Uomini e maiali

Le immagini trasmesse dalle televisioni argentine sono state molto impattanti. In questi giorni, diversi canali hanno mostrato scene riprese in una discarica di rifiuti (basural a cielo abierto) a testimonianza della miseria in cui versano vasti strati della popolazione del Paese. I titoli apparsi in sovra impressione sugli schermi erano sconvolgenti: «Shopping nella discarica»; «In cerca di alimenti nella discarica»; «Così si arrangiano quelli che hanno sempre meno»; «Mangiano e si vestono con ciò che trovano tra i rifiuti»; «Una realtà che fa male».

Esagerazioni? Purtroppo, no. Scene di questo tipo le ho viste personalmente in occasione di un rilevamento ambientale, sociale e umano a Pichanal, una località situata a 25 chilometri da Orán, provincia di Salta. Qui, qualche anno fa, comunità indigene locali (Guarani e Wichi) e l’equipe di Pastorale aborigena della diocesi di Orán cercarono di fermare il progetto per trasformare una discarica illegale in una mega discarica e uno stabilimento di trattamento delle acque reflue previsti a poche centinaia di metri dalla zona abitata.

I dati ufficiali del 2023 indicano che oltre il 40 per cento della popolazione argentina vive in povertà. (Foto José Auletta)

Anche in questo caso le fotografie parlano da sole: basta guardarle. In modo particolare ne ricordo una: all’arrivo del camion dei rifiuti, in pochi secondi si produsse un assemramento di uomini, donne (alcune di esse in gravidanza), bambini e… porci, tutti quanti lì per rovistare tra i rifiuti appena sversati. Identicamente, mi fece rimanere a bocca aperta la scritta di propaganda governativa dipinta sulla fiancata del camion: «Curando l’ambiente! (Cuidando el medio ambiente)».

Come postilla finale, una nota di attualità politica. In una delle sue ultime interviste, il presidente uscente, Alberto Fernández (domenica 10 dicembre è entrato alla Casa Rosada Javier Milei, il nuovo presidente eletto, ndr), ha avuto il coraggio di affermare: «In Argentina, l’indice della povertà (40,1% secondo l’istituto di statistica, ndr) è mal calcolato. Se ci fosse una tale quantità di poveri, l’Argentina sarebbe distrutta».

Probabilmente, l’ex presidente non ha mai avuto modo di frequentare le discariche del paese che fino a ieri governava.

José Auletta da Yuto (Jujuy)




Il ghetto dei miracoli

testo e foto di Amarilli Varesio |


In un quartiere malfamato della capitale un giovane musicista ha un’idea geniale. Crea uno spazio per lottare contro il degrado dando lavoro ai giovani. Qui la plastica trova una seconda vita, e gli ortaggi fioriscono in bottiglie e scarpe vecchie.

Un bambino a torso nudo fa rotolare abilmente il cerchio della ruota di una bicicletta su un sentiero di spazzatura senza farlo cadere. Corre su un pianoro di rifiuti compatti, schivando taniche rotte, cumuli di stracci, galline e mucche che pascolano alla ricerca di scarti alimentari. Otto anni fa, questo luogo era per metà una palude e per l’altra un parco giochi per i bambini di Kwamokya (uno degli slum più grandi di Kampala, la capitale dell’Uganda). Il ghetto, come lo chiamano gli stessi abitanti del quartiere, si trova incastonato tra le colline della città, all’ombra di lussuosi grattacieli e supermarket, come l’Acacia Mall.

«Ogni volta che alziamo lo sguardo, ci ricordiamo da dove veniamo», commenta Patrick Mujuzi, il fondatore di Ghetto research lab (Grl). L’uomo indossa degli stivali di plastica bianchi sporchi di fango, e un cappello di lana rossa che non riesce a trattenere tutti i suoi dreadlocks. È musicista, produttore musicale e professore di storia e religione. Mi racconta come Kwamokya sia diventato famoso nel paese negli ultimi anni poiché vi è cresciuto Robert Kyagulanyi (conosciuto come Bobi Wine), 39 anni, musicista reggae e principale oppositore dell’attuale presidente Yoweri Museveni (al potere da 36 anni, oggi al sesto mandato) alle elezioni presidenziali del gennaio 2021. Prima delle votazioni, i caccia volavano bassi, vicini alle case, per spaventare i moltissimi sostenitori del «presidente del ghetto», e la polizia reprimeva violentemente qualsiasi manifestazione di protesta. A Kwamokya, attaccare volantini di Museveni sulle case, anche se si era oppositori, era diventata una strategia per proteggersi quando la polizia faceva irruzione.

Il cancello del Ghetto research lab a Kwamokya, Kampala. (Foto Amarilli Varesio)

Arriva la polizia

Nel gennaio 2021, la polizia è andata anche al Ghetto research lab per cercare i sostenitori di Bobi Wine. Patrick ricorda bene quella sera. Fuori dal cancello i poliziotti avevano trovato un ragazzo che fumava marijuana e quello era diventato il pretesto principale della loro visita. «Ci hanno fatti uscire tutti dalla sede e hanno chiesto chi fosse il capo. Mi hanno indicato. Noi eravamo una quindicina e loro il doppio, tutti armati di bastoni e pistole. Mi hanno strappato due dreadlocks e poi mi hanno picchiato, calciandomi tra le gambe e sulla testa. Poi mi hanno trascinato di peso fino alla sede della polizia. Sono rimasto tre giorni all’ospedale. Fortunatamente ho delle conoscenze politiche. Alcuni parlamentari hanno chiamato i poliziotti che avevano organizzato l’attacco e hanno ordinato loro di liberarmi immediatamente. Mi hanno rilasciato, ma per quei fatti nessuno è stato condannato».

L’impunità della polizia è una storia ben conosciuta agli abitanti del ghetto. Quasi ogni sera, i poliziotti si muovono in gruppo per il quartiere con il warrag (l’alcol) in una mano e la pistola nell’altra. Picchiano chiunque attraversi il loro cammino, a meno che non ricevano dei soldi. A quel punto ti ringraziano.

«Per fare una perquisizione dovrebbero avere un mandato. Io conosco la legge. Mica sono tutti stupidi nel ghetto, dicevo loro. Ma più parlavo, più mi picchiavano».

Dopo quell’episodio, una volta uscito dalla clinica, Patrick per sicurezza, non si è fatto vedere nel quartiere per qualche giorno.

Ora, il bambino a torso nudo corre con la ruota sotto il braccio per scampare al temporale torrenziale che si è aperto sopra di noi senza preavviso.

Ci dirigiamo verso la sede in bambù di Ghetto research lab, che sorge su un angolo della discarica. In questa zona, il governo non permette di costruire strutture permanenti per via della vicinanza alla linea dell’elettricità che arriva da Jinja, la città che sorge presso le sorgenti del fiume Nilo. Nonostante la terra appartenga al governo, Grl paga un affitto di 9 milioni di scellini ugandesi (2.108 euro) all’anno a un uomo che si ritiene il padrone della zona.

Il capannone in bambù è circondato da piante di papaya, banana, seneci nel pieno della fioritura che traboccano da scarpe bucate appese alle pareti e vecchi pneumatici, di misure diverse, impilati e pieni di terra. In questi ultimi crescono pomodori, fragole, spinaci.

All’interno della sede, l’ambiente è fresco e ventilato. Anatre e galline scorrazzano libere tra le macchine da cucito, che vengono utilizzate per insegnare il mestiere ai giovani del quartiere, e tra le gambe della gente. C’è chi, spaparanzato sulla poltrona, guarda un film sul televisore comune, chi lava i vestiti a mano. Per una decina di persone, Grl è diventata la propria casa.

Patrick si mette a preparare la colazione a base di cipolla, pomodori, avocado e zenzero per tutti. Nel 2008, una volta finita l’università, aveva deciso di raggiungere il fratello a Kwamokya per dargli una mano con lo studio di registrazione e ne era diventato il manager. «Attraverso quel lavoro, sono entrato in contatto con moltissime persone del quartiere e ho capito, tramite loro, cosa vuol dire vivere nel ghetto. Non riuscivo a fare pranzo perché sapevo che loro non avevano mangiato. Tanti ragazzi rubavano i cellulari, mentre le ragazze si prostituivano perché avevano fame. Erano guidati dalla disperazione. I miei amici mi davano pochissimi soldi per registrare le canzoni, molti erano senza lavoro. Piano piano ho capito che dovevo creare un posto dove poter connettere le idee e realizzare dei progetti per dare lavoro ai giovani. Così, mi sono messo a pensare, e nei rifiuti del ghetto ho visto la soluzione per dare il pranzo ai miei amici».

Imparare sbagliando

È il 2013 quando Patrick crea un gruppo con i ragazzi che frequentano lo studio di registrazione. Sono in 24. L’obiettivo è quello di promuovere la propria musica e, allo stesso tempo, trovare delle soluzioni per risolvere i problemi dello slum, come la disoccupazione giovanile e la degradazione ambientale, attraverso l’idea che «si impara facendo e sbagliando».

Per sfamare i suoi amici, Patrick decide inizialmente di occuparsi di agricoltura urbana. Lui sperimenta e, se le tecniche funzionano, le trasmette ai ragazzi. «Raccoglievamo buste di plastica e vecchi sacchi. Li riempivamo di terra e vi coltivavamo piante o fiori. Per esempio, riempivamo di terra un sacco di 50 kg e lo bucavamo su tutta la lungehzza per infilarvi semi di cipolle e pomodori. Facevano inoltre in modo che l’acqua bagnasse anche le piante che crescevano in fondo». Patrick e il gruppo realizzano concime naturale con gli scarti vegetali, saponi naturali e sistemi di acqua ponica (un sistema di coltivazione in assenza di terreno, unito all’allevamento dei pesci). Ben presto, alcuni giornali locali si interessano a quelle attività alternative che vengono portate avanti nel ghetto.

Grazie alla visibilità ricevuta, il gruppo partecipa a delle esibizioni artistiche ed esegue la pianificazione dei giardini urbani per alcuni privati. Ma l’indipendenza economica è ancora lontana perché le entrate non sono stabili.

Nel frattempo, Patrick organizza anche giornate di pulizia del ghetto. «All’inizio raccoglievamo la plastica e la bruciavamo perché, all’epoca, non avevamo altre idee. Ci mettevamo a bordo strada con le casse e i microfoni e raccontavamo alle persone che passavano quello che stavamo facendo. Ma poi ho capito che bruciare la plastica impattava lo strato d’ozono. Dovevamo trovarne un uso alternativo intelligente».

Il Grl ha costruito la propria sede su parte della discarica di Kwamokya. (Foto Amarilli Varesio)

Bagni di plastica

Mentre si salta da una sponda a un’altra dei canali che scandiscono i vicoli angusti tra le case, non bisogna lasciarsi ingannare dalla solidità apparente del terreno. Nascosti sotto sottili strati di terra mista a plastiche varie, rimangono acquattate le cosiddette «flying toilets», i sacchetti di plastica in cui la gente chiude i propri bisogni, lasciati per strada, al riparo da occhi indiscreti. Patrick sa che l’igiene è una delle sfide più grandi di Kwamokya.

Dopo due anni, finalmente, il gruppo trova una soluzione economica e soddisfacente per ridurre l’inquinamento da plastica nel ghetto: i bottle bricks, mattonelle derivate dalla fusione delle bottiglie. «Mi ci è voluto del tempo per arrivarci. Dopo aver trovato l’idea giusta, ho scoperto che in Asia c’erano tante case costruite con i mattoni di plastica, ma dentro c’era la terra, non altra plastica». Intanto, nel 2016, Patrick e i suoi amici si registrano ufficialmente come Ghetto research lab, un’organizzazione non profit che ha l’obiettivo di formare i giovani su pratiche sostenibili, e aiutarli a diventare economicamente indipendenti. Poi, nel 2018, la Lupererial foundation, una fondazione gestita da un ricco indiano, proprietario di moltissimi lodges turistici in Uganda, dona 15 milioni di scellini ugandesi a Grl, raccolti tramite una «goat race» (gara di capre, tipica di certi gruppi etnici, ndr), per costruire due bagni pubblici. Vengono coinvolte decine di madri single che abitano nelle baracche attorno alla discarica. Le donne raccolgono e riempiono 35mila bottigliette con sacchetti di plastica. «Il governo voleva chiudere una scuola di Kwamokya perché non aveva le latrine per gli studenti. Grazie a questo progetto, quei bambini possono continuare a studiare».

Attualmente, però, la fusione delle bottiglie di plastica per la creazione delle mattonelle è in sospeso, per via dei fumi neri e tossici che vengono emanati nel processo. Il gruppo sta cercando di costruire delle macchine che non producano emissioni. A ogni modo, da ogni fallimento nascono nuove idee. Infatti Grl impara a realizzare le compost toilet da un’organizzazione americana, Give Love. «Avevano costruito delle compost toilet nella regione del Karamoja, nel Nord Est dell’Uganda, ma il progetto era fallito, perché la gente non le usava. Un amico che lavorava con loro me li ha fatti conoscere, convinto che, grazie a me, in Kwamokya quel progetto sarebbe decollato». Grl costruisce, quindi, delle compost toilet per un gruppo di 40 disabili di Kwamokya. «Per loro, andare in bagno era un grosso problema. Le latrine erano lontane ed era complicato raggiungerle. Ciascuno, adesso, ha un bagno in casa. Noi andiamo da loro una volta a settimana per raccogliere il loro «oro», e gli diamo il cesto pulito indietro. Dopo un anno, possiamo vendere il concime a cinquemila scellini al chilo».

Un’università dove sporcarsi le mani

La conversazione con Patrick viene interrotta per l’ennesima volta da un nuovo visitatore. Manu, un rifugiato congolese, saluta Patrick, che ricambia il saluto col pugno chiuso. Poi si allontana col prototipo di sacco solare che purifica l’acqua in quattro ore, ricavato da bottiglie di plastica. Al Grl, le idee e le sinergie sono molte e la voglia di offrire maggiori opportunità di lavoro ai giovani è il sogno più grande di Patrick. «Vorrei che il Grl diventasse un’università, ma non come quelle che conosciamo tutti. Vorrei che fosse un posto per tutti, anche per chi non ha soldi, nel quale sono necessarie solo la curiosità e la voglia di sporcarsi le mani. Un professore universitario, che poco tempo fa è morto di Covid, mi ha donato dieci ettari di terreno da utilizzare per dieci anni. Questo è il secondo anno che non lo uso. Il mio sogno è di implementare su scala maggiore quello che facciamo qui, creare un centro di ricerca più grande dove insegnare la pratica agli studenti che imparano solo la teoria, le “Muzungu things” (cose da bianchi, nda)».

La mamma di Patrick viene ad avvertirci che il pranzo è pronto. Si è sistemata con le pentole e i tavoli dentro il Grl perché l’affitto di un locale (tipo ristorante di strada) è troppo caro per lei. Nella pentola fumante sta cucinando il matoke, il frutto del platano, avvolto nelle sue foglie. Di fianco a lei, svetta una pianta di marijuana rigogliosa e il contrasto è immediato. Quasi leggendomi nella mente, Patrick risponde al mio sguardo divertito. «Sono un lavoratore sociale, ho a che fare con i giovani del ghetto. Questa è la ragione per cui fumo e per cui ho i dreadlocks. Solo diventando come loro, i giovani si avvicinano e ti ascoltano. Solo così si è in grado di cambiarli. Io spiego loro che si può lavorare anche fumando».

D’un tratto, vediamo i ragazzi accalcarsi attorno al televisore e commentare le scene con tono indignato. Il telegiornale mostra le immagini appena riprese dell’attentato contro il ministro del Lavoro e dei trasporti. Katumba è sopravvissuto all’attacco, ma gli assassini hanno ucciso la figlia e l’autista. Patrick scuote la testa amareggiato. «Sento che devo entrare in politica, questo sentimento cresce ogni giorno dentro di me. Tra qualche anno chiamerò i media per dire che sto arrivando. Bobi Wine mi ha ispirato, ma non è quella la mia motivazione principale. Io so che qui in Uganda entrare in politica equivale a morire. Non voglio abbandonare i miei figli (si riferisce ai giovani del centro, ndr). Ma mi stanno provocando. E sento che le persone voterebbero per me, anche se non sono un uomo ricco, ma la gente mi conosce. Se Bobi Wine non vince nei prossimi anni, allora quando questo presidente morirà, ci proverò».

Amarilli Varesio

Il negozio dove vengono esposti i saponi naturali e i vestiti creati dalle allieve del corso di cucito del Grl. (Foto Amarilli Varesio)




Un rifiuto che suona

testo e foto di Valentina Tamborra |


Una distesa di immondizie tristemente famosa. Donne e bambini che ci fanno il proprio luogo di lavoro. E poi la colla da sniffare, per superare fame e fatica, e il degrado ambientale e sociale. Ma in molti cercano di cambiare questa realtà.

Siamo a Dandora, una località a circa 10 chilometri da Nairobi, capitale del Kenya.

Qui sorge una discarica che «vanta» alcuni infelici primati. Non solo è la pattumiera più grande di tutta l’Africa orientale, ma è stata anche definita da molte organizzazioni il luogo più inquinato del pianeta.

L’immensa discarica a cielo aperto è il luogo dove ogni giorno confluiscono circa duemila tonnellate di rifiuti provenienti dalla capitale.

Uno scenario dantesco: cumuli di rifiuti che formano vere e proprie montagne, vapori dall’odore nauseabondo che sporcano l’aria azzurra che, improvvisamente, ad altezza occhi, diventa nebbiosa.

Sullo sfondo, la città di Nairobi si staglia con i suoi grattacieli e i luoghi del business, che sembrano quanto di più lontano possa esserci dall’inferno che caratterizza luoghi come la discarica e le baraccopoli attigue.

Attorno alla discarica di Dandora, infatti, sono sorti molti slum – baraccopoli appunto – fra cui la famosa Korogocho. Per entrare in questo luogo abbiamo bisogno di una guida e di protezione: quattro uomini ci scortano sicuri attraverso corridoi di rifiuti accatastati gli uni sopra gli altri.

All’interno di Dandora è purtroppo di casa la violenza. Sono luoghi, questi, dove persone disperate farebbero qualsiasi cosa pur di sopravvivere e non è saggio avventurarsi da soli da queste parti.

Persino il taxi che ci ha accompagnati vicino all’entrata della discarica non ha voluto procedere oltre.

La contesa dei rifiuti

Camminando fra i rifiuti non è raro assistere a scene di scontri fra esseri umani e animali. Gli uccelli infatti, enormi marabù simili ad avvoltoi, non di rado si avvicinano ai bambini strappando loro di mano quel poco di cibo trovato scavando nella spazzatura.

La discarica di Dandora, che era già stata dichiarata al limite della capienza nei primi anni 2000, è ormai fuori controllo: i rifiuti ricoprono un dislivello di circa 200 metri.

Nel 2006 era sembrato realizzabile un progetto di bonifica, che però poi è naufragato a causa dell’utilizzo poco chiaro dei fondi stanziati per l’operazione.

Ogni giorno qui a Dandora migliaia di persone lavorano fra i cumuli di immondizia, selezionando il materiale da rivendere, abiti o cibo ancora commestibile. Per molti abitanti degli slum, dunque, la discarica, seppur tossica e pericolosa, resta l’unica forma di guadagno e sostentamento. Per questo motivo, alcune organizzazioni che si battono per il trasferimento della discarica (come, ad esempio, i Missionari comboniani) pongono al governo il problema di garantire che questa fonte di risorse non venga del tutto preclusa alle popolazioni locali.

Queste persone, in larga parte, sono bambini. Poveri, senza cibo né scolarizzazione, si trovano ben presto legati a doppio filo a questo luogo terribile.

Nel loro sangue sono state rinvenute forti concentrazioni di mercurio, cadmio e piombo e i problemi respiratori sono all’ordine del giorno. Respirare i fumi tossici della putrefazione, infatti, causa danni polmonari irreversibili.

Chokora

C’è un nomignolo che definisce i bimbi di strada, coloro i quali nella spazzatura vivono, o meglio sopravvivono: chokora. Si legge «ciokorà» e in lingua kiswahili significa monello, bambino fastidioso, ma anche rifiuto. In qualche modo, dunque, il destino di questi bimbi viene cucito su di loro, finisce per identificarli.

I bambini vengono dalle vicine baraccopoli, Canaan, Shashamane, Korogocho, e qui passano la giornata cercando di sopravvivere. Si riuniscono in gruppi, spesso sono scappati di casa perché non avevano abbastanza cibo e la vita di strada sembrava un’alternativa allettante in confronto al morire di stenti in una capanna di lamiera.

Nairobi e i suoi slum sono tristemente noti per il fenomeno dei minorenni abbandonati a se stessi, anche se molto piccoli. Nonostante gli sforzi di centinaia di organizzazioni umanitarie il loro numero è aumentato negli ultimi 25 anni.

Una piaga che spesso colpisce questi minori è la tossicodipendenza: già a 6 o 7 anni, infatti, iniziano a sniffare colla. La comprano per pochi spiccioli, soldi guadagnati vendendo ciò che nella spazzatura è ancora utilizzabile. Sniffare aiuta a non sentire la fame, la sete, il freddo, la solitudine.

Se ne vedono ovunque di bimbi definiti «zombie»: l’andatura barcollante, gli occhi vitrei con lo sguardo perso nel vuoto. Spesso si riuniscono in gruppi e diventano purtroppo estremamente pericolosi. Rapinano, feriscono, attaccano, perché questa è l’unica modalità di vita che è stato concesso loro di imparare.

 

Musica di strada

L’Ong internazionale Amref health Africa opera nella discarica di Dandora per il recupero dell’infanzia. Qui, i suoi operatori umanitari, portano avanti l’iniziativa «Out of the streets».

Il progetto consiste nel recupero dei bambini di strada attraverso lo strumento della musica.

A scendere sul campo e impegnarsi nel lavoro di sostegno e recupero, spesso sono ex ragazzi di strada, proprio come Samuel che ci accompagna nei vicoli dello slum e della discarica.

La prima cosa da fare quando si giunge in luoghi come questi, è guadagnare la fiducia dei bambini che, abituati a ogni sorta di abuso e violenze, diffidano dall’essere avvicinati.

Una colazione insieme, un po’ di tè e chapati (una sorta di pane azzimo tradizionale), una chiacchiera, la promessa di una doccia calda e vestiti puliti. Qualcuno accetta, i più piccoli soprattutto, e decide di seguire Samuel al centro Amref. Qualcun altro, più diffidente, resta a osservare. Il mezzo migliore per far sì che i bimbi continuino ad accettare l’aiuto degli operatori sociali è il passaparola. Saranno infatti i bambini accolti nei centri Amref a essere in qualche modo portavoce della possibilità di riscatto.

Dal primo contatto, dunque, inizia il circolo virtuoso che potrà portare questi ragazzi al recupero di se stessi, alla disintossicazione e alla scoperta della bellezza e di un’alternativa di vita possibile attraverso la scuola, la cultura, la musica.

Musica e canto infatti sono dappertutto nel contesto sociale kenyano, gli stessi chokorà hanno imparato a comporre canzoni e filastrocche con questo loro nome, cercando di farne così una sorta di bandiera che determini un’appartenenza.

All’interno dei centri Amref, i bambini tornano a scoprire il proprio valore e quello di un pezzo di latta, un barattolo, un contenitore, che da immondizia diventa tamburo. Pezzi di plastica con cui costruire un organo e ancora maracas fatte con vecchie bombolette di spray per l’ambiente. Tramite workshop e lezioni dedicate, costruiscono strumenti e li suonano. In questo modo ritrovano – almeno in parte – quel mondo spensierato che era stato loro tolto.

Il riciclo, il riutilizzo, il dare valore a ciò che prima era destinato a scomparire fra le pieghe della società, diventa quindi iconico, è il riscatto per questi ragazzi privati di un diritto fondamentale: l’infanzia.

 

Una madre

In una baracca grande come uno sgabuzzino, vive la mamma di due dei bimbi aiutati da Amref. I bimbi vanno a scuola grazie al sostegno della Ong.

Un’unica stanza dove dormire, mangiare, studiare. Nessun materasso, solo qualche coperta fra il corpo e il pavimento e come sedie, dei vecchi fusti di vernice. Eppure, in mezzo a questo, notiamo proprio vicino alla finestra un quaderno aperto: la grafia è sottile e fitta. Chiediamo cosa sia: «Preghiere, inni al Signore», ci risponde la donna. Ci racconta che ogni giorno ringrazia Dio per la ricchezza che possiede: i suoi figli, la possibilità per loro di andare a scuola e avere forse un futuro migliore e un tetto sopra la testa. Per essere felice, ci dice, le basta sapere che oggi sta un po’ meglio di ieri e che esiste un futuro possibile.

In una baracca, in mezzo alla polvere, nel caldo soffocante delle baraccopoli di Nairobi, si cela la bellezza che nasce dalla speranza e dalla fede.

Valentina Tamborra


Il progetto

Dal 2001, il progetto «Out of the streets» di Amref healt Africa ha raggiunto circa 26mila minori in stato di vulnerabilità. Nel periodo 2016-2019, 300 minori sono stati sostenuti ogni anno. In questo triennio, infatti, ogni anno Amref ha accolto una media di cento tra ragazzi e ragazze all’interno del centro polifunzionale diurno di Mutuini. Duecento tra ragazzi e ragazze, all’anno, sono stati invece appoggiati nella formazione (istruzione primaria e secondaria e training vocazionali, per capire cosa vorrebbero fare).

Ma non solo di bimbi di strada ci si occupa a Mutuini, all’interno del centro che visitiamo, l’Amref child development centre Dagoretti.
Qui infatti sono presenti anche diverse realtà che hanno come focus la salute e l’emancipazione femminile.
Le donne imparano a leggere, a far di conto, a preservare la propria salute, ad esempio seguendo corsi di educazione sessuale. In Kenya, infatti, l’Hiv è una realtà tristemente estesa.
Attraverso corsi e workshop si parla di eguaglianza di genere, di autonomia.
Un’altra delle attività portate avanti è l’inserimento nel mondo lavorativo e la creazione di opportunità legate ad esso.
L’approccio di questa organizzazione umanitaria resta quello di rafforzare le reti comunitarie esistenti, siano esse previste da una direttiva del governo o siano strutture informali costruite dalle comunità che popolano una determinata zona.

Dalle discariche al palcoscenico di un teatro, dal raccogliere pezzi di vetro e latta per rivenderli, a imparare l’uso di uno strumento musicale e appassionarsi a qualcosa che, forse, li aiuterà ad avere un futuro.
Una seconda opportunità di vita, non più rifiuti dunque, ma esseri umani parte del tessuto sociale.

Valentina Tamborra

Servizio fotografico
Questo progetto è alla base del reportage di Valentina Tamborra e Mario De Santis «Chokorà – il barattolo che voleva suonare».