di fuori delle unità produttive socialiste e lavoravano nell’economia informale: piccolo commercio ambulante, riparazioni di utensili e calzature, artigianato, commercio e allevamento di bestiame, lavorazione e commercio di metalli, ecc.

Durante il regime di Ceaușescu, in particolare tra gli anni Sessanta e gli Ottanta, quando conobbero un’importante crescita demografica, i Rom furono fatti oggetto di politiche di sedentarizzazione, proletarizzazione e «romenizzazione» (i Rom «romenizzati» sarebbero Rom con «stili di vita» rumeni, o che non parlano più il romanés, e che a volte prendono le distanze da alcuni «stili di vita» degli altri Rom rumeni).

Dal punto di vista abitativo, a molti di coloro che non erano sedentari, vennero assegnati appartamenti popolari o terreni. Molte comunità vennero disgregate. È importante sottolineare che la maggior parte della manodopera rom era impegnata in occupazioni non qualificate o in lavori molto pesanti, e che i loro salari erano più bassi di quelli del resto della popolazione.

Da lavoratori socialisti a «zingari»

A partire dal 1989, dopo la caduta del regime di Ceaușescu, la Romania attraversa un periodo di profonda crisi economica che peggiora con il passare degli anni e provoca i primi flussi migratori verso l’Europa occidentale. Le cause che spingono le persone a partire dopo il 1989 stanno nella trasformazione del sistema economico che fa ricadere gli effetti devastanti del capitalismo selvaggio innanzitutto sulle comunità rom. In pochissimo tempo migliaia di lavoratori e lavoratrici, primi tra tutti quelli meno qualificati, perdono il posto di lavoro. In particolare, nel primo anno successivo al crollo del socialismo rumeno, i Rom senza lavoro arrivano all’80%.

L’impoverimento è pesantissimo e con la mancanza di lavoro aumenta anche l’esclusione sociale. In breve tempo, la popolazione rom viene per l’ennesima volta colpita dal razzismo. Si verificano episodi di violenze collettive, di discriminazioni da parte delle stesse istituzioni statali, si moltiplicano casi di detenzioni illegali e maltrattamenti. Nel 1993, durante la sommossa di Hădăreni, nel distretto di Mureș, tre persone rom vengono assassinate, diciannove case bruciate e cinque distrutte.

Come ha ben descritto la studiosa romena Eniko Vincze: «Accanto ai cambiamenti post-socialisti durante gli anni ’90 […] e il neoliberalismo trionfante degli anni 2000 […], l’assimilazione è stata gradualmente sostituita da politiche di razzializzazione. Nel caso della politica assimilazionista, i Rom rappresentavano un problema culturale che si sarebbe dovuto risolvere non appena avessero adottato le norme culturali della società socialista (lo stato socialista ha utilizzato questo modello di ingegneria sociale per l’intera popolazione premoderna e rurale della Romania, cercando la sua necessaria trasformazione in lavoratori urbani). Dopo il 1990, la razzializzazione dei Rom, come conseguenza involontaria e perversa del loro riconoscimento come minoranza etno nazionale che avrebbe dovuto godere di diritti culturali e linguistici, e la necessità di spiegare perché vivevano in povertà senza riconoscerne le cause economiche e politiche, ha trasposto la differenza e la disuguaglianza tra romeni/ungheresi da un lato e Rom dall’altro nel regno della biologia e della fisiologia»1.

All’inizio degli anni ’90, con il trionfo dell’ordine neoliberale, le popolazioni rom della Romania e di altri paesi dell’Europa centro orientale sono colpite da un processo di pauperizzazione estrema che si combina all’antiziganismo storico fatto di episodi di aggressioni a singoli, gruppi o comunità, utilizzo di discorsi di odio, pratiche di sfruttamento, esclusione socio economica, segregazione abitativa e spaziale, stigmatizzazione diffusa, rappresentazioni negative da parte di politici e accademici.

I primi arrivi a Torino, una città a parte

La permanenza dei migranti rom rumeni sul territorio torinese a partire dagli anni Novanta è sostanzialmente illegale. Inizialmente sono stati numerosi i tentativi di richiesta di asilo politico, ma, dato il generale respingimento delle domande, questa modalità di ingresso in Italia è stata progressivamente abbandonata per conformarsi alla prevalente modalità di permanenza sul territorio in attesa di una delle numerose sanatorie che caratterizzano il governo dei corpi migranti in Italia. Nel corso degli anni Novanta, infatti, lo strumento principale mediante il quale lo stato gestisce i movimenti migratori è rappresentato dalle cosiddette «sanatorie», nell’assenza di una politica migratoria coerente complessiva. Per cui, anche i migranti rom provenienti dalla Romania rimangono in Italia in modo irregolare, andando a ingrossare le fila della manodopera precaria sfruttata nell’economia sommersa.

Data la loro estrema precarizzazione e dato il razzismo strutturale di cui sono destinatarie, queste persone non trovano altri luoghi nei quali vivere a Torino che non siano baracche autocostruite in zone della città periferiche e «invisibili». Va sottolineato che i Rom rumeni a Torino arrivano in un contesto di proliferazione di «campi rom», autorizzati e non, istituzionalizzata con la legge regionale n. 26 del 10 giugno 1993 che, così come accade nella maggior parte delle regioni italiane, cristallizza una forma abitativa razzializzata, giustificandola del tutto impropriamente come azione a salvaguardia di una supposta «identità etnica e culturale» dei Rom etichettati come «nomadi».

«In Italia nascono come campi nomadi […] e sono istituzioni regolate, in assenza di un quadro legislativo nazionale, da leggi regionali varate negli anni Novanta […]. Appena finiti di costruire si sono trasformati in insediamenti perennemente temporanei per i Rom in fuga dalle guerre dei Balcani e poi dalle zone depresse della Romania. Si sono evoluti da slums di baracche e roulotte a campi di container agli attuali villaggi, con un crescendo di sorveglianza e di dipendenza dalle istituzioni e una conseguente perdita di autonomia decisionale sulla propria vita»2.

Una vita «fuori luogo»

La presenza della migrazione rom rumena a Torino diventa visibile, e quindi automaticamente un problema per le autorità pubbliche, nella primavera del 1998 quando un gruppo di 350-400 Rom rumeni cerca un luogo in cui poter vivere, e si ferma in uno spazio alla periferia Nord Ovest, in un campo vicino a corso Cuneo, per poche decine di metri nel comune di Venaria.

I migranti provengono in maggioranza dai villaggi di Fetești e Țăndărei, zone in cui si sono verificati incidenti ed episodi di violenza contro le comunità rom. Inizialmente questo gruppo è intenzionato a raggiungere la Francia o la Spagna, ma viene respinto in base alle norme previste dal trattato di Dublino. A quasi tutti loro, lo stato italiano nega il diritto di asilo o qualsiasi altro tipo di permesso di soggiorno. Poi, come sempre, arriva la violenza dello sgombero.

All’alba dell’8 febbraio 1999, una cinquantina di persone del campo vengono portate via senza alcun preavviso dalla polizia con i soli indumenti che hanno indosso in quel momento, e deportate con un volo da Malpensa per Bucarest. Quella stessa notte, le poche persone rimaste, che si erano nascoste per sfuggire alla deportazione, scappano a Torino, in via Germagnano. Il 10 febbraio, il campo di corso Cuneo viene completamente raso al suolo dalle ruspe. A fine giornata, tutto quello che apparteneva agli abitanti del campo viene ammassato e dato alle fiamme dagli operatori del comune, richiedendo, dopo poco, l’intervento dei Vigili del fuoco per circoscrivere il rogo di vestiti, coperte, utensili, giocattoli che fino a poco prima erano stati utilizzati dalle persone che vivevano lì3.

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Nascita del Platz

Intorno al 2000 inizia la vita del «Platz», ovvero la prima baraccopoli illegale di Lungo Stura Lazio, a Torino. Cresce nell’arco di 15 anni e diventa la più popolata della città e forse dell’Europa occidentale, arrivando a contare circa 2.000 abitanti. Tutti etichettati etnicamente come Rom, benché non siano solo Rom, ma più in generale persone povere, provenienti dalla Romania e non solo, che non hanno accesso ad abitazioni dignitose. L’unico spazio dove vivere a Torino, per loro, sono le sponde del fiume Stura, dentro la città, ma in un punto poco visibile.

Un report del Consiglio d’Europa restituisce il livello di violenza istituzionale all’interno di questo insediamento: «Il 15 aprile 2004 un gruppo di circa 90 Rom rumeni, 70 dei quali avevano chiesto l’asilo e di cui 20 non l’avevano ottenuto, vennero sgomberati dalle baracche in riva al fiume in cui vivevano […]. La polizia distrusse le baracche insieme a tutti i loro beni. Venti Rom senza documenti vennero espulsi. Una donna rom senza documenti fu invitata a tornare in Romania. Lei non obbedì e […] le autorità le tolsero i figli ponendoli sotto custodia statale. I 70 Rom che avevano fatto richiesta di asilo occuparono l’Ufficio immigrazione di Torino […]. Dopo 48 ore, furono spostati in una scuola vuota dove avrebbero dovuto vivere temporaneamente. Dopo l’arrivo di 36 persone rom nella scuola, i residenti della zona protestarono, così venne predisposto un campo con tre grandi tende […]. Gli altri Rom usciti dall’Ufficio immigrazione chiesero di poter essere inseriti nel campo appena costruito, ma l’Ufficio immigrazione glielo negò. […] il gruppo, di cui facevano parte molti minori, aveva fatto ritorno alle sponde del fiume ricostruendo le baracche»4.

Fino all’ingresso della Romania nell’Unione europea nel 2007, a Torino sono frequenti gli sgomberi e gli spostamenti di rumeni rom e non rom da una baraccopoli all’altra. Essendo gli «ultimi arrivati» e non disponendo di mezzi di sussistenza, si adattano a vivere in baracche autocostruite in zone marginali e invisibili di Torino. All’assenza di risorse economiche e di tutela giuridica, si aggiunge la precarietà sanitaria, dato che non è possibile per loro iscriversi al Sistema sanitario nazionale e che l’unico mezzo per curarsi spesso è rivolgersi al pronto soccorso.

Prima del 2007, gli interventi di sgombero di piccoli insediamenti da parte delle forze dell’ordine sono quotidiani. Il loro principale effetto è quello di spingere centinaia di persone nella baraccopoli di Lungo Stura Lazio, uno spazio più facilmente controllabile dalle forze dell’ordine.

Il pogrom della Continassa

Il 9 dicembre 2011, una ragazza di 16 anni residente nel quartiere delle Vallette (periferia Nord Ovest di Torino) denuncia una violenza sessuale da parte di due Rom. Nel quartiere viene organizzata per la sera successiva una fiaccolata di solidarietà con la vittima. Il giorno dopo, la sedicenne confessa di aver mentito, ma, nonostante questo, alcuni manifestanti si staccano dal corteo e attaccano la Cascina della Continassa dove vivono circa 50 persone rom rumene. Nel corso dell’attacco vengono devastate e incendiate baracche e roulotte, messe in fuga tutte le famiglie e ostacolati i soccorsi dei Vigili del fuoco. Benché in seguito si parlerà di un’azione improvvisata, già nella redazione del volantino che invitava alla fiaccolata, risultava chiaro l’intento, «Adesso basta ripuliamo la Continassa».

Il processo per il rogo della Continassa durerà anni. Il 13 luglio 2018 la Corte di Appello di Torino pronuncia la sentenza di secondo grado: sono confermate le condanne per quattro persone, mentre una quinta viene assolta. La Corte conferma l’impianto accusatorio di primo grado e l’aggravante di «odio etnico e razziale».

Manuela Cencetti

Note

  • 1- �Enikő Vincze, Urban Landfill: A Space of Advanced Marginality, in «Philobiblon», vol. XVIII, 2013, n. 2. Traduzione nostra.
  • 2- �Francesco Careri, Una città a parte. L’apartheid dei Rom inItalia, introduzione all’inserto speciale L’abitare dei Rom e dei Sinti, de «Urbanistica Informazioni», n. 238, 2011, pp. 23-25.
  • 3- �Cfr. Marco Revelli, Fuori luogo. Cronaca da un campo rom, Bollati Boringhieri, Torino 1999.
  • 4- �Consiglio d’Europa, Collective Complaint by the European Roma Rights Center against Italy, 27/2004.

Ha scritto questo dossier:

Manuela Cencetti

Torinese. Il cinema e il processo di creazione audiovisuale sono al centro dei suoi interessi e attività formative e professionali. È cofondatrice dell’Associazione culturale «i313». È coinvolta in nove edizioni del festival Cinemainstrada. Nel 2007 dirige il film Ato’ tzi tza’ (Aquì Estamos). Genocidio en Guatemala. Nel 2011 fonda il collettivo «Cine en la Calle» con giovani di Città del Guatemala, dove realizza laboratori di formazione e la prima edizione del Festival «Cine en la Calle». Nel 2013 monta il cortometraggio La casa è di chi la abita che racconta l’occupazione di una casa, a Torino, dal punto di vista dei bambini. Nel 2013 realizza assieme a Stella Iannitto per l’Associazione i313, La mia strada è il mondo intero, girato con un gruppo di ragazze rom bosniache e romene, residenti in due baraccopoli nella periferia Nord di Torino. La versione di Jean è il suo ultimo lavoro, diretto con Stella Iannitto e Jean Diaconescu.

  Dossier a cura di Luca Lorusso




Moria è bruciata

testo e foto di Alberto Sachero |


Dopo la devastazione del campo profughi nell’isola di Lesbo, cambierà qualcosa per i migranti?

Il campo di Moria sull’isola di Lesbo, il più grande d’Europa arrivato a contenere circa 20mila persone a inizio 2020, è stato per anni un periferico limbo in cui l’Europa ha parcheggiato i migranti, permettendo solo a pochi di completare l’iter di richiesta di asilo politico.

Moria è andato a fuoco il 9 settembre 2020. Gli abitanti del campo hanno perso il poco che avevano e sono fuggiti per non perdere anche la vita.

Sembra che ad appiccare il fuoco siano stati i migranti stessi. Nel campo erano stati individuati 35 casi di Covid-19, e per questo motivo era ogni giorno più blindato, fino alla completa chiusura.

Alcune persone hanno quindi dato fuoco alle tende, per evitare di essere rinchiusi a tempo indeterminato.

Moria bruciata

Arrivato sull’isola di Lesbo mi reco a vedere cosa resta di Moria (foto 1 – di apertura). Dopo cinque giorni dall’incendio, un forte odore di ulivi carbonizzati e plastica bruciata aleggia ancora nell’aria. Ovunque tende bruciate, letti, biciclette, bottiglie di acqua in plastica e ogni tipo di effetto personale. Tutto andato in fumo.

Incontro alcuni abitanti che ancora riempiono sacchi neri con quello che sono riusciti a salvare dalle fiamme. Poco più avanti, due ragazzi afghani sono saliti su un ulivo e stanno cercando di tagliare dei cavi dell’alta tensione per costruire delle corde per trainare le loro «slitte» con a bordo il poco che gli è rimasto.

L’esodo intrappolato

Fuggendo dal rogo, gran parte dei migranti si è diretta in verso Mytilini, il principale centro dell’isola di Lesbo (foto sopra). La strada però è stata bloccata dalla polizia greca che non voleva che arrivassero in città. Sulla strada che collega Mytilini e Moria, con dei bus messi di traverso, sono stati creati due blocchi, distanti circa 1,5 Km tra di loro, in modo da intrappolare le persone nella strada e non farle muovere. Sono stati chiusi i supermercati, ufficialmente per ragioni di sicurezza, in realtà per mettere in difficoltà i migranti e non permettere loro di acquistare cibo e acqua per sopravvivere.

I fuggiasci da Moria si sono costruiti ripari di fortuna, con teli, rami e paglia. Li hanno piazzati sui marciapiedi della strada, nei parcheggi dei supermercati chiusi, nei boschi adiacenti, sopra i tetti, in resti fatiscenti di vecchie costruzioni e sotto tir parcheggiati (foto qui). Tutto ciò con temperature sopra i 30 gradi.

Il governo greco, col benestare dell’Europa, non ha mosso un dito per assisterli, si è limitato a costruire in fretta e furia un altro campo per rinchiuderli il più velocemente possibile e renderli nuovamente invisibili.

Molte Ong sono così arrivate sull’isola e moltissimi giovani volontari indipendenti hanno portato il loro sostegno da tutta Europa. Mancavano solamente le istituzioni. Osteggiati dalla polizia greca, che spesso non li faceva accedere all’area o li faceva attendere ore al di fuori, hanno portato cibo, acqua, vestiti e medicinali a 13mila migranti. Questi, con una calma incredibile, hanno formato code lunghe più di un chilometro aspettando fino a due ore sotto il sole cocente, per assicurarsi un pasto o qualche bottiglia di acqua (foto 3, qui sotto).

Condizioni disumane

Mi dirigo verso la zona a circa due chilometri a Nord della città di Mytilini con Sia, una volontaria greca che deve portare dei farmaci a una donna afghana. La polizia non ci permette di entrare. Dobbiamo fare un lungo giro sulla collina per aggirare gli altri due posti di blocco e finalmente, dopo un’ora di cammino, giungiamo sul posto. L’impatto visivo è molto forte: migliaia di persone sistemate in accampamenti di fortuna, buttate per terra in condizioni disumane; interminabili code per il cibo; uomini, donne, qualche anziano e migliaia di bambini ovunque. Si stima che siano circa 13mila persone di cui 4mila sotto i 18 anni, tantissimi molto piccoli o addirittura neonati (foto 4, qui sotto).

Protezione negata

Inizio a parlare con la gente. Un ragazzo mi dice che circa l’80% di loro proviene dall’Afghanistan, un paese distrutto dalla guerra, dai Talebani, dai Daesh, dall’intervento statunitense, dai continui attentati. Mi dice in perfetto inglese: «Sono scappato, non avevo altra scelta, e ora devo arrivare in Europa, indietro non posso tornare, mi ucciderebbero». Ci sono anche Iraniani, Iracheni, Somali, Yemeniti, tutte persone che fuggono da guerra persecuzione o povertà, che avrebbero il sacrosanto diritto di chiedere protezione e accoglienza.

Una madre, con in braccio due bimbi, mi dice: «Uno è mio, ha dodici giorni. È nato qui, e dopo cinque giorni di vita siamo scappati dal campo in fiamme. L’altro ha cinque mesi, è di una mia amica in ospedale a Mytilini con grossi problemi di salute, l’ho adottato, almeno per il momento, poi si vedrà».

I bambini tengono allegra la drammatica situazione sulla strada, con i loro sorrisi e la loro spensieratezza. Sono purtroppo abituati a vivere in guerra e povertà, ma la loro voglia di ridere e di giocare vince quasi sempre sulla tristezza e dà agli adulti un motivo di speranza per un futuro migliore.

Indietro non si torna

La sera vado in un locale indicatomi da alcuni volontari, in cui ci sono parecchie persone da tutta Europa. Lì mi vengono segnalati altri locali di «destra», in cui i volontari non sono ben accetti. Il governo greco è di destra, e l’isola di Lesbo è piena di fascisti che fanno ronde. Ci sono stati moltissimi episodi di aggressioni a profughi, volontari e anche giornalisti e fotografi. Le bandiere nere sono numerose e ben visibili sulle strade isolane.

Il secondo giorno mi reco da solo nella zona in cui sono bloccate le persone. La polizia mi ferma di nuovo. Rientro in paese, incontro un gruppo di afghani che fanno la spesa e che tornano al loro rifugio. Mascherina, occhiali da sole e borse della spesa mi permettono di superare il posto di blocco. La famiglia afghana che mi ha aiutato a entrare, mi ospita. «Come Alberto, this is our house». Padre, madre e due figli. Mi offrono del cibo, anche se ne hanno poco. Ringrazio e cerco di dire che ne hanno più bisogno loro. Mi meraviglia la loro dignità, presenza e pulizia. Non so come fanno, buttati a terra in quel modo con poco cibo e scarse possibilità di lavarsi. Io che dormo in una camera con bagno privato sono molto meno presentabile.

Il figlio maggiore mi racconta che vivevano in una zona di Kabul. Da una parte i Talebani, dall’altra il Daesh. Non riusciva ad andare a scuola per le continue sparatorie, il padre lavorava saltuariamente. Hanno quindi deciso di partire per l’Europa. In due anni sono arrivati a Lesbo, dopo aver lavorato per pochissimo denaro ed essere stati rinchiusi nei campi turchi. «Non abbiamo scelta, indietro non possiamo tornare».

«No Photo, no photo»

Il terzo giorno, dopo esser nuovamente «rimbalzato» al posto di blocco, riesco ad entrare grazie ai ragazzi, tutti molto giovani e pieni di voglia di fare, di una Ong. Mi consigliano di «infilarmi» tra di loro nel momento in cui la polizia concede alla Ong di entrare nella zona. Così accade, dopo circa due ore, con il capo dei poliziotti che raccomanda ai volontari «No photo, no photo». I governi europei non vogliono che si mostri quel che sta succedendo a 13mila persone bloccate in strada dalla polizia in tenuta antisommossa e tenute in condizioni disumane, senza cibo, riparo, servizi e assistenza. La sopravvivenza di questa gente è stata garantita esclusivamente dal lavoro straordinario svolto dalle Ong e dai volontari, che si sono fatti in quattro per portare viveri, acqua e beni di prima necessità.

Il nuovo campo prigione

Tutto quello che ha fatto l’Europa è stato di dare soldi alla Grecia per costruire un nuovo campo (foto 6, sopra).

I migranti sono poi stati lasciati privi di cibo e riparo per una settimana, per costringerli a entrare nel nuovo campo. In quei giorni ho assistito personalmente a dialoghi tra funzionari greci e migranti in cui i primi esortano i secondi a prepararsi per entrare nel nuovo campo. Ma questi ultimi rispondono di no, che non volgliono essere rinchiusi in un nuovo campo prigione.

Tutte le mattine ci sono manifestazioni, con in testa centinaia di bambini, che fanno la spola tra un blocco e l’altro della polizia, urlando «Asadi» (libertà in lingua farsi), «We don’t go in the new camp» e «Freedom» (foto 7, qui).

Davanti al rifiuto della gente, i funzionari cercano di convincerla che solo nel nuovo campo di Kara Tepe troverà ristoro, tende, farmaci e WiFi. Dai migranti ancora risposta negativa. Alla seconda risposta negativa, dato che i migranti mostrano di fidarsi più dei volontari e dei giornalisti che dei poliziotti e funzionari greci, questi provano a convincerli che il governo vuole solo il loro bene, mentre Ong e giornali vogliono solo usarli.

Infine, visto che con le buone non ottengono niente, iniziano a minacciare: «O entrate nel campo o la vostra richiesta di asilo non verrà processata».

Il giorno successivo, dopo aver sigillato l’area tenendo fuori tutti, in primis i giornalisti, viene messo in atto un vero e proprio rastrellamento. Ingenti forze di polizia in tenuta anti sommossa armate fino ai denti, passano lentamente intimando ai migranti di recarsi nel nuovo campo. Le persone a questo punto cedono e formano code interminabili per la registrazione. È vietato accedere con cinture, accendini e qualsiasi tipo di oggetto appuntito, come in galera.

Il nuovo campo di Kara Tepe viene riempito da circa 10mila «ospiti». Sorge in un’area in riva al mare, già zona militare contaminata da residui bellici e pallottole inesplose, certo luogo non ideale per le migliaia di bimbi che in quella terra giocano. L’area è nota per essere molto fredda e piovosa nella brutta stagione.

Le famiglie sono ammassate in grossi tendoni in plastica, caldi in estate e freddi in inverno. Duecento in ogni tenda su letti a castello, contro ogni regola anti Covid. I bagni sono in tutto venti.

L’unica buona notizia è che gli abitanti potranno uscire dalle 8.00 alle 20.00, con obbligo di rientro. Almeno per ora.

Spero di sbagliarmi ma il mio presentimento è che con gli inevitabili casi di Covid positivi, il campo sarà presto sigillato.

Rientrato in Italia, il 23 settembre apprendo alla radio che è stata approvata la bozza per il nuovo «Patto di solidarietà» sul tema migranti: verranno stanziati dall’Europa più soldi per i paesi periferici come Italia e Grecia e saranno finanziati e agevolati i rimpatri forzati.

Solidarietà tra i paesi europei nel cacciare i poveracci, non solidarietà verso gli esseri umani.

Alcuni amici afghani mi informano che, come era prevedibile, le prime piogge autunnali hanno completamente inondato il campo e le tende, che il cibo è scarso e di pessima qualità, e che si fanno code in continuazione, per mangiare, per uscire e rientrare al campo, per andare in bagno.

Moria è bruciata, cambierà qualcosa per i migranti?

No, anzi, sì. Sarà ancora più duro per loro richiedere asilo ad una «fortezza» Europa sempre più arroccata e solidale solo con i propri interessi economici e con la protezione dei propri confini.

Alberto Sachero




India: Intoccabili, ma carne da lavoro

Testo e foto di Mario Ghirardi


Quasi un quarto della popolazione indiana, composta da «dalit» e «adivasi», viene considerata inferiore. Con questa scusa i lavoratori di questi gruppi sono sfruttati in tutti i settori dell’economia e utilizzati per gli incarichi più umili. E la globalizzazione economica ha aumentato le disuguaglianze. Alcuni elementi dallo studio dell’antropologa indiana Alpa Shah.

In India ci sono 2,6 milioni di gabinetti «a secco», ovvero latrine di fortuna, le quali, non avendo acqua corrente disponibile, vengono tenute in efficienza e pulite da oltre 53mila persone, i cosiddetti «scavengers», tramite lavoro manuale. Si tratterebbe di un’attività lavorativa vietata da 25 anni. Quelli citati sono dati ufficiali del ministero competente, sottostimati, perché non tengono conto di chi lavora nel settore ferroviario, dove il numero delle latrine è enorme, né delle 182mila donne che svolgono questa attività nei villaggi rurali (cifre di un censimento relativamente recente), ricompensate con due pezzi di pane al giorno e un pugno di cereali ogni sei mesi. Il pagamento in denaro, pochissimi spiccioli, è previsto in rari casi. I rischi connessi a questa attività sono molto alti: il ministero parla di 300 morti nel solo 2017, ma gli attivisti umanitari citano cifre ben più elevate.

Gli intoccabili

La vicenda potrebbe sembrare la terribile stortura di un sistema specifico di lavoro, invece non è che una piccola fetta di quello sfruttamento indistinto che colpisce due gruppi specifici di persone: i «dalit», gli intoccabili, la classe più bassa nel sistema indiano delle caste, e gli «adivasi», ovvero le popolazioni indigene e quelle tribali, che abitano boschi e zone rurali. Nel complesso si tratta di ben 300 milioni di individui, quasi un quarto della popolazione indiana. Questi uomini e donne sono considerati secondo la religione stessa così sporchi e «inquinanti» da meritare il nome di «intoccabili». Sono quasi ridotti alla schiavitù, perché le poche monete con le quali sono pagati, senza contratti, sia quando lavorano nei campi, sia in miniera, non bastano a restituire i prestiti che spesso si trovano a dover chiedere ai loro datori di lavoro per sostenere le spese necessarie in famiglia per matrimoni, parti, funerali e cure sanitarie. L’incredibile boom economico che l’India ha vissuto dagli anni ’90, quando l’economia è stata liberalizzata, non ha fatto altro che peggiorare questa situazione che dura da secoli. La diseguaglianza è ancora aumentata. Il più recente rapporto dell’Ong Oxfam racconta che l’1 per cento della popolazione ha in mano il 77,4 per cento della ricchezza nazionale e che il 60 per cento più povero ne usa il 4,8. Ottocento milioni di indiani sopravvivono con meno di due dollari al giorno.

Per mitigare le diseguaglianze più atroci, la Costituzione indiana, al momento dell’indipendenza dall’impero inglese nel 1947, pensò di citare direttamente gli adivasi per tutelarli, riservando loro quote nelle assunzioni nella pubblica amministrazione. La situazione oggi è peggiorata, nonostante le statistiche indichino una diminuzione della povertà in termini generali.

Una ricerca per i diritti

La crescita economica quindi, non ha affatto portato vantaggi a tutti, come affermano i globalisti. Per combattere il modello di sviluppo neoliberista, l’erosione dei diritti legati al lavoro, la discriminazione, la repressione del dissenso, l’indebitamento che rende schiavi, l’antropologa Alpa Shah ha condotto un approfondito progetto di ricerca intitolato: «Dietro il boom indiano, diseguaglianza e povertà nel cuore della crescita economica». Partita da Londra, ha iniziato a fare il giro del mondo con conferenze, dibattiti e mostre fotografiche coordinate dal filmmaker Simon Chambers. Vi lavora con un gruppo di ricercatori della London School of Economics e con il geografo sociale Jens Lerche della School of oriental and african studies. Il finanziamento è del Consiglio europeo della ricerca.

«L’obiettivo – racconta Shah nella sua ricerca – è appunto quello di suscitare la massima attenzione sulle condizioni di vita e sfruttamento anche in altre parti della terra, sulla necessità di lottare per i diritti di chi lavora, i diritti sulla terra degli adivasi, popolazioni originarie del subcontinente, colpevoli solo di abitare da secoli nei territori e tra le foreste su cui hanno messo gli occhi le multinazionali, interessate ai ricchissimi giacimenti di carbone, ferro e alluminio e che intendono sfruttare, anche distruggendo l’ambiente, trasferendo gli indigeni, oppure usandoli. Bisogna combattere ogni forma di oppressione e violenza perpetrata nel nome di uno sviluppo falsato: ognuno ha diritto alla sussistenza. Non importa quanto piccoli possano sembrare su scala globale, gli sforzi che si stanno compiendo in questo senso sono significative testimonianze di impegno per un mondo più giusto ed equo».

Nelle piantagioni

I dalit sono reclutati come neppure il peggior caporalato italiano fa e sono licenziabili in qualsiasi momento. Il 92 per cento della forza lavoro indiana non ha alcuna tutela. Sono assegnati loro i lavori più degradanti, logoranti e pericolosi.

I migranti stagionali nel biennio 2016-17 sono stati almeno 140 milioni, e le cifre sono sempre calcolate in difetto.

Nonostante in India sia stata abrogata formalmente la schiavitù nel 1833, continuano le lunghe migrazioni per lavorare nelle piantagioni di tè nel Nord Est del Bengala, nell’Assam e nel Kerala. Se fino al 1833, questi contadini erano addirittura incarcerati per qualsiasi inadempienza contrattuale, oppure puniti corporalmente o abbandonati alla morte per inedia, oggi devono resistere anni per ripagare il costo del loro trasporto e del loro vitto e alloggio nelle baracche fatte di teloni e lastre di eternit, collocate sui dolci declivi delle piantagioni del Sud, ormai diventate anche mete turistiche.

I miglioramenti di condizioni economiche faticosamente raggiunti sono stati recentemente vanificati dalla crisi del settore, tanto che, pochi anni fa, 12mila donne impegnate nella raccolta del tè hanno trovato il coraggio di scioperare, mobilitandosi persino contro il parere dei sindacati, per far rispettare la legge che prevede per loro un lavoro massimo di 9 ore giornaliere.

Lavori al limite

I migranti stagionali sono anche alla base dell’industria delle costruzioni, sia nelle piccole fornaci di mattoni sparse qui e là, sia nei grandi cantieri allestiti per edificare importanti infrastrutture. Il lavoro è molto pericoloso. Arrampicate su precarie impalcature di bambù, senza funi né caschi, oppure trasportando ghiaia e cemento in cestini sulla testa, sono 50 milioni le persone impiegate nel boom edilizio che contribuisce all’8 per cento del Pil nazionale. Le giornate lavorative sono di 12 ore anche 7 giorni su 7, con compensi che non raggiungono spesso neppure il basso salario minimo previsto per legge.

Nei campi di raccolta del cotone la situazione è pressoché identica. Il lavoro di semina, eliminazione delle erbacce e mietitura si svolge sotto un’estrema calura per gran parte dell’anno. Chi ha provato a sottrarsi alla condizione di bracciante acquistando un fazzoletto di terra, non ha ottenuto altro che l’indebitamento per acquistare sementi e fertilizzanti, e per mettere il terreno in condizione di essere irrigato. Data l’impossibilità di risalire la china, visti i recenti crolli del prezzo della materia prima, nel solo 2013 si sono contati 34 suicidi al giorno tra i piccoli imprenditori. La produzione del cotone è infatti oggi crollata in quantità, insieme al prezzo di vendita, a causa del cambiamento climatico in atto che porta piogge torrenziali, e per l’introduzione di sementi geneticamente modificate che non resistono agli attacchi del verme del cotone e obbligano all’acquisto di quantità sempre crescenti di costosi e inquinanti pesticidi.

Nemmeno i dalit che hanno il coraggio di vivere nelle inospitali paludi di mangrovie del Bengala per rifornire di granchi le mense asiatiche, se la passano meglio. Il loro primo nemico è la tigre, animale protetto, che li attacca con frequenza, riproponendo lo stesso conflitto che altri contadini vivono con gli elefanti che si spingono in prossimità dei raccolti. Le foreste di mangrovie hanno poca terra ferma, sono circondate da acque salate che portano periodiche inondazioni in un ambiente peraltro devastato dai cicloni. I granchi sono pagati a prezzi altissimi da chi li consuma, mentre a chi li raccoglie sono riservate poche rupie.

I ricercatori dell’équipe coordinata da Shah e Lerche puntano il dito anche contro l’attività mineraria in mano alle grandi multinazionali che operano senza scrupoli nei confronti dell’ambiente e dei diritti degli indigeni, grazie anche al sostegno rinnovato cinque anni fa dal governo centrale che vuole posizionare l’India come «global hub» di estrazione e lavorazione di metalli. Sotto il manto di foreste dell’India centrale e orientale, abitate dagli adivasi, si nascondono tesori immensi di ferro, bauxite, carbone, rame, grafite, mica, caolino, persino oro e uranio. La gente è evacuata dalla terra degli avi in massa, chi resta lavora in miniera, a piedi nudi impugnando un piccone, con evidenti scarsissime garanzie di sicurezza e salario. Le terre sono espropriate, chi cerca di resistere subisce brutali repressioni. Per le imprese è più conveniente far lavorare gli operai con la sola forza muscolare, anziché investire in costosi macchinari di sgombero terra. Le miniere censite sono oltre 300mila, ma solo lo 0,1 per cento offre minimi standard di agibilità. La produzione di elettricità nel paese per il 70 per cento è affidata proprio al carbone fossile e non ci si stupisce se 14 delle 20 città più inquinate del mondo si trovano in India. Inoltre, le emissioni di gas serra, che costituiscono la causa principale del cambiamento climatico globale, continuano ad aumentare, grazie anche alle acciaierie e alle fornaci produttrici di cemento.

Altri adivasi, in questo quadro di boom economico oppressivo, sono persino costretti a sopravvivere con i miserevoli ricavi prodotti dalle scorie di carbone che recuperano dai cumuli residuali a cielo aperto. Si caricano le schegge sulle biciclette o le trasportano a piedi in sacchi di iuta per venderli a chilometri di distanza. Oppure setacciano con calamite i residui ferrosi scartati durante l’estrazione e cercano di venderli con il medesimo sistema. O ancora, anche in stati sviluppati come Kerala e Tamil Nadu, raccolgono rifiuti nelle discariche e lungo i bordi delle strade selezionando carta, plastica, vetro o metallo già scartato da altri, ricevendo un compenso molto basso.

Del resto, lo sfollamento dalle loro terre espropriate li riduce spesso a dormire per strada, nonostante alcuni abbiano ricevuto in cambio della loro partenza piccolissimi lotti di terra.

«La crescita non va a vantaggio di tutti. Le enormi diseguaglianze sono l’altra faccia della prosperità economica globale», commenta Alpa Shah. Un caso emblematico di come stia progressivamente degenerando la situazione delle comunità più svantaggiate – dicono i ricercatori – è stata la costruzione della mega diga Sardar Sarovar iniziata negli anni ’90 che interessa tre stati centrali, il Maharashtra, il Madya Pradesh e il Guyarat. L’impianto, che comprende decine di altre dighe più piccole, è stato inaugurato solo due anni fa dal premier Narendra Modi dopo sollevazioni popolari di ogni tipo. Manifestazioni che hanno portato addirittura la Banca mondiale a ritirare la sua partecipazione di 450 milioni di dollari al progetto. La diga ha causato il trasloco forzato di decine di migliaia di persone in nome di irrigazione e progetti idroelettrici, senza ricadute benefiche di nessun tipo sulla popolazione locale, che invece ha perso non solo casa e campi da coltivare, ma anche la sua identità culturale e i rapporti sociali. Una spirale che crea ulteriore emarginazione e che non sembra conoscere inversione di marcia.

Mario Ghirardi

Archivio MC


I moti insurrezionali dei Dalit

L’insurrezione armata più lunga

Negli anni ‘70, nel Bengala, gli adivasi iniziarono una ribellione armata che continua ancora oggi. Le tecniche sono quelle della guerriglia, ma la popolazione viene presa in mezzo. Una guerra dimenticata che è costata 7mila morti negli ultimi dieci anni.

I primi moti insurrezionali violenti organizzati per combattere lo sfruttamento e la confisca delle terre agli adivasi scoppiarono negli anni ’70 del secolo scorso in una remota città del Bengala settentrionale e proseguono ancora oggi, tanto che questa pare essere la lotta rivoluzionaria armata più lunga al mondo.

L’antropologa sociale Alpa Shah ha studiato a lungo questi moti, descrivendoli in numerosi saggi e in un volume pubblicato in Italia da Edizioni Meltemi con il titolo «Marcia notturna». La ricercatrice ha studiato il fenomeno a partire da un villaggio dello stato del Jharkhand divenuto roccaforte della guerriglia. Qui si concentrano infatti le mire di sfruttamento delle risorse minerarie da parte delle multinazionali. Mire che portano con sé anche la distruzione delle foreste e degli habitat tipici degli adivasi, sino ad allora completamente ignorati dai governi centrali. Vivono in villaggi che non hanno mai conosciuto elettricità, scuole e assistenza sanitaria.

Il risultato è che, dopo la prima insurrezione di ispirazione maoista e marxista leninista, il governo ha etichettato i rivoltosi come maoisti e dà loro una caccia spietata da almeno una dozzina di anni, ovvero da quando le foreste dell’India centrale e orientale sono pattugliate con continuità dall’esercito e da corpi specializzati che li combattono usando le loro medesime tecniche. Da un lato i guerriglieri cercano di farsi amiche le popolazioni abolendo le oppressive gerarchie di tribù e casta, dall’altra squadre di vigilantes puntano a mettere gli adivasi gli uni contro gli altri, con conflitti locali che degenerano in spedizioni punitive contro i villaggi che spesso finiscono dati alle fiamme.

Sull’altro fronte i guerriglieri vogliono stanare i militari e li attaccano facendo saltare con bombe i loro mezzi e uccidendo coloro che ritengono informatori della polizia. Questi rispondono con azioni altrettanto violente contro chi dà ospitalità ai rivoltosi. Ai morti negli scontri a fuoco, secondo alcune fonti, stando sempre a quanto riferiscono i pochi giornalisti e avvocati per i diritti umani che riescono ad entrare in quelle zone, si devono aggiungere anche quelli uccisi durante la prigionia e che vengono fatti passare come vittime in battaglia. Alla fine, delle circa 7mila persone che si stima abbiano perso la vita in questi conflitti nell’ultimo decennio, il 40 per cento sono civili, con il resto suddiviso tra guerriglieri e militari. Altre 7mila persone, secondo i dati del South Asia Terrorist Portal, si sarebbero arrese e 8mila sarebbero state arrestate.

M.G.




Egitto: I Copti


AFP PHOTO / MOHAMED EL-SHAHED

Questo è il terzo dossier che dedichiamo alle minoranze dimenticate ed oppresse. Il primo ha parlato degli Yazidi dell’Iraq (marzo 2017), il secondo dei Rohingya del Myanmar (aprile 2017).

 


Introduzione:
Nonostante tutto

I copti sono i discendenti degli antichi egizi. Attorno alla metà del primo secolo dopo Cristo si convertirono al cristianesimo. Sei secoli dopo in Egitto arrivarono gli arabi e l’islam. Tra invasori e conversioni, la comunità copta si ritrovò minoranza. Oggi i copti sono 10-13 milioni su una popolazione egiziana complessiva di 90. Non hanno mai avuto un’esistenza facile: violenze e attentati contro di loro sono da sempre una costante. In questi anni, in particolare, prima la Fratellanza musulmana, poi l’Isis, ne hanno fatto l’obiettivo preferito.

In Egitto la shari’a è stata ufficialmente introdotta nell’ordinamento con un emendamento costituzionale del 1980, durante la presidenza di Sadat. Da allora sono cambiati i presidenti, ma l’articolo 2 della Costituzione recita sempre: «I principi della shari’a islamica sono la fonte principale della legge». Un macigno sulla testa di chiunque non sia musulmano.

Per ora pare impossibile prevedere un cambio: la shari’a, intollerabile in qualsiasi paese che abbia la democrazia e la laicità come pilastri della propria esistenza, rimarrà a decidere della vita e della libertà delle persone. Shari’a, Fratellanza musulmana, Isis, tutto sembra congiurare contro i copti. Eppure resistono. Nonostante tutto.

 Paolo Moiola


La Chiesa copta ortodossa:
Tra persecuzioni e inattese fioriture

Nata all’ombra delle piramidi attorno al 40 dopo Cristo in seguito alla predicazione dell’evangelista Marco, la Chiesa copta ha una lunga storia di persecuzioni e sofferenze, soprattutto in Egitto, paese islamico. Eppure, con 15 milioni di fedeli sparsi nel mondo, questa Chiesa è fiorente, viva e dinamica oltre ogni aspettativa.

Gli ultimi attentati e la recentissima storica visita in Egitto di papa Francesco hanno portato all’attenzione dell’opinione pubblica internazionale le vicende di una Chiesa antica che sconta secoli di discriminazioni e persecuzioni: la Chiesa copta ortodossa. Nata all’ombra delle piramidi dalla predicazione dell’evangelista Marco, rappresenta uno dei più grandi paradossi della Storia. Pur portando, infatti, tutto il peso di una eredità storica antica quanto il cristianesimo appare al contempo viva e dinamica come fosse nel fior fiore della gioventù. «Lo straordinario rinascimento della Chiesa copta ortodossa degli ultimi decenni – scriveva il coptologo tedesco Otto Meinardus – è uno dei grandi eventi storici della cristianità a livello mondiale. Mentre in altre parti del mondo, gli storici diagnosticano una certa stagnazione della testimonianza cristiana, i figli e le figlie dei faraoni sono pieni di un entusiasmo inaudito per il Regno di Dio e per l’evangelizzazione». Una Chiesa in piena fioritura, dunque, la più seguita nei territori dominati dall’islam, che dalla metà del secolo scorso ha scavalcato i suoi confini naturali. La migrazione dei copti, infatti, ha raggiunto praticamente ogni parte del globo. Nelle principali città italiane è ormai possibile conoscere da vicino questa realtà grazie a una comunità coesa e dinamica, capace di convivere e di integrarsi a livello sociale e lavorativo, che offre una testimonianza cristiana sempre discreta ma intensa. È guidata da un metropolita e da un vescovo ed è servita da numerose parrocchie. In Italia si parla, dunque, anche copto.

AFP PHOTO / OSSERVATORE ROMANO

Tawadros II, il papa dei copti

Una fioritura, quella dei copti, avvenuta a prezzo di grandi sacrifici. Le cronache degli ultimi anni ci raccontano di cristiani egiziani cacciati dalle loro terre, che vedono le loro chiese distrutte, le loro case date alle fiamme. La stampa mondiale racconta di uomini e di donne pacifici trucidati dalla furia fondamentalista. Come dimenticare i martiri copti di Sirte, in Libia, che, nel 2015, fino al momento di essere sgozzati per la propria fede, non hanno smesso di invocare sui propri nemici il nome di colui «che ci ha amati e ha consegnato se stesso per noi» (Gal 2,20), Gesù? La storia non è stata di certo clemente con questa Chiesa orientale. Si può dire che – tranne brevi periodi – i cristiani egiziani hanno vissuto grandi sofferenze. Recentemente un monaco del deserto egiziano, un abba, mi ha mostrato un’antica icona in cui era dipinta una croce fiorita. Poi mi ha consegnato una massima che sintetizza la storia di questa comunità: «Solo dall’albero della Croce nascono i fiori!». È tenendo bene in mente il paradosso della Croce che dobbiamo leggere il miracolo di questa Chiesa che fiorisce e cresce mentre, temprata nella fede, viene irrorata dal sangue dei suoi martiri. Non diceva già Tertulliano che «il sangue dei martiri è seme di cristiani»?

Malgrado i media parlino molto spesso delle tragedie dei copti, si fa sempre più urgente la necessità di conoscersi di più. Dopo secoli di estraniamento, è necessario incontrarsi faccia a faccia, ascoltarsi, comprendere le ragioni dell’altro. Basti pensare che non è scontato sapere che in queste terre è nata e si è sviluppata la scuola teologica probabilmente più importante del cristianesimo antico, quella di Alessandria, che ha conosciuto personaggi del calibro di Origene e Clemente. Qui il monachesimo ha mosso i suoi primi passi grazie all’ispirazione dei grandi padri del deserto Antonio, Macario, Pacomio per poi irradiarsi in tutto il Mediterraneo. Qui si prega ancora secondo una delle liturgie più antiche al mondo, quella alessandrina. La Chiesa copta è anche l’unica Chiesa che, insieme a quella romana, chiama il proprio patriarca «papa». L’attuale papa si chiama Tawadros II, un vero «dono di Dio» (questo significa il suo nome) alla Chiesa universale.

Monofisita? Il peso di un’etichetta eretica

Tra i cliché duri a morire c’è quello legato al monofisismo. Spesso si sente purtroppo ancora parlare di «chiesa monofisita». Questa etichetta, affibbiata per secoli ai copti, li ha di fatto bollati come eretici associandoli all’eresia di Eutiche (378-456), monaco di Costantinopoli, anatematizzato al Concilio ecumenico di Calcedonia (451), che paragonava l’umanità di Cristo a una goccia di vino in un oceano di acqua (divinità). Sarebbe quanto meno sorprendente che la Chiesa che ha generato un sant’Atanasio (ca. 296-373), campione del primo concilio ecumenico di Nicea (325) e autore di un’opera intitolata «L’incarnazione del Verbo», abbia potuto in pochi decenni deviare verso un’eresia che nega un mistero cristiano così fondamentale. I copti credono, invece, profondamente sia alla divinità che all’umanità di Gesù e quando parlano di ‘una natura’ riprendono un’espressione usata da Cirillo di Alessandria (ca. 375-444), dottore della Chiesa universale: «Una sola natura del Verbo di Dio incarnato» (mía phýsis, in greco). In Cristo esiste una sola natura composita, al contempo divina e umana, senza confusione (umanità e divinità, seppur unite, sono rimaste distinte) e senza cambiamento (Dio è rimasto Dio pur diventando uomo). Questa formula intende esprimere il mistero dell’unità insita nella persona del «Dio fattosi carne», dell’Emmanuele, mistero che è continuamente cantato dalla spiritualità copta. Data la taccia che è stata attribuita al termine «monofisismo» nel corso della storia, è bene non chiamare mai la Chiesa copta «chiesa monofisita» (da evitare anche l’infelice neologismo «miafisita»), anche perché la Chiesa egiziana non si autodefinisce mai così ma si chiama, semplicemente, «ortodossa». La famiglia ecclesiale della Chiesa copta ortodossa (detta «precalcedonese» o degli «ortodossi orientali») comprende anche la Chiesa siro-occidentale, l’etiopica, l’eritrea, la malankarese e l’armena e conta circa 85 milioni di fedeli.

Copto ovvero cristiano d’Egitto

Cosa significa «copto»? Semplicemente «egiziano». Il termine inizia a comparire in epoca islamica ma la sua origine è più antica ed è connessa a uno dei nomi sacri della città di Menfi, capitale dell’antico regno (dal 2700 a.C. al 2200 a.C.) che si trova a pochi chilometri dall’attuale Cairo: Hikaptah, cioè «la dimora del Ka (principio vitale per la religione egizia) di Ptah». Da questo nome derivò il nome greco Aigyptos da cui Egitto. La parola storpiata in arabo, «qibti», indicava quindi solamente un’origine etnica: «egiziano». Ma fu presto confuso con «cristiano» perché la maggioranza degli egiziani all’epoca dell’invasione islamica del VII secolo era cristiana. Oggi il termine indica un dato religioso ed etnico insieme e cioè «cristiano d’Egitto». Inoltre con «copto» si designano anche la lingua, l’arte e la civiltà dell’Egitto tra la fine dell’epoca tolemaica e l’islamizzazione del paese, cioè dal 30 a.C. fino al VII sec. all’incirca. Non è un caso che, profondamente egiziani e radicati nella cultura del proprio territorio, i copti si considerino discendenti degli antichi egizi e depositari della loro cultura.

Egitto, terra biblica

In principio, dunque, è l’Egitto. Terra misteriosa, ben presente nella storia della salvezza, è da sempre legata alle sorti del popolo di Israele. «Egitto» appare nella traduzione Cei ben 594 volte. Molti dei personaggi dell’Antico Testamento li troviamo di qui. Terra di rifugio per Abramo, Isacco e Giacobbe; terra di schiavitù per Giuseppe e Mosè. Proprio Mosè, prima di diventare capo e simbolo del popolo di Israele, si forma alla scuola della civiltà egizia tanto da venire descritto dalla Scrittura come «istruito in tutta la sapienza degli Egiziani» (At 7,22). Il popolo ebraico, liberato dalla schiavitù egizia in maniera miracolosa, mentre è nel deserto, si lamenta con Mosè di non poter più mangiare i succosi cocomeri, i meloni, i porri, le cipolle e l’aglio d’Egitto (cf. Nm 11,5).

Ma l’Egitto non è stato solo il teatro di una storia «non sua». Al contrario, è stato esso stesso oggetto di molte profezie bibliche. Basta citarne soltanto una che i copti hanno sempre letto come profezia dell’evangelizzazione del paese. Si trova in Isaia 19, il cosiddetto «oracolo sull’Egitto»:

«Ecco, il Signore cavalca una nube leggera ed entra in Egitto […]. Il Signore si rivelerà agli Egiziani e gli Egiziani riconosceranno in quel giorno il Signore, lo serviranno con sacrifici e offerte, faranno voti al Signore e li adempiranno […]. In quel giorno Israele sarà il terzo con l’Egitto e l’Assiria, una benedizione in mezzo alla terra. Li benedirà il Signore degli eserciti: «Benedetto sia l’Egitto mio popolo, l’Assiria opera delle mie mani e Israele mia eredità».

Quell’Egitto che aveva tenuto come schiavi gli ebrei, divenuto simbolo del male per eccellenza, diventerà «benedetto», diventerà «suo popolo».

Marco arriva ad Alessandria

Stando a Eusebio di Cesarea, pochi anni dopo la Resurrezione di Gesù, verso gli anni 40, san Marco Evangelista va ad annunciare la buona novella ad Alessandria. È in un’Alessandria cosmopolita e multireligiosa che giunge l’apostolo Marco che proveniva da Roma. Centro dell’Oriente ellenistico, Alessandria è testimone di un’intensa attività culturale. Qui esiste un’importante comunità ebraica che è stata protagonista della prima traduzione dell’Antico Testamento in greco, la cosiddetta versione dei Settanta, realizzata tra il III e il I sec. a.C.. Qui Filone, ebreo di Alessandria, nel tentativo di conciliare ellenismo e giudaismo, sviluppa un’esegesi della Bibbia che preferisce, all’interpretazione letterale, una allegorica che influenzerà molto il Didaskaleion, la prima «università» teologica cristiana, nata ad Alessandria verso la fine del II secolo d.C..

In realtà, i copti ritengono che il primo ad evangelizzare l’Egitto non sia san Marco (che pure considerano il «fondatore» della propria Chiesa) ma Gesù stesso. Bisogna risalire ad almeno una quarantina di anni prima quando la Sacra Famiglia scappa in Egitto per sottrarsi all’ira di Erode. Anche qui, una profezia veterotestamentaria sull’Egitto diceva: «Dall’Egitto ho chiamato mio figlio» (Os 11,1). Diversi testi apocrifi, tra cui il Vangelo arabo dell’infanzia (ca. V sec.), e numerose tradizioni copte, riferiscono i dettagli del soggiorno di Gesù, Maria e Giuseppe che fu ricco di eventi miracolosi e portò molti a credere in Cristo. Ancora oggi esistono delle chiese fondate sui luoghi delle tappe più importanti di questo passaggio. L’Egitto è quindi l’unica terra, oltre a quella di Palestina, ad essere stata calpestata dal Verbo incarnato.

Dall’imperatore Diocleziano alla spaccatura di Calcedonia

I copti chiamano affettuosamente la loro chiesa Umm al-shuhada’, la «Madre dei martiri». Iniziate nel III secolo, le discriminazioni nei confronti dei cristiani copti non si sono praticamente mai arrestate. Con l’arrivo di Diocleziano nel 284 la Chiesa egiziana vive una drammatica persecuzione che miete un gran numero di martiri. Quest’epoca terribile ha avuto un tale effetto che la Chiesa copta fa cominciare il suo calendario il 29 agosto (calendario giuliano) 284, data d’inizio dell’impero di Diocleziano. Il 2017 corrisponde al 1733 del calendario copto. La persecuzione, arrestatasi nel 313 con l’editto di Milano che decreta la libertà religiosa per i cristiani dell’impero romano, riprenderà in altre forme poco più tardi. Inizia l’epoca d’oro di questa Chiesa, IV e V secolo, stroncata dal disastro del 451. Al Concilio di Calcedonia si consuma una delle più dolorose spaccature all’interno dell’ecumene cristiana. Incomprensioni sulla natura di Cristo, mescolate a ragioni di tipo geoecclesiale, portano la Chiesa egiziana a essere estromessa dalla comunione con le altre Chiese. Il risultato è una nuova era di persecuzioni a opera dell’establishment ecclesiale appoggiato dall’imperatore, fino al momento all’avvento dell’islam nel VII secolo.

Il Grande Imam di al-Azhar, Sheikh Ahmed Mohamed al-Tayeb, e Popa Tawadros II di Alessandria.
/ AFP PHOTO / Khaled DESOUKI AND KHALED DESOUKI

Vivere da cristiani in un paese islamico

Isolando i copti dagli altri cristiani, l’islam certifica definitivamente la definizione di «Chiesa di martiri». I nuovi dominatori islamici, infatti, fanno di tutto per favorire la conversione alla loro religione dei cristiani egiziani, spesso con metodi per nulla pacifici.

Considerati cittadini di seconda categoria, i cristiani devono aspettare un millennio, l’epoca moderna, per reclamare e ottenere alcuni diritti civili. Per esempio, è solo nel 1855 che i copti vengono esentati dal pagare la jizya, una pesante tassa pro-capite imposta dallo stato islamico ai non musulmani. Ma il movimento islamico radicale, che si rafforza in Egitto soprattutto a partire dagli anni Settanta, rimette nuovamente in discussione i diritti acquisiti nel XIX e XX secolo e i copti, con l’imposizione di una costituzione che fa della shari‘a la sua fonte legislativa, subiscono un’ondata di persecuzioni che continua a tutt’oggi in un paese profondamente islamizzato.

La visita di papa Francesco, molto amato dai cristiani egiziani, è giunta a infondere coraggio e speranza non solo ai copti ma a tutti gli abitanti di questa terra sofferente che, sequestrata dal fanatismo, cerca con fatica un po’ di pace, condizioni di vita migliori e, soprattutto, maggiore tolleranza. Oggi come ieri, la Chiesa di Alessandria continua a donare ai suoi vicini musulmani e al mondo una delle testimonianze cristiane più fedeli: dall’albero della Croce non possono che nascere fiori di riconciliazione e di pace.

Markos el Makari

Cronaca degli ultimi attacchi:
Egiziani (eppure stranieri in patria)

Dallo stato egiziano ai Fratelli musulmani fino all’Isis. Ai copti non sono mai mancati i nemici, come dimostra la lunga sequela di fatti di sangue. Oggi sostengono il presidente al-Sisi. Più per questioni di sopravvivenza che per reale convinzione.

Un patrimonio culturale immenso, un ruolo cruciale nella storia del cristianesimo, una pietra miliare della spiritualità. Ma non è per nessuna di queste ragioni che oggi i copti sono così in voga.

L’11 dicembre 2016 un attentatore suicida entra nella chiesa dei Santi Pietro e Paolo, e, non conoscendo bene l’anatomia di una chiesa copta (o forse perché la conosce fin troppo bene), si dirige nella navata nord, quella delle donne, e lì, dalle ultime file, si fa esplodere.

Al-Sisi non ha dubbi: l’autore dell’atroce atto sarebbe stato il giovane ventiduenne Mahmoud Shafiq Mohammed Mustafa, carico con 12 kg di tritolo. L’esplosione è fortissima, i morti sono 29, quasi tutte donne e bambine. La chiesa si trova nel complesso della cattedrale di San Marco, a pochi passi da Sua santità papa Tawadros II che rivendica: «Non è un disastro soltanto per la Chiesa, ma per tutta la Nazione». Pochi mesi dopo – nella domenica delle Palme – l’Isis colpisce di nuovo e in maniera devastante: in due attentati rimangono uccise 47 persone.

Tensioni quotidiane

La persecuzione dei copti in Egitto è un fenomeno peculiare e con forti componenti sociali dal carattere strisciante (difficile per un copto, ad esempio, diventare dirigente di una struttura pubblica).

I copti vivono nello strettissimo ghetto che si trova fra il potere militare e la teocrazia underground degli integralisti islamici. Fra l’incudine e il martello, impossibilitati ad avere una vita sociale aperta: amori, contenziosi o anche liti condominiali con la restante popolazione di fede islamica, ma solo cordialità di facciata, timidi e diffidenti rapporti di lavoro.

Un esempio è quello della settantenne di al-Minya che, nel maggio 2016, è stata denudata e portata in processione per le strade del villaggio perché accusata di avere una liaison sentimentale con un uomo musulmano sposato. E questo per non parlare degli esiti di vicende amorose analoghe, ma a parti invertite. Si tratta di un vissuto che però viene meno nel momento in cui attraversiamo il confine del benessere. È molto difficile, infatti, che gli egiziani dei ceti più alti vivano conflitti di questo genere.

Un altro caso simbolo è quello di Nag Hammadi, cittadina a 80 km da Luxor. Il primo dell’ultima serie di attacchi «natalizi» che si sono verificati in questi ultimi anni. È la vigilia di Natale, la notte fra 6 e 7 gennaio 2010, terminata la messa i fedeli si scambiano gli auguri in un clima a dir poco infuocato. Pochi giorni prima, il vescovo Kyrillos aveva già allertato le forze dell’ordine, che gli avevano consigliato di far anticipare la messa di mezzanotte di un’ora. Ma non basta a evitare il massacro. Uomini armati attraversano il cortile della chiesa in macchina sparando sui fedeli. Muoiono in nove, otto cristiani e un musulmano.

Nei giorni successivi viene fuori il movente (per altro già ben noto ai locali): una spedizione punitiva nei confronti della comunità per vendicare una ragazzina dodicenne vittima di abusi sessuali da parte di un copto. Non è né la prima né l’ultima volta che a pagare le spese degli errori e dei crimini (ma anche dei passi falsi e delle passioni) di un solo uomo, sia tutta la comunità dei fedeli.

Il caso di Nag Hammadi è uno dei primissimi ad avere un’ampia copertura mediatica, godendo anche di una diffusione virale sui social network.

Tutto ciò consente agli attivisti di organizzarsi in manifestazioni al Cairo contro l’assordante silenzio delle autorità egiziane. A ben due settimane (oggi impensabile) dall’evento, l’allora presidente Hosni Mubarak si esprimerà condannando per la prima volta il massacro, non senza una cospicua campagna di arresti nei confronti degli attivisti.

“I Cristiani sono Egiziani” è scritto nel cartello di questo manifestante copto durante una manifestazione al Cairo nell’agosto 2016. (Mohamed El Raai / Anadolu Agency)

Sospetto, diffidenza, deferenza

È per tutti questi meccanismi sociali, che agli occhi dei comuni musulmani – quelli che noi definiremmo «moderati» – la popolazione dei copti è un po’ come se facesse vita a sé, sempre pronta a rimarcare il fatto di essere cristiana. A molti musulmani viene quindi da pensare: «Ma perché non si comportano normalmente? Come mai sono così chiusi?». E da qui a «Nascondono forse qualcosa?», il passo non è breve, di più. L’alone di mistero che circonda i copti non è quindi fonte di ammirazione, curiosità o fascino per gli egiziani, ma soltanto di sospetto e diffidenza ulteriore.

Lo stato, d’altro canto, non è mai stato un amico. E questo concetto è ben chiaro a molti copti, nonostante le accoglienze messianiche che hanno sempre riservato ad ogni visita di sua maestà al-Sisi.

Un occhio psicoanalitico sarebbe in grado di rivelare come i copti quasi si compiacciano della propria servilità dimostrata nei confronti del potere militare. Se a livello internazionale c’era da dimostrare che i diritti umani erano rispettati, i militari tiravano in mezzo la pacifica convivenza di cui godono i copti all’interno del paese; se serviva ridimensionare i copti per calmare i bollenti spiriti degli islamisti, venivano ridimensionati; e se serviva mobilitarli in massa per andare a «votare», venivano mobilitati tranquillamente. Il tutto con il soddisfatto consenso dei cristiani d’Egitto, come se questi si sentissero in qualche modo importanti. Una sorta di «sindrome di Stoccolma», ma anche un attaccamento fortissimo alla patria. La storia degli ultimi anni è quanto mai emblematica di tutto questo meccanismo.

Da un attentato all’altro

Siamo nel 2011. Un anno dopo il massacro di Nag Hammadi, più o meno lo stesso periodo dell’anno. È l’inizio dei rivolgimenti per tutta una serie di governi del Nord Africa e del Medio?Oriente sulla cui stabilità ci saremmo giocati tutto: è l’inizio delle cosiddette «Primavere arabe».

Chiesa dei Santi, Alessandria d’Egitto, notte di Capodanno: i fedeli sono tutti in chiesa per celebrare l’arrivo del 2011. Moriranno in ventitré. Si tratta di un attentato preso ad esempio per i successivi, quello del dicembre 2016 e quello della domenica delle Palme 2017. Un attentato suicida che arriva in un paese in fortissima crisi sociale, e c’è chi comincia a insinuare che ci possa essere anche la mano del governo… Sì, è l’inizio della fine.

Muhammad Hosni Mubarak cadrà qualche settimana più tardi in seguito a una rivoluzione popolare dalla portata faraonica.

Nessuno può dire esattamente quale sia stato il movente dell’attentato di Capodanno. Ma c’è uno scandalo (apparentemente davvero irrilevante) che, da qualche tempo, è sulla bocca di tutti: lo strano caso «Camelia Shehata e Wafaa Costantine». È la storia di due donne cristiane che, nel loro tentativo di convertirsi all’islam, sarebbero state rapite da membri del clero copto e tenute prigioniere in un monastero.

Non sapremo mai la verità, ma quello che sappiamo è che su internet sono stati diffusi dei video di queste due donne (velate con velo integrale) che si dichiaravano musulmane, libere e convinte.

Lo ricordiamo per un motivo ben preciso: questo «scandalo» sarà anche il movente che lo Stato islamico citerà nel video ufficiale della decapitazione dei ventuno giovani copti martiri rapiti in Libia nel 2015. Cinque anni dopo.

Le responsabilità della strage di Alessandria rimangono tutt’oggi poco chiare, anche dopo la rivoluzione. Ma esistono indagini molto nebulose che porterebbero addirittura al nome dello stesso ex ministro degli interni Habib Al-Adly, in carica al tempo dei fatti.

Quello di Alessandria è uno dei primissimi attentati ad avere una ripercussione anche in Europa. In particolare, nel 2011 tutte le comunità copte in Italia celebreranno la vigilia di Natale sotto la protezione degli uomini della Digos. Dalla più piccola e sperduta parrocchia, alla più grande cattedrale.

Foto del 2010 del leader supremo dei Fratelli Musulmani Mohammed Badie. (AP Photo/Amr Nabil)

Gli attacchi dei Fratelli musulmani

Caduto Hosni Mubarak, i copti pensano che sia arrivato il momento per chiedere a gran voce la parità dei diritti. In particolare, il dibattito pubblico si sta concentrando sull’abolizione dell’articolo della Costituzione che prevede che la principale fonte per la legislazione sia la shari’a islamica, ma anche sulla semplificazione della procedura di ottenimento dei permessi per la costruzione di nuovi luoghi di culto cristiani.

L’illusione svanisce subito. Nell’ottobre 2011, in seguito alla demolizione dell’ennesima chiesa, i copti decidono di scendere in piazza a Maspero, sede della Tv di stato egiziana, per manifestare ancora una volta contro l’assordante silenzio dei media. È un vero massacro: ventotto morti letteralmente schiacciati dai blindati dell’esercito, mentre la cronista della Tv pubblica invita tutti gli «onorevoli cittadini» a proteggere i militari dalla violenza dei copti. All’esercito si aggiungono quindi gruppi di salafiti armati, tutti contro i copti.

Oggi la Chiesa copta ha ufficialmente «perdonato» ai militari questo massacro in nome dell’unità nazionale. Ed è stato proprio in nome dell’unità nazionale che papa Tawadros II ha sostenuto in primissima persona l’ascesa di al-Sisi, e la caduta di Morsi, il primo presidente egiziano democraticamente eletto, che però aveva il difetto di appartenere ai Fratelli musulmani. Una storia davvero tumultuosa che culmina in un golpe e violenze generalizzate.

Agosto 2013: un attacco su vasta scala da parte degli attivisti della Fratellanza prende di mira – immediatamente dopo l’annuncio del golpe – decine di chiese in tutto l’Egitto. Vengono colpiti anche siti archeologici, manoscritti antichi, icone, reliquie… Tutto bruciato.

I militari rispondono con una strage. A Rabi’a muoiono fra i seicento e gli ottocento (ancora non si sa con esattezza) attivisti dei Fratelli musulmani, e l’organizzazione viene ufficialmente definita come «terroristica». Mohammed Morsi è tutt’ora in carcere e sotto processo per accuse gravissime.

Costretti a sostenere al-Sisi

È su questo scenario che si è affacciato papa Francesco, il 28 e 29 aprile scorsi, nella sua prima visita ufficiale in Egitto. Fra la memoria di Giulio Regeni e il bene dei copti e del futuro dei cristiani in Medio Oriente, costretti a sostenere gli uomini forti per potersi garantire un’esistenza accettabile. Ma – lo abbiamo visto con gli attentati della domenica delle Palme – non scevra da pericoli mortali.

Andrea Boutros

Il presidente dell’Egitto, Abdul Fattah al-Sisi a Washington, D.C. in aprile 2017 (DOD photo by U.S. Army Sgt. Amber I. Smith).


Incontro con esponenti della comunità copta:
Al-Sisi (meglio degli altri)

Per gli oltre dieci milioni di egiziani di fede cristiana è difficile e rischioso vivere in un paese dove «tutto ciò che non è musulmano è considerato contro Dio».

«Con al-Sisi è cambiato tutto o, forse, non è cambiato nulla». Girgis è perplesso. Lui, cristiano, non riesce a sintetizzare la situazione in cui vive attualmente la Chiesa copta ortodossa in Egitto. «Certo – riprende – se guardiamo alla storia della nostra comunità, qualcosa di diverso c’è. Ed è un qualcosa di positivo. Se guardiamo alla cronaca, che parla di attentati, morti e feriti, non possiamo essere così ottimisti».

Da Mubarak a Morsi

Non si può comprendere l’attuale situazione se non si fa un passo indietro. I copti sono gli eredi degli antichi egizi che si convertirono al cristianesimo, a partire dal primo secolo, grazie alla predicazione di San Marco. La loro Chiesa è quindi antichissima e fino al VII secolo è stata maggioritaria in Egitto. Con l’arrivo degli arabi e dell’islam, per i copti è iniziata una difficile convivenza, fatta di periodi di relativa libertà alternati ad anni di dure repressioni.

La situazione non è migliorata con l’indipendenza dell’Egitto. Sotto i governi di Anwar Sadat e Hosni Mubarak, la Chiesa ha vissuto un periodo particolarmente difficile. «Ai tempi di Mubarak – osserva Awad, giornalista egiziano di fede cristiana -, la state security (un dipartimento speciale della polizia di stato, ndr) dominava la scena politica e religiosa. Per i copti era difficile, se non impossibile, costruire o anche ristrutturare una Chiesa perché era necessario il nullaosta della state security, che non lo rilasciava facilmente. La polizia arrestava i musulmani che si convertivano. Agenti erano coinvolti nei rapimenti di ragazze copte, organizzati per convertirle (andando contro la legge che prevedeva e prevede che qualsiasi conversione possa avvenire solo dopo i 18 anni). I musulmani che attaccavano le chiese rimanevano impuntiti».

Queste violenze contro la minoranza copta erano legate alla politica interna del raiss. Per rimanere al potere, Mubarak aveva bisogno del sostegno anche delle frange islamiche più estremiste. «Il presidente – osserva Girgis – lasciava quindi che i copti subissero le angherie e le discriminazioni più palesi. Sono stati anni molto duri».

La speranza di un cambiamento è arrivata nel 2011 con la caduta del regime. Musulmani e cristiani sono scesi in piazza insieme per invocare la caduta del raiss. «La parte migliore del mondo musulmano e di quello cristiano – ricorda Awad – lottava per un cambiamento reale della società egiziana. Volevano un paese in cui le componenti religiose convivessero senza dissidi, insieme come cittadini di un unico paese, l’Egitto. Ma è arrivata subito la doccia fredda». La strage nel quartiere Maspero, in cui nel 2011 la polizia ha represso con la violenza una manifestazione di cristiani (facendo 26 vittime tra i copti), e il governo della Fratellanza musulmana, guidato dal presidente Mohammed Morsi, hanno subito rimesso in un angolo la comunità cristiana. «Il progetto di riforma costituzionale promosso dalla Fratellanza musulmana – spiega Youssef, ingegnere egiziano di fede cristiana – era inaccettabile per la nostra comunità. Se fosse stato approvato ci avrebbe riportato indietro di secoli. I cristiani sarebbero diventati cittadini di serie B. Ma, va sottolineato, discriminava anche i laici e i musulmani che non si riconoscevano nella visione totalizzante dell’Islam della Fratellanza musulmana. È per questo motivo che la maggioranza degli egiziani è scesa in strada e ha iniziato a contestare Morsi, obbligandolo alle dimissioni».

Il fondamentalismo islamico e al-Sisi

Non è un caso che, quando Abdel Fattah al-Sisi è arrivato al potere nel 2013, è comparso in televisione con al fianco sia Tawadros II, papa dei copti, sia Ahmad Muhammad Ahmad al Tayyib, imam della moschea-università di al-Azhar (massima autorità dell’Islam sunnita). In al-Sisi, militare e musulmano devoto, i copti hanno subito visto un politico in grado di proteggere la comunità cristiana. «Al Sisi – osserva Girgis – ha certamente cambiato in meglio la situazione dei cristiani. Ha varato leggi, decreti e regolamenti per favorire la costruzione di chiese, luoghi di incontro, ecc. Ma, intendiamoci, la libertà religiosa non si impone per decreto. Costruire una chiesa è ancora oggi difficile, professarsi copto anche. Questo perché la società egiziana è fortemente permeata da una visione fondamentalista dell’islam. Tutto ciò che non è musulmano è considerato contro Dio».

Non è un caso che, solo nel primo anno di governo di al-Sisi, 85 chiese siano state attaccate, bruciate o demolite. L’11 dicembre 2016 un attentato alla cattedrale del Cairo ha fatto 25 morti. Il 9 aprile scorso due attentati, il primo davanti chiesa di Mar Girgis a Tanta e il secondo davanti alla chiesa di San Marco ad Alessandria, hanno provocato 45 vittime. «Ciò dimostra – osserva Awad – che la violenza nei nostri confronti non è sparita. E che, nonostante al-Sisi abbia promesso maggiori controlli e maggiore protezione, noi siamo ancora in balia dei fondamentalisti».

Al-Sisi però non sta lavorando solo sul piano della sicurezza. Sta facendo pressioni affinché gli studiosi dell’Islam recuperino la tradizione pluralista e dialogante della fede musulmana. «Il lavoro sul piano culturale – continua Awad – è fondamentale. Bisogna scardinare dalla società egiziana la visione wahabita dell’islam, che è a noi estranea (proviene dall’Arabia Saudita) ed è portatrice di intolleranza e violenza. Siamo coscienti che il cammino da percorrere per raggiungere una piena libertà religiosa è ancora lungo e la strada è tortuosa. Se non ci incamminiamo su questo sentiero culturale e teologico, però, difficilmente le cose potranno cambiare».

Le scelte di papa Tawadros II

AFP PHOTO/KHALED DESOUKI

La stessa Chiesa copta ortodossa sta cambiando pelle. Negli ultimi anni ha vissuto una profonda trasformazione in parte legata alla figura di papa Tawadros II e in parte alla progressiva secolarizzazione dei fedeli.

Tawadros II ha incarnato per i copti quella rivoluzione che Francesco ha rappresentato per i cattolici. «Il nuovo papa – osserva Girgis – ha portato una ventata di novità. Ha introdotto, in un ambiente un po’ ingessato, un modo informale di porsi. Non si è mai visto un patriarca di Alessandria che ama farsi i selfie con i giovani, che si fa abbracciare, che ha un modo spontaneo di parlare. Il fatto che tra lui e papa Francesco si sia instaurata una solida amicizia non è dovuto solo a una vicinanza teologico-dottrinale, ma anche a uno stile aperto, semplice, cordiale che esprime la serenità e la gioia della fede cristiana. Anche il suo modo di vivere è frugale, essenziale, senza sfarzo».

La vera novità però non è nello stile, ma nel suo modo di lavorare. «Shenouda III, il vecchio papa copto, era un accentratore – continua Girigis -. Non discuto se fosse o meno giusto il suo approccio. Tawadros ha instaurato un sistema diverso. Ama lavorare in gruppo, coinvolgere i collaboratori nel processo decisionale. In Europa, per esempio, ha riorganizzato la Chiesa copta e spesso viene in visita per parlare e confrontarsi con i vescovi che operano nel continente».

Per Tawadros, poi, assume un’importanza fondamentale la dimensione ecumenica. Con i cattolici il rapporto è ottimo, anche per quella sintonia personale con Francesco di cui abbiamo parlato. Ma dal 4 novembre 2012, giorno in cui è stato eletto dal sinodo, Tawadros ha iniziato a tessere rapporti sempre più stretti con le differenti Chiese ortodosse e, in particolare, con quella russa, quella greca e quella ecumenica di Costantinopoli. «Quelle ortodosse – spiega Girgis – sono Chiese “sorelle”, con le quali storicamente abbiamo rapporti. Ma con il nuovo papa queste relazioni sono diventate molto più strette. Tawadros ha avviato un confronto serrato con le Chiese protestanti. Lui crede nella fratellanza con i riformati, anche se una parte dei copti, i più tradizionalisti, hanno fatto numerose resistenze perché vedono i protestanti come i nemici dell’ortodossia».

Il clero e i fedeli

La Chiesa copta, però, sta subendo una profonda trasformazione nei suoi stessi fedeli. Da sempre i copti sono legati alla loro gerarchia (vescovi, monaci, sacerdoti). «È un legame solido, a volte fin troppo – sottolinea Youssef -. In passato, per i credenti, il clero era tutto. Dal clero dipendevano per qualsiasi cosa: chiedevano aiuti materiali, consigli e ascolto nei momenti difficili, direttive in campo politico ed economico. Oggi questo “totale affidamento” sta venendo meno. I copti partecipano ancora in massa alle funzioni religiose, ma molti di essi stanno tagliando il cordone ombelicale con la gerarchia. Soprattutto i giovani non ascoltano più le direttive ecclesiastiche in campo politico ed economico. Si muovono da soli, rivendicando il loro essere cittadini egiziani che lavorano nella società per farla crescere. Si ispirano ai valori cristiani, ma senza legami vincolanti con la chiesa. Stanno seguendo un processo di laicizzazione non dissimile a quello che è avvenuto in molti paesi europei».

Enrico Casale


Scheda 1:
Matta el Meskin

Personaggio dallo straordinario carisma umano e spirituale, padre Matta el Meskin (1919-2006), al secolo Yusuf Iskandar, rappresenta una delle più luminose figure spirituali dei cristiani d’Egitto. È stato il fautore di una importante rinascita spirituale, monastica e culturale, all’interno della Chiesa copta ortodossa.

Farmacista in carriera, Yusuf, si avventura in un viaggio dello spirito che lo porterà in tre monasteri e a una lunga esperienza di vita eremitica. Monaco dal 1948, dal 1969 al 2006 è stato padre spirituale del monastero di San Macario nel deserto di Scete (Wadi el-Natrun). Alla sua morte nel 2006 questo monastero era diventato un piccolo Eden e il numero di monaci che lo abitavano era centotrenta. Oggi il monastero è guidato da un suo discepolo, il vescovo anba* Epiphanius.

L’anelito di questo monaco copto è stato sempre quello di vivere radicalmente il Vangelo. È a partire da ciò che Matta el Meskin ha creato attorno a sé una vera e propria scuola di spiritualità del deserto. Il Signore gli ha donato uno straordinario carisma, quello di parlare con la forza del linguaggio e della spiritualità degli antichi padri del deserto agli uomini contemporanei di ogni latitudine. Prova ne è il fatto che le sue opere sono state tradotte in ben sedici lingue. Il cuore della spiritualità meskiniana è la «grazia» dello Spirito Santo, l’ineffabile azione d’amore di Dio, che in Cristo ha realizzato la riconciliazione tra terra e Cielo. Essa è sempre più grande e più generosa della nostra miseria e pochezza ed è capace sempre di «trasformarci in quella medesima immagine, di gloria in gloria (cf. 2Cor 3,18)». L’azione dell’uomo è primariamente sinergia con lo Spirito Santo.

Instancabile sostenitore dell’unità dei cristiani, abuna* Matta è autore di un centinaio di scritti. La sua opera più conosciuta è certamente La vita di preghiera ortodossa tradotta in italiano con il titolo di L’esperienza di Dio nella preghiera (Qiqajon). È da qui che traiamo alcune parole sulla preghiera incessante.

«La preghiera – scrive Matta el Meskin – è quell’atto essenziale nel quale Dio stesso, senza che noi ce ne rendiamo conto, opera in noi il cambiamento, il rinnovamento e la crescita dell’anima. Né il benessere, né la pace interiore, né l’impressione di essere esauditi, né nessun altro buon sentimento possono eguagliare l’azione segreta dello Spirito Santo sull’anima e renderla degna della vita eterna. La preghiera è apertura all’energia attiva di Dio, forza invisibile, forza intangibile. Secondo la promessa di Cristo (Gv 6,37) l’uomo non può ritirarsi dalla presenza di Dio senza ottenere un cambiamento essenziale, un rinnovamento che non apparirà come improvvisa esplosione, bensì come costruzione minuziosa e lenta, quasi impercettibile.

Colui che persevera davanti a Dio e persiste nel confidare in lui per mezzo della preghiera, riceverà molto più di quanto sperava e molto più di quanto avrebbe meritato. Colui che vive nella preghiera accumula un immenso tesoro di fiducia in Dio. La forza e la certezza di questo sentimento superano l’ordine del visibile e del tangibile, poiché l’anima, in tutto il proprio essere, si impregna profondamente di Dio e l’uomo percepisce la presenza di Dio con grande certezza, tanto da sentirsi più grande e più forte di quanto non sia. Acquisisce allora la convinzione di un’altra esistenza, superiore alla sua vita temporale, pur non ignorando la propria debolezza, né dimenticando i propri limiti.

Dal momento in cui l’anima comincia a elevarsi nel mondo delle «luce vera» (Gv 1,9) che è in lei, comincia a porsi in armonia con Dio attraverso la preghiera continua fino a eliminare ogni divisione, ogni dubbio, ogni inquietudine, allora la Verità dirige il suo movimento e tutti i suoi sentimenti e il fuoco dell’amore divino fonde le sue esperienze passate e presenti, sopprimendo le parzialità e i timori dell’io, gli errori dell’egoismo e i suoi sospetti, cosicché in fondo all’anima non resta altro che la pienezza della sovranità dello Spirito e l’estrema felicità di sottomettersi alla sua volontà».

Markos el Makari

* «Anba» e «abuna» significano «padre». Il primo è usato per papi, vescovi e santi; il secondo per monaci e preti.

  • AA.VV., Matta el Meskin: un padre del deserto contemporaneo, Edizioni Qiqajon, Magnano, 2017.

Scheda 2:
Anche nel calcio

Tutti gli egiziani amano e seguono il calcio, specie quando a giocare è la leggendaria Nazionale dei Faraoni. Hassan Shehata (nato nel 1949) è stato uno dei Ct più amati in assoluto, capace di portare l’Egitto sulla vetta d’Africa per ben tre volte consecutive, un vero record.

Il mister ha sempre puntato sul gruppo, ma ha sempre avuto una caratteristica controversa che ha spesso suscitato polemiche (in primis fra i musulmani). Il suo criterio principe – diceva – per la selezione dei convocati era la pietas: va benissimo la tecnica, la qualità e la forza, ma se non sei un buon musulmano non farai mai parte del gruppo. Inutile dire che i copti sono esclusi a priori (un fenomeno che si sta sempre più allargando alle basi del calcio egiziano, con una progressiva esclusione delle giovani promesse cristiane dai principali club), così come i calciatori musulmani più laici.

È l’esempio di re Mido (Abdelamid Hossam Ahmed Hussein, nato nel 1983), personaggio al confine fra Bobo Vieri e Mario Balotelli, sia per temperamento che per i molteplici vizi, in eterno conflitto con Hassan Shehata, fino all’esonero definitivo dalla Nazionale.

È una tendenza relativamente nuova, ma degna di nota. Non esiste copto che non conosca Hany Ramzy (nella foto), uno dei più forti difensori dell’Egitto di sempre, classe 1969 e idolo per tutti gli egiziani. Calciatore di fede cristiana, oggi allenatore. All’epoca, nessun problema. Oggi non è più così, e a tante giovani promesse viene chiesto di convertirsi all’Islam, conditio sine qua non per fare carriera nel mondo del pallone.

Andrea Boutros

Scheda 3:
La diaspora copta

La crisi economica persistente (che si è accentuata notevolmente dopo le Primavere arabe) e le discriminazioni subite in patria hanno portato molti copti a emigrare. La maggior parte si è trasferita in Nord America o in Australia. Molti, però, sono arrivati in Europa. In Italia, sono circa 45mila: 25mila nella diocesi di Milano e 15mila in quella di Roma. «Questo dato – osserva Girgis – si riferisce alle persone che frequentano la comunità religiosa. Credo quindi che sia sottostimato, probabilmente sono molti di più».

I copti sono molto bene integrati nel tessuto sociale italiano. Sono professionisti, dirigenti, impiegati, artigiani, commercianti. Molti giovani studiano nelle nostre università e, una volta laureati, entrano con facilità nel nostro sistema produttivo. «D’altra parte – continua Girgis – nulla impedisce ai copti di integrarsi. Non ci sono ostacoli evidenti alla loro integrazione: né la fede, né la cultura».

Dal 2013, in Parlamento siede un deputato di origine egiziana e di fede copta ortodossa. È Girgis Giorgio Sorial (nella foto), bresciano, appartenente al Movimento 5 Stelle. I suoi genitori si sono rifugiati in Italia perché in patria erano stati perseguitati da musulmani radicali.

«Dialogo con i musulmani? – conclude Youssef -. No, in Italia non c’è una relazione istituzionale con i musulmani. Molte famiglie egiziane cristiane e musulmane si frequentano, ma sono relazioni a livello personale. Il professor Farouq Wael Eissa dell’Università Cattolica di Milano ha dato vita a un gruppo di lavoro con ragazzi islamici e copti. Organizzano alcune iniziative insieme. È questa la strada giusta. Credo che per favorire l’integrazione non serva costruire moschee o chiese, ma luoghi di incontro dove sia possibile fare insieme attività culturali o sportive».

Enrico Casale

Scheda 4:
La Chiesa copta cattolica

Esiste anche una Chiesa copta cattolica, il patriarcato cattolico di Alessandria, eretto nel 1824, ristabilito nel 1895 e governato da un patriarca. Comprende 6 diocesi con circa 200.000 fedeli. L’attuale patriarca è Abramo Isacco Sidrak (nella foto). Il 28 e 29 aprile si è incontrato con papa Francesco nella due giorni del pontefice in Egitto.

Scheda 5:
Cronologia essenziale 2010-2017.
Una comunità sotto attacco

2010, 7 gennaio – La notte del Natale copto, a Nag’ Hammadi (vicino a Luxor), fedeli copti vengono attaccati da un gruppo di musulmani: 7 morti.

2011, 1 gennaio – Attentato alla chiesa copta dei Due Santi ad Alessandria: 23 morti e 97 feriti.

2011, 11 febbraio – Caduta di Hosni Mubarak. Era presidente dall’ottobre del 1981.

2011, 9 ottobre – Al Cairo, nella via Maspero, davanti al palazzo della radio e della televisione di stato, reparti dell’esercito egiziano uccidono 28 persone che partecipavano a una marcia di protesta dei cristiani copti.

2012, 18 novembre – Elezione di papa Tawadros II, 118° patriarca di Alessandria.

2013, 3 luglio – Un golpe militare guidato dal generale al-Sisi destituisce il presidente Mohamed Morsi dei Fratelli Musulmani (organizzazione islamista fondata nel 1928). Morsi era stato eletto nel giugno 2012. Il magistrato Mansur viene nominato presidente ad interim.

2013, 23 settembre – Al-Sisi dichiara fuorilegge i Fratelli musulmani.

2014, 8 giugno – Dopo la transizione di Mansur, viene eletto presidente il generale al-Sisi.

2015, 12 febbraio – A inizio gennaio l’Isis sequestra 21 copti che vengono uccisi un mese dopo in Libia. I terroristi islamici mettono in rete il video della decapitazione (foto a sinistra).

2016, 11 dicembre – Un attacco suicida uccide 25 persone nella chiesa copto ortodossa di San Pietro e Paolo al Cairo.

2017, febbraio – Nella penisola del Sinai jihadisti egiziani legati all’Isis attaccano ripetutamente le comunità copte.

2017, 9 aprile – Nella domenica della Palme due attentati dell’Isis contro chiese copte – a Tanta (delta del Nilo) e ad Alessandria – provocano 45 morti e 126 feriti. Il presidente al-Sisi decreta tre mesi di stato d’emergenza.

2017, 28-29 aprile – Viaggio di papa Francesco in Egitto. Incontri con il patriarca Tawadros II, il presidente al-Sisi e il grande imam al-Tayeb.

2017, 26 maggio – Un autobus che trasportava i fedeli copti è stato assalito da un commando di dieci uomini a Menyah, a 250 Km a sud dal Cairo. Bloccato il mezzo e saliti a bordo, hanno aperto il fuoco sui passeggeri. Almeno 28 i morti.

Paolo Moiola

PS:?oggi esiste un portale web – http://eshhad.timep.org/database -, aggiornato in tempo reale, che riporta ogni singolo atto di violenza a significato settario e persecutorio contro i copti in Egitto. Con tanto di data, luogo, vittime, feriti, danni a proprietà, negozi o abitazioni. Un rapido sguardo fornisce un’idea della portata del fenomeno.


Gli autori di questo dossier

  • Markos el Makari – Nato in Italia, bilingue italiano e arabo, attualmente è monaco novizio del monastero di San Macario il Grande a Wadi el-Natrun (l’antica Scetes) e del monastero di Bose (Biella). È collaboratore della rivista di geopolitica Limes. Il suo nome da civile è Marco Hamam.
  • Andrea Boutros – È nato a Genova da genitori egiziani nel 1993. Laureando in Medicina e Chirurgia, ha collaborato come giornalista per Il Secolo XIX e yallaitalia.it trattando la tematica migratoria e le problematiche sociali riguardanti le seconde generazioni. Parla italiano e arabo. È un membro attivo della comunità copta di Genova.
  • Enrico Casale – Giornalista freelance, si occupa di Africa. Laureato in Scienze politiche presso l’Università cattolica di Milano. È stato redattore del mensile Popoli. Attualmente collabora con Missioni Consolata, Africa, Combonifem, Nigrizia, Radio Vaticana e per le pubblicazioni dell’Ispi (Istituto per gli studi di politica internazionale) di Milano.
  • Paolo Moiola – giornalista redazione MC, ha curato il tutto.

 

 




A mani nude

 

Un cantiere sul fiume Yamuna a Kalindi Kunj, periferia sud-est di Nuova Delhi. Lo Yamuna e’ considerato uno dei fiumi piu’ inquinati al mondo.
Un cantiere sul fiume Yamuna a Kalindi Kunj, periferia sud-est di Nuova Delhi. Lo Yamuna e’ considerato uno dei fiumi piu’ inquinati al mondo.

I Valmiki, fuori casta, sembrano avere il destino segnato. Vuotare le latrine private. Qualcuno cerca di opporsi e liberarli da una vita tra le più degradanti. Ma la tradizione è più forte della legge. E della religione. Reportage dall’India.

Fino al matrimonio, Meena non era mai stata del tutto cosciente di essere una Dalit, ovvero un’intoccabile. Per l’esattezza, una Valmiki, cioè membro di un gruppo di fuoricasta che occupa i gradini più bassi nell’intricata gerarchia sociale induista. Lo erano i suoi genitori, ma lei si era sempre presa cura dei fratelli minori e non li aveva mai seguiti nei loro giri mattutini.

Uno scorcio della stazione di Old Delhi, usata da molti come tornilet a cielo aperto
Uno scorcio della stazione di Old Delhi, usata da molti come tornilet a cielo aperto

Una volta diventata madre, ha cercato lavoro, ma ha scoperto che non c’erano possibilità per una Valmiki come lei, se non pulire latrine. Per 15 anni, ogni giorno, ha così percorso le strade di Ramnagar, un sobborgo alla periferia Est di Nuova Delhi, reggendo sulla testa una cesta di vimini traboccante di escrementi umani. Lavorava per dieci famiglie della zona e cominciava il suo giro all’alba. Le facevano trovare la porta posteriore aperta. Lei si dirigeva in silenzio verso la latrina di casa e raccoglieva le feci aiutandosi con una scopetta o, a volte, a mani nude. Poi si spostava in un’altra casa. A fine mattina, svuotava il contenuto della cesta in una fogna aperta.

In cambio, ogni famiglia le versava 20 rupie al giorno (meno di 50 centesimi di euro, ndr), ma non sempre. A volte pagavano in ritardo, altre non pagavano affatto. Ma tutti le lanciavano i soldi a distanza.

La prima volta

Leela, una manual scavenger, vive a Nand Nagri, periferia nord di New Delhi
Leela, una manual scavenger, vive a Nand Nagri, periferia nord di New Delhi

Il primo giorno lo ricorda bene. Il tanfo proveniente dalla sua stessa pelle le ha aggredito le narici, lei ha provato a reprimere i conati di vomito, ma invano. Le vertigini l’hanno sopraffatta, e il contenuto della cesta le si è riversato addosso. I passanti le giravano al largo, guardandola furtivamente e procedendo oltre. Trattenendo il respiro fin quasi a soffocare ha raggiunto una pompa d’acqua nel cortile di una casa. Alle prime gocce spillate, è sbucata la padrona, che le ha urlato contro. «Quella donna apparteneva alla casta dei Brahmini, e quella era l’acqua con cui lavavano il tempio», ricorda oggi Meena. «Una come me l’avrebbe contaminata».

Come lei, secondo un rapporto del 2014 di Human Rights Watch, esistono tuttora nel paese almeno 300mila famiglie. Donne e uomini che sopravvivono con la pratica della raccolta manuale di rifiuti umani, nota come «manual scavenging». E questo nonostante una legge approvata dal parlamento indiano nel settembre 2013 l’abbia messa al bando, e una sentenza della Corte suprema del marzo 2014 abbia richiamato gli stati indiani a far rispettare la legge e ad avviare programmi di «riabilitazione» per i raccoglitori manuali.

Leela, una manual scavenger, vive a Nand Nagri, periferia nord di New Delhi
Leela, una manual scavenger, vive a Nand Nagri, periferia nord di New Delhi

Secondo Bezwada Wilson, fondatore e leader di Safai Karmachari Andolan (Ska), un’organizzazione che si batte per l’eradicazione della pratica della raccolta manuale, le leggi non bastano. «L’India si muove sempre in due opposte direzioni: il rispetto della Costitutione e la nostra cultura. E quest’ultima ruota attorno al sistema delle caste, che permea tutta la società indiana».

Figlio di raccoglitori manuali lui stesso, Bezwada ha abbracciato la battaglia contro la discriminazione di casta dopo aver letto «L’abolizione delle caste», un pamphlet scritto da Br Ambedkar nel 1936.

Oltre le caste

Leela, una manual scavenger, vive a Nand Nagri, periferia nord di New Delhi
Leela, una manual scavenger, vive a Nand Nagri, periferia nord di New Delhi

Una foto del primo intellettuale dalit indiano campeggia nell’ufficio di Bezwada, a Nuova Delhi, e in case dalit in tutto il paese. Il tema delle caste è stato al centro di una polemica, cruciale per le sorti dell’India, che Ambedkar, sconosciuto all’estero, ebbe con il ben più noto Mahatma Gandhi. Per quest’ultimo le caste erano il collante della società indiana, mentre per il primo cristallizzavano le strutture di potere, legittimando sopraffazioni e abusi.

Meena, un’ex manual scavenger di Nand Nagri che oggi conduce un risciò- taxi. New Delhi.
Meena, un’ex manual scavenger di Nand Nagri che oggi conduce un risciò- taxi. New Delhi.

Negli ultimi decenni, personalità dalit sono emerse nella politica indiana, ma le violenze di casta continuano, e i dati, quelli noti per lo meno, sono raggelanti: secondo l’Ufficio nazionale delle statistiche sul crimine, tredici Dalit sono assassinati ogni settimana, e almeno quattro donne dalit sono stuprate da membri di caste superiori ogni giorno. «Lo stupro di una donna dalit non è sempre percepito come un crimine», spiega Bezwada. «Per alcuni uomini di casta superiore, stuprare una Dalit è addirittura un modo per purificarla».

Soprattutto nel Nord dell’India, i Dalit sono associati ad attività che hanno a che fare con la materia organica, residuale: tagliano i capelli, trattano i cadaveri, conciano le pelli, puliscono latrine.

La raccolta manuale dei rifiuti umani è l’aspetto più evidente che alimenta l’intoccabilità, attraverso il contatto con liquami impuri che grondano tra i capelli, impregnano gli abiti, scivolano sulla pelle. La questione dei raccoglitori manuali s’intreccia così sia con la condizione dei fuoricasta che con le problematiche dell’igiene.

Meena, un’ex manual scavenger di Nand Nagri a casa sua. New Delhi.
Meena, un’ex manual scavenger di Nand Nagri a casa sua. New Delhi.

Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms), circa la metà della popolazione indiana pratica ancora la defecazione all’aperto. Nelle aree rurali e nelle baraccopoli urbane, dove mancano fogne e fosse asettiche, le famiglie usano latrine a secco o le cosiddette wada, aree comunitarie che richiedono una pulizia manuale. Quando nel 2014, Narendra Modi è stato eletto primo ministro, ha annunciato una campagna nazionale per modeizzare la situazione sanitaria indiana. Da allora, le amministrazioni locali hanno messo a disposizione della popolazione dei fondi per l’acquisto di articoli sanitari. Ma sono molte le famiglie in povertà che riscuotono il contributo senza però cambiare le proprie abitudini igieniche, e continuano ad affidarsi ai Valmiki.

Puro e impuro

Una donna Dalit, ed ex manual scavenger, impegnata in un’attivita’ di riabilitazione creata dall’organizzazione per i diritti umani Safai Karmachari Andolan (SKA) a Ghaziabad, a nord di Delhi. Qui le donne lavorano in una cornoperativa sociale che produce borse per ottenere un reddito.
Una donna Dalit, ed ex manual scavenger, impegnata in un’attivita’ di riabilitazione creata dall’organizzazione per i diritti umani Safai Karmachari Andolan (SKA) a Ghaziabad, a nord di Delhi. Qui le donne lavorano in una cornoperativa sociale che produce borse per ottenere un reddito.

Secondo l’antropologo Assa Doron, non è solo una questione di latrine: la dicotomia tra puro e impuro è alle fondamenta dell’induismo. La pratica dei raccoglitori manuali appare difficile da sradicare perché crea, attraverso la degradazione e l’umiliazione dei Valmiki, la base materiale della rigida piramide sociale induista. Ma la religione è solo una delle lenti attraverso cui osservare il fenomeno.

A Durga Kund, un sobborgo di Varanasi, cuore della spiritualità induista, lo conoscono tutti come Safai Basti, il quartiere dei raccoglitori manuali. L’agglomerato di case basse sorge a poca distanza dal tempio principale, celebre per l’intonaco rosso fuoco che si staglia sul cielo dell’Uttar Pradesh, ma è distinto dall’abitato circostante come un’isola in mezzo al mare. Su quasi la metà delle centinaia di abitazioni spicca una croce. Molti dei Valmiki che vivono nella baraccopoli ammettono che, con la conversione al cristianesimo, speravano di sfuggire ai propri obblighi di casta. Come Saroch, oggi 40enne, rimasta orfana quando aveva 14 anni.

Una donna Dalit, ed ex manual scavenger, impegnata in un’attivita’ di riabilitazione creata dall’organizzazione per i diritti umani Safai Karmachari Andolan (SKA) a Ghaziabad, a nord di Delhi. Qui le donne lavorano in una cornoperativa sociale che produce borse per ottenere un reddito.
Una donna Dalit, ed ex manual scavenger, impegnata in un’attività di riabilitazione creata dall’organizzazione per i diritti umani Safai Karmachari Andolan (SKA) a Ghaziabad, a nord di Delhi. Qui le donne lavorano in una cornoperativa sociale che produce borse per ottenere un reddito.

Racconta di aver provato a ribellarsi, rifiutando di seguire le orme dei genitori, ma nella comunità cominciò a circolare la voce che praticasse la magia nera. Si avvicinò così a una chiesa evangelica, immaginando che abbracciare una nuova fede avrebbe cambiato la sua vita. E invece rimase una Valmiki anche tra i nuovi confratelli cristiani, incapace di scrollarsi di dosso la sua identità di casta e trovare un lavoro diverso.

Inoltre, essendosi convertita, perse anche il diritto ad accedere al sistema di quote previsto nell’amministrazione pubblica per i Dalit. Saroch, anche se cristiana, riprese in mano la cesta di vimini dei genitori.

Una mamma pulisce la sua bimba nella sua casa a Durga Kund, un sobborgo di Manual Scavangers di Varanasi.
Una mamma pulisce la sua bimba nella sua casa a Durga Kund, un sobborgo di Manual Scavangers di Varanasi.

Il sistema delle caste che plasma il presente e il futuro dei Valmiki va così oltre l’induismo: riguarda anche cristiani, musulmani e, in misura minore, buddisti. È stato addirittura rinvigorito dall’apertura del paese al libero mercato. Come spiega Ramesh Nathan, segretario generale del Movimento nazionale dalit per la giustizia, l’ondata di privatizzazioni degli anni ’90 ha creato un sistema di appalti che premia gli imprenditori capaci di tagliare al massimo i costi. Un caso esemplare è quello della rete ferroviaria indiana, un gigante di 65.000 km su cui 14.300 treni trasportano 25 milioni di passeggeri ogni giorno. Gli scarichi l’hanno resa la latrina a cielo aperto più grande del mondo. Per ripulire i binari, le società private impiegano la manodopera più economica sul mercato: gli uomini valmiki. La servitù di casta si sposa così con la logica neoliberista.

Difficile uscie

Durga Kund, un sobborgo di Manual Scavangers di Varanasi.
Durga Kund, un sobborgo di Manual Scavangers di Varanasi.

Per le donne valmiki, impegnate soprattutto nella pulizia di latrine in case private, Ska ha avviato dei programmi di sostegno economico. A Ghaziabad, un villaggio a Nord di Delhi, una trentina di donne cuciono borse vendute nel circuito del commercio equo e solidale. L’età è varia, ma condividono esperienze simili. C’è chi ha praticato la raccolta manuale dall’adolescenza e chi ha cominciato dopo il matrimonio perché così faceva la famiglia del marito. Hanno abbandonato da poco l’attività ma molte continuano a soffrire l’umiliazione degli avanzi di cibo lanciati in una busta, o dell’acqua negata, o della loro stessa identità ridotta alle ceste che trasportano sul capo.

Nelle manifestazioni organizzate per richiamare l’attenzione del governo sul dramma delle donne valmiki, quelle ceste hanno alimentato dei falò, ma c’è chi non esclude la possibilità di tornare al lavoro di raccoglitrice manuale: anche chi si dice felice della nuova attività non riesce a liberarsi dal timore di essere prigioniera di un destino già tracciato.

Durga Kund, un sobborgo di Manual Scavangers di Varanasi.
Durga Kund, un sobborgo di Manual Scavangers di Varanasi.

Lo stesso fatalismo è espresso da Leela, che abita a pochi passi dalla casa in cui Meena vive con il marito e una figlia a Ramnagar. «Perché non sono riuscita a trovare un altro lavoro? Forse perché non era destino». Continua a pulire latrine nella zona, aiutata talvolta dalla figlia e dal figlio, mentre il marito lavora per una società che si occupa della manutenzione delle fogne. Un tempo si accompagnava a Meena, ma da un anno Meena ha preso un’altra strada: grazie all’aiuto di Ska ha ricevuto un risciò elettrico per il trasporto passeggeri. Leela nota che la vita di Meena è cambiata: sembra più sicura di sè e, anche se continua a subire discriminazioni, non ha più paura. «Dopo aver bruciato la sua cesta di Valmiki – dice Meena – non è certo il traffico di Nuova Delhi a spaventarmi».

Gianluca Iazzolino


Gianluca Iazzolino, africanista, è collaboratore di MC. | Eloisa d’Orsi, fotogiornalista freelance, collabora con diverse testate. I suoi ultimi lavori riguardano le frontiere in area Schengen (www.eloisadorsi.com).




Tanzania: Tribe «No Name»


I watoto wa mateso, figli del dolore, sono una «tribù» composta da più di 1600 persone, confinata da circa ottant’anni a 2400 metri, sulle montagne dell’Udzungwa. Isolati e cacciati dalla regione di Iringa perché affetti da una forma di epilessia rarissima, sconosciuta quanto loro. A causa dalla malattia venivano considerati posseduti dal demonio.

 

Mi sveglia l’odore della terra bagnata. Piove da giorni ma la notte ne viene giù così tanta che sembra voler sfondare i mabati (le lastre di lamiera che coprono la casa). Ascolto i ragazzi cantare mentre puliscono il cortile, io decisamente meno attiva di loro riesco a pensare solo a un caffè che mi tiri su la pressione. Accendo il computer e inizio la battaglia con la Vodacom nella speranza di aprire la casella di posta elettronica e di leggere un minimo di news.

Arriva Richard, il veterinario, con dei nuovi casi da conoscere. Sono riuscita a coinvolgerlo a tal punto che adesso si sente uno zelante missionario. Non è semplice raggiungere il villaggio, per via delle strade che sembrano aver inghiottito delle saponette tanto si scivola. Sotto la solita pioggia saluto uomini, donne e bambini con le zappe sulla testa che camminano verso i campi.

Incontro Niky, solo, sul ciglio della strada con lo sguardo perso nel suo mondo. Sono stati proprio quegli occhi spudoratamente inespressivi a colpirmi, a tal punto da decidere di studiare questa malattia con il fine di aiutarli. Non mi risponde, è disorientato e non ha preso la medicina. La madre è nella shamba (campo) e lui probabilmente è scappato. Mi chiede un lecca lecca. La prima volta che mi vide era spaventato e non voleva farsi toccare, però alla vista della strana caramella caddero tutte le barriere, e da allora, quando mi incontra mi prende la mano cercando la caramella. Lo accompagno a casa affidandolo alla vicina, e noi proseguiamo. Ci inoltriamo in sentieri nascosti dal mahindi (mais) già alto. La vegetazione sembra aver risucchiato il paesaggio. Il profumo della terra bagnata mi accompagnerà per questi mesi.

Al cospetto del capo

Seguo Richard con passo svelto su e giù per i sentieri, affollati da case nascoste dal verde. Il sole si sveglia all’improvviso. È forte, tipico segno che pioverà ancora. Come una lucertola mi lascio bruciare la pelle ingrigita dalla pioggia.

Arriviamo alla dimora del capo villaggio. Un impasto di fango e terra rossa ricopre la casa imbiancata da disegni e scritte di ringraziamento. Babu (nonno) Aldo Kahemela è seduto a far asciugare le ossa bagnate dall’umidità delle montagne. Ultra ottantenne, con sguardo curioso ci dà il benvenuto nel suo villaggio e ci presenta la grande famiglia. Figli, nipoti e pronipoti di tutte le età ci accerchiano con sorrisi e offerte di ogni tipo, dalla polenta al pombe, il tipico fermentato alcolico ricavato dalla canna da zucchero o dal mais. L’ospite, anche inatteso, qui è visto come una benedizione.

Janeth mi saluta porgendomi la sua unica mano ricoperta da calli, l’altra è ridotta a un moncherino bruciato che sembra un uncino. È babu Aldo a parlare per primo: «Lei è mia nipote, la figlia di mio fratello. Ha iniziato a cadere quando era una ragazzina. Abbiamo capito che era quella malattia perché la kifafa è la maledizione delle nostre montagne. E negli anni Janeth è peggiorata, tanto da cadere più volte al giorno». «Ho avuto un attacco così forte che sono caduta nel fuoco e quello che resta di questa mano ne è il risultato. Non mi hanno portata in ospedale perché era troppo lontano ma mi ha cucita il guaritore tradizionale del villaggio» continua Janeth. «Se prendo le medicine mi accorgo quando sto per avere una crisi. Una ventata di calore m’invade tutta, ogni parte del corpo inizia a tremare e la testa gira così forte che perdo i sensi. In quei momenti, se sono cosciente, cerco di sdraiarmi a terra per non cadere e non farmi male e se sono vicina al fuoco mi allontano». Janeth è visibilmente ustionata in più parti del corpo, ogni bruciatura racconta un giorno della sua vita senza medicina. In Tanzania ogni forma di epilessia viene curata con il phenobarbitone, un antidepressivo che consente agli epilettici di condurre una vita quasi normale, riducendo notevolmente gli attacchi senza però badare alle controindicazioni.

Il phenobarbitone è considerato una medicina salva-vita e il ministero della salute ne aveva previsto la distribuzione gratuita, ma i dispensari e l’ospedale non ne hanno mai, e raramente viene distribuito ai malati. Stranamente però lo si può comprare nelle duke (negozi).

Malattia di origini incerte

Parlo con la dottoressa responsabile dell’unico ospedale della provincia e anche lei sembra non conoscere le percentuali troppo alte dei malati.

«Io riconduco tutto al parassita del maiale, perché questo tipo di epilessia è diffusa solo qui. Sulla costa, dove non hanno i maiali per via del caldo intenso, non ci sono così tanti malati. E i casi riscontrati presentano una forma di epilessia causata da malaria, febbre e convulsioni. Qui non c’è famiglia che non allevi maiali. Quando giro per villaggi insisto che devono pulire la zona dove stanno gli animali, che devono cucinarne bene la carne. E invece i maiali li vedi gironzolare come fossero cani. Questo parassita non si trova solo nella carne non cotta ma anche nei luoghi dove transitano e defecano i quali sono, il più delle volte, gli stessi in cui va la gente.

Le ustioni, le malformazioni gravissime, che vedi sul corpo delle persone, sono dovute al fatto che per cultura e freddo qui c’è sempre il fuoco acceso e loro, in preda alle crisi, incoscienti ci cadono dentro. Le ustioni non sono curate se non con erbe e il risultato sono  infezioni gravi e quindi amputazioni».

Questa è anche la tesi di Richard, effettivamente comprovata in moltissimi casi.

Generalmente i primi attacchi di kifafa compaiono dopo i dieci anni, invece nei bambini sono di origine genetica, causa di una vecchia consanguineità o perché figli di donne che hanno abusato di alcol durante la gravidanza.

Su queste montagne la piaga del bere pombe per riempire lo stomaco, per combattere il freddo o per noia, è diffusissima. Solo una percentuale ridotta di persone ha sviluppato la malattia in seguito a un trauma cranico, a malaria o meningite.

Mungu mwema (Dio buono)

Questa popolazione della foresta vive la quotidianità in una lotta ancestrale per la vita. È una «lotta di preghiera». Sono uomini e donne, la cui cultura è scandita dall’appartenenza a ritmi tribali che regolano ogni azione. Una tribù che lotta e prega per avere un buon raccolto e contro malattie come la kifafa che portano via il cervello, non fanno più ragionare.

Vivendo con loro si respira il rispetto e la fiducia che ripongono nel «Dio buono», la certezza che Dio cammini insieme a loro. Raccontano di un Dio che è amore e non è mai violento.

È interessante ascoltare anche il loro concetto di amore decisamente diverso dal nostro. L’amore coincide con Dio ma è sinonimo di rispetto, bontà, sostegno reciproco, forza, coraggio, fiducia. Sono gli spiriti buoni e gli spiriti cattivi a determinare, invece, le azioni positive e negative. Non è mai Dio a volere cose negative perché lui è il creatore. Certamente si deve un grande «grazie» ai missionari e alle missionarie che instancabilmente hanno girato queste montagne per far conoscere Dio. E la gente ha integrato la parola di Dio nelle proprie credenze.

Reportage «faticoso»

Potrei continuare a scrivere dei tanti sguardi e corpi spaventati, sorridenti, ubriachi, ustionati, deformi che ho incontrato, del mio senso d’impotenza davanti a una popolazione così malata, a volte rassegnata, però sempre serena nell’animo, ma non riesco a evitare di chiedermi come mai anche questa parte d’Africa lontana e scomoda sia frequentata solo dai missionari e dalle missionarie. In Tanzania le associazioni nazionali e internazionali, grandi e piccole di volontariato e di assistenza sono ovunque con progetti ambiziosi. Ho letto di una società che sembra sia venuta per impiantare gratuitamente la fibra ottica in tutto il paese. La installeranno insieme ai canali per l’acqua che ancora non ci sono?

Già negli anni settanta molti medici sottoposero all’attenzione internazionale questa diffusione stranamente massiccia di epilettici, tanto da coinvolgere il governo tanzaniano in una politica sanitaria adeguata. Ma mai nessuna associazione di prevenzione e sostegno ha realmente studiato le cause e gli effetti di queste forme di epilessia e proposto un programma sanitario.

In Italia, secondo la Lega Italiana contro l’epilessia (Lice), ogni anno circa 500.000 persone vengono colpite, ma i malati avendo la possibilità di curarsi, conducono vite normali.

In Tanzania invece, la convinzione generalizzata delle grandi Ong è che l’epilessia sia una malattia causata da scarsa igiene o da antichi riti e usanze tribali. Non destando l’attenzione internazionale come invece accade per l’Aids, si ritiene che non sia utile investire in piani di prevenzione e cura.

Questo reportage, «Tribe no name», è faticoso fisicamente ed emotivamente. È una protesta nei riguardi di chi è complice della triste realtà che nel 2014 in Tanzania, ci siano ancora troppe persone che muoiono di epilessia, che non hanno diritto a una vita normale perché viene negata loro una pastiglia salva vita.

Romina Remigio
 

 Questo splendido reportage fotografico di Romina Remigio ha vinto il «Silver award», categoria Storia, al Fiof Awards Contest 2014 di Orvieto. Clicca sul simbolo a destra per vederlo sul nostro sito. Clicca qui per vederlo su sito della Fiaf.

Tags: epilessia, discriminazione, malattia, emarginazione, pregiudizi sociali, Tanzania

 

Romina Remigio

 



Pelle (s)fortunata


La loro condizione è estremamente allarmante: gli albini, donne e uomini, bambine e bambini, sequestrati e fatti a pezzi per fare amuleti con la loro pelle e altri organi; crimini causati da credenze tribali ed enormi interessi economici. Ma qualcosa sta cambiando: un albino è stato eletto membro del parlamento tanzaniano nel partito di opposizione.

1-appena-nato-avvolto-nella-kangha-mbagala (Romina Remigio)
1-appena-nato-avvolto-nella-kangha-mbagala (Romina Remigio)

Fatti a pezzi, ammazzati, mutilati, scuoiati… solo per fae dei portafortuna. Questo è quello che accade quotidianamente da anni agli albini in Tanzania.
Le foto del mio reportage «I AM ALBINO» (che ha vinto il terzo premio al 38° Portfolio Internazionale Ateum) mostrano la vita degli albini nella loro cruda realtà, dalla paura di essere ammazzati ai tumori che li colpiscono; ma sono anche un inno alla forza e al coraggio che essi hanno nell’affrontare la vita. Lavorano, amano, si sposano, fanno figli che curano amorevolmente. In Tanzania c’è addirittura una squadra di calcio formata da albini; hanno un’associazione nazionale che si occupa di sensibilizzare la popolazione sulle loro condizioni, ma soprattutto sul fatto che essi sono africani, tanzaniani e vogliono vivere la loro vita liberamente come tutti i loro fratelli.
Ma non fanno notizia
Mentre l’informazione nazionale, europea, internazionale è impegnata a sgomitare per proporci ogni giorno un nuovo scornop, in Tanzania degli esseri umani sono ammazzati brutalmente per riti magici. Come può l’informazione mondiale chiudere gli occhi davanti a situazioni del genere, e turarsi le orecchie di fronte a chi chiede aiuto e a quei giornalisti locali che denunciano tale mattanza? Come giornalista, non posso che provare vergogna quando i grandi direttori dei nostri giornali, davanti alla denuncia di una situazione aberrante e allo sforzo di sensibilizzare l’opinione pubblica su ciò che accade ancora nel 2011 in una parte del mondo, mi rispondono che il mio reportage è ben fatto fotograficamente, ma non fa notizia!
L’Africa, come da anni viene ribadito, non fa notizia. I massacri di albini, grandi e piccoli, la pelle dei quali e altre parti del corpo vengono utilizzate per realizzare amuleti, gli enormi introiti economici dietro tali delitti, per non parlare di casi limitati a riti magici-tribali, non fanno notizia!
Mi vergogno di svegliarmi in un paese dove il giornalismo sociale è ormai così marginale.
Non dimenticherò mai le parole di Enzo Biagi: qualche mese prima che morisse, ebbi la fortuna di incontrarlo per la mia tesi di laurea; prima ancora di rivolgergli una domanda, mi chiese cosa volessi fare da grande. Orgogliosa e decisa, risposi: «La foto-giornalista! Voglio raccontare cosa accade nel mondo dalla prospettiva di chi non ha voce». E lui, dopo aver osservato la mia convinzione, mi disse: «Sarà difficile. Sarà il mestiere più duro del mondo. Non potrai mai farlo per guadagnare, ma solo per passione! Deve essere una passione! Io ho sempre detto che questo lavoro lo farei anche gratis».

Il primo parlamentare albino del Tanzania: Salum Khalfan Barwany - AFP PHOTO/Yasuyoshi CHIBA
Il primo parlamentare albino del Tanzania: Salum Khalfan Barwany – AFP PHOTO/Yasuyoshi CHIBA

Primo albino in parlamento

Era il 2007 quando sentii parlare per la prima volta che due albini in un villaggio erano stati trovati ammazzati, dopo essere stati scuoiati vivi. Mi sembrava così assurdo. In Tanzania?!
Si tratta di un’antica credenza tribale ancora persistente, anzi in forte aumento. Negli ultimi due anni, albini uomini e donne, bambini e bambine sono stati sequestrati, massacrati, fatti a pezzi, scuoiati per fare amuleti con la loro pelle bianca e altre parti del corpo.
Il fenomeno è esploso nella parte più povera e arretrata del Tanzania, nelle regioni di Singida, Mwanza, Shinyanga, al confine con il lago Vittoria, dove vivono minatori e pescatori convinti dagli stregoni locali che avere un amuleto fatto di pelle o parti di albino porti fortuna nel lavoro e nella vita.
Di fronte ai continui servizi giornalistici e alle pressioni di attivisti dei diritti umani, nel 2008 il governo ha dichiarato illegali tutte le licenze degli stregoni del nord e vietato qualsiasi loro attività. «Sotto la nostra spinta il governo ha iniziato anche azioni di tutela degli albini» mi dice la presidente dell’Associazione albini del Tanzania, signora Shymaa Kway-Geer; per la sua determinazione nella lotta alle discriminazioni contro gli albini, il presidente Jakaya Kikwestern l’ha chiamata in Parlamento, primo membro albino in tale istituzione.
Non esiste una stima precisa, ma sembra che in Tanzania gli albini siano più di 300 mila. La malattia che li colpisce più frequentemente è il cancro alla pelle. Per essere curati devono recarsi a Dar es Salaam, presso l’Ocean Road, l’unico ospedale per la cura del cancro in tutto il Paese. Per chi vive al nord questo significa affrontare un viaggio di due, tre giorni.
«Noi siamo terrorizzati. Il governo ha predisposto schiere di poliziotti che scortano gli albini durante questi lunghi viaggi. Abbiamo paura di girare da soli, di essere aggrediti. Quando non vediamo tornare a casa i nostri bambini la preoccupazione aumenta. Io vivo con mio marito e i miei quattro figli. Di notte, se qualcuno bussa alla porta, io inizio già ad agitarmi; e i miei figli mi dicono: mamma, andiamo noi, tu non andare».
La presidente con il resto del consiglio direttivo e alcuni membri dell’Associazione mi ricevono nel loro ufficio: una stanza che l’Ocean Road ha messo a loro disposizione, anche per la massiccia presenza di albini in cura all’ospedale. Il mio sguardo fotografa articoli di giornali che arredano la stanza. Enormi raccoglitori traboccano di carte, documentazione e casi di aggressione ad albini.
Shymaa è seduta al tavolo di fronte a me, scrive il suo numero di telefono piegata e incollata su un foglio di carta. È molto miope, come la maggioranza degli albini. Vede pochissimo e, nonostante le grosse lenti montate sugli occhiali, ha bisogno di avvicinarsi al foglio quasi fino a toccarlo con il naso. Una delle tante conseguenze dell’albinismo, insieme ai tumori alla pelle, è proprio la miopia, che si sviluppa fin da bambini, causando loro enormi difficoltà a scuola: non tutti possono permettersi il lusso di un paio di occhiali.

(Photo Romina Remigio)
(Photo Romina Remigio)

A casa di Victor

(Photo Romina Remigio)
(Photo Romina Remigio)

Arrivo nella scuola del villaggio mentre il muezzin chiama alla preghiera. Victor è sulla porta della scuola, accecato dalla luce abbagliante di mezzogiorno. Ha gli occhi socchiusi, arriccia il naso e cerca di farsi ombra con la mano come per voler mettere a fuoco. Non mi conosce, ma sa di dover aspettare una mzungu (bianca) che vuole conoscere lui e la sua famiglia.
Mi avvicino e mi sorride solo quando sono a pochi centimetri da lui. Non sapendo cosa dire mi prende per mano. La sua mano è porosa, sembra di carta vetrata, mi graffia. È talmente ustionata dal sole da essere coperta da bolle indurite e fastidiose.
È un bel bambino. I lineamenti sono delicati; la pelle del viso e del collo è bianchissima, morbida, sembra curata o ancora troppo giovane.
Prendiamo una strada sterrata; si toglie le scarpe, ne lega i lacci tra loro e le appende al collo. I quadei e i libri li mette sulla testa e cammina spedito, ma si sente osservato. Timidamente inizia a farmi qualche domanda in inglese. Gli piace studiare. E mi dice che l’inglese è la sua materia preferita.

(Photo Romina Remigio)
(Photo Romina Remigio)

Passiamo in mezzo a bambini che giocano a pallone, accanto a donne che attizzano il fuoco per cucinare l’ugali (polenta). Tutti ci guardano e lui sorride e saluta, contento di essere importante agli occhi del villaggio perché ha con sé la mzungu.
Arriviamo finalmente a casa sua. La mamma è fuori che lava i panni e lui le si avvicina, gli sorride e subito si mette ad aiutarla. La casa di fango è immersa nel villaggio di Kibiti, accerchiata da alberi di mango che ne delimitano il perimetro.
Alla spicciolata arriva una squadra di ragazzine e bambini: sono i fratelli e le sorelle di Victor. La mamma mi dice di avere sette figli, due dei quali albini: Victor, che mi accompagna, e Oliver, il primo figlio, che lavora a Dar es Salaam.
Suo marito, molto malato, non è albino. «Lo era suo nonno – mi anticipa quasi a voler spiegare come due figli siano nati albini e gli altri cinque no -. Non ho mai pensato, nemmeno per un secondo, che Victor o Oliver potessero essere una disgrazia. Amo tutti i miei figli allo stesso modo. Mio marito e io li abbiamo allevati senza pregiudizi; anzi, gli altri cinque sono istintivamente diventati più protettivi nei confronti di Victor, soprattutto in questi anni. Se ne sentono tante. Meno male che noi viviamo in un piccolo villaggio e la gente vuole bene a Victor, lo aiuta e lo protegge. Non credono a queste superstizioni. Victor è un bimbo buono, generoso, molto dolce ed è ben voluto da tutti. Lui va a scuola con gli altri bimbi del villaggio, li aiuta a fare i compiti, gioca con loro, va al catechismo ed è stato anche scelto dal parroco come chierichetto. Gli piace studiare e dice che da grande vuol fare il medico per guarire tutti i bambini. Io sono orgogliosa di Victor e di Oliver come di ognuno dei miei sette figli. Quello che sta accadendo in Tanzania è vergognoso; ognuno di noi tanzaniani deve reagire e aiutare le famiglie dove ci sono albini, affinché finisca questa tragedia assurda. I nostri albini sono figli del Tanzania come gli altri. Sono africani bianchi e il governo deve impegnarsi nel far capire alla gente che sono esseri umani e che è assurdo pensare che possiamo vincere la nostra povertà con un amuleto fatto con le parti di una persona, un loro fratello per giunta».

(Photo Romina Remigio)
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Vita da fantasma

Too a Dar es Salaam e incontro il segretario generale dell’Associazione albini del Tanzania, Samuel Mugo, che mi mostra la bozza di una proposta di ricerca che l’associazione ha elaborato, per stabilire le cause che sono all’origine delle uccisioni e ha fatto appello al governo perché questo dichiari la situazione come emergenza nazionale. Stanno facendo pressione su leaders religiosi, giornalisti e attivisti dei diritti umani affinché facciano sentire la loro voce e convincano i membri del governo che la strage degli albini è socialmente e moralmente ingiustificata.

(Photo Romina Remigio)
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«Inoltre un’altra sfida che gli albini devono affrontare – continua Samuel – è la discriminazione sul posto di lavoro, poiché sono disprezzate le loro qualifiche e competenze. Meno male che all’Ocean Road ci sono albini che lavorano come infermieri e negli uffici. Ma nei villaggi dell’interno i bambini albini non vengono mandati a scuola; sono emarginati e condannati a un futuro di lavori manuali spesso sotto il loro peggior nemico: il sole bollente che cuoce la loro pelle».
Gli domando come, secondo lui, si possano uccidere e scuoiare delle persone come fossero animali, per fae degli amuleti magici. «Forse per istinto o per nostra cultura: quando una persona si trova davanti a privazioni,  per prima cosa cerca spiegazioni e consigli dai guaritori tradizionali con la speranza di scoprire la causa dei problemi e delle sfortune e i relativi rimedi. Il più delle volte la soluzione consiste nel cercare scorciatornie che possano risolvere i mali, causando però maggiori problemi alla società. Di recente nel Paese sono venuti a galla 2 mila casi di commercio di organi umani. E in Africa, l’albinismo suscita da sempre pregiudizio. Un africano bianco è considerato e definito uno zeru zeru, fantasma o spettro. E si è trasmessa la convinzione che un albino sia dotato di poteri soprannaturali».
«Ero in giro per le strade di Dar es Salaam, mi hanno bloccato in tre e hanno provato a tagliarmi un dito del piede; per fortuna è arrivata una donna che si è messa a gridare» mi racconta Musa mentre mi mostra i segni dell’aggressione.
superstizioni e crudeltà
All’Ocean Road incontro Veronica mentre sta allattando il suo bellissimo Fredy, subito dopo il trattamento di chemioterapia: un tumore alla pelle la sta disintegrando fisicamente; ma Fredy, di cinque mesi, è bene in salute. Le dico che è pericoloso allattarlo a causa della sua chemioterapia. Mi risponde che tra il farlo morire di fame o per danni dovuti alla sua chemio, non sa cosa sia peggio. Come tante altre donne, è stata abbandonata dal marito quando aveva iniziato a stare male e l’unica eredità lasciatagli è questo bimbo che ama. Ma lei sta morendo. E non è la sola.

(Photo Romina Remigio)
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Le sue amiche vogliono fermamente essere fotografate per far vedere al mondo come è ridotto un albino aggredito dagli uomini o dal tumore alla pelle. Sono letteralmente sfigurate, eppure si mettono in posa con i loro bimbi in braccio. «Voi giornalisti dovete dirlo, dovete raccontarlo al mondo – mi grida Greta -. Ci sono antiche credenze ancora diffuse come quella che si possa guarire dall’aids avendo rapporti sessuali con ragazze albine, non facendo altro che aumentare gli stupri e il contagio. I bambini, che sono la maggioranza poiché la vita media di un albino è 40 anni, rischiano continuamente di essere uccisi e mutilati dei genitali, che i sicari rivendono a prezzi altissimi per riti tribali».
Di fronte alle loro storie, non posso fare a meno di domandarmi se sia giusto che questi sfortunati, che passano tutta la vita a difendersi dal sole, oltre alle sofferenze provocate da piaghe, scottature, tumori della pelle, dopo l’emarginazione e le difficoltà sempre maggiori, siano costretti a vivere la loro quotidianità nel terrore di essere mutilati e scuoiati vivi!
Greta, prima di finire il suo sermone, avvicina i suoi occhi ai miei, raccontandomi quanto devono soffrire soprattutto negli attimi prima di morire; leggenda vuole che le parti dei loro corpi utilizzate nei riti magici, siano tanto più efficaci quanto più forti siano state le urla durante la mattanza.

(Photo Romina Remigio)
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Affari e riscatto

Si calcola che in Africa ci sia un albino ogni 5 mila abitanti (in Europa uno ogni 60 mila). In alcuni paesi, come Congo, Uganda, Malawi, Kenya, Mozambico la percentuale degli albini è maggiore che in Tanzania e le credenze e pratiche magiche nei loro riguardi non sono meno drammatiche.
Dietro i crimini contro gli albini, non ci sono solo pregiudizi e superstizione. Sembra che gli introiti derivanti da tale mattanza siano troppo grandi per essere fermati. Secondo fonti della polizia tanzaniana un cadavere di albino può essere venduto per una somma che va dai 75 ai 400 mila dollari.

(Photo Romina Remigio)
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Proprio in Tanzania, nel mese di agosto 2010, un cittadino keniano è stato catturato e condannato per direttissima a 17 anni di carcere per aver cercato di sequestrare un giovane albino (subito messo sotto scorta) allo scopo di rivenderlo per 220 mila euro.
Una giornalista tanzaniana, Vicky Ntetema, corrispondente della Bbc, è costretta a vivere sotto scorta perché minacciata di morte per aver denunciato il coinvolgimento di stregoni e poliziotti nelle uccisioni di albini.
Le denunce sono giunte anche al Parlamento europeo che, con una risoluzione del 4 settembre 2008, ha sollecitato le autorità tanzaniane ad avviare un’indagine su tali crimini e ha invitato il governo a «tutelare i diritti degli albini tanzaniani attraverso politiche d’inclusione, parità di accesso a istruzione e assistenza medica di qualità, a offrire loro una protezione sociale e giuridica adeguata; promuovere una migliore formazione degli operatori sanitari e seminari per insegnanti e genitori per far capire come sia importante che i bambini albini siano protetti dal sole».

(Photo Romina Remigio)
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Il presidente tanzaniano Kikwestern, come presidente anche dell’Unione africana e quindi maggiormente sollecitato dalle associazioni di diritti umani, è stato «costretto» ad adottare forti misure di sicurezza a favore degli albini.
Ma il riscatto maggiore per l’Associazione nazionale degli albini e di tutti gli albini del Tanzania è arrivato il 3 novembre 2010: per la prima volta nella storia, per volontà popolare, alle elezioni presidenziali è stato eletto in Parlamento un albino 52enne, Salum Khalfani Bar’wani, candidato del partito di opposizione Fronte civico unito (Cuf). Nonostante i tanti brogli elettorali denunciati, ha battuto alle ue l’avversario della maggioranza che da 15 anni ricopriva il seggio. «Questa è stata decisamente una vittoria rivoluzionaria per tutti gli albini di questo Paese» ha commentato Bar’wani.

Romina Remigio