Cina. La ciotola di ferro


L’economia di Pechino cresce meno rispetto al passato e la disoccupazione giovanile è alta. Anche per questo si sono diffusi termini come «tangping» (stare sdraiati), «neijuan» (involuzione), «bailan» (lasciare marcire), indicatori di un malessere preoccupante, soprattutto tra i più giovani.

«Posso semplicemente dormire nella mia botte godendomi un bagno di sole come Diogene, o vivere in una grotta come Eraclito e pensare al “logos”. Poiché su questa terra non è mai esistita davvero una scuola di pensiero che esalti la soggettività umana, posso crearla io stesso. Stare sdraiati (tangping) è il mio movimento filosofico: solo stando sdraiato l’uomo può diventare misura di tutte le cose».

Nell’aprile 2021, sul forum Baidu Tieba, un giovane cinese di nome Luo Huazhong spiegava il motivo che lo aveva portato a scegliere uno stile di vita sobrio e minimalista.

Annoiato dalla routine, nel 2016 il ventiseienne aveva lasciato un lavoro in fabbrica poco gratificante. Inforcata la sua bici, aveva poi pedalato per 2.100 chilometri dalla provincia del Sichuan al Tibet tra vallate sconfinate e paesaggi mozzafiato. Tornato nella sua città natale, nella Cina orientale, all’epoca del suo post, trascorreva il tempo leggendo libri di filosofia e tirava a campare con lavoretti da 60 dollari al mese. Certo, ormai poteva permettersi solo due pasti al giorno, ma – come recitava il post – meglio stare sdraiati ad assaporare i piccoli piaceri della quotidianità piuttosto che trascorrere le proprie giornate sulla catena di montaggio.

Cinesi e «sdraiati»

Luo non è l’unico a pensarla così. Nel 2021, la parola tangping è stata annoverata tra i dieci meme più popolari dell’anno dal «Centro nazionale di monitoraggio e ricerca delle risorse linguistiche», agenzia affiliata al ministero dell’Istruzione cinese. Secondo un sondaggio condotto nel 2022 dalla società di ricerca Tsingyan Group, circa il 96% di seimila rispondenti ha affermato di conoscere persone «sdraiate», con una concentrazione maggiore tra la popolazione di età compresa tra i 26 e i 40 anni.

La viralità del tangping non è, però, solo un fenomeno di costume, una moda del momento. È il sintomo di un malessere più ampio: come altrove, anche in Cina, le aspettative personali cambiano di generazione in generazione. Ma nella Repubblica popolare, più che altrove, l’insolita «apatia giovanile» rispecchia la mancanza di prospettive professionali.

D’altronde gli «sdraiati» sono in buona compagnia. Negli ultimi anni la blogosfera cinese ha generato espressioni simili a tangping: neijuan (involuzione) e bailan (lasciare marcire) sono termini che – sebbene con gradi diversi – esprimono ugualmente il profondo pessimismo dei più giovani verso il futuro. La crescita cinese rallenta e i millennials (si intende la generazione nata negli anni ‘80 e prima metà ‘90, ndr), cresciuti nell’era della prosperità, sperimentano le prime difficoltà economiche.

Grafico con i dati sul tasso di disoccupazione in Cina. Immagine Statista.com.

Stipendi da 256 euro

Stando alla Banca mondiale, nel 2022 il reddito pro capite cinese si aggirava sui 13mila dollari rispetto ai mille scarsi del 2000. Ma ora «l’ascensore» sembra essersi un po’ fermato.

Dall’inizio del Covid, per molte categorie professionali gli stipendi sono rimasti invariati o sono persino diminuiti. Secondo uno studio della Beijing Normal University, circa 964 milioni di persone in Cina guadagnano ancora meno di 2.000 yuan al mese (256 euro). Nel migliore dei casi si tratta di una fase di assestamento. Nel peggiore degli scenari, sono già i primordi della famigerata «trappola del reddito medio»: se così fosse, esaurita la scintilla del progresso, il gigante asiatico sarebbe condannato a restare bloccato in una fase di stagnazione. D’altronde, la mobilità sociale è in evidente fase di stallo.

Settori che hanno trainato la locomotiva cinese nei primi anni Duemila sono entrati in crisi: l’immobiliare – bene rifugio per molte famiglie cinesi – risulta distorto da decenni di bolla speculativa. L’economia digitale – miniera d’oro di Alibaba, Tencent & Co. – sconta ancora il colpo di coda della pandemia. Complice la stretta normativa avviata dal Governo tre anni fa per disciplinare le big tech: come in Occidente, anche in Cina sono fioccate accuse di pratiche anticompetitive, ma anche di sfruttamento. Non è un caso che i vari meme tangping, neijuan e bailan, abbiano attecchito soprattutto tra gli impiegati nell’Information technology (It), mediamente ben pagati, certo, ma sottoposti a turni di lavoro mortali (nel vero senso della parola).

Per ammortizzare il calo dei ricavi, nel 2022, Alibaba ha ridotto la propria forza lavoro di 19.576 unità, per poi effettuare un ulteriore taglio di 11.065 posti, arrivando a circa 230mila dipendenti (luglio 2023). «Ottimizzazioni» simili sono state annunciate da Tencent e dagli altri principali competitor nazionali per un totale di 216.800 posizioni chiuse tra luglio 2021 e marzo 2022. Strage anche nel comparto del tutoring online, sottoposto a un’analoga campagna di rettificazione. Mentre il Governo cinese puntava ad alleggerire la spesa delle famiglie e il carico degli studenti, l’unico risultato concreto della ferrea regolamentazione è riscontrabile nella perdita di almeno un milione di posti di lavoro. L’impatto in termini occupazionali è molto più devastante considerata la popolarità del settore tra i giovani alle prime esperienze professionali. Un bel problema per i neolaureati che, secondo stime del ministero dell’Istruzione, il prossimo anno raggiungeranno quota 11,79 milioni, 210mila in più rispetto al 2023. Quel che è peggio i numeri vanno proiettati nel calo generalizzato del settore dei servizi, e in particolare del comparto privato; proprio quello che assorbe ben l’80% dell’occupazione urbana, ma lo scorso anno quello stesso comparto privato ha rappresentato solo il 40% delle 100 maggiori società quotate del paese, il valore più basso dal 2019.

Panorama di Shenzhen. Foto Darmau – Unsplash.

Voglia di pubblico

Al tentativo di rafforzare il controllo statale sull’economia, i giovani hanno risposto come prevedibile. Ovvero facendo a gomitate per aggiudicarsi la cosiddetta «ciotola di ferro»: lavori nel settore pubblico retribuiti così così, ma stabili e con numerosi benefit. A novembre, 2,25 milioni di persone hanno sostenuto l’esame nazionale per diventare dipendenti pubblici a fronte di soli 39.600 posti vacanti. Altri, al contrario, valutando la precarietà del momento, hanno optato per soluzioni di transizione. Nel 2021 erano circa 200 milioni i «lavoratori flessibili», inclusi 4 milioni di rider e oltre 1,6 milioni di live streamer (coloro che trasmettono in diretta via web). Un trend, quello della gig economy, rimasto costante anche una volta rimosse le misure anti Covid. Secondo un rapporto pubblicato dalla principale piattaforma di reclutamento Zhilian Zhaopin e dall’Università di Jinan, nel primo trimestre del 2023 la domanda per lavoretti temporanei è continuata ad aumentare nonostante il graduale calo dell’offerta.

Chiariamo: seppure con il freno a mano tirato, l’economia cinese continua a generare milioni di posti di lavoro. Il tasso di disoccupazione complessivo è rimasto stabile, poco sopra il 5%. Ma, si sa, i numeri ufficiali vanno presi con le molle. Non solo perché tengono conto esclusivamente della popolazione urbana, laddove il 40% dei cinesi vive ancora in campagna. Dopo aver segnalato a giugno un tasso di disoccupazione giovanile del 21,3%, il livello più alto mai registrato, l’Ufficio nazionale di statistica ha sospeso «momentaneamente» la pubblicazione dei dati. E quando, a gennaio, l’ha ripresa, l’indice era sceso al 15%, secondo un nuovo sistema di valutazione.

Percorrere altre strade

In assenza di stime attendibili, sono proprio le testimonianze sporadiche dei giovani internauti la risorsa più utile per ricostruire la situazione lavorativa nel Paese. Oltre agli «sdraiati», gli ultimi anni di incertezze hanno favorito la diffusione di abitudini di vita parimenti «anticonformiste»: è questo il caso della popolarità riscossa dai luoghi sacri. Stando ai dati diffusi dalla piattaforma turistica Qunar, le visite ai templi sono aumentate del 367% nel primo trimestre del 2023. Una conversione mistica in buona parte associata ai millennials, tanto che circa la metà dei visitatori risultava nata dopo il 1990.

«Qui mi sento rilassato e a mio agio», spiega al Lianhe Zaobao un trentenne entrato come volontario in un tempio di Shenzhen per sperimentare una «vita diversa». Anziché pregare per trovare un buon lavoro, qualcuno ha tentato la fortuna. Tra gennaio e ottobre 2023, i biglietti della lotteria sono andati a ruba, con vendite in aumento del 53% rispetto all’anno precedente.

© Chi Lok Trang – Unsplash

Migrazione verso gli Usa

Optando per un’esistenza più rilassante in tipico spirito tangping, sono sempre di più i giovani cinesi che si trasferiscono nelle località più selvagge e amene del Paese; chi in smart working chi in cerca di forme più hipster di sostentamento. Qualcun altro ha, invece, deciso di rifarsi una vita all’estero. Anche a costo di finire nelle grane.

Secondo dati del Dipartimento per la Sicurezza nazionale americana, il numero di persone con passaporto cinese ad aver attraversato il confine degli Stati Uniti senza documenti validi è più che raddoppiato negli ultimi anni. Quasi 60mila immigrati cinesi sono stati arrestati per aver attraversato illegalmente il confine negli ultimi 14 mesi. In confronto ammontano solo a 24.603 i visti rilasciati regolarmente. Ma non serve andare tanto lontani per trovare una stabilità economica. A marzo 2023, in Cina, risultavano esserci 16 milioni di «figli a tempo pieno»: adulti (perlopiù disoccupati) disposti a vivere a casa assistendo i propri genitori in cambio di una retribuzione mensile.

Occupazioni digitali

Consapevoli del problema, le autorità stanno cercando di correre ai ripari. Nuove linee guida dovrebbero regolamentare meglio la gig economy. Nel 2022, la Cina ha aggiunto 158 nuove occupazioni al suo elenco dei lavori ufficialmente riconosciuti: 97 riguardano l’economia digitale, dal marketing online all’intelligenza artificiale.

Se tutto andrà come da programma, entro il 2030 saliranno a 449 milioni i posti sostenuti dalla digitalizzazione. Nel frattempo, Pechino si affida a misure estemporanee.

Secondo gli ultimi dati diffusi dal ministero delle Finanze, nel 2023 il governo centrale ha destinato 66,76 miliardi di yuan (9,17 miliardi di dollari) alle indennità di disoccupazione, un aumento annuo dell’8%. In alcune province, come lo Anhui, le imprese statali sono tenute non solo a reclutare neolaureati, ma anche a farlo rispettando quote prefissate.

Legittimità e benessere

Tanta premura è comprensibile: preservare la salute del mercato del lavoro è una questione in parte economica, in gran parte di stabilità sociale. Lo è soprattutto in Cina dove, in mancanza di elezioni popolari, il partito comunista fonda la propria legittimità politica sulla capacità di assicurare benessere economico. Dal movimento del 5 maggio 1919 alle proteste di piazza Tian’anmen, nel corso della storia cinese sono sempre stati i giovani a guidare le grandi mobilitazioni di piazza.

È proprio guardando al passato che, negli ultimi anni, la leadership cinese ha lanciato programmi di formazione di ispirazione maoista. Controllare la qualità delle coltivazioni, dipingere muri e ravvivare la lealtà politica dei contadini: sono alcune delle mansioni svolte dai giovani disposti a lavorare nelle campagne come ai tempi della Rivoluzione culturale. Oggi, tuttavia, non si vuole solo indottrinare le nuove generazioni. Domare la disoccupazione urbana è un’altra condizione imprescindibile per «costruire un paese socialista moderno», come vuole Xi. Questo aveva quasi certamente in mente il presidente quando ha ordinato di «guidare sistematicamente i laureati nelle zone rurali».

Propagandare l’ottimismo

Può sembrare una decisione disperata. Se così è, però, Pechino non lo dà a vedere. Alla parola disoccupazione la dirigenza comunista preferisce l’eufemismo «occupazione lenta»: secondo la vulgata ufficiale, il problema non sta nella mancanza di lavoro, ma nei giovani che, finiti gli studi, prendono tempo per pianificare il proprio futuro. L’importante è crederci, come si suol dire. D’altronde, la comunicazione o – meglio – la propaganda è tutto per il regime comunista che, dai tempi di Mao, legittima i propri (in)successi con la mobilitazione di massa.

Così, se la parola del 2021 era tangping, secondo i media governativi lo scorso anno è stata zhen, «rivitalizzazione». Uno sfoggio di ottimismo per incoraggiare i cittadini a sostenere il paese (e la sua leadership) davanti alle avversità economiche. Peccato che gli «sdraiati» di alzarsi non sembrano averne alcuna voglia.

Alessandra Colarizi

 




Honduras. Maestri coraggiosi


L’infiltrazione negli istituti scolastici delle bande Mara Salvatrucha e Barrio 18 è un dato di fatto. Per questo, insegnare nelle scuole del paese centroamericano è una sfida che pone in rischio la vita stessa.

Dall’altra parte dello schermo di un computer, il sorriso di Rodrigo Pineda (nome di fantasia per questioni di sicurezza, ndr), direttore di una scuola pubblica honduregna, supera i circa 10mila km che ci separano diffondendo calma anche nello spazio virtuale di una videochiamata su Zoom.

Rodrigo vive a Tegucigalpa, capitale dell’Honduras, e 20 anni fa ha deciso di diventare professore e poi dirigente scolastico di uno dei tanti istituti comprensivi del paese che, in genere, includono le scuole di primo e di secondo grado (6-17 anni).

Il giorno in cui ha deciso di rispondere alla vocazione per l’insegnamento sapeva che, oltre alle sfide educative, avrebbe dovuto accettare anche il rischio personale che questa professione porta con sé, almeno nei casi in cui bisogna esercitarla nei quartieri più poveri della capitale honduregna, controllati e messi a ferro e fuoco dalle bande Mara Salvatrucha (Ms-13) e Barrio 18.

E di fatti, ogni volta che il professor Pineda metteva piede nella propria scuola, prima che la pandemia costringesse alunni e insegnanti a vivere di didattica online, doveva far leva su tutto il suo coraggio per affrontare non solo le ore di lezione ma anche i criminali affiliati alle due bande che, da sempre, utilizzano le scuole pubbliche a proprio uso e consumo. Ormai da anni, i leader delle gang minacciano fisicamente i dirigenti scolastici per ottenere le chiavi degli istituti, dove di notte entrano per nascondere droga e armi nelle aule meno frequentate. Non era raro, infatti, che, al mattino, i bambini si imbattessero in un pacchetto di cocaina o in qualche proiettile nei corridoi, mentre si dirigevano verso le aule scolastiche. Tuttavia, la Mara Salvatrucha e Barrio 18 non sono mai state interessate agli istituti scolastici in quanto edifici. Il loro interesse è reclutarne i frequentatori. Spesso fermi davanti ai cancelli delle scuole, i membri delle due bande rivali cercavano di agganciare ragazze e ragazzi in età scolare. Questa forma di affiliazione, quasi sempre forzata, ha funzionato fino a marzo 2020 e, dal 18 aprile del 2022, giorno in cui – dopo due anni di pandemia – le classi di ogni istituto sono tornate alla didattica in presenza, rischia di riprendere a essere una pericolosa routine.

Personale forense trasporta il corpo di uno studente ucciso dai membri di una banda su un bus di Tegucigalpa (15 febbraio 2017). Foto Orlando Sierra – AFP.

Mara Salvatrucha e Barrio 18

Mara Salvatrucha (Ms-13) e Barrio 18 sono le due più grandi organizzazioni malavitose dell’America Centrale che, da decine di anni, alimentano una guerra intestina non solo in Honduras, Guatemala e Salvador, ma in parte anche negli Stati Uniti e in Canada, con l’obiettivo di controllare il monopolio del traffico di droga e armi e di gestire il giro dell’estorsione e della tratta a fine di prostituzione.

Le due bande criminali, in spagnolo chiamate maras o pandillas, nascono tra gli anni Settanta e Ottanta a Los Angeles, negli Stati Uniti. La cifra presente nel loro nome, «13» e «18», fa riferimento, infatti, al numero delle due strade della città californiana in cui vivevano e operavano i fondatori delle due gang. Entrambe le bande accoglievano migranti messicani e centroamericani e si sono diffuse nei loro paesi di origine a partire da metà degli anni Ottanta, quando, a causa di un indurimento delle politiche migratorie operato da Reagan e successivamente da Bush, sono aumentate in maniera esponenziale le deportazioni di persone arrivate sul territorio statunitense senza permesso di soggiorno, anche in giovane età. Attraverso questa operazione, una buona parte delle cellule attive delle due bande si sono ritrovate, dalla mattina alla sera, tra Salvador, Honduras e Guatemala, dove hanno continuato a crescere, diventando in breve tempo una presenza forte e strutturata tanto da sostituirsi allo stato, soprattutto nelle zone marginali e povere dove gestiscono ogni tipo di business, lecito o illecito.

Il reclutamento forzato

Per mantenere forti le maras e farle crescere, i loro leader devono reclutare continuamente nuovi membri, ragazzi da iniziare a piccole o grandi attività criminose, che possono variare dalla riscossione del pizzo nei negozi di quartiere fino alla gestione dell’intero traffico di droga verso il Nord America. Per questo motivo, alcuni membri delle gang hanno cominciato a prendere di mira le scuole più povere, cercando di convincere, con le buone o le cattive, ragazze e ragazzi tra i 10 e i 14 anni a unirsi a loro.

«Un giorno un pandillero (un membro di una banda, ndr) mi ha detto che le scuole sono praticamente il loro “incubatore”, la loro “serra”, dove crescono i loro futuri adepti. Sono i bambini più poveri, orfani o provenienti da famiglie disgregate che rischiano maggiormente di essere forzati a unirsi a loro. Quasi la metà dei miei studenti vive con un nonno o uno zio, perché i genitori sono morti o migrati negli Stati Uniti. Alcuni ragazzi vedono las maras come l’unica opzione di guadagno facile, ma molti, invece, ci chiedono aiuto. Ed è proprio per loro che scendiamo in strada e proviamo a dialogare con i capi delle bande per convincerli a lasciare stare i nostri studenti», dice Rodrigo Pineda.

Tipico gesto giovanile. Foto Karsten Winegeart – Unsplash.

Docenti assassinati

Migliaia di docenti honduregni (insegnanti, presidi, uomini e donne) hanno cercato di proteggere i loro studenti, in particolare i bambini e le ragazze, spesso vittime di rapimento anche a scopo di sfruttamento sessuale. Tuttavia, questo coraggio è costato la vita a più di 100 insegnanti fino a oggi. Secondo gli ultimi dati ufficiali elaborati dalla Commissione nazionale per i diritti umani dell’Honduras, solamente tra il 2010 e il 2017, las maras hanno ucciso 90 docenti.

Lo sa bene il preside Alberto Herrera (nome di fantasia, ndr), 52 anni di età e 32 anni di servizio nelle scuole, prima come maestro e negli ultimi anni come direttore didattico, che più di una volta nella sua vita ha dovuto ascoltare alla radio o leggere sui giornali la triste notizia dell’omicidio di un collega.
«Il problema è che alcuni studenti sono figli dei leader delle bande. In questo caso dobbiamo fare molta attenzione, perché spesso i genitori ci insultano, ci minacciano o ci aggrediscono se diamo un brutto voto a uno dei loro ragazzi – racconta Alberto -. Qualche anno fa, un’insegnante ha cercato di placare una rissa tra due ragazze e il padre di una di loro ha interpretato questa intromissione come un’umiliazione, per cui si è presentato a scuola e ha sparato al collega di fronte agli studenti durante l’intervallo».

In fuga dalle città

Rischiare la vita per fare il proprio mestiere non è accettabile per nessuno, in particolare per i più giovani, che spesso decidono di abbandonare la professione e la propria casa per sfuggire alle minacce e migrare verso le zone rurali del paese che hanno una percentuale di conflittualità inferiore a quella delle grandi città. Secondo gli ultimi dati dell’Unhcr, l’agenzia delle Nazioni Unite che protegge i diritti dei rifugiati politici e, nel caso dell’Honduras, anche degli sfollati interni, negli ultimi cinque anni, 269 insegnanti hanno deciso di migrare all’interno del paese a causa della violenza delle gang, una violenza che, tra il 2014 e il 2018, ha interessato 247.090 persone honduregne, pari al 2,7% della popolazione.

«Questa gentaglia entra di notte nelle nostre scuole per nascondere armi e droga e di giorno spesso sentiamo il rumore di sparatorie in mezzo alla strada di fronte alla scuola. In questi casi attuiamo il protocollo di sicurezza, che significa rimanere in classe anche fino a sera e lasciare uscire i bambini solamente quando le strade sono libere», continua Pineda.

Rodrigo Pineda e Alberto Herrera sono parte attiva del Comitato di docenti (Comité de docentes), un’organizzazione di insegnanti che si batte per promuovere un’istruzione di qualità e sradicare la violenza dalle scuole. Il Comitato è sostenuto dall’Unhcr e dall’Ong Save the children che, nel 2018, ha prodotto un rapporto di denuncia sulla grave situazione di violenza nelle scuole di cui sono vittime studenti e docenti. Questi ultimi, in Honduras, sono considerati la terza categoria professionale più esposta alle brutalità delle bande. «Gli insegnanti sono tra le vittime designate dalle bande, insieme ai gestori dei trasporti pubblico-privati e agli imprenditori – afferma Vanessa Paguada, coordinatrice di Save the children del progetto di protezione dei bambini e dei giovani, in collaborazione con l’Unhcr – i professori subiscono vari tipi di abusi, tra cui estorsione, furto e violenze fisiche o sessuali. Il fatto è che le bande li vedono come un ostacolo da eliminare perché si oppongono al reclutamento dei giovani. In qualche modo sfidano le bande proteggendo i ragazzi e questo affronto è inaccettabile per il codice d’onore delle maras».

Uomini della polizia honduregna arrestano membri appartenenti alla Mara Salvatrucha (Ms-13) a San Pedro Sula (17 febbraio 2017). Foto Jordan Perdomo – AFP.

Collusione polizia e «maras»

Neppure durante la pandemia c’è stata pace, molti insegnanti, infatti, sono stati vittime anche di violenza informatica e di estorsioni online. «Questi criminali sono arrivati a chiederci anche di ricaricare le loro carte di credito e di pagare internet ai loro figli. Ovviamente – spiega il professor Pineda – lo abbiamo fatto, perché temiamo per la nostra vita e soprattutto per quella dei nostri figli e delle nostre famiglie. Il problema è che non possiamo neppure denunciare, perché tutti qui sanno che la polizia è collusa con le maras. Anzi, spesso alcuni pandilleros diventano poliziotti. Non c’è un luogo libero dalla prevaricazione di queste persone. Sono ovunque».

La mancanza di fiducia nelle istituzioni trova una ragione in più nel recente arresto, e successiva estradizione, dell’ex presidente Juan Orlando Hernández, accusato dagli Stati Uniti di legami diretti con il narcotraffico.

Durante il suo mandato, Hernández ha ordinato la militarizzazione di numerosi centri educativi, in seguito alla morte di alcuni docenti e studenti.

«Lo stato fornisce misure palliative, ma non ha mai provato a risolvere il problema alla radice. La polizia rimane a pattugliare le scuole per un po’ e poi se ne va, lasciando il campo libero alle maras, che tornano più forti e arrabbiate di prima e la violenza contro di noi e gli studenti aumenta», spiega Alberto Herrera.

Di fatto la militarizzazione del territorio voluta dall’ex presidente ha spesso portato a scontri tra esercito e pandillas che hanno coinvolto anche passanti, gente comune e studenti, braccati sotto un fuoco incrociato. Questa situazione di guerra latente ha trasformato le strade dei quartieri più poveri di Tegucigalpa in veri e propri campi di battaglia senza né vinti né vincitori, ma con un numero elevato di morti innocenti.

Record di morti

I bambini e i giovani che rifiutano il reclutamento forzato stanno di fatto sfidando – anche inconsapevolmente – i capi delle bande, che puniscono questa audacia con la morte. Una vita breve però fa parte del destino anche di chi invece sceglie di unirsi a una banda, perché è consuetudine che siano proprio i più giovani e inesperti pandilleros a essere uccisi in rapine e scontri con la polizia. Con un tasso di 30 omicidi di minori ogni 100mila abitanti, l’Honduras detiene il record mondiale di bambini e adolescenti assassinati, secondo quanto riportato da un’indagine svolta da Save the children nel 2017.

Intrappolati in una situazione di violenza claustrofobica, molti giovani honduregni sono costretti ad abbandonare la scuola e le loro case e a scappare da un parente prossimo che vive in zone rurali del paese, o, più frequentemente, verso gli Stati Uniti, sommandosi all’enorme numero di minori non accompagnati che migrano dall’America Centrale.

Secondo gli ultimi dati della US Customs and border protection, l’agenzia di dogana degli Stati Uniti, da ottobre a maggio 2022 sono arrivati alla frontiera meridionale più di 100mila minori in viaggio da soli, il 23% dei quali sono honduregni.

Membro di una banda mostra la pistola. Foto Nathan Costa – Unsplash.

Dispersione scolastica

Negli ultimi due anni, in Honduras il tasso di dispersione scolastica è salito alle stelle. Circa il 40% degli studenti, infatti, ha abbandonato la scuola nel 2020, a causa dell’insicurezza, ma anche del peggioramento delle condizioni economiche dovuto alla pandemia e agli effetti degli uragani Eta e Iota (del novembre 2020). Oggi il 70% della popolazione honduregna vive in situazione di povertà.

In questo panorama, un buon numero di studenti di Rodrigo e Alberto ha lasciato la scuola per iniziare a lavorare informalmente, altri sono rimasti e alcuni sono migrati, ma sono riusciti a frequentare le lezioni collegandosi online dai campi di migranti in Messico, riuscendo addirittura a terminare l’anno scolastico. «Io dico sempre che noi docenti cerchiamo di fare un buon lavoro in mezzo a un campo minato. Provo una grande soddisfazione quando incontro ex studenti che sono già adulti e hanno terminato gli studi e ora lavorano onestamente, o quando vedo un bambino che partecipa alle lezioni nonostante stia migrando da solo verso gli Stati Uniti. Per loro e solo per loro continuiamo a rischiare la vita e a lottare per fare in modo che abbiano la migliore educazione possibile anche in mezzo a tutte queste difficoltà», conclude Alberto Herrera.

Simona Carnino

Aggregazione di giovani su una strada. Foto Brian Lundquist – Unsplash.


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