Gambia: Piccolo paese, grandi speranze


Testi di ANDREA DE GEORGIO, foto di LUCA PISTONE |


È passato un anno da quando il dittatore Yahya Jammeh è stato costretto a lasciare il paese, il Gambia. Una democrazia quanto mai voluta dal popolo che, per una volta, ha vinto. Ma le sfide di oggi sono tante, tra disoccupazione e ricerca di un futuro, vissute anche dai migranti «politici» che stanno rientrando a casa. Reportage da uno dei paesi più sconosciuti d’Africa.

Banjul, Gambia. Questa è la storia della più giovane democrazia africana. È il 21 gennaio 2017. Le immagini dell’ex presidente Yahya Jammeh che, a testa bassa, sale su un aereo per lasciare il paese fanno il giro del mondo e il Gambia, piccolo stato dell’Africa occidentale rimasto finora anonimo, riempie i titoli dei media internazionali. Il giorno in cui il dittatore viene costretto a lasciare il potere dopo 22 anni di sanguinario regime totalitario è rimasto impresso nella memoria collettiva del Gambia, paese che oggi, a un anno da tale storico evento, cerca a fatica di rinsaldare il patto sociale fra politici e cittadini e rilanciare un’economia disastrata da troppi anni di corruzione e nepotismo.

Il più piccolo stato dell’Africa continentale (vedi box), geograficamente circondato dal Senegal – con cui, dal 1982 al 1989, ha formato il Senegambia – è stato creato da un accordo tra Francia e Inghilterra nel 1889 prima di diventare, cinque anni più tardi, un protettorato inglese a tutti gli effetti. Ottenuta l’indipendenza nel 1965 dalla madrepatria coloniale, il Gambia ha successivamente vissuto decenni di relativa libertà, incarnando per lungo tempo un raro esempio di stabilità nella regione. Nel 1994, però, Yahya Jammeh sale al potere con un colpo di stato militare e sul paese cala una grigia coltre di repressione e terrore. Nel 2013, poi, il satrapo esce dal Commonwealth e due anni più tardi dichiara la nascita della Repubblica islamica per «affrancarsi dal giogo neocoloniale».

Tempi duri per la stampa

Banjul, capitale del Gambia, è oggi una città divisa in due. Da una parte il centro amministrativo del paese, con parlamento, ministeri, tribunali, prigioni e caserme. Dall’altra, collegata da un ponte e una strada, costellata di posti di blocco, che corre lungo l’Oceano, abitazioni, hotel, ristoranti, mercati e negozi. Mentre il cuore politico della capitale si riempie e si svuota di uomini in giacca e cravatta al ritmo degli orari d’ufficio, i quartieri residenziali sono costantemente brulicanti di vita, musica, luci, bambini e traffico.

«Uno dei lasciti tangibili dello stato di polizia è la separazione fra classe politica e persone comuni». Va dritto al sodo Buabacar Ceesay. Questo giornalista sulla quarantina è la miglior guida della città: cappellino da pescatore con visiera alzata, sorriso conciliante e telecamerina sempre in mano. «Più di venti fra i migliori giornalisti gambiani, quelli con maggiore esperienza e spirito critico, sono stati costretti all’esilio in Senegal, Olanda, Germania… io e altri invece, nonostante le minacce e le incarcerazioni subite, abbiamo deciso di restare per cercare di colmare il vuoto di libertà di stampa nel paese». In passato eletto vicepresidente dell’Ordine dei giornalisti gambiani, oggi Ceesay è freelance per scelta. Ha molte collaborazioni nazionali e internazionali. Negli ultimi anni ha scritto anche per Foroyaa, «l’occhio pubblico», giornale più volte chiuso da Yahya Jammeh insieme a molti altri media indipendenti. «Durante il vecchio regime, peggio della censura era l’autocensura che i giornalisti esercitavano su se stessi per evitare problemi», racconta Buabacar mostrando fiero la sua piccola scrivania e il computer nella redazione del quotidiano «sovversivo». «Prima usavamo media stranieri, blog, siti web e social network per aggirare i controlli degli uomini di Jammeh». A quei tempi gli informatori del potere erano dappertutto e bastava una critica per essere arrestati o sparire per sempre.

Social media per la rivolta

Le nuove tecnologie e i social media giocano un ruolo cruciale durante le manifestazioni di aprile 2016 quando il malcontento generale straripa in vista delle elezioni presidenziali. Per la prima volta, infatti, immagini di arresti e torture dei manifestanti vengono mostrate al paese e al mondo intero, creando un inarrestabile effetto domino che porterà, mesi dopo, alla caduta del sovrano. L’uccisione di Solo Sandeng, attivista brutalmente trucidato dagli uomini della National Intelligence Agency (Nia, la polizia segreta) rappresenta il punto di non ritorno. Repressi i moti popolari nel sangue e riempite le carceri, Yahya Jammeh si presenta alle elezioni del dicembre 2016 per il quinto mandato consecutivo, come sempre sicuro di vincere. Le urne invece indicano il 43.33% delle preferenze per il Partito democratico unito (Udp, sigla in inglese), coalizione delle forze socialdemocratiche d’opposizione guidato da Adama Barrow, e solo il 39.6% per l’Alleanza Patriottica per il Riorientamento e la Costruzione (Aprc), partito di Jammeh, per anni unica formazione politica ammessa alle elezioni. Un risultato storico e inaspettato che il padre-padrone del Gambia non accetta. Minacciando di scatenare gli oltre tremila ribelli della Casamance, regione indipendentista del Sud del Senegal con cui il Gambia mantiene da anni relazioni pericolose, il dittatore «fiero di esserlo» – come dichiarò pochi mesi prima delle elezioni in un’intervista alla rivista Jeune Afrique – si rifiuta di lasciare il potere e costringe all’esilio il rivale Adama Barrow. Questo uomo d’affari scelto come capofila della coalizione d’opposizione, si rifugia a Dakar aspettando di poter rientrare nel paese da nuovo legittimo presidente.

Il popolo ha deciso

Il Senegal, potenza regionale che da anni aspettava il pretesto per sconfinare in Gambia, chiede e ottiene dalla Comunità economica degli stati dell’Africa occidentale (Cedeao) la guida di una missione africana per evitare la degenerazione in una violenta guerra civile. In quei concitati giorni la popolazione di Banjul non smette di protestare, sfidando pacificamente la disperata e spietata repressione di un regime dai giorni contati.

Finalmente il dittatore cede alle pressioni internazionali e lascia il potere e il paese (21 gennaio). Il legittimo presidente Barrow può insediarsi il 26 gennaio.

Simbolo del sollevamento gambiano è l’hashtag #GambiaHasDecided, «Il Gambia ha deciso», frase pronunciata da Adama Barrow e ripresa sulle magliette di migliaia di manifestanti. Quelle magliette, che oggi si vedono persino sulle statue cittadine, sono state stampate clandestinamente da Tidjane Barrow, artista poco conosciuto in Gambia (finora) che porta lo stesso cognome del primo presidente democraticamente eletto. «Erano i primi di gennaio quando, un pomeriggio, degli uomini armati hanno fatto irruzione nel mio laboratorio. Ero solo, per fortuna. I miei amici erano in piazza a regalare le magliette alla gente». Dopo averlo picchiato e arrestato, gli uomini della Nia danno fuoco alla sua piccola stamperia fai-da-te. «Eravamo stanchi di vivere nella paura, così ci siamo ribellati cambiando le cose pacificamente, con mezzi democratici. Questo significa il messaggio sulle magliette: per la prima volta abbiamo deciso liberamente da chi vogliamo essere governati». Mentre parla, questo ragazzo non smette un attimo di montare telai di legno, attaccare scotch, ritagliare carta e spennellare colori su lembi di cotone. Nell’abitazione dei suoi genitori, nido di fortuna della sua arte, risuona musica reggae, il viavai di amici è senza sosta. I nuovi slogan stampati oggi dal giovane Barrow sono segno che i tempi cambiano velocemente: «A new Gambia is possible» (un nuovo Gambia è possibile). Dopo aver scelto, infatti, il Gambia oggi si confronta con i problemi socioeconomici propri di uno stato appena liberato da una cappa totalitaria lunga decenni.

Le sfide di Barrow

Usciti dalla casa dell’artista, Buabacar ha lo sguardo interdetto. «Nonostante molti cittadini gambiani auto-esiliati negli ultimi anni stiano tornando nel paese e nonostante l’impegno infaticabile della nostra gioventù, viviamo ancora molti timori e incertezze». La preoccupazione maggiore dei gambiani resta senza dubbio l’alto tasso di disoccupazione che, attestato al 29%, per i più giovani sfiora oggi il 40%. Il governo Barrow è consapevole del fossato da riempire e dell’urgenza percepita dai suoi elettori, ma stenta a trovare una via d’uscita dal baratro di un debito pubblico schizzato a oltre il 120% del Pil. Riconfermata la fiducia della propria base politica alle elezioni parlamentari del 6 aprile 2017 – 31 seggi all’Udp e 5 alla formazione di Jammeh – il nuovo esecutivo ha partecipato a novembre a importanti forum economici a Londra, Parigi e Dubai in cui ha invocato l’aiuto degli investimenti privati per salvare il Gambia dalla recessione. Accusando l’ex sovrano di aver svuotato le casse pubbliche appena prima di abbandonare il paese (un’inchiesta nazionale è in corso), Adama Barrow appare troppo isolato per poter incidere sul futuro del Gambia. E a Banjul le immagini del nuovo presidente che sui muri accompagnavano le scritte anti Jammeh durante i mesi delle sommosse popolari, cominciano a sbiadire o, peggio, ad essere deturpate dalle stesse mani che le avevano dipinte.

Nella sede centrale del partito di Barrow, una palazzina di due piani in un quartiere residenziale della capitale, le riunioni si susseguono concitate. La nomina dei nuovi parlamentari dell’aprile scorso ha rafforzato la maggioranza al potere, ma fratture interne e litigi restano all’ordine del giorno. Non ne fa mistero Fatoumata Jawara, giovane attivista dell’Udp passata nel giro di pochi mesi dal carcere al Parlamento. «Dobbiamo dare ascolto e risposte concrete ai nostri cittadini e smetterla una volta per tutte con i proclama e la mera teoria politica». Il suo discorso non è cambiato da quando urlava slogan contro il sovrano e, durante i tumulti di aprile 2016, è stata arrestata insieme all’amico Solo Sandeng, martire delle sollevazioni, e a una trentina di altri manifestanti. Violentata e picchiata dietro le sbarre, Fatoumata mantiene intatta la voglia di denunciare. «Non avrei mai accettato incarichi politici durante il vecchio regime, ma da quando Jammeh è partito ho cominciato a credere nel valore della buona politica al servizio delle persone. Per questo ho deciso di presentarmi alle prime elezioni parlamentari libere del nostro paese». Nel nuovo esecutivo di Barrow diverse donne ricoprono incarichi importanti. La vice presidenza, ad esempio, è stata affidata a Fatoumata Jallow Tambajang. «La gente ha scelto facce nuove come la mia per dare un segnale forte alla classe politica. Dobbiamo lottare per i diritti di tutti, compresi quelli delle donne gambiane che ancora piangono in silenzio, dentro e fuori i confini nazionali», chiosa Fatoumata Jawara prima di correre a un’altra riunione del partito. 

Opposizione e nostalgici

Il perdurare di tale malcontento verso la lentezza del nuovo governo è terreno fertile per le forze reazionarie dell’Aprc, ex partito unico che Barrow, per evitare una pericolosa radicalizzazione del conflitto interno, ha deciso di non mettere al bando. Nostalgici sostenitori di Jammeh e ricchi uomini d’affari periodicamente organizzano ritrovi elettorali nei quartieri periferici della capitale. Centinaia di persone vestite di verde – il colore dell’Islam, religione a cui Jammeh si è sempre richiamato – ballano musica sparata da grandi altoparlanti, agitano immagini dell’ex dittatore e ne invocano a gran voce il ritorno dalla Guinea Equatoriale, sede del suo esilio forzato. Persino il suo ex ministro della comunicazione, un giovane diventato a gennaio il portavoce ufficiale di Jammeh nel paese, prende la parola e aizza la folla denunciando «il malgoverno degli amici di Barrow».

Migranti di ritorno

Ceesay sdegnato ferma un taxi per rientrare in città. Nell’abitacolo si abbandona a un pensiero solenne: «Il valore più importante che abbiamo imparato l’anno scorso è che i politici sono al nostro servizio, non il contrario. Si presentano alle elezioni e vengono legittimati dal voto della gente comune, che affida loro il compito di governare lo stato nel proprio interesse. Se questo principio basilare verrà assorbito da tutti gli strati della società, allora in Gambia avremo una vera democrazia che proteggerà la giustizia sociale e non potrà più essere rovesciata da nessun potere autoritario». Il tassista, rimasto finora silente, annuisce dal retrovisore. È un ex migrante rientrato a seguito della fuga del dittatore. «Sono stato dieci anni in Italia. Facevo molti lavoretti, persino illegali, per sopravvivere», confessa. Negli anni del regime, migliaia di giovani come lui hanno tentato la «back way». Così viene chiamata in Gambia l’avventura migratoria verso il «sogno europeo». Solo nel 2016 sono entrati illegalmente in Italia 11.929 migranti provenienti da questo paese che, nonostante una popolazione totale di appena 1.8 milioni di abitanti, da diversi anni occupa i primi posti negli arrivi di subsahariani in Europa. Stando ai dati dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) del settembre scorso, a fronte di 1.979 gambiani registrati in Libia, 1.119 fra loro sono stati ricondotti a casa. Accordi con l’Unione europea (parte del cosiddetto Fondo Fiduciario) prevedono 13 milioni di euro di aiuti allo sviluppo a patto che il Gambia firmi accordi per il rimpatrio, sempre ufficialmente smentiti dal nuovo governo locale. Proprio come questo tassista, però, sono in molti ad avere volontariamente deciso di tornare a casa nella speranza di un nuovo inizio. «Dopo aver visto quello che stava succedendo nel mio paese ho deciso di rientrare, ma non è facile» taglia corto il giovane.

Guardatevi da lui

Prima di lasciarci, Buabacar Ceesay vuole presentarci un’ultima persona. «Vi farà capire una volta per tutte quanto brutale è stata la repressione di Jammeh». Incontriamo Landing Sanneh sulle imponenti gradinate del centro amministrativo di Banjul costruite per le parate militari del vecchio regime. Appena accesa la telecamera questo discreto signore oltre la cinquantina comincia a raccontare la sua assurda vicenda. Cugino di secondo grado di Jammeh, Sanneh ha ricoperto incarichi di rilievo nella sicurezza, diventando capo della guardia presidenziale. Ma essere troppo vicini a un dittatore schizofrenico può diventare pericoloso. «Un giorno i militari hanno circondato la mia casa. Sono uscito con le mani in alto e mi hanno sparato», dice mostrando il segno della pallottola che gli ha attraversato il braccio destro. Sospettato di un tentato colpo di stato e mai processato, Landing Sanneh passa 15 anni e mezzo nel «Mile 2», blocco speciale della Nia tristemente famoso all’interno del carcere di Banjul. «Mi avevano condannato a 16 anni. Poi “lui” mi ha graziato, risparmiandomi gli ultimi sei mesi di reclusione». Non nomina quasi mai Jammeh e quando lo fa si guarda istintivamente le spalle. È uno dei testimoni chiave della Corte penale internazionale (Cpi) che sta indagando sui crimini dell’ex presidente del Gambia e, per paura di ritorsioni, non aveva mai raccontato la propria storia a dei giornalisti prima d’ora. «Le persone che ancora lo sostengono stanno difendendo un mostro, una persona davvero malvagia», s’indigna alzando la voce. Racconta delle torture: «Mi hanno fatto il waterboarding per diversi giorni consecutivi», mostrandone i segni indelebili su corpo e anima. All’improvviso scoppia a piangere e chiede una pausa. «Anche se credo che Dio mi abbia lasciato in vita per raccontare quello che mi è successo, mi fa male parlarne. Mi tornano alla mente gli incubi del carcere». Poi fissa il vuoto e comincia a recitare una lunga lista di nomi. Sono prigionieri politici, suoi compagni di detenzione scomparsi durante gli ultimi anni, i più violenti della dittatura. Sono i «desaparecidos» del Gambia, secondo lui «decine di persone uccise e fatte sparire, dati in pasto ai coccodrilli per occultare le prove». Le sue parole rompono l’assordante silenzio circostante: «Chi ancora mette in dubbio la natura sanguinaria dello stato di polizia che vigeva in Gambia, parli con le famiglie che non hanno ancora potuto seppellire il corpo dei propri cari». Conclude dicendo: «Il nuovo governo ora deve garantire benessere, giustizia e libertà alla sua gente. Per questo è stato eletto. A noi gambiani non resta che gioire della fine della dittatura e pregare Dio che atrocità come quelle che abbiamo vissuto non si ripetano mai più, né qui né altrove». Quello storico giorno dell’anno scorso, che forse appare già dissolto dalle difficoltà odierne, Landing Sanneh ha alzato gli occhi al cielo del Gambia e, osservando insieme a una folla di cittadini festanti l’aereo che portava lontano Yahya Jammeh, si è sentito finalmente libero.

Andrea De Georgio




Esportare la libertà religiosa


Testo di Luca Lorusso |


Gli Usa pensano di avere una missione da compiere nel mondo. È l’eccezionalismo americano che si manifesta con la politica estera statunitense.
Anche la libertà religiosa ne è strumento e fine. Altri – come l’Ue – ne hanno seguito l’esempio. Ma dopo anni di ascesa del modello Usa di tutela della
libertà religiosa, oggi si registra un declino. Ne abbiamo parlato con Pasquale Annicchino, ricercatore presso l’European University Institute di Fiesole.

Sono le 12 di venerdì 24 novembre 2017. Una bomba esplode dentro una moschea uccidendo decine di persone. I fedeli sufi scappano, ma fuori ci sono miliziani del Daesh che sparano sulla folla. Rimangono a terra 305 corpi, tra cui 27 di bambini.

Il sufismo è la via mistica dell’Islam, considerato dagli islamisti come un’eresia da combattere. La moschea al-Rawdah si trova a Bir al-Abed, nel Nord del Sinai.

È la strage più sanguinosa degli ultimi anni in Egitto, è uno dei troppi esempi di violenza nel mondo contro chi professa un credo religioso.

Non passa giorno, infatti, senza che il diritto di libertà religiosa subisca violazioni in Medio Oriente come in Asia, in Africa come in Europa o in America. Si parla dei Rohingya del Myanmar, musulmani apolidi perseguitati in un paese buddista. Si è parlato dei Copti in Egitto, dei Testimoni di Geova in Russia, delle politiche restrittive di paesi come la Cina o la Corea del Nord o il Pakistan.

In questo scenario il diritto di libertà religiosa è diventato un fine e, più spesso, uno strumento di vere e proprie strategie di politica estera. In primis da parte degli Usa, ma anche dell’Ue e, con accenti piuttosto differenti, di altri paesi non appartenenti al blocco occidentale come la Russia o quelli riuniti nell’organizzazione della Conferenza islamica.

Ne abbiamo parlato con Pasquale Annicchino, ricercatore dell’European University Institute di Fiesole, autore del volume Esportare la libertà religiosa, edito dal Mulino nel 2015 e ora in lingua inglese dalla britannica Routlege.

Prof. Annicchino, sembra che il pericolo per la libertà religiosa nel mondo aumenti. Anche lei ha questa impressione?

«È più di una percezione. Abbiamo dati scientifici a tal proposito dai quali non possiamo prescindere. Faccio riferimento soprattutto ai report del Pew Forum. I loro dati indicano che nel mondo sono aumentate le restrizioni alla libertà religiosa mediante gli interventi legislativi dei diversi stati e che sono ugualmente aumentate le ostilità sociali a sfondo religioso.

Per quanto riguarda le norme che restringono la portata delle attività dei gruppi religiosi o del singolo fedele possiamo fare diversi esempi: le restrizioni volute dal partito comunista cinese, non solo rispetto al tema delle nomine dei vescovi cattolici che devono essere per forza approvate dal Pcc; le leggi anticonversione indiane (a dimostrazione del fatto che questo non è un problema legato ai soli paesi islamici, come spesso si tende a credere); la messa al bando, in Russia, di interi gruppi religiosi come ad esempio i testimoni di Geova, quasi in nome della sicurezza nazionale».

Il suo libro propone una tesi di fondo: negli ultimi 20 anni gli Usa hanno messo il tema della libertà religiosa come punto focale della loro politica estera.

«Tenuto conto del mio profilo scientifico concentro la mia analisi sull’International religious freedom act (Irfa), la legge approvata dal Congresso degli Usa nel 1998 che riguarda proprio la tutela e la promozione del diritto di libertà religiosa nel mondo. Nel mio studio provo a mostrare come quel modello, nel bene e nel male, abbia avuto una sua diffusione. Tanto è vero che altri paesi, soprattutto occidentali, tra cui Canada, Ue, Inghilterra, Olanda, hanno provato a fare qualcosa di simile segnalando che la libertà religiosa è importante.

Anche il governo italiano lo ha fatto: ricordiamo il caso di Mariam Ibrahim che, in Sudan, era stata incarcerata e fatta partorire in carcere, perché accusata di essersi convertita dall’islam al cristianesimo. Ora vive negli Usa anche grazie all’Italia.

Ovviamente, non sostengo che il modello americano abbia sempre funzionato, anzi, nel libro faccio esempi di palesi doppi standard di applicazione da parte degli Usa: ci sono paesi che violano il diritto di libertà religiosa che, per ragioni di real politik, non vengono sanzionati.

Io penso, però, che non si possa pretendere che i paesi privilegino la libertà religiosa in qualsiasi loro azione nei confronti di altri paesi. Privilegiarla sempre potrebbe anche portare a delle reazioni che sul lungo periodo danneggerebbero la libertà religiosa stessa. Se uno stato sta sempre col dito puntato sulla Cina, o altri paesi, dicendo: “Noi non facciamo nulla con voi fin quando voi non garantite il nostro stesso livello di tutela della libertà religiosa”, io credo che si possa bloccare un processo di dialogo.

Bisogna guardare a questi temi nell’ottica di un processo e non di un singolo atto».

Nel suo libro, lei lega questa azione degli Usa all’eccezionalismo statunitense.

«Gli Stati Uniti hanno una precisa autorappresentazione di se stessi: si vedono come un modello di comportamento per gli altri paesi del mondo. Ed essendo un paese in cui la narrazione del valore della libertà religiosa è importante, un paese fondato da dissidenti religiosi, il dibattito interno sul tema ha sempre avuto una sua centralità. Gli Usa hanno vissuto un processo lungo e travagliato per garantire la tutela della libertà religiosa internamente. Poi hanno recuperato il tema anche in chiave di politica estera, dicendo: “Questo è per noi uno dei diritti fondamentali e pensiamo che anche altri paesi possano far assurgere questo diritto a elemento centrale delle loro politiche”.

Per gli Usa la libertà religiosa non è un diritto tra molti, ma il fondamento di tutti gli altri, tanto è vero che F. D. Roosevelt, quando viene approvata la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo nel ‘48, identifica nella libertà religiosa una delle quattro libertà fondamentali (libertà di espressione, di culto, libertà dal bisogno e dalla paura, ndr)».

Quali sono gli strumenti che si sono dati gli Usa con la legge del ‘98 per tutelare la libertà religiosa nel mondo?

«L’Irfa è una legge molto complessa. Ci sono due tipologie di strumenti fondamentali: la prima è quella diplomatica classica, con tutta un’attività di comunicazione del Dipartimento di stato su altri paesi, affinché vengano garantiti alcuni diritti, e con le sanzioni vere e proprie, cioè il riconoscimento di status economici più o meno vantaggiosi. La seconda è quella delle sanzioni su singoli individui violatori del diritto di libertà religiosa. Un esempio è quello di Narendra Modi: ai tempi in cui era governatore dello stato indiano del Gujarat, ci furono violenze contro la minoranza musulmana e fu accertata dal governo degli Usa la sua responsabilità. A Modi fu interdetto l’ingresso negli Usa. Sanzione su singolo individuo che fu revocata quando Modi fu eletto primo ministro dell’India».

Ci sono dei risultati positivi di questa politica estera?

«Gli esperti hanno una doppia valutazione: da una parte è vero che su singoli casi è stato possibile salvare delle persone, dall’altra però, come tendenza generale, questa azione non ha garantito un abbassamento dei livelli di violazione del diritto alla libertà religiosa. Secondo me anche perché, rispetto al ‘98, viviamo in un mondo molto diverso, nel quale sono aumentate soprattutto le ostilità sociali rispetto alle minoranze religiose. Nel ‘98, ad esempio, non avevamo il dibattito che abbiamo oggi sui populismi e il ritorno degli identitarismi nazionali. Quello che gli scienziati sociali misuravano nel ‘98 è molto diverso da quello che misuriamo oggi. Nel ‘98 la chiesa ortodossa russa non aveva il ruolo centrale nella costruzione dell’identità nazionale che ha oggi in Russia. Nel ‘98 l’induismo indiano non era al governo e non premeva per la produzione di norme contrarie ai diritti delle altre minoranze religiose, e così via».

© European Union 2015 – European Parliament | Pietro Naj-Oleari

La politica degli Usa sulla libertà religiosa nel mondo è stata imitata da vari paesi, tra cui l’Ue. In cosa si è distinta dagli Usa?

«Si è distinta a livello burocratico. L’Ue ha approvato delle linee guida per un’azione di soft law, cioè senza la creazione di grandi apparati burocratici, ma inserendo la libertà religiosa nella politica estera già esistente dell’Ue. Negli Usa, con l’Irfa si è creata una vera e propria commissione specializzata che fa solo quello, la Uscirf, si è creato tutto un meccanismo all’interno del Dipartimento di stato, si sono previsti due rapporti annuali sulla libertà religiosa nel mondo, si prevedono dei meccanismi per indicare quali sono i paesi che violano seriamente il diritto di libertà religiosa… Anche nell’Ue si è creato pochi anni fa un intergruppo parlamentare per la libertà religiosa che produce un suo rapporto annuale (Forb, ndr), ma sono storie diverse, anche dal punto di vista della narrazione ideale. Il dibattito sulla libertà religiosa e sulla religione in quanto tale non ha, a livello istituzionale nell’Ue, la stessa centralità che ha all’interno dell’impianto costituzionale Usa, dove il diritto di libertà religiosa è garantito addirittura dal primo emendamento costituzionale (1791), quindi è il diritto che viene, almeno descrittivamente, prima degli altri».

L’arrivo di Trump ha cambiato qualcosa?

«Parzialmente. Obama, soprattutto durante il periodo in cui Hillary Clinton era segretario di Stato, non premeva molto per la tutela del diritto di libertà religiosa. Trump, essendo stato portato alla presidenza anche da tantissimi voti di gruppi religiosi, soprattutto evangelici, ha premuto molto su questo tasto e sono previsti nuovi fondi a favore del Dipartimento di stato per la tutela di questo diritto».

Sembra però che la grande attenzione degli Usa per la libertà religiosa sia più rivolta all’estero che all’interno.

«Da un punto di vista formale, questo è il mandato che l’Irfa dà al Dipartimento di stato. Non è prevista un’indagine interna sullo stato della libertà religiosa negli Usa. È prevista solo un’azione esterna. Questa è una delle obiezioni classiche: “Voi guardate solo fuori e non guardate dentro”. Però qui parliamo di una politica concepita come politica estera. Per l’interno ci sono altri dipartimenti, altri ministeri e altre istituzioni.

Un’altra obiezione che viene fatta, soprattutto dai russi e dai paesi musulmani, suona così: “Voi pretendete di vagliare con i vostri standard occidentali il modo in cui viene rispettata la libertà religiosa in altri paesi che non hanno i vostri standard o, addirittura, non hanno i vostri valori”. Questo porta alcuni studiosi a parlare di “impossibilità della libertà religiosa”. Qui sorge a mio modo di vedere un problema di relativismo. “Ogni paese ha i suoi valori e quindi è difficile avere un discorso universale sul diritto di libertà religiosa”. Ma se una persona viene incarcerata perché si converte, qualsiasi sia la sua fede, io credo che sia possibile essere universalmente d’accordo che è ingiusto. A livello di tutele minime credo che sia necessario un discorso globale su questi temi, e credo che sia legittima l’attività di pressione da parte di alcuni stati per garantire, appunto, almeno le tutele minime. Non credo che si possa essere accusati di imperialismo perché si salva una persona che altrimenti viene costretta a partorire in carcere a causa della sua conversione».

AFP PHOTO / THOMAS SAMSON

I paesi islamici e la Russia ortodossa criticano questo approccio degli Usa perché hanno un’idea di libertà religiosa differente. Ci può spiegare quali sono i distinguo fondamentali?

«Uno dei problemi principali con i paesi islamici (non con l’islam) è sicuramente quello relativo alla facoltà di conversione. In alcuni paesi ci sono addirittura delle norme penali che prevedono l’incarcerazione.

In Russia invece c’è una problematica che riguarda la tutela delle minoranze religiose e la loro facoltà di operare, soprattutto dal punto di vista del proselitismo. Ad esempio verso i testimoni di Geova c’è stata una notevole azione dei servizi di sicurezza della federazione russa. Queste azioni portano a rendere inoperative le minoranze religiose. Tutto ciò dipende anche da una certa evoluzione teologica interna alla chiesa ortodossa russa che è maggioritaria, territoriale e nazionale e che influenza le politiche legislative dello stato. Venuto meno il collante dell’ideologia comunista, infatti, tantissima parte della costruzione del dibattito pubblico nella federazione russa si basa oggi, a mio modo di vedere, solo su questa pseudo identità collettiva ortodossa».

A volte la libertà religiosa non viene osteggiata in quanto tale, ma presa e utilizzata per un uso contrario. Pensiamo all’esempio del Pakistan che per difendere le sue leggi sulla blasfemia ricorre al concetto di tutela della religione.

«Anche qui c’è un problema teorico. In questo caso, come in altri casi di paesi musulmani, il diritto umano alla libertà religiosa viene inteso come diritto della religione in quanto tale ad essere tutelata. Ma questo non risponde agli standard internazionali di tutela che prevedono che i diritti umani siano diritti degli individui, non delle idee. L’idea in quanto tale non gode di protezione, soprattutto in un’ottica di tutela della libertà di espressione. Se si legittimano sanzioni penali per la blasfemia, questo può portare a punire anche casi in cui non vi siano offese della religione, ma soltanto descrizioni ritenute non veritiere dal detentore del sapere teologico».

Sempre sull’utilizzo della libertà religiosa a fini politici, nel suo libro fa l’esempio della guerra in Siria nella quale la Russia dice di sostenere il regime anche per tutelare la libertà religiosa delle minoranze cristiane protette da Bashar al-Assad.

«Anche lì la dinamica è la stessa. La cosa interessante è che, mentre spesso la Russia critica gli Stati Uniti perché nei rapporti statunitensi viene indicata come paese particolarmente problematico, in questo caso ha una identica veduta d’insieme per quel che riguarda le violazioni anticristiane. C’è una scelta politica che non mi sorprende, essendo la Russia il primo alleato del regime siriano, essa trova nell’istanza della tutela delle minoranze religiose un altro argomento a supporto della sua posizione».

Stringer – Anadolu Agency

Il sottotitolo dell’edizione inglese del suo libro è «ascesa e declino del modello Usa». C’è una fase di «ritirata» della libertà religiosa dall’agenda globale?

«Quello che è cambiato, soprattutto dal punto di vista del dibattito interno Usa, è che non c’è più la stessa visione sul ruolo della libertà religiosa all’interno e all’estero. La legge del ‘98 è stata approvata sostanzialmente all’unanimità dal congresso, nonostante fosse passato pochissimo tempo dall’impeachment di Bill Clinton. Cioè, un congresso profondamente diviso come solo nel caso di un’impeachment può esserlo, è riuscito ad approvare quella legge quasi all’unanimità. Questo vuol dire che il sentimento rispetto alla libertà religiosa era profondamente condiviso. C’era una sua centralità. Oggi non è più così, perché la libertà religiosa viene etichettata come un tema repubblicano o di destra, mentre la tutela di altri diritti, soprattutto i diritti delle minoranze Lgbt, sono associate a istanze più progressiste. Questo rappresenta uno dei segnali più evidenti della polarizzazione che oggi vive il sistema democratico statunitense, ma anche tante democrazie occidentali. Il fatto che la libertà religiosa, da un’istanza condivisa sia trasformata in un’istanza partitica o addirittura identitaria, come alcune esternazioni di Trump lasciano presagire, ne provoca un declino. E poi c’è sempre il problema dei doppi standard, come avviene con l’Arabia saudita, che a lungo andare sottrae credibilità».

A questo punto l’ultima domanda: quale futuro per questo tema a livello internazionale?

«A livello internazionale sicuramente il dibattito non scemerà, anzi, io credo che sia destinato a rimanere centrale, anche grazie al fatto che le nostre società diventano sempre più complesse e sempre più, quindi, realiste, perché dovranno confrontarsi sepre più con diverse istanze religiose. Nel caso italiano basta pensare alle problematiche che pone la presenza oramai di quasi due milioni di fedeli musulmani i quali hanno spesso rapporti molto forti con i loro paesi d’origine.

Mi auguro che i paesi occidentali riescano ad affrontare il tema con un minimo di coerenza. Uno dei principi anche giuridici dell’impianto del diritto dell’Ue è quello della coerenza tra politica interna e politica estera: non si può essere credibili fuori se noi non garantiamo i diritti dentro. E poi spero che ci sia un dibattito anche a livello di organismi internazionali, le Nazioni Unite piuttosto che altri, devono riuscire a coinvolgere quanti più paesi possibile nonostante la diversità di vedute si stia inasprendo.

Luca Lorusso




Algeria: Il metano non dà una mano


Lo sfruttamento spregiudicato del gas

L’Algeria, paese grande produttore di gas, è strategica per l’Europa a causa della sua posizione. Ma lo sfruttamento avviene sempre più con tecniche ad alto impatto ambientale e sociale. È un capitalismo basato sull’estrazione che crea povertà e dipendenza. E la popolazione tenta di ribellarsi. Mentre l’Unione europea resta a guardare.

Hassi R’Mel è la riserva più grande di gas naturale in Algeria, nel centro Nord del paese1. Scoperta nel 1956, insieme al grande campo petrolifero di Hassi Messaoud, è sotto il controllo dell’impresa nazionale Sonatrach. La sua attività di estrazione inizia nel 1961 e già dal 1964 fa dell’Algeria il primo paese esportatore di gas naturale liquefatto (o liquefied natural gas – Lng) verso Marocco, Tunisia, Spagna, Portogallo, Italia. Nel 2011 e 2012 questa energy town è scenario di mobilitazioni sindacali molto forti, sia per le condizioni del lavoro sia in protesta contro il clientelismo e la corruzione.

Una polveriera minacciosa

Negli ultimi anni, i movimenti popolari a cui abbiamo assistito nel Sahara sono in buona parte una insurrezione contro gli effetti del capitalismo fossile, dell’estrattivismo e della sua logica di creazione di povertà e dipendenza. Se si dà un’occhiata alle città del Nord e poi a quelle del Sud dell’Algeria, non si può rimanere indifferenti di fronte al contrasto in termini di disparità di investimenti e servizi, con il Sud abbandonato a se stesso nonostante i giacimenti più fruttuosi si trovino nel suo territorio.

Tuttavia, a differenza di altri paesi come la Tunisia o l’Egitto, l’Algeria non ha visto il crescere di movimenti forti e articolati di opposizione politica.

Probabilmente la memoria della guerra civile che ha seguito il golpe militare degli anni ’90 è ancora molto forte. Una guerra che ha lasciato la popolazione traumatizzata e meno incline a criticare un regime che ha messo fine all’islamismo radicale, seppur a costo di migliaia di vite. In ogni caso il paese sembra avere tutti gli ingredienti di una minacciosa polveriera: autoritarismo, sviluppo diseguale, violazione di diritti umani, una gioventù con educazione (sovvenzionata dalla rendita del petrolio e del gas) ma senza prospettive nel paese, una élite dirigente clientelare e corrotta.

La guerra civile è stata inoltre accompagnata da una campagna di liberalizzazione economica promossa da Fondo monetario internazionale (Fmi) e Banca mondiale (Bm). Per ottenere maggior credito internazionale, il governo algerino ha aperto zone economiche speciali intorno ai campi di estrazione di gas e petrolio. E grazie a queste manovre, imprese come la britannica British Petroleum (Bp), la francese Total, la statunitense Arco, hanno firmato contratti trentennali per lo sfruttamento degli idrocarburi. In nome della sicurezza energetica dei paesi importatori e di quella finanziaria degli investitori, la stabilità del paese non ha prezzo. E se per tal fine è necessaria la militarizzazione e un repressivo apparato di polizia e di intelligence, l’Unione europea non dice nulla.

La benedizione della ricchezza di idrocarburi si è rivelata una maledizione per il paese, ciò che viene chiamata Resource curse (maledizione delle risorse o anche paradosso dell’abbondanza). L’Algeria ha da allora vissuto problemi strutturali gravi, quali altissimi livelli di corruzione, la delicata dipendenza dalle esportazioni, la deindustrializzazione e il disinteresse nel settore agricolo.

Ambiente addio

Ad Hassi R’Mel, scioperi della fame, blocchi stradali e boicottaggi hanno cercato di mettere in luce e denunciare le condizioni di sicurezza del lavoro, salari da fame, favoritismi clientelari e la precarietà dei contratti che portavano spesso a lunghi periodi di disoccupazione. Ai lavoratori di Hassi R’Mel hanno immediatamente fatto eco quelli di Ouargla, forse la più grande energy town oggi in Algeria. Qui, nel 2012, pochi mesi dopo le prime manifestazioni della Primavera araba, la popolazione è scesa nelle strade per denunciare l’emarginazione economica e la mancanza di infrastrutture adeguate per uno sviluppo regionale, nonostante le attività di estrazione di petrolio e gas. Nel 2013, è stato annunciato a Ouargla il primo progetto di sfruttamento di gas secondo la tecnica della fratturazione idraulica2 (fracking), da parte della Total (il fracking è proibito in Francia per l’alto impatto ambientale e sociale, ma viene promosso altrove dalle imprese francesi e molto utilizzato negli Usa), e la popolazione ha cominciato a denunciare gli effetti negativi sui campi e l’inquinamento delle acque. Nel centro della cittadina, al lato del mercato, è stata eretta una tenda da campeggio con un cartello che recita: «La gente ha decretato una moratoria al fracking». Si è creato il Comitato nazionale per al Difesa dei diritti dei disoccupati (Cnddc, nel suo acronimo francese) che mobilita decine di migliaia di persone in Ouargla ma anche in altre località che affrontano vulnerabilità e disoccupazione. Gli attivisti algerini ricordano come nel 1960-61 (prima dell’indipendenza del 1962) la Francia avesse usato Reggane, località nel Sahara algerino, per quattro esperimenti nucleari, i cui effetti sulla salute si percepiscono ancora oggi. Sul fracking, dunque, lo slogan recita «L’Algérie n’est pas une terre d’essais et d’expérimentation pour le gaz de schist» (L’Algeria non è un banco di prova e sperimentazione per il gas di scisto3). Tuttavia, non hanno ricevuto alcuna risposta concreta.

Realpolitik energetica

E ciò non stupisce se si dà un’occhiata alla politica energetica dell’Algeria e al suo commercio estero. Il settore degli idrocarburi rappresenta circa il 60% delle entrate del bilancio totale del paese, quasi il 30% del Pil, e più del 97% provengono dall’export. Per le autorità algerine è di grande importanza mantenere una buona reputazione: essere un fornitore stabile di un prodotto di buona qualità, che garantisce una fornitura continua e senza interruzioni. L’Algeria è in un’ottima posizione geografica e politica per rispondere alla crescente domanda dell’Unione europea (Ue), con la quale è ben collegata con linee di trasporto marittimo in navi cisterna e gasdotti.

Le riserve algerine ammontano a 4,5 miliardi di metri cubi, cosa che mette il paese all’undicesima posizione a livello mondiale e alla seconda in Africa, dopo la Nigeria. Si stima che l’Algeria abbia le riserve di gas di scisto più grandi del mondo.

Più del 90% del gas algerino trasportato in gasdotti va a stati europei, soprattutto Spagna (34%) e Italia (27%), il resto a Marocco e Tunisia come tassazione per il trasporto sul loro territorio. Delle esportazioni come gas liquefatto (Lng), la maggior parte va a Francia (34%), Turchia (23%), Spagna (23%), Italia (9%), Grecia (6%).

Per farsi un’idea dell’importanza della dipendenza dal gas algerino, ricordiamo ancora che rappresenta una buona fetta della domanda domestica di Italia (30%), Spagna (40%) e quasi la metà di quella della Tunisia.

Sicurezza energetica e democrazie

A causa della diminuzione delle riserve nel Mare del Nord e della crisi in Ucraina, l’Unione europea ha stabilito come priorità strategica la diversificazione energetica, all’interno dell’ampio progetto dell’Unione energetica europea (cfr. MC gennaio-febbraio 2017). Tuttavia, la pianificazione gasistica si basa su delle stime al rialzo per quanto riguarda i consumi (che sono in realtà in diminuzione dal 2010 a causa della crisi finanziaria e produttiva ma anche dell’uso di altre fonti). In questo modo vengono costruite infrastrutture con garanzie e fondi pubblici, che poi rimangono sottoutilizzate. D’altro canto, la diversificazione avviene in termini di paesi di origine del gas, ma non discute strade possibili per la promozione di altre fonti o altri tipi di gestione (più comunitaria, democratica, a piccola scala ad esempio).

Nel luglio del 2013 è stato firmato un importante accordo per la cooperazione tra Ue e Algeria, rappresentati dall’allora presidente della Commissione europea José Manuel Barroso e dal primo ministro algerino, Abdelmalek Sellal. Si è sancita così una promettente cooperazione sulle riforme democratiche e sulle politiche di sviluppo. A livello interno in Algeria si è promosso, nella totale opacità, la legge sugli idrocarburi, volta ad attrarre e proteggere investimenti stranieri.

Allo stesso tempo, da parte dell’Unione europea, si continua a mantenere il silenzio in materia di restrizioni delle libertà personali, delle minacce contro attivisti politici, violazioni di diritti umani, contaminazione ambientale, o riguardo la corruzione altissima all’interno della classe dirigente. La sicurezza energetica dell’Unione europea, con il beneplacido delle sue lobby dell’industria delle armi e delle grandi imprese energetiche, resta assicurata.

Ma per gli algerini, la dipendenza dall’esportazione del gas si presenta come un’altra preoccupante forma di accaparramento delle risorse, in cui i benefici derivanti dalla rendita sono concessi alla popolazione attraverso politiche assistenzialistiche, parziali e clientelari.

Manifestazioni anti fracking

Nel 2014 le autorità algerine annunciano la perforazione di pozzi di gas di scisto anche a In Salah, un paesino-oasi nel centro del deserto algerino e sede della potente joint venture tra Bp, Statornil e Sonatrach. Decine di migliaia di algerini manifestano a partire dall’inizio del 2015 in tutto il paese (Salah, Tamanrasset, Ouargla, Ghardaia, Illizi, Adrar, Timimoun, Bordj Baji Mokhtar, Argel, Ain Beida, Oum El Bouaghi, Bejaia e Oran). Il livello delle proteste coglie di sorpresa il governo che comincia a temere per i piani di Total e Shell per il fracking.

Si tollerano diverse marce e proteste pacifiche, fino a quando sabato 17 gennaio 2015 decine di persone sono arrestate ad Algeri per una manifestazione di solidarietà. Le violenze di tale operazione scatenano un’ondata di protesta, che dura più di cinque mesi. Il popolo richiede la sospensione di qualsiasi attività di fracking e l’apertura di un dialogo a livello nazionale, che era mancato nel processo di approvazione della Legge sugli idrocarburi del 2013.

Rapporti pericolosi

L’Algeria non è l’unico regime violento con il quale l’Unione europea coltiva rapporti d’amicizia in nome della sua sicurezza energetica. La politica estera comunitaria infatti vede anche controversi rapporti con paesi dove l’Indice di sviluppo umano (Isv) è particolarmente basso, dovuto a ragioni simili all’Algeria, tra cui Tanzania, Nigeria e Mozambico. Con paesi i cui governi sono considerati autoritari (Algeria, Angola, Russia, Qatar, Egitto, Azerbaijan, Libia, Iran, Turkmenistan), con paesi che presentano grande conflittualità interna (Libia, Russia, Iraq e Egitto), con corruzione endemica (Angola, Iraq, Libia, Turkmenistan, Nigeria) e forti disuguaglianze in termini di distribuzione della ricchezza (Nigeria, Usa, Mozambico e Angola).

La diversificazione promossa dalla politica energetica comune cerca inoltre solo un ampio ventaglio di origini degli idrocarburi, ma non pone in discussione il loro utilizzo e non propone politiche chiare per una transizione a energie rinnovabili e su basi democratiche.

La responsabilità dell’Unione europea verso la popolazione algerina e del progetto dell’Unione energetica verso il resto dei paesi di esportazione è enorme. Promuovere il gas come «combustibile della transizione», ma non fare niente per discutere verso cosa si vuole transitare è una contraddizione in termini. Pianificare l’infrastruttura gasistica sulla base di ottimistici calcoli al rialzo rispetto alle riserve e poi accettare qualsiasi condizione per mettere mano a esse è una strategia connivente con i regimi dei paesi produttori.

Daniela Del Bene
Coeditrice di Ejatlas

Note

1- Questo articolo si basa principalmente sul rapporto Colonialismo Energético: el acaparamiento del gas de la Ue en Argelia preparato da Hamza Hamouchene del Algeria Solidarity Collective e Alfons Perez del Observatori del Deute en la Globalització, 2016, Barcelona. Il rapporto è scaricabile al seguente link: http://www.odg.cat/es/publication/colonialismo-energetico-acaparamiento-gas-UE-argeli.

2- Fratturazione idraulica o fracking è una tecnica che consiste nell’utilizzo della pressione di un fluido per creare una frattura in uno strato roccioso del sottosuolo. Il fracking è utilizzato anche per estrarre petrolio e gas con costi ambientali molto elevati.

3- Gas di scisto è il termine improprio utilizzato per il «gas da argille», ovvero gas metano estratto da giacimenti non convenzionali, gas intrappolato nella microporosità della roccia. Per l’estrazione sono necessari trattamenti ad alto impatto ambientale, come il fracking che può anche dare origine a terremoti. È una tecnica molto utilizzata negli Usa.




Nawal Soufi: È il cuore che mi paga


Nawal Soufi, giovane donna siciliana, dal 2013 ha contribuito a salvare migliaia di persone dalle acque del mare Mediterraneo. I migranti che hanno il suo numero la chiamano quando sono in pericolo. E lei comunica le coordinate dell’imbarcazione alla Guardia costiera.

Nawal in arabo significa «dono». È il nome di una giovane donna italiana, nata in Marocco nel 1987, arrivata in Sicilia quando aveva un mese. Lei si definisce «attivista per i diritti umani». Molti la chiamano «lady sos». Dall’estate del 2013 ha contribuito a salvare migliaia di persone dalla morte in mare ricevendo le loro richieste di aiuto sul suo telefonino. Non si sa quante ne abbia aiutate. Solo lei, forse, potrebbe farne il conto consultando i quaderni sui quali appunta i dettagli di ogni singola richiesta di aiuto.

Oggi gli sos arrivano anche dalla terra ferma: dai confini dell’Europa orientale, dagli hotspot (i centri di identificazione), come quello greco di Moria, Lesbo, dove sono trattenuti richiedenti asilo che la chiamano per denunciare abusi e violenze. Il 24 luglio scorso1 lei stessa, presente durante alcuni scontri nel campo, sembra sia stata trattenuta alcune ore dalle forze dell’ordine greche.

Lo scorso maggio Nawal Soufi ha ricevuto a Dubai, dalle mani dello sceicco e primo ministro degli Emirati arabi uniti, Mohammad bin Rashid al Maktoum, il premio «Arab hope maker 2017», fautrice della speranza araba, scelta perché, secondo al Maktoum, «con la sua azione ha fatto la differenza per 200mila persone».

Nel libro che ne racconta la biografia, Nawal. L’angelo dei profughi, di Daniele Biella (Paoline 2015), si parla di 20mila persone salvate. Alla domanda «chi te lo fa fare», lei risponde: «È il cuore che mi paga»2.

Con il cellulare (e la tenacia)

L’azione di lady sos, studentessa di scienze politiche a Catania e, grazie alla sua conoscenza della lingua araba, interprete e mediatrice culturale presso il tribunale, è molto semplice: riceve sul suo cellulare richieste di aiuto da parte di persone in difficoltà o in pericolo di vita, e le gira a chi può fare qualcosa per aiutarle.

La prima chiamata l’ha ricevuta nell’estate 2013: un uomo urlava in arabo che si trovava con altre centinaia di persone in mezzo al mare su una barca che affondava. La giovane – racconta Biella nel suo libro -, presa alla sprovvista, ha chiamato la Guardia costiera. Quando dalla sede centrale di Roma le hanno chiesto le coordinate del punto in cui si trovava l’imbarcazione, lei si è fatta spiegare come trovarle: il telefono satellitare da cui l’uomo l’aveva chiamata era in grado di fornire le coordinate esatte. Una volta comunicate alla Guardia costiera, questa ha salvato i migranti.

Da allora, Nawal ha ricevuto centinaia di chiamate. «La cosa continua tutti i giorni – ci dice Biella -, giorno e notte. Negli anni sono cambiati i luoghi da cui le persone la chiamano: all’inizio dalla Libia, poi dalla Turchia-Grecia. E oggi, quando non sono sos dal mare, sono richieste di aiuto di altra natura, legate alla violazione dei diritti umani nei paesi di partenza, o in Europa, negli hotspot».

Mentre scriviamo, Nawal è a Lesbo e non riusciamo a contattarla direttamente, ma Daniele Biella ne ha notizie quasi quotidianamente: «Nawal va avanti, mettendo in difficoltà prima di tutto la sua persona, perché lo fa come volontaria, ma a volte, a livello fisico e mentale, è sfiancata».

Il periodo in cui Nawal ha ricevuto più chiamate è stato l’estate del 2014: almeno una al giorno. «Un po’ per volta le cose sono cambiate. Ora non ci sono più così tanti siriani che scappano. Chi doveva partire è già partito».

Siriani in fuga

La gran parte delle chiamate che riceve sul suo cellulare sono di siriani in fuga dalla guerra. Il legame di Nawal con la Siria risale al 2011: «Lei da tempo era un’attivista per i diritti umani – ci spiega Biella -. Quando è scoppiata la guerra in Siria le ha fatto molta impressione perché, come dice lei, era a due ore di aereo dalla Sicilia. Ha iniziato a contattare, tramite i social media, attivisti siriani che le mandavano video e informazioni dalle manifestazioni che in principio erano pacifiche. E lei ha preso a fare da cassa di risonanza, sia per i media che per la gente di Catania. Di sera andava con un proiettore in piazza Bellini per dire ai passanti: “Guardate che succede”».

Da quell’esperienza è nata l’idea di una carovana di medicinali per la popolazione civile in Siria. Nel marzo del 2013 Nawal stessa ha attraversato il confine turco-siriano con i medicinali e ha vissuto per 17 giorni ad Aleppo, dove ha incontrato gli attivisti con cui era in contatto da tempo. Sul suo canale di Youtube «Nawal Syriahorra» si possono vedere alcuni video girati durante quei giorni. Prima di venire via dalla Siria ha lasciato agli amici il suo numero di telefono.

«Proprio in quel periodo le barche cominciavano a partire. Nawal non immaginava che il suo numero di cellulare sarebbe finito in mano a migliaia di persone tramite il passa parola», un passa parola che si è moltiplicato attraverso Facebook, tramite i profili di siriani che man mano venivano salvati dal mare grazie all’intervento di Nawal e che poi la conoscevano di persona a Catania: «Quando i Siriani sbarcavano – soprattutto in quegli anni 2013-2015, in cui non c’erano gli hotspot e le persone venivano lasciate libere dopo la prima notte in accoglienza di andare verso il Nord Europa -, passavano da Catania e lì conoscevano Nawal».

È in quelle circostanze che nasce il soprannome «angelo dei profughi»: la persona che prima salva i migranti dalla morte in mare, poi li accoglie e aiuta nel loro viaggio sulla terra ferma. Li aiuta, ad esempio, a non finire nelle mani di quelli che approfittano del loro spaesamento e gonfiano i prezzi dei biglietti del treno, o delle schede telefoniche. «Questi migranti che hanno ricevuto da Nawal abbracci, consigli, alimenti, pannolini…, quando sono arrivati in Germania, in Svezia, hanno scritto ai loro parenti e amici: “Guardate che questa ragazza è fantastica, ci ha aiutati”. E, tramite i social, è girata la voce».

Una voce amica

Ma perché i migranti in difficoltà preferiscono chiamare lei invece della Guardia costiera? «L’idea che si è fatta lei a quei tempi è che preferiscono usare un numero di una persona che parla arabo. La Guardia costiera non ha un servizio di operatore arabo 24 ore su 24. È vero che i profughi potrebbero comunicare in inglese, però in quelle situazioni, in stato di panico, al buio, in una barca che rischia di affondare, per chiedere aiuto, se c’è una persona che parla la tua lingua e che poi avvisa la Guardia costiera, è più facile. Credo che il suo numero sia un po’ ovunque. I migranti si mettono i numeri di telefono dappertutto, se lo cuciono sui vestiti, per paura di perderlo. Il passaggio è semplice: sanno che a quel numero risponde una persona che li può aiutare».

Favoreggiamento?

Biella, nel suo libro, a un certo punto racconta di una strana chiamata ricevuta da Nawal: un uomo le dice che riceverà una denuncia – poi mai arrivata – per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Ai tempi erano ancora distanti le polemiche che dalla primavera del 2017 e nei mesi successivi avrebbero colpito le Ong, accusate in modo generalizzato di essere complici dei trafficanti di uomini. «La cosa triste, in questo periodo in cui si attacca “l’umanitario” – ci dice l’autore del libro -, è vedere che anche Nawal è finita nel tritacarne3. Con conseguenti insulti sui social network. Sono cose che rischiano di distoglierla da quello che fa. Nawal dice: “Devo perdere tempo ad argomentare queste cose, quando sto solo aiutando nell’emergenza le persone”».

Dalle frontiere

Dall’estate del 2013, il nome e il numero di telefono di Nawal sono diventati sempre più di dominio pubblico. Questo comporta, oltre al disagio di venire coinvolta in polemiche politiche e ideologiche, anche il fatto che sono sempre più varie le chiamate di emergenza che la raggiungono. Nonostante siano ancora soprattutto siriani a contattarla, ora ci sono persone anche di altre nazionalità, e richieste di soccorso di altro tipo. «Se non chiamano dal mare, chiamano da altre situazioni problematiche. Ad esempio dalle frontiere. “Siamo in questo centro e abbiamo subito abusi”, “Sono mesi che siamo fermi qui, cosa facciamo?”. Lei vede qual è la situazione e cerca canali per risolverla: contatta avvocati, volontari, ecc. Ad esempio, poco tempo fa ha ricevuto una chiamata dalla Malesia da un profugo siriano – non fuggono tutti in Europa, alcuni vanno in Brasile, in Cina… Uno scappa dalla guerra e cerca di andare dove sa che può -. Alla frontiera ti fermano perché il tuo passaporto è falso, però tu dovresti riuscire a chiedere asilo, perché questo è l’obiettivo del viaggio. Nawal cosa ha fatto? – ci racconta Biella -. Ha chiesto via Facebook se qualcuno conosceva un avvocato in Malesia che potesse aiutare il profugo. Queste sono le emergenze degli ultimi tempi. Sono legate a una seconda fase, meno drammatica rispetto a quella dei naufragi, ma comunque piuttosto forti. Senza scordare che comunque i naufragi continuano, sia in Libia che vicino alle isole greche».

Cortocircuito europeo

Prima di ricevere il premio Arab hope makers 2017, Nawal ha ricevuto un certo riconoscimento del suo operato da diverse istituzioni. Per prima è arrivata la menzione speciale del Premio volontario internazionale 2015 Focsiv (Federazione ong cristiane). È stata poi ricevuta, nel giugno 2016, a Rabat, dal re del Marocco Muhammad VI. Nel settembre 2016 ha ricevuto il premio dell’Ue come cittadina europea dell’anno: «Bello il riconoscimento da parte dell’Ue – dice Biella -. Nel marzo precedente aveva anche fatto un discorso al Parlamento europeo4, però, nel concreto, le cose continuano a non cambiare».

Uno dei cavalli di battaglia di Nawal, portato anche nel suo breve e intenso discorso al Parlamento europeo è la richiesta di creazione di corridoi umanitari: «Quelli che ci sono già riguardano un migliaio di persone in tutto. In essi sono coinvolti la comunità di sant’Egidio, la Tavola valdese, la Cei. Riguardano persone che vengono selezionate nei campi profughi in Libano. Persone vulnerabili, con famiglia, ecc. Si verifica in loco l’identità, se ne verifica l’effettiva fuga e il rischio di vita nei loro paesi di origine, e si fanno venire in Europa con canali sicuri e legali, con un aereo. Tra le soluzioni possibili, si parla anche di visti umanitari. I corridoi umanitari su grande scala non si riescono a fare, perché l’Ue non li vuole proprio fare. Forse perché arriva troppa gente? Ma i visti umanitari, come è successo per le guerre balcaniche, si potrebbero concedere. La direttiva 55 del 2001 del Consiglio dell’Ue ne parla. Visti umanitari temporanei. Poi, quando la guerra finisce, le persone ritornano in patria: se chiedi a un siriano se vuole tornare a casa sua, il 100% ti dice di sì, ovviamente quando le condizioni lo permettono. Quando l’Unhcr ha fatto i campi in cui le persone venivano selezionate, questi sono diventati dei parcheggi, a causa della lentezza della burocrazia. A un certo punto arrivava il trafficante e sapeva che lì c’erano persone che attendevano di partire da mesi.

A me fa un po’ impressione l’idea che l’Europa stia esternalizzando le frontiere facendo accordi con paesi singoli per tenere le persone lì. Ma se lì non stanno bene, se i loro diritti non vengono riconosciuti, cercheranno sempre di andarsene. Dove c’è un blocco, il trafficante aumenta i suoi guadagni. Questo è il corto circuito cui stiamo assistendo in Europa».

Nawal con Daniele Biella durante la presentazione del libro.

Fede, motore di solidarietà

Nawal Soufi, di origine marocchina, è di fede musulmana. Nel libro di Daniele Biella se ne parla, con molta discrezione: «Lei parla di fede in modo generale, ecumenico. La fede per lei è il motore che la spinge ad aiutare chiunque abbia bisogno. Nella sua visione, le religioni spingono a essere sempre pronti per gli altri. Lei è musulmana, io sono cattolico, mi sono trovato a parlare davvero la stessa lingua in questo senso: l’aiuto disinteressato. Lei dice che chi usa la religione per motivi terroristici la snatura da quello che è, e va fermato. Si parla di criminali e non di fedeli».

Luca Lorusso

Note:

1- O. Spaggiari, Nuove proteste a Moria: il racconto di Nawal Soufi, vita.it, 21/7/2017; Flore Murard-Yovanovitch, Moria, il laboratorio della brutale intolleranza anti-migrante, huffingtonpost.it, 28/7/2017.

2- F. Tonacci, Parla Nawal Soufi, lady Sos “I profughi siriani mi chiamano dai cargo e io lancio l’allarme”, repubblica.it, 6/1/2015.

3-Durante la trasmissione “Piazza pulita” del 1 maggio 2017, su La7, è andato in onda un servizio sul traffico di uomini nel quale veniva fatto il nome di Nawal. Il giornalista, fingendosi un migrante, ha chiamato un uomo, identificato come trafficante, per chiedergli informazioni su un viaggio dalla Libia. Nella videochiamata l’uomo ha citato Nawal dicendo che gli scafisti avevano il suo numero. Nel servizio il giornalista ha poi chiamato Nawal che, semplicemente, ha risposto ai sospetti con il buon senso: esattamente come la Guardia costiera, quando riceve una chiamata, non può verificare chi la stia chiamando, se sia uno scafista o meno. Raccoglie la richiesta, le coordinate e le trasmette.

Nonostante l’evidente infondatezza delle accuse, alcuni giorni dopo, Il Giornale ha pubblicato un pezzo nel quale l’articolista insinua la colpevolezza di Nawal (G. De Lorenzo, Nawal Soufi, “Lady Sos” d’Italia. Il trafficante: “Gli scafisti chiamano lei”, 10/5/2017): «“Lady Sos” ovviamente nega di sapere che dall’altra parte della cornetta ci siano scafisti. “Il mio numero di telefono è pubblico”, dice. […]. “Non ho mai ricevuto una chiamata da una persona che mi dice: pronto, sono uno scafista e ti sto dando le coordinate”, ha provato a difendersi. E ci mancherebbe che il ladro dichiari di essere un bandito».

4- M. Luppi, Il discorso di Nawal Soufi, l’attivista italo-marocchina che scuote il cuore dell’Europa, africarneuropa.it, 4/3/2016.


Richieste di asilo politico: +49%

Grafico dal Quaderno statistico della commissione nazionale per il diritto di asilo

Alla data del 20 giugno 2017, giornata mondiale del rifugiato, l’Unhcr (l’agenzia Onu per i rifugiati) calcola che le persone morte o disperse nel Mediterraneo dall’inizio dell’anno erano 1.990. Quelle che lo avevano attraversato «con successo» 82.897, di cui 71mila in Italia.
In occasione della stessa ricorrenza, la Fondazione Ismu ha pubblicato un rapporto sui richiedenti asilo. Nei primi cinque mesi del 2017, le richieste in Italia da parte di persone provenienti da diversi paesi nel mondo sono aumentate del 49% rispetto allo stesso periodo del 2016.
«Tra il 1° gennaio e il 31 maggio 2017 in Italia sono state presentate quasi 60mila domande di asilo […]. Se si considera che nel 2016 il numero […] ha raggiunto la cifra più alta mai registrata in un ventennio (oltre 123mila), si può, per il 2017, prevedere un nuovo record […]».
Tra i 59.579 richiedenti, l’85% sono uomini (come nel 2016). I minorenni sono 6.700, di cui 3.530 non accompagnati, una quota molto maggiore rispetto allo stesso periodo del 2016 (+89%).
La Nigeria, come nel 2016, è il primo paese di origine tra chi cerca protezione in Italia (12.300 richiedenti, un quinto del totale). Il Bangladesh è il secondo con 5.500 richieste (cioè più del triplo rispetto ai primi cinque mesi del 2016).
Gli esiti delle domande esaminate tra gennaio e maggio 2017 sono negativi per il 58,6%. Aumentano però, rispetto al 2016, coloro che ottengono lo status di rifugiato (8,7%, 2.900 migranti), mentre continua la prevalenza delle concessioni di permessi a titolo di protezione umanitaria (7.900, il 24% del totale).
In Europa, l’Italia è al secondo posto, dopo la Germania, per numero di richiedenti asilo, sia nel 2016, sia nei primi quattro mesi del 2017 (dati Eurostat).

Luca Lorusso




Messico, migranti: Un salto nel buio


Ogni anno migliaia di migranti centroamericani cercano di attraversare il Messico per raggiungere la frontiera Nord e passare illegalmente negli Stati Uniti. È un viaggio estenuante e molto pericoloso a causa dei narcos e delle autorità locali. Pochissimi raggiungono la meta. La maggioranza torna indietro o si ferma lungo il cammino sopportando violenze e angherie e mettendo a rischio la vita stessa. In questo quadro di disperazione, si inserisce l’opera di padre Alejandro Solalinde e dei suoi rifugi per migranti. Questo è il suo racconto.

Sono 4.301 i chilometri della frontiera terrestre del Messico. Per la precisione, 3.152 quelli della frontiera Nord con gli?Stati Uniti e 1.149 quelli della frontiera Sud con Guatemala e Belize. Confini che contribuiscono a fare del Messico un «paese di partenza, transito e arrivo di migranti»1.

Per inquadrarne i problemi sono sufficienti tre dati: la povertà interessa 57 milioni di messicani su 127 totali; le persone assassinate nel 2016 hanno raggiunto il livello record di 22.9672, senza conteggiare le migliaia di persone scomparse; la corruzione costa ogni anno il 9 per cento del Prodotto interno lordo3.

Dal Messico si scappa (è il secondo paese al mondo con più emigranti4) e nel Messico si arriva, ma quasi sempre soltanto per tentare il salto verso gli Stati Uniti, l’American dream. Un progetto questo di difficile realizzazione e soprattutto molto rischioso a causa dei pericoli in cui i migranti possono imbattersi. Se va bene, furti ed estorsioni.?Se va male, sequestri di persona, violenze sessuali, mutilazioni, commercio di esseri umani, sparizioni ed assassinii.

A confermare la gravità della situazione è padre Alejandro Solalinde, sacerdote messicano di 72 anni (molto ben portati), fondatore dell’«Albergue de migrantes “Hermanos en el Camino”», un centro per l’accoglienza dei migranti illegali a Ixtepec, nello stato messicano di Oaxaca.

Padre Solalinde, candidato al premio Nobel per la pace 2017, vive da anni sotto scorta a causa della sua condanna a morte decretata dai narcos, che sulla pelle dei migranti fanno grossi affari.

Chi parte, chi si ferma, chi torna indietro, chi arriva

Padre Alejandro, ci racconti in poche parole chi è lei.

«Prima di tutto, direi che sono un missionario cattolico. Lavoro a Ixtepec, stato di Oaxaca, nell’albergo-rifugio dei migranti. Iniziai nel 2005, quando chiesi al mio vescovo di occuparmi di loro. Non fu facile perché pareva uno spreco che un sacerdote si dedicasse alla gente di strada, ai migranti. Però, alla fine, ottenni il permesso».

Il rifugio quante persone riceve?

«In questo momento, l’Albergue de migrantes accoglie un centinaio di persone al giorno. I migranti si fermano un paio di giorni o al massimo tre, per poi riprendere il cammino».

Da dove provengono?

«Soprattutto dall’Honduras, dal Salvador, dal Guatemala, dal Nicaragua. Però anche dal Brasile, dal Venezuela, dal Costa Rica, dal Perù, dall’Ecuador, da Panamà e anche dal Belize. Secondo le statistiche, il 50% di costoro si ferma in Messico, mentre il 25% rinuncia e torna indietro. Si arrende».

E quanti di loro arriveranno fino alla meta finale, nel «paradiso» statunitense?

«Stando ai numeri, un 25% dei migranti raggiunge la meta e riesce a entrare, anche con Donald Trump. Chi controlla la frontiera non è il Messico o gli Stati Uniti, ma continua ad essere il crimine organizzato. Se tu paghi o se porti la droga, loro riescono a farti passare. Non c’è muro che tenga. Per sofisticato che esso possa essere».

In Europa la maggioranza dei migranti sono giovani e maschi. E da voi?

«Anche qui la maggioranza sono giovani. Io calcolo siano circa l’80 per cento del totale. Però ci sono anche bambini e donne. Persone anziane ne ho viste poche, probabilmente rassegnate a rimanere nel loro luogo d’origine. Ed anche i malati rimangono a casa. Sono le persone più giovani e sane quelle che viaggiano».

L’accoglienza

Come si svolge una sua giornata tipica all’Albergue di Ixtepec?

«Non ce n’è una eguale all’altra, ma una cosa è identica: ogni giorno è sempre molto intenso. Al mattino presto – verso le cinque e mezza – prego e leggo il vangelo del giorno. Faccio esercizi. Lavo e stiro i miei vestiti: se voglio essere pulito, nessuno lo deve fare per me. Poi scendo al piano dove ci sono i migranti. A volte faccio colazione con loro, dopo che questi hanno fatto le pulizie del luogo. Poi visito i diversi reparti dell’Albergue per vedere come procedono: la falegnameria, la panetteria, la fattoria, la cucina (un settore questo che sempre necessita di molto lavoro). Abbiamo anche una biblioteca e una sala computer dove le persone possono comunicare con i loro cari. C’è un’area medica con due medici e due infermiere. Ed anche un’area psicologica con cinque addetti. Insomma, siamo come una piccola città».

Quando al centro arrivano i migranti, lei che fa? Come li accoglie?

«Io non posso parlare con ognuno. Allora li riunisco. Di solito, nella cappella. Quando hanno mangiato, si sono lavati e cambiati i vestiti, allora li chiamo. La prima cosa che dico loro è: “Com’è andato il viaggio fino a qui?”. E poi: “Alzi la mano chi viene dall’Honduras. Chi dal Guatemala. Chi dal Salvador”. E così via. In questo modo mi rendo conto che gruppo è. E ancora: “Alzi la mano chi è cristiano evangelico”. A chi l’ha alzata dico di presentare la sua chiesa con il nome. Ad ogni chiesa diamo un applauso. Sì, è un modo per riconoscere che il loro cammino è corretto. E che siamo fratelli nella fede. Poi faccio lo stesso con i cattolici. Infine, dico: “Alzi la mano chi non ha nessuna chiesa o religione”. E anche qui molti alzano la mano. Poi chiedo cosa è accaduto durante il viaggio. Mi faccio dire se già hanno presentato la propria denuncia o ancora no».

A che denuncia si riferisce?

«La legge dice che se un migrante è stato vittima di un delitto, deve avere un visto umanitario. Identicamente se nel suo paese è perseguitato o se il suo paese è luogo di violenza. Il nostro ufficio di registrazione valuta la condizione giuridica di ogni persona che arriva. E prima ancora la sua condizione psicofisica: se una persona ha bisogno di cure, viene mandata in infermeria. Se presenta problemi emozionali per ciò che ha passato, viene mandata dal gruppo degli psicologi».

A parte lei, quante sono le persone che fanno funzionare l’Albergue?

«Abbiamo uno staff di otto persone stabili. Però siamo aiutati da numerosi volontari che provengono da tutto il mondo. Addirittura dalla Cina e dall’Australia. E?moltissime persone che arrivano dall’Europa».

Narcos e migranti

Quando e perché i cartelli della droga – i cosiddetti narcos – hanno iniziato a interessarsi ai migranti?

«Tutto è cominciato con Felipe Calderón, il precedente presidente, che fece una guerra insensata (e perdente) al narcotraffico (121 mila morti e 26 mila scomparsi tra il 2006 e il 2012, ndr). Questa guerra provocò la decapitazione di alcuni cartelli e una spoliazione di altri, tra cui los Zetas.

Questi ultimi rimasero senza liquidi per pagare la droga. La droga non si può pagare a credito: va pagata immediatamente. Dunque, los Zetas pensarono di ricavare denaro dai migranti. Sapevano che essi non posseggono nulla, ma hanno amici e familiari negli Stati Uniti. Cominciarono dunque a sequestrarli e a chiedere un riscatto. In pochi mesi riuscirono a estorcere milioni di dollari.

Oltre al riscatto, capirono presto che dai migranti si poteva ottenere di più: con la prostituzione, lo sfruttamento del lavoro, il traffico di organi».

Quanti cartelli sono coinvolti?

«Principalmente los Zetas e in misura minore il cartello del Golfo. Gli altri non si sa, ma certamente non trafficano con i migranti in maniera sistematica».

Autorità criminali

E le autorità messicane che fanno?

«Sono parte del business. Chiaro! Gli agenti di migrazione, i poliziotti, i politici di qualsiasi livello sono complici, soprattutto nel caso dei migranti. Sanno che è una fonte di denaro facile e molto grande. Io sono solito definire il mio governo come una “narcocleptocrazia”. I narcos hanno infiltrato tutte le istituzioni messicane. È raro – io non ne ho mai conosciuti – trovare un politico o un funzionario che non rubi».

Anche Enrique Peña Nieto, il presidente del suo paese?

«Quel signore è il più corrotto. In questo momento ha un grado d’accettazione da parte della popolazione messicana del 9 per cento! È un ripudiato».

Che pensa di Donald Trump, presidente del paese che è nei sogni dei migranti?

«Trump è un pover’uomo. L’unica cosa che ha è il denaro. Ha vissuto per accumulare denaro ma non potrà portarlo con sé».

Viaggiare sulla «Bestia»

Da noi ci sono le carrette del mare o i gommoni, da voi c’è La Bestia.

«Hanno cominciato a chiamarla La Bestia perché è un treno merci (de carga), non deputato a trasportare persone. Per questo i migranti viaggiano sul tetto o negli angusti spazi tra i vagoni. Per 12-13-14 ore.

Possono capitare molti incidenti, soprattutto se le persone si addormentano. O quando salgono gli uomini del crimine organizzato che li buttano giù se non pagano.

Il treno parte dal Sud, dal Chiapas, circa un’ora dal Guatemala. Ha differenti ramificazioni (cartina a pagina 54, ndr) e può arrivare fino a Mexicali o Ciudad Juarez, al confine con gli Stati Uniti».

I messicani negli Usa

Anche lei frequenta il (presunto) paradiso statunitense?

«Sì, viaggio negli Stati Uniti 4-5 volte all’anno. Per incontrare gruppi di emigrati, per capire come sta andando o cosa possiamo fare per i loro diritti. Sono oltre 34 milioni i messicani che vivono là legalmente. E 6 milioni che non hanno documenti. Tutti costoro inviano denaro in Messico. L’ultima cifra parla di 27.000 milioni di dollari in un anno. Per questo dico che, dopo il narcotraffico, le rimesse sono l’entrata maggiore per il paese».

Il diritto a emigrare e il modello capitalistico

Padre, in Italia e in Europa si litiga sui migranti che dovrebbero essere accolti e quelli che andrebbero respinti. Secondo lei, esiste un «diritto a emigrare»?

«Io credo che ci sia un diritto a non emigrare quando ci siano tutte le giuste condizioni di vita nei luoghi d’origine. Tuttavia il sistema capitalista ha fatto a pezzi le condizioni di vita nei paesi d’origine dei migranti: per la violenza, per la mancanza di lavoro, per l’assenza di una possibilità di sviluppo per i giovani.

I movimenti migratori sono sempre esistiti. Però è la prima volta nella storia dell’umanità che le migrazioni sono dal Sud al Nord. Storicamente sono sempre state all’opposto: dal Nord al Sud».

In tutto il mondo le migrazioni e i migranti sono il problema del secolo. Cosa si può fare, padre?

«Se siamo d’accordo che il problema è strutturale, cioè che nasce dal sistema liberal-capitalista, allora l’unica soluzione è cambiare il modello. Di sicuro non si può continuare così.

Non è possibile avere il 99 per cento della popolazione mondiale che vive con le briciole lasciate cadere dall’1 per cento della popolazione».

Da chi vengono le minacce

Lei usa sempre parole molto forti, senza edulcorare le situazioni.

«Uso parole molto forti perché la realtà è molto forte. Occorre dire le cose chiaramente».

Ha paura per la sua vita?

«Io ho paura per il Messico. In questo momento abbiamo vari governatori nelle carceri, altri espatriati. Non uno. Tanti. (Erano 16 ad aprile 2017 su un totale di 32, ndr)».

Però ha subito minacce ed aggressioni fisiche.

«Preso a botte, certo. Ma anche incarcerato due volte. Il 24 giugno del 2008 tentarono di bruciare me e il rifugio. In un’altra occasione il sindaco e la giunta municipale mi chiusero dentro per 7 ore dicendo: “Tu da qui non esci fintantoché non firmi che chiuderai il rifugio”. Risposi: “Puoi amazzarmi se vuoi, ma io non firmerò nulla. Questa è una proprietà della chiesa cattolica”.

La sera di quello stesso giorno arrivarono gruppi di migranti. Dissi al sindaco: “Se succede qualcosa ai migranti o a membri della mia équipe, io la denuncerò”. “Lei mi sta minacciando”, disse costui. “La pensi come vuole”, risposi io».

Tuttavia, quella volta non furono i narcos. Furono le autorità!

«Perché c’è forse differenza?».

Non c’è differenza?

«Certo che no! Sono la stessa cosa! Non puoi dire qui sta il crimine organizzato e qui l’autorità. Noooo».

Questo è molto triste.

«Tristissimo. Il Messico sta vivendo una situazione molto difficile. Di decadenza totale».

«Io non sono solo»

Nonostante da anni sia costretto a vivere sotto scorta, lei appare molto sereno.

«Io sono un uomo di fede. Gesù continua ad ispirarmi. Mi sento molto orgoglioso di essere battezzato, di essere una persona consacrata, missionaria, itinerante del regno di Dio. Io non sono solo».


Si definisce «migrante» la persona nata in un paese diverso da quello di residenza e che ha lasciato volontariamente il proprio paese d’origine. Sotto questa definizione, sarebbero 244 milioni i migranti nel mondo5.

A questa cifra ne va affiancata un’altra: quella che riguarda le persone che sono state obbligate a lasciare le proprie case. Questa condizione riguarderebbe 65,6 milioni di persone, così distinte: 22,5 milioni di rifugiati, 2,8 milioni di richiedenti asilo e 40,3 milioni di sfollati interni6.

Migranti, rifugiati, richiedenti asilo, sfollati interni: in qualsiasi parte del mondo il fenomeno si presenti, sorgono problemi.

Personaggi come padre Alejandro Solalinde sono encomiabili per l’opera che svolgono e veramente meriterebbero il Nobel, ma la questione di fondo è epocale e al momento all’orizzonte non s’intravvedono soluzioni indolori.

Il diritto a non emigrare – ovvero il diritto a restare a casa propria – sarebbe l’unica, vera soluzione. Ma rimane un obiettivo difficile e molto lontano. Significherebbe assicurare a ogni persona cibo, lavoro, casa, educazione, sanità, pace. Un sogno che l’attuale sistema economico e politico non pare intenzionato a considerare.

Paolo Moiola

Note

(1) Rapporto paese dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim, agenzia dell’Onu).
(2) Dato riferito agli «omicidi volontari». Nel 2015 in Italia gli omicidi volontari sono stati 469.
(3) Questi dati sono confermati da varie fonti tra cui: istituto Imco, istituto pubblico Coneval, Sistema Nacional de Seguridad Pública (rapporto del 20 giugno 2017).
(4-5) Fonte: «International Migration Report 2015», Nazioni Unite.
(6) Fonte: rapporto «Global Trends. Forces Displacement in 2016», Unhcr.

L’articolo completo con le cartelle statistiche si trova sullo sfogliabile:

Foto

* Mauro Pagnano è nato a Napoli. Laureato in giurisprudenza, vive a Caivano nel cuore di quel territorio tristemente noto come Terra dei Fuochi. È proprio con un progetto sulla Terra dei Fuochi che comincia a fotografare e a pubblicare su testate nazionali e straniere. I suoi lavori sono realizzati in collaborazione con l’agenzia di comunicazione sociale di cui è socio, «La Etiket Comunicazione», che opera in un bene confiscato alla camorra a Casal di Principe. In Messico ha seguito la rotta dei migranti dal confine con il Guatemala fino al Centro Nord. Il progetto è ancora in itinere.

Archivio MC

Tra gli articoli sui migranti centroamericani e messicani verso gli Stati Uniti segnaliamo:

Documentari

Sulla tematica sono visibili su YouTube numerosi documentari tra cui:

[youtube https://www.youtube.com/watch?v=r_s6HOYo6SI?feature=oembed&w=500&h=281]

Videointervista

Un ampio stralcio della videointervista a padre Alejandro Solalinde – arricchita con inserti filmati sull’Albergue e La Bestia – è visibile su YouTube sul canale di Paolo Moiola: www.youtube.com/user/pamovideo.

[youtube https://www.youtube.com/watch?v=S3rGfU-avxo?feature=oembed&w=500&h=281]




SOLIDARIETÀ AI MISSIONARI E AL POPOLO DEL VENEZUELA


MESSAGGIO DELLA DIREZIONE GENERALE DEI MISSIONARI DELLA CONSOLATA

“Consolate, consolate il mio popolo!” Isaia 40,1

Un Paese alla fame e sull’orlo della guerra civile” quello raccontato dai nostri missionari dal Venezuela, ascoltando le storie di giovani, professionisti, anziani, studenti e di famiglie povere: “la tessera per il razionamento alimentare, la mancanza di medicine, l’iperinflazione, i supermercati vuoti, il clima di insicurezza, la rabbia per le libertà civili violate”. E ancora “Con le strade trasformate in terreno di una battaglia campale infinita, il regime di Maduro si afferra al potere con un colpo di mano per cambiare la Costituzione. Mentre l’opposizione politica grida al golpe”.

Queste sono alcune considerazioni fatte a Padre Stefano, Superiore Generale, che è in costante contatto telefonico con loro, per manifestare la vicinanza di tutto l’Istituto, la preoccupazione per l’aggravarsi della situazione degli scontri e, attraverso di loro, la nostra solidarietà al popolo venezuelano di fronte ai gravi problemi che lo affliggono.

I missionari sono sereni e stanno bene, ringraziano per il ricordo e le preghiere, loro unica preoccupazione è il futuro incerto di un paese allo stremo, e per il quale chiedono di pregare costantemente.

In questi giorni il Venezuela è tornato sotto i riflettori delle maggiori agenzie di informazione internazionali, apparso nei titoli di apertura dei telegiornali e sulle prime pagine dei quotidiani nazionali e rispettivi siti web a causa dell’escalation della violenza, con i numerosi morti, feriti e i detenuti, ennesimo tragico epilogo di una situazione che si trascina oramai da 5 anni, dove non sembra esserci via d’uscita.

Mentre la gente soffre e vive nel terrore, i protagonisti del conflitto venezuelano, governo e opposizione, si trovano nel punto più distante tra loro, intenti solo a lanciare l’uno all’altro minacce e accuse.

 

I MISSIONARI A FIANCO DELLA GENTE

A Caracas i missionari della Consolata, insieme ad altri missionari e missionarie di altre Congregazioni hanno aperto una casa di accoglienza per barboni, senza casa, gente della strada che possono qui trovare riparo e sostegno, e se sono disponibili anche cura per rilanciarsi nella vita. Sempre a Caracas, capitale del Venezuela, abbiamo una Parrocchia situata nella periferia composta da almeno 150/200.000 persone che vivono incollate sulle casette di fortuna sulle colline attorno alla capitale. È un agglomerato di problemi, violenza, droga e malavita, ma anche di gente per bene che si guadagna la vita con un duro lavoro quotidiano e che poi, alla sera, si mette ancora in coda per arrivare alla sua casetta e vivere un momento di serenità con la propria famiglia. In questa situazione e contesto in nostri missionari cercano di costruire speranza ed essere segno di consolazione per un gruppo di cristiani che, certamente non sono maggioranza, ma sono presenza e fraternità e questo già basta per poter sognare almeno un poco.

Inoltre a Caracas, oltre alla parrocchia di Carapita, abbiamo la Casa Regionale con un centro per l’Animazione Missionaria vocazionale collegato anche al Centro della città di Barquisimento. La casa regionale è un pochino originale giacché non rappresenta lo stile delle solite case regionali, luogo di uffici e di organizzazione, ma è proprio la casa di tutti e dove tutti possono trovare un letto da dormire, un pasto da condividere e qualcuno che ascolta i tuoi problemi. E quando dico tutti, voglio dire tutti, non soltanto i missionari.

L’AMV è in mano ad un’equipe che lavora anche con i Laici della Consolata e con gli Amici della Consolata, un’esperienza importante e condivisa che vale la pena di essere studiata ed approfondita.

Tra tutte queste nostre presenze merita un ricordo particolare quella con gli indigeni. Abbiamo un’equipe di cinque missionari di diverse nazionalità che lavorano in due comunità distinte: una alla città di Tucupita dove gli indigeni si trasferiscono in tempi difficili o cercando espedienti lavorativi e sul Delta Amucuro dove gli indigeni Warau vivono a loro stile sulle palafitte sospese sull’acqua. I missionari, senza pretese, ma con l’unica forza della presenza condividono la vita di questo popolo assumendone le sorti, con l’unica pretesa dell’amore.

Insieme a tanti altri sacerdoti, consacrati e consacrate e ai fedeli laici i nostri missionari hanno scelto di rimanere nel paese, per stare accanto alla gente, condividerne la situazione, attenti ai loro bisogni concreti, nel cammino sofferto di una comunità ecclesiale schiacciata tra due blocchi che tra loro hanno rotto ogni ponte e contatto.

La loro testimonianza di umile presenza tra i poveri e gli indifesi delle periferie di Caracas, realizza molto bene l’esortazione rivolta a tutti noi da Papa Francesco:

Non stancatevi di portare conforto a popolazioni che sono spesso segnate da grande povertà e da sofferenza acuta, come ad esempio in tante parti dell’Africa e dell’America Latina. Lasciatevi continuamente provocare dalle realtà concrete con le quali venite a contatto e cercate di offrire nei modi adeguati la testimonianza della carità che lo Spirito infonde nei vostri cuori (cfr. Rm 5,5). … Mentre con gioia ringrazio il Signore per il bene che voi andate compiendo nel mondo, vorrei esortarvi ad attuare un attento discernimento circa la situazione dei popoli in mezzo ai quali svolgete la vostra azione evangelizzatrice…” (Papa Francesco, ai partecipanti ai Capitoli Generali dei Missionari e delle Missionarie della Consolata, Sala Clementina, 5 giugno 2017)

UNA SITUAZIONE COMPLESSA

Ci sarebbe bisogno di un’analisi sistematica ed approfondita per decifrare la complessità delle cause, nazionali ed internazionali, che hanno contribuito a gettare il Venezuela nel caos.

Qui ci limitiamo ad alcune considerazioni che, pur non essendo esaustive, danno però l’idea della gravità del momento.

“ […] A seguito della caduta internazionale dei prezzi dell’oro nero, il Paese è sprofondato nel caos economico. Solo nel 2016 le entrate per prodotti derivati dalla vendita del petrolio erano scese del 5000% annuo. Di conseguenza, la necessità strategica di cercare risorse provenienti da fonti alternative all’industria petrolifera.”

«[…] Nella zona amazzonica sono state date delle concessioni a società di origine russa, canadese, britannica, sudafricana, cinese, iraniana e australiana, per lo sfruttamento di territori pieni di riserve aurifere, argento, petrolio, ferro, diamanti, coltan, uranio e ogni tipo di risorsa strategica… Si assiste alla dislocazione degli abitanti originari che per secoli hanno popolato queste zone; e ciò avviene solo per l’avidità che induce allo sfruttamento sconsiderato delle risorse del sottosuolo» (in Dossier Caritas Italiana, “Inascoltati. Un popolo allo stremo chiede i suoi diritti fondamentali”, www.caritas.it )

La rivoluzione bolivariana, avviata da Hugo Chàvez quasi vent’anni fa, si sta spegnendo in un sanguinoso caos. Perfino il procuratore generale dello Stato, Luisa Ortega Diaz, alto funzionario nominato dal potere chavista, ha condannato la violenza della repressione della Guardia Nazionale bolivariana contro le manifestazioni di protesta, che ha causato decine di vittime.

La proposta fatta dal Presidente Maduro per l’elezione di una nuova Assemblea Costituente, è stata respinta dall’opposizione che la considera soltanto un “nuovo tentativo di golpe”. L’avvilupparsi della crisi politica, la carestia, e l’iperinflazione (che potrebbe arrivare al 1600% secondo l’Fmi nel 2017) hanno fatto fare crac anche a tutto il progetto del socialismo bolivariano sostenuto, almeno fino alle ultime presidenziali, aprile 2013, da una maggioranza, seppur limitata, della popolazione.

Oggi il blocco sociale, che seguì il caudillo rivoluzionario morto nel 2013 e le sue promesse di riscatto sociale, è in minoranza. Per questo Maduro – che secondo i sondaggi ha ormai contro il 70% del Paese – ha rinviato le elezioni, amministrative e regionali. E per questo, insieme alla miseria sempre più drammatica nel Paese, l’opposizione si è lanciata in piazza.

LA NOTTE DEL VENEZUELA NON È ANCORA FINITA!

Infatti la situazione attuale si mostra qualitativamente diversa dal recente passato, perché le libertà sociali sono sempre più sotto assedio, la repressione inusitata, la crescente insicurezza personale e la sfiducia nel sistema giudiziario: la mancanza di tutela dei diritti lascia i cittadini indifesi davanti a una violenza mai vista. Il popolo venezuelano continua a protestare, inascoltato!

La crisi umanitaria avvolge il Venezuela in una spirale drammatica. L’82% della popolazione è in povertà, di cui il 52% in povertà estrema. La vita stessa delle persone è minacciata da quando sono venuti a mancare gli alimenti necessari per la sopravvivenza e la disponibilità di medicine per le cure fondamentali.

Questo favorisce l’aumento di morti premature, in particolare delle fasce più deboli della popolazione, specialmente bambini, anziani e malati. La mortalità dovuta a queste cause non risulta nelle cifre ufficiali di cui dispongono i mezzi di informazione, perché l’interesse è incentrato soltanto sul numero dei morti e dei feriti delle manifestazioni che si verificano ogni giorno, sin dal mese di aprile di quest’anno. In realtà, le cifre reali sono altre. Sono oltre 11.000 i bambini morti nel 2016 per mancanza di medicinali e la mortalità materna è aumentata quasi del 70%. (questi sono alcuni dati dell’Osservatorio di Caritas Venezuela, che emergono da una ricerca sullo stato nutrizionale dei bambini, riportati nel Dossier di Caritas www.caritas.it).

GLI APPELLI DELLA CHIESA

Anche se il Vaticano, che nei mesi scorsi guidò una trattativa per un compromesso fra governo e opposizione, ha dovuto gettare la spugna, giudicando “quasi impossibile” una nuova mediazione.

Anche se fuori e dentro del Venezuela, di fronte all’ostinazione e chiusura delle parti, governo di Maduro e partiti dell’opposizione, sembrano rassegnati al peggio, la Chiesa continua a lanciare appelli al dialogo, alla fine della violenza e alla ripresa dei negoziati.

La Conferenza episcopale del Venezuela in una lettera recentemente inviata al Presidente Maduro 8 luglio 2017, ha chiesto al Governo “di ritirare la proposta di un’Assemblea Costituente, di rendere possibile lo svolgimento delle elezioni stabilite dalla Costituzione”; e di “riconoscere l’autonomia dei poteri pubblici, abbandonando la repressione inumana di coloro che manifestano un dissenso, di smantellare i gruppi armati” e di liberare “le persone che sono state private della libertà per ragioni politiche”.

Ancora, i vescovi chiedono di impegnarsi “a risolvere i gravissimi problemi della gente e di permettere l’apertura di un canale umanitario perché possano arrivare medicine e alimenti ai più bisognosi”. Alle Forze Armate nazionali chiedono di “adempiere il proprio dovere di servizio al popolo nel rispetto e a garanzia dell’ordine costituzionale”. Dalla dirigenza politica i presuli esigono l’impegno nell’esclusivo bene “del popolo e mai per i propri interessi”, rispettando “la volontà democratica del popolo venezuelano”. Alle istituzioni educative e culturali chiedono di collaborare a “far crollare i muri che dividono il Paese”, incoraggiando “ogni sforzo in favore della pace e della convivenza, fondati sulla legge dell’amore fraterno”. (le lettera si         trova in: www.caritas.it)

Papa Francesco stesso in più di un’occasione ha lanciato accorati appelli al Governo e a tutte le componenti della società venezuelana:

“affinché venga evitata ogni ulteriore forma di violenza, siano rispettati i diritti umani e si cerchino soluzioni negoziate alla grave crisi umanitaria, sociale, politica ed economica che sta stremando la popolazione.” (Regina Coeli, 30 aprile 2017)

E in vista della festa dell’indipendenza del Venezuela del 5 luglio ha assicurato:

“la preghiera per questa cara Nazione e la mia vicinanza alle famiglie che hanno perso i loro figli nelle manifestazioni di piazza. Faccio appello affinché si ponga fine alla violenza e si trovi una soluzione pacifica e democratica alla crisi. Nostra Signora di Coromoto interceda per il Venezuela!” (Angelus, 2 luglio 2017)

E in una lettera indirizzata all’episcopato venezuelano venerdì 5 maggio il Pontefice esprimeva la sua solidarietà ai Vescovi del Venezuela e la chiara convinzione:

“che i gravi problemi del Venezuela possono essere risolti se c’è volontà per costruire ponti, se si desidera dialogare seriamente e rispettare gli accordi raggiunti. Desidero incoraggiarvi a non permettere che i figli amati del Venezuela si lascino vincere dalla sfiducia e dalla disperazione, perché questi sono mali che penetrano nel cuore delle persone quando non si vedono prospettive future”.

I nostri missionari in Venezuela, nei dialoghi telefonici avuti, e nello scambio via posta elettronica, sono concordi nel sostenere la via del dialogo e dei negoziati come l’unica percorribile, perché:

“Nelle persone è sempre più diffusa la volontà di un forte cambiamento, bisogna seguire, però, la via della pace e della democrazia. La maggioranza del popolo chiede una soluzione pacifica. Ma i costi umani di questo processo sono troppo alti. Il governo deve ascoltare la gente che grida. È necessario trovare un accordo. Non sappiamo di quanto tempo avremo bisogno in Venezuela per riconciliare la popolazione e risanare le ferite che ci stiamo infliggendo”.

Noi come missionari della Consolata, facciamo nostro e rilanciamo l’appello di Papa Francesco, convinti che, quando ogni speranza tace, l’unica via di uscita stia proprio nella ricerca di soluzioni consensuali.

SOLIDARIETÀ’ CON IL POPOLO VENEZUELANO

Cari missionari, amici e uomini e donne di buona volontà, con questo messaggio vogliamo esprimere la nostra solidarietà a tutto il popolo venezuelano e la vicinanza e l’affetto ai nostri missionari, attraverso il ricordo e la preghiera.

La situazione d’insicurezza ed incertezza del Venezuela alla stremo, richiama quella vissuta dal profeta Isaia in uno dei periodi più difficili della storia del popolo di Israele: la città santa ridotta ad un cumulo di macerie, le persone più capaci e preparate deportate, distruzione e disperazione tutt’intorno, regna il silenzio e la morte: non un canto, non un grido di gioia, solo tristezza e tante lacrime.

Il   profeta è invitato a contemplare i germogli di speranza che spuntano tra le rovine e, soprattutto a fidarsi del Signore per “saper irrobustire le mani fiacche e rendere salde le ginocchia vacillanti e dire agli smarriti di cuore: coraggio non temete! Ecco il vostro Dio giunge” (Isaia 35, 3-4)

Caro popolo venezuelano questa profezia del profeta Isaia, nella situazione in cui vi trovate, sembrerebbe “un sogno impossibile”, eppure chi crede, non si rassegna di fronte al male, non lo considera ineluttabile, perché sa che Dio è fedele ed è personalmente coinvolto nella storia del suo popolo.

E a voi missionari auguriamo che la testimonianza della vita fraterna, il vostro impegno a fianco dei poveri, possano realizzare lo specifico del nostro stile missionario:

“Consolate, consolate il mio popolo, gridate a Gerusalemme che è finita la sua schiavitù…” (Isaia 40,1-2).

Attraverso di voi la consolazione di Dio possa diventare una tenera carezza che rincuora e asciuga le lacrime; soccorso a chi si trova in condizioni disperate, riscatto per il misero sollevandolo dalla polvere (1Sam 2,8), mutando il lamento di tanti in danza e il loro grido in canto di gioia (Salmo 30,12).

In questo modo, in voi, la gente potrà toccare con mano, un Dio che veramente consola perché libera da tutte le schiavitù.

Rinnovando il nostro impegno di sostenervi e ricordarvi nella preghiera insieme a tutto il popolo venezuelano, vi salutiamo con l’esortazione del nostro Beato Fondatore:

«Coraggio dunque, sostenuti dalle nostre preghiere; coraggio in Domino, giorno per giorno, ora per ora. Ai piedi della nostra Ss. Consolata vi benedico di gran cuore» (Lett., IX/1,150).

La Direzione Generale dei Missionari della Consolata

p. Stefano Camerlengo
P. Bhola James Lengarin
P. Godfrey Portphal Alois Msumange
P. Jaime Carlos Patias
P. Antonio Rovelli

Roma, 15 agosto 2017, Solennità dell’Assunzione della Beata Vergine Maria

 




Marocco. Argento e ambiente


Assetati d’argento

Negli ultimi tre decenni si sono intensificate le «resistenze» delle popolazioni locali che difendono i loro territori. Un caso emblematico è quello della più grande miniera del continente africano gestita, tramite una catena di società finanziarie, dalla famiglia del Re Mohammed VI. L’estrazione dell’argento avviene senza badare all’impatto ambientale e sociale. È necessario cambiare modello di sviluppo realizzando una sostenibilità che sia effettiva.

Nel 2004, la sociologa e femminista marocchina Fatima Mernissi (Fès, 1940 – Rabat, 2015), docente all’Università Mohammed V di Rabat, scriveva che, se si vuole vedere dove davvero le cose cambiano nel suo paese, ci si deve allontanare dai centri urbani di Casablanca o Rabat ed esplorare le montagne dell’Alto Atlante o i deserti di Zagora e Figuig. È lì che si possono trovare storie affascinanti di comunità che generano cambiamento tramite la loro resistenza nel Marocco contemporaneo.

Alcuni collaboratori dell’Ejatlas hanno tenuto bene a mente questo consiglio quando, lo scorso novembre, sono andati in Marocco per assistere alla Cop22, l’ultima grande conferenza internazionale sul cambio climatico, che aveva lo scopo di trovare le modalità per attuare gli accordi siglati durante la Cop21 di Parigi dell’anno prima (si veda MC maggio 2016, ndr).

Accaparramento e resistenza

Lasciando le grandi città sistemate per l’evento, le campagne e le zone semiurbane e costiere rivelano una realtà materiale segnata da grandi accaparramenti di terre, inquinamento da attività minerarie, violazione di diritti sociali ed espropriazioni. Spesso nel nome dello «sviluppo sostenibile», per far spazio a progetti infrastrutturali di produzione di energie rinnovabili.

In questi luoghi, grandi cartelli pubblicitari di colossi della costruzione e di grandi marche fanno pensare a fondi d’investimento che, in sordina ma dettando una legge spietata, stanno penetrando nel mercato marocchino con il beneplacito della monarchia. Allo stesso tempo però questi sono anche i luoghi in cui si incontrano storie di resistenza e ricostruzione di comunità.

L’argento del re

Nella provincia del Tinghir, nella regione amministrativa Drâa-tafilalte, Imider è una municipalità che si trova in un’oasi nel mezzo di terre desertiche. Essa raggruppa sette piccoli villaggi a 300 km da Marrakesh, per un totale di circa 4mila abitanti. Oggi è il sito della più grande miniera del continente africano, e la settima più grande produttrice di argento al mondo, presso il Monte Alebban.

La miniera è gestita dalla Société Metallurgique d’Imider (Smi), parte del gruppo Managem (managemgroup.com) che conta attività in diverse zone del Marocco, in Guinea, Niger, Sudan, Gabon, Congo RD. La Managem è controllata per l’81% dalla società finanziaria Société nationale d’investissement (Sni), la quale a sua volta è controllata dalla Siger, la holding della famiglia del re Mohammed VI.

La Smi estrae il prezioso metallo dal 1978. Fin da allora, le comunità che vivono nei dintorni della miniera si sono organizzate per fare pressioni sulle autorità perché preoccupate per i potenziali impatti ambientali, in particolare sulle falde acquifere.

Con il tempo, le loro perplessità si sono dimostrate fondate.

Danni ambientali e repressione

Lo scontro è stato particolarmente aspro nel 1986, durante la perforazione di un pozzo da parte dell’impresa. I leader della protesta in quell’occasione sono stati incarcerati e le richieste delle comunità ignorate. L’anno 1996 è stato segnato dalla privatizzazione dell’impresa e dalla violenta repressione di un sit-in che era durato 45 giorni lungo la strada nazionale bloccando la via d’accesso alla miniera.

Nel 2004 l’impresa ha scavato un nuovo pozzo, stavolta senza i permessi necessari, portando presto le riserve idriche a seccarsi e provocando così un grave pericolo per la popolazione locale Amazigh (berbera). Piccoli agricoltori e pastori, gli abitanti locali hanno dovuto affrontare una severa marginalizzazione economica e un livello preoccupante di contaminazione delle terre da pascolo e della poca acqua disponibile.

Secondo un report del Congresso di Amazigh (ong che mira a rappresentare le associazioni berbere di tutto il mondo), la miniera consumava 1.555 metri cubi d’acqua al giorno, dodici volte il consumo degli abitanti della zona. Il rapporto denunciava anche lo scarico illegale di liquidi tossici della miniera sulle terre da pascolo (inquinanti come mercurio, zinco, cianuro), nuove malattie tumorali e una diminuzione drastica della produzione agricola.

Un altro rapporto, pubblicato da Inovar, un gruppo di idrogeologi indipendenti di Temara, città costiera del Marocco, vicina a Rabat, parlava dell’impatto gravissimo subito dal sistema khettara di Imider, la rete di canali sotterranei che tradizionalmente distribuiva le risorse idriche ai campi coltivati fin dal 14° secolo.

Movement on the Road ’96

Nell’agosto del 2011, lo stesso anno delle proteste della cosiddetta Primavera araba, le comunità hanno deciso di trasferirsi in cima al monte e prendere il controllo della fonte d’acqua, tagliando il trasferimento alla miniera. È nato così quello che ancora oggi può essere considerato il più lungo accampamento permanente della storia moderna del Marocco. Gli abitanti hanno dato alla loro mobilitazione il nome di «Movimento sulla strada ‘96» (si può visitare la pagina Facebook del movimento cercando Amussu.96Imider), in ricordo dei 45 giorni di sit-in e della violenza subita quindici anni prima. Il movimento ha inaugurato un’assemblea generale secondo un tradizionale modello di governance conosciuto come Agraw, nel quale le decisioni vengono prese per consenso. Esso ha incorporato principi di democrazia radicale in cui le decisioni vengono prese in modo decentralizzato e con equità di genere. Alcuni suoi membri sono riusciti a entrare in contatto con media internazionali e a lanciare messaggi di solidarietà ad altre comunità resistenti nel mondo, tra cui quella dei Sioux della riserva Standing Rock in South Dakota, negli Usa, che protestano per un progetto di oleodotto che vorrebbe passare nel loro territorio.

Proteste socioambientali in aumento

Il caso di Imider dimostra come comunità in resistenza esistano da molti anni, e forse sono state importanti motori di propulsione per le contestazioni del 2011.

E non è un caso isolato. Si registra infatti un aumento delle proteste socioambientali in Marocco in questi ultimi due decenni: dalla recente mobilitazione di Bni Oukil, un comune nella regione di Tadla-Azilal situata nel centro del paese, contro l’estrazione di materiali da costruzione, alla resistenza della tribù Guicheloudaya contro progetti infrastrutturali a Rabat che hanno portato alla confisca delle loro terre, al Movimento delle Donne Soulaliyate che rivendicano pari diritti nella compensazione elargita per l’acquisizione forzata di terre.

Molte altre sono le piccole realtà, lontane dai centri urbani rimessi a lustro per l’arrivo dei delegati internazionali della Cop22, che finiscono purtroppo fuori dal radar dell’attenzione pubblica, rendendo difficile studiare e capire il fenomeno.

Molti di questi conflitti sono durati molto tempo, come gli scioperi contro la compagnia statale (Office chérifien des phosphates) che monopolizza la produzione di fosfati a Khouribga, città a 120 Km a Sud Est di Casablanca che conta quasi 200mila abitanti, il blocco del porto a Sidi Ifni, cittadina di 20mila abitanti sull’Oceano Atlantico e, appunto, l’accampamento sul Monte Alebban contro la miniera d’argento.

Povertà e problemi ambientali non sono inevitabili

L’aumento della protesta non si puó capire se non si mette sotto la lente d’ingrandimento il rapporto iniquo tra centri urbani e campagne nell’economia neoliberista del Marocco.

Il governo ha spinto negli ultimi tre decenni sull’industrializzazione delle aree costiere, su progetti speculativi infrastrutturali nelle grandi città, grandi complessi turistici, estrazione intensiva di risorse naturali, mentre i centri più piccoli soffrono per la mancanza di servizi basilari e opportunità di lavoro dignitoso, e, anzi, subiscono le conseguenze negative dell’inquinamento e della violenza repressiva.

Ciò che sta al centro delle contestazioni in Marocco oggi, dunque, è il fatto che povertà, marginalizzazione, problemi ambientali siano la precisa conseguenza dell’odierno capitalismo globale, delle politiche di classe e delle relazioni di potere nel paese.

Allo stesso tempo, Imider mostra come la società civile marocchina si è articolata fin dagli anni ’90 in tanti collettivi e organizzazioni per i diritti umani e la giustizia sociale che oggi pongono in questione il modello economico e di «sviluppo». Essi uniscono rivendicazioni che riguardano diritti umani, indigeni, ambientali, di genere, e li vincolano alla necessità di cambiamento del sistema produttivo capitalista e autoritario.

Non basta dire «sostenibilità»

In uno dei materiali di divulgazione diffusi durante la Cop22 da una di queste organizzazioni, si trova scritto che «parlare di sviluppo sostenibile non è più sufficiente. È una parola distorta e abusata da parte delle grandi imprese transnazionali e anche dalle fabbriche più piccole. È usata come un alibi. Oggi è necessario chiarire i limiti di ciò che viene chiamata sostenibilità. Non può essere imposta secondo criteri estranei al contesto culturale, sociale e ambientale. Oggi è necessario lavorare in una direzione congiunta e mantenere una comunicazione costante tra le risorse del territorio e i bisogni della sua gente».

Daniela Del Bene
Coeditrice di Ejatlas


Altri tre casi emblematici

1.      L’impatto ambientale dell’energia solare

Ouarzazate è il sito del più nuovo e grande progetto di energia solare del mondo (500 ettari). Tuttavia, il livello di accaparramento di terre, l’elevato costo di produzione, e i grandi interessi economici che lo sostengono non ci possono far rimanere indifferenti e acritici sul processo di transizione verso le rinnovabili. Chi decide, a quale scala e costo, per quali fini produrre energia?

2.      Le donne Soulaliyate

Il Movimento delle Donne Soulaliyate è diventato popolare in Marocco nel 2007, quando in un contesto di massiva privatizzazione della terra, gruppi tribali di donne cominciarono a rivendicare i loro diritti al pari degli uomini. Seppur minore al principio, il movimento ora ha raggiunto scala nazionale e continua a sfidare le leggi di proprietà della terra che favoriscono gli uomini e le regole della societá patriarcale nell’accesso alla terra.

3.      Land grabbing a Rabat

La comunità dei Guicheloudaya vede la propria terra minacciata dall’espansione della frontiera urbana di Rabat. Il processo di privatizzazione ha avuto un’accelerazione dal 2004 e le tribù hanno subito la confisca di terreni e case. Le proteste hanno incontrato una dura repressione da parte della polizia che ha portato all’autornimmolazione di un abitante nel 2015. A oggi non sono stati indicati chiari piani di compensazione e reinsediamento.




Parchi e Diritti Umani:

Conservazionismo vs Popoli Indigeni


La Conservazione della Natura versus i Diritti dei popoli

«Occhi e orecchie» della foresta
Quando i parchi «sfrattano» i popoli

Origini e fondamenti della teoria della «conservazione»
Se i parchi violano la legge

Leggi nazionali versus trattati internazionali

Contro il bracconaggio (ma per i diritti umani)

Due casi: i Pigmei Baka del Camerun e i Boscimani del Botswana

I parchi hanno bisogno di loro
I popoli indigeni sono i migliori «conservazionisti»

Natura: né vergine né selvaggia

La Campagna di Survival International

* Per tutti gli studi e le ricerche citati qui di seguito, rimandiamo al corposo apparato di note presente nel rapporto di Survival International, Parks need peoples. I parchi hanno bisogno dei popoli, da cui questo dossier è stato tratto. Il documento in .pdf può essere facilmente scaricato.


«Occhi e orecchie» della foresta

Quasi tutte le aree protette del mondo, siano esse parchi nazionali o riserve faunistiche, sono o sono state le terre natali di popoli indigeni che oggi vengono sfrattati illegalmente nel nome della «conservazione». Con questo termine si intende un’ideologia che auspica il mantenimento della qualità di un determinato ambiente e delle risorse naturali, degli ecosistemi e della biodiversità a esso relazionati, tramite la creazione di aree protette e parchi naturali. Gli sfratti possono distruggere sia la vita dei popoli indigeni sia l’ambiente che essi hanno plasmato e salvaguardato per generazioni.

Spesso le terre indigene sono erroneamente considerate «selvagge» o «vergini» anche se i popoli indigeni le hanno vissute e gestite per millenni. Nel tentativo di proteggere queste aree di cosiddetta wilderness, governi, società, associazioni e altre componenti dell’«industria della conservazione» (nel senso che in molti paesi la conservazione è diventata un settore economico significativo) si adoperano per farne «zone inviolate», libere dalla presenza umana.

Per i popoli indigeni, lo sfratto può risultare catastrofico. Una volta cacciati dalle loro terre, perdono l’autosufficienza. E se prima prosperavano, dopo spesso si ritrovano a vivere di elemosina o degli aiuti elargiti dal governo nelle aree di reinsediamento.

Una volta privato di questi suoi tradizionali guardiani indigeni, anche l’ambiente può finire per soffrire perché bracconaggio, sfruttamento eccessivo delle risorse e grandi incendi aumentano di pari passo con il turismo e le imprese.

L’80% della biodiversità terrestre si trova nei territori dei popoli indigeni, e la stragrande maggioranza dei 200 luoghi a più alta biodiversità sono terre indigene. Non è un caso.

Avendo sviluppato stili di vita sostenibili, adattati alle terre che abitano e amano, i popoli tribali (o nativi) hanno contribuito direttamente all’altissima diversità di specie che li circonda, a volte nel corso di millenni.

Come disse Martin Saning’o Kariongi, un anziano Masai della Tanzania, al World Conservation Congress del 2004, «le nostre tecniche di coltivazione impollinano numerose specie di semi e mantengono canali di comunicazione tra gli ecosistemi. Noi eravamo i conservazionisti originari».

In Amazzonia, ad esempio, studi scientifici* basati su immagini satellitari dimostrano che i territori indigeni, che coprono un quinto dell’Amazzonia brasiliana, sono di vitale importanza per fermare disboscamento e incendi, e costituiscono la barriera più importante alla deforestazione. Effetti simili si registrano nell’Amazzonia boliviana, dove la deforestazione è sei volte minore nelle foreste comunitarie, e in Guatemala (venti volte minore). Il futuro successo della conservazione dipende quindi dai popoli indigeni.

Survival International

Quando i parchi «sfrattano» i popoli

Origini e fondamenti della teoria della «conservazione»

Le aree protette sono pensate per conservare flora e fauna, ma spesso dimenticano gli uomini. Popoli, abituati da sempre a vivere in simbiosi con l’ecosistema, sono obbligati a lasciare le loro terre. Diventano così dei rifugiati, costretti a vivere di donazioni. E dietro a tutto questo ci sono una ideologia e una storia precisa.

Le aree protette, siano esse nella forma di parchi nazionali, aree di conservazione, riserve naturali o altro, sono create per tutelare flora e fauna, non gli uomini. Nel mondo esistono oggi oltre 120.000 aree protette, pari al 13% della terra emersa.

Le aree protette si differenziano per il grado di restrizioni a cui sono soggette ma, spesso, chi dipende dalle risorse dei parchi si vede ridurre drasticamente ogni attività. I popoli indigeni devono cambiare stile di vita e/o trasferirsi altrove, il legame con i territori e i mezzi di sostentamento viene reciso, e le possibilità di scelta che vengono lasciate loro sono spesso nulle, o quasi.

Oltre il 70% dei parchi tropicali sono abitati*. Una fetta ancor più grande dipende dalle comunità che li circondano. Eppure, quando questi popoli vengono cacciati dai loro territori, convertiti in parchi, è perché improvvisamente vengono considerati «nemici della conservazione», per usare le parole dell’anziano Masai Kariongi.

Il lato oscuro della conservazione

L’idea di preservare le aree di «wilderness» attraverso l’espulsione dei suoi abitanti nacque in Nord America nel XIX secolo. Si fondava su una lettura arrogante del diritto alla terra che mancava completamente di riconoscere il ruolo giocato dai popoli indigeni nel plasmare e alimentare la stessa. La convinzione era che a sapere cosa fare per il bene dell’ambiente fossero gli scienziati conservazionisti e che essi avessero il diritto di liberarlo dalla presenza di qualsiasi essere umano.

A promuovere questo modello esclusivista dei parchi nazionali fu il presidente Theodore Roosevelt. Si adattava perfettamente alla sua visione: «La più giusta fra tutte le guerre è quella contro i selvaggi, sebbene si presti anche a essere la più terribile e disumana. Il rude e feroce colono che scaccia il selvaggio dalla terra rende l’umanità civilizzata debitrice nei suoi confronti. È d’importanza incalcolabile che America, Australia e Siberia passino dalle mani dei loro proprietari aborigeni rossi, neri e gialli, per diventare patrimonio delle razze dominanti a livello mondiale».

Il primo parco nazionale della storia fu Yellowstone, negli Stati Uniti. Quando fu creato, nel 1872, ai nativi, che vi vivevano da secoli, fu inizialmente permesso di restare, ma cinque anni dopo furono costretti ad andarsene. Ne scaturirono battaglie tra le autorità governative e le tribù degli Shoshone, dei Blackfoot e dei Crow. In una sola battaglia si dice morirono 300 persone*.

Dettagli storici come questo vengono spesso omessi o imbellettati per preservare il fascino del parco. Tuttavia tale modello di conservazione fondato sugli sfratti forzati è diventato consuetudine in tutto il mondo, con impatti devastanti non solo per i popoli indigeni ma anche per la natura.

Chi c’è dietro gli sfratti

Riportiamo una citazione del 2003 di Mike Fay, influente ecologista della Ong Wildlife Conservation Society (Wcs), pubblicata dal giornalista Mark Dowie: «Teddy Roosevelt aveva ragione. Nel 1907, quando gli Stati Uniti si trovavano a un livello di sviluppo paragonabile a quello del bacino del fiume Congo oggi, il presidente Roosevelt istituì 230 milioni di acri di aree protette facendone un pilastro della sua [politica interna]… In pratica, il mio lavoro nel bacino del Congo è stato quello di cercare di riprodurre il modello statunitense in Africa».

Il presidente Roosevelt aveva torto. Ciò nonostante, oggi, la sua teoria continua a influenzare molte importanti organizzazioni conservazioniste, con impatti devastanti. Sfrattare intere popolazioni dalle zone protette comporta costi ingenti, sia in termini di denaro sia di reputazione. Quindi perché i governi lo fanno? Le principali ragioni sono le seguenti.

  • Paternalismo e razzismo: alcuni governi hanno sfrattato i popoli nativi dai parchi nel tentativo, paternalista e razzista, di costringerli ad assimilarsi al resto della società. La rimozione dei Boscimani dalla Central Kalahari Game Reserve del Botswana, ad esempio, è stata in parte dovuta a questo atteggiamento e all’accusa infondata rivolta ai Boscimani che cacciassero troppi animali.
  • Turismo: gli sfratti vengono giustificati anche nell’interesse del turismo – altamente lucrativo – e nella convinzione che i turisti vogliano vedere solo flora e fauna selvatica, non persone.
  • Controllo: molti governi aspirano al controllo supremo sia dei territori sia della popolazione; separando gli indigeni diventa più facile raggiungere l’obiettivo.

Le organizzazioni internazionali per la conservazione alimentano gli sfratti incoraggiando i governi a intensificare le operazioni di polizia e protezione. A volte i governi trasferiscono questi poteri alle organizzazioni stesse, che in tal modo acquisiscono il diritto di arrestare e sfrattare. Storicamente, la maggioranza di queste organizzazioni conservazioniste è stata gestita da biologi la cui preoccupazione per habitat e singole specie prevale sulla capacità di apprezzare il modo in cui interi ecosistemi sono stati alimentati e custoditi dai popoli indigeni, che dovrebbero quindi essere i partner principali nella loro conservazione.

Un esempio. Nel 1995, l’Ong World wildlife fund (Wwf) India presentò una mozione al governo indiano per rinforzare la legge Wildlife protection Act, allo scopo di proibire tutte le attività umane nei parchi. La Corte suprema acconsentì e ordinò alle autorità statali di rimuovere tutti i residenti dai parchi entro un anno. Una richiesta totalmente irrealistica. Non fu fatto alcun accenno ai diritti e ai bisogni dei circa quattro milioni di persone che abitavano la vasta rete di aree protette dell’India, per la maggior parte Adivasi (indigeni). Oggi queste comunità convivono con la minaccia costante di sfratto, sottoposti senza sosta a persecuzioni, minacce e pressioni affinché abbandonino i parchi.

Un problema mondiale

«L’istituzione di aree protette nei territori indigeni, fatta senza il nostro consenso né il nostro coinvolgimento, ha provocato la spoliazione e il reinsediamento dei nostri popoli, la violazione dei nostri diritti, lo sfratto delle nostre comunità, la perdita dei nostri luoghi sacri e il lento ma continuo sgretolarsi delle nostre culture, nonché l’impoverimento…», dalla «Dichiarazione dei delegati indigeni» al Congresso mondiale dei parchi del 2003. È estremamente difficile quantificare l’entità degli sfratti dai parchi perché in molte aree non esistono dati, mentre in altre non sono attendibili. Alcuni esempi danno un’idea dell’ordine di grandezza del problema.

  • Africa: uno studio* sui parchi centroafricani stima che le persone sfrattate siano più di 50.000, molte delle quali sono popoli tribali. Altri studi parlano di milioni*.
  • India: nel 2009 vengono stimate* in 100.000 le persone sfrattate dai parchi, oltre a numerosi milioni privati in toto o in parte dei loro mezzi di sostentamento e sopravvivenza. Nei parchi nazionali dell’India, che negli ultimi anni si sono espansi considerevolmente, vivono tra i tre e i quattro milioni di persone, su cui pende costantemente la minaccia di sfratto.
  • Thailandia (situazione simile nel resto del Sud Est asiatico): le persone minacciate di sfratto nel nome della protezione di foreste e bacini idrografici sono mezzo milione*.

Anche se è impossibile dare numeri precisi, le persone sfrattate dalle loro case nel nome della conservazione, o che vivono sotto la minaccia incombente di sfratto, sono molti milioni nel mondo. La maggior parte sono indigeni.

Alla base ci sono presupposti non scientifici secondo cui i popoli tribali non sarebbero in grado di gestire le loro terre in modo sostenibile, perché cacciano, pascolano e utilizzano le risorse dei territori in modo eccessivo. Ma c’è anche la volontà, sostanzialmente razzista, dei governi di integrare, «modernizzare» e soprattutto controllare i popoli tribali dei loro paesi.

Vengono quindi varate politiche nazionali che implicano lo sfratto degli indigeni e forzano i popoli dipendenti dalle foreste a imparare modi diversi di vivere. Gli orticoltori a passare all’agricoltura intensiva, i nomadi a sedentarizzarsi e popoli che hanno sempre agito collettivamente ad accettare titoli personali di proprietà su piccoli appezzamenti di terra o «pacchetti di risarcimento». Tutto ciò equivale a trasformare popoli indipendenti e autosufficienti in «beneficiari» dipendenti che, si presume, si inseriranno nella società dominante.

Anziché celebrare e valorizzare il fatto che i popoli indigeni sono «gli occhi e le orecchie» della foresta, la loro diversità viene usata per giustificare sfratti e molestie. Quando gli habitat vengono degradati o alcune specie si estinguono, il dito viene spesso puntato contro i popoli indigeni invece che contro i veri colpevoli, politicamente più impegnativi: bracconieri, contrabbandieri di legname, minatori illegali, imprenditori turistici – tutti dotati di potenti alleati – o grandi infrastrutture come silvicolture, miniere e dighe.

Sfratti eccellenti

Tra i molti esempi possibili, significativo è quello della riserva delle tigri di Kanha, Madhya Pradesh, India.

  • Nel nome della conservazione della tigre, migliaia di Baiga e Gond sono stati sfrattati illegalmente e con la forza dalla riserva indiana di Kanha* (luogo in cui è ambientato il famoso «Libro della giungla» di Kipling). Le famiglie sono state perseguitate per anni affinché lasciassero la riserva. Nel 2014 centinaia di persone sono state sfrattate. Hanno ricevuto denaro, ma né terra né aiuto per ristabilire le loro vite all’esterno. Intere comunità sono state distrutte.
  • Altro caso è quello dei Boscimani della Central Kalahari Game Reserve, Botswana*. Nel 2002 ai Boscimani fu detto che sarebbero stati rimossi dalla riserva ai fini della «conservazione», ma prima ancora che gli sfratti avessero luogo furono attuati test di prospezione mineraria, e dopo il loro sfratto fu inaugurata una miniera di diamanti.
  • I Masai di Loliondo, Tanzania settentrionale erano stati minacciati di sfratto con il pretesto della necessità di creare un corridoio di collegamento tra i due parchi nazionali Serengeti e Maasai Mara. Poi, però, la terra fu data in locazione a una compagnia di safari di caccia.

Rifugiati a casa loro

Che si tratti di miniere, dighe o progetti di conservazione, sfrattare gli indigeni dalle loro terre ha sempre gli stessi devastanti effetti: da un giorno all’altro popoli prima autosufficienti si trasformano in rifugiati. Strappati dalle loro terre e dalle risorse che le sostentavano, si ritrovano all’improvviso a dover dipendere da sussidi ed elemosina. Le comunità sprofondano nella povertà: cattive condizioni di salute, malnutrizione, alcolismo e malattie mentali. Relegati ai margini della società dominante, spesso la loro presenza è mal tollerata dai nuovi vicini, con cui emergono conflitti e tensioni sociali.

I popoli indigeni non sono gli unici a essere sfrattati dalle aree protette, ma sono quelli che ne soffrono immensamente di più. La ragione è che per sopravvivere dipendono completamente dalla terra in cui vivono e dalle sue risorse, e non hanno fonti di reddito. Per loro, la terra è tutto e non può essere rimpiazzata anche in virtù del profondo legame storico e spirituale che li unisce a essa.

Nelle parole dell’antropologo Jerome Lewis: «Ai contadini che, da quando (fu ufficializzato il Mgahinga National Park, in Uganda) negli anni ’30, avevano distrutto parte della foresta per costruire le loro fattorie, furono riconosciuti i diritti territoriali e ricevettero gran parte dei risarcimenti disponibili. I Batwa, invece, che avevano posseduto quella foresta per generazioni senza danneggiarne flora e fauna, avrebbero potuto ottenere qualche indennizzo solo se avessero agito come quegli agricoltori, distruggendo appezzamenti di foresta per trasformarli in campi. Un classico caso di mancato riconoscimento dei diritti alla terra dei popoli cacciatori-raccoglitori».

Le famiglie tribali raramente ricevono compensi adeguati – se mai ne ricevono – per tre principali ragioni:

  1. In quanto società non statali, spesso i popoli indigeni non compaiono nei censimenti ufficiali. Quando esistono dati demografici, nel migliore dei casi sono inattendibili. I governi spesso ignorano i diritti consuetudinari e informali dei popoli indigeni che fanno quindi molta fatica a difendersi ricorrendo ad azioni legali.
  2. Nei confronti della caccia, della raccolta e della pastorizia nomade, spesso praticate dai popoli tribali, vige una diffusa forma di razzismo, che li dipinge come arretrati rispetto ai contadini stanziali. Dei coltivatori si dice che abbiano migliorato la terra e per questo viene riconosciuto loro un risarcimento se la perdono a causa di sfratti o trasferimenti. Al contrario, alle tribù che non hanno costruito strutture permanenti né coltivato cereali e ortaggi, non viene riconosciuta alcuna proprietà fisica da risarcire. Ironicamente, è proprio il fatto che non siano state «migliorate» a rendere le loro terre tanto appetibili agli occhi dei conservazionisti.
  3. Non esiste risarcimento che possa compensare il legame che unisce i popoli indigeni alle loro terre. «Prima ci impoveriscono togliendoci la nostra terra, la caccia e il nostro stile di vita. Poi ci dicono che non contiamo niente perché siamo poveri», Jumanda Gakelebone, Boscimane, Botswana.

Survival International

Se i parchi violano la legge

Leggi nazionali versus trattati internazionali

Le leggi che istituiscono i parchi sono spesso in grave violazione di trattati e convenzioni internazionali sui diritti dei popoli nativi. Questi spesso non hanno i titoli formali delle loro terre. Sono così facilmente espulsi e perdono ogni possibilità di sussistenza. Gli schemi alternativi proposti finiscono per creare un circolo di dipendenza.

Alcune leggi nazionali fanno riferimento alla creazione di aree protette «inviolabili». Tuttavia, la legge internazionale vieta esplicitamente a governi e altre organizzazioni di violare i diritti dei popoli, per qualsiasi motivo, anche la conservazione.

La maggior parte delle aree protette si trova in terre su cui i popoli indigeni hanno diritti consuetudinari o informali anziché titoli cartacei di proprietà registrati ufficialmente. Nonostante ciò, il loro rapporto con quelle terre è antico risalendo indietro nel tempo a un numero incalcolabile di generazioni e i legami economici, culturali e spirituali che hanno con esse sono molto profondi. Affinché i popoli indigeni possano sopravvivere è di cruciale importanza che i loro diritti territoriali siano rispettati, perché tutti i loro diritti umani derivano da questo. Se i loro diritti alla terra vengono violati, i popoli indigeni non possono godere nemmeno dei diritti umani fondamentali.

Convenzioni violate

Tra i diritti più spesso violati con la creazione dei parchi se ne conta una serie riconosciuta ai popoli indigeni dalla «Convenzione internazionale sui diritti civili e politici», in particolare:

  • all’autodeterminazione (articolo 1.1);
  • a non essere privati dei mezzi di sussistenza (articolo 1.2);
  • a non essere sottoposti a interferenze arbitrarie o illegittime nella propria casa (articolo 17.1);
  • alla libertà di religione (articolo 18.1);
  • a vivere la propria cultura in comune con gli altri membri del proprio gruppo (articolo 27).

In quanto popoli indigeni, essi hanno poi un’altra serie di diritti, individuali e collettivi, sanciti dal diritto internazionale: la «Convenzione 169» dell’Organizzazione internazionale del lavoro e la «Dichiarazione dei diritti dei popoli indigeni» delle Nazioni Unite. Tra questi ci sono il diritto alla proprietà collettiva della terra e il diritto a dare o negare il consenso a progetti che hanno un impatto sulle loro terre.

Recinzioni, multe e intimidazioni

Una volta tracciati i confini di un parco, le comunità si vedono improvvisamente negare l’accesso ai luoghi di culto e sepoltura, alle piante medicinali necessarie e, in generale, ai mezzi di prima necessità, come cibo e combustibile per cuocere o prodotti della foresta da scambiare con altri gruppi.

Nel giro di qualche ora, perdono tutte le risorse che sostenevano la tribù da tempo immemorabile. Se cacciano, sono accusati di bracconaggio; se vengono sorpresi a raccogliere prodotti della foresta, rischiano multe o addirittura il carcere. La comunità si ritrova assoggettata ai capricci di guardaparco incuranti delle politiche ufficiali che magari le garantiscono il diritto a un «uso sostenibile» delle risorse.

In alcuni casi, vengono messe in atto iniziative speciali per cercare di compensare queste perdite attraverso «schemi alternativi di sussistenza» o «attività generanti reddito»*. Benché talvolta venga lasciata una possibilità di scelta, l’opzione di mantenere e potenziare ulteriormente la strategia tradizionale di sussistenza non viene praticamente mai presa in considerazione. Al contrario, questi progetti, molto spesso, non si curano di quali siano le vere necessità della tribù e impongono cambiamenti e integrazione. Spesso non offrono soluzioni a lungo termine in grado di compensare davvero la dipendenza sostenibile che la tribù aveva prima con la sua terra; al contrario, spingono le comunità verso un nuovo e insostenibile circolo di dipendenza dai meccanismi esterni.

Survival International

Contro il bracconaggio
(ma per i diritti umani)

Due casi: i Pigmei Baka del Camerun e i Boscimani del Botswana

I Pigmei Baka in Camerun

Nella guerra contro il bracconaggio, i Pigmei1 Baka del Camerun si trovano spesso nel mezzo di fuochi incrociati. E come loro i Pigmei Bayaka e decine di altri popoli della foresta, vengono trattati come bracconieri perché cacciano per nutrire le loro famiglie, come hanno fatto per generazioni, o semplicemente perché osano entrare nelle aree protette create nelle loro terre ancestrali. Subiscono arresti, pestaggi, torture e morte per mano dei guardaparco. Questi sono finanziati ed equipaggiati allo scopo di proteggere i parchi da organizzazioni come il World Wildlife Fund (Wwf) e la Wildlife Conservation Society (Wcs) che sono a conoscenza degli abusi da più di un decennio ma non li hanno fermati2.

Survival International ha ricevuto l’appello di molti indigeni da Camerun, Repubblica Centrafricana e Repubblica democratica del Congo che hanno denunciato gli abusi subiti. Un uomo Baka, ad esempio, ha raccontato a un ricercatore di Survival che i guardaparco lo hanno picchiato e poi hanno ribaltato il letto dove stava dormendo il figlio neonato, gettandolo violentemente a terra. Il bambino è morto poco dopo; i suoi genitori non avevano nemmeno avuto il tempo di dargli un nome.

Ma la violenza fisica è solo una parte degli abusi che i Pigmei e i loro vicini subiscono nel nome della conservazione. I guardaparco bruciano regolarmente gli accampamenti di caccia e raccolta, annientando in questo modo la forza vitale dei Baka, rubano la frutta e la verdura raccolte, il pesce pescato, le loro stoviglie e i loro attrezzi. I Baka vengono così sfrattati illegalmente dalle loro terre ancestrali in cui non possono più vivere come prima, e molti denunciano che la loro salute sta peggiorando visibilmente a causa della malnutrizione, delle nuove malattie e della perdita di accesso alle medicine della foresta.

Nel febbraio 2016 Survival ha presentato un’istanza formale al Punto di contatto nazionale svizzero dell’Ocse (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) in merito alle attività del Wwf in Camerun. Secondo Survival, il Wwf ha collaborato alla creazione di aree protette, anche se il governo aveva mancato di ottenere il consenso libero, previo e informato delle comunità sui progetti di conservazione avviati nelle loro terre ancestrali. A dicembre, con una decisione senza precedenti, il Punto di contatto ha ritenuto l’istanza meritevole di approfondimento. È la prima volta che un’organizzazione no profit come il Wwf viene esaminata in questo modo.

I cacciatori Boscimani del Botswana

«Mi siedo e mi guardo attorno. Dovunque ci siano i Boscimani, c’è selvaggina. Perché? Perché noi sappiamo come prenderci cura degli animali. Sappiamo come cacciare, non ogni giorno ma secondo le stagioni», Dauqoo Xukuri, Boscimane, Botswana. Storicamente, i Boscimani dell’Africa meridionale erano cacciatori-raccoglitori. Oggi, la maggior parte delle comunità sono state costrette ad abbandonare questo stile di vita, ma la Central Kalahari Game Reserve del Botswana (Ckgr) è ancora la casa dove gli ultimi Boscimani possono vivere in gran parte di caccia. Nel 2006, dopo una lunga battaglia legale contro il governo, l’Alta corte ha confermato il loro diritto a vivere e cacciare nella riserva.

Nonostante la sentenza, tuttavia, da allora i funzionari non hanno rilasciato ai membri della tribù nemmeno una licenza. La caccia di sussistenza praticata dai Boscimani è stata equiparata al bracconaggio commerciale. A decine sono stati arrestati semplicemente per aver cercato di sfamare le loro famiglie.

Survival riceve molte segnalazioni di Boscimani torturati fino dagli anni ‘90. Nel 2012, due Boscimani sopravvissero alle torture inflitte loro dalle guardie del parco perché avevano ucciso un’antilope.

Survival chiede al governo del Botswana di fermare i violenti abusi commessi contro i Boscimani e riconoscere il loro diritto di cacciare nella terra ancestrale.

Survival International

Note

1- «Pigmei» è un termine collettivo usato per indicare diversi popoli cacciatori-raccoglitori del bacino del Congo e di altre regioni dell’Africa centrale. Il termine è considerato dispregiativo e quindi evitato da alcuni indigeni, ma viene utilizzato da altri come il nome più facile per riferirsi a se stessi.

2- Prove e testimonianze sono contenute nell’Istanza formale che Survival ha presentato al Punto di contatto nazionale (Pcn) svizzero dell’Ocse.

I parchi hanno bisogno di loro

I popoli indigeni sono i migliori «conservazionisti»

È verificato che i popoli indigeni sono i migliori gestori dell’ecosistema in cui vivono da generazioni. Le loro pratiche ancestrali mantengono la biodiversità, controllano gli incendi e fermano la deforestazione. Ma nei parchi quasi sempre quello che fanno è proibito. Per questo sono arrestati. E le condizioni della biosfera dell’area peggiorano.

I popoli indigeni dipendono dall’ecosistema in cui vivono sia a livello pratico che spirituale e sono quindi fortemente motivati ed efficaci nel proteggerlo. Il tema dell’utilizzo delle risorse naturali è centrale nella gestione indigena della terra: nei secoli, i popoli tribali hanno sviluppato complessi sistemi sociali per amministrare la raccolta dell’ampia varietà di specie da cui dipendono in modo da assicurarsi abbondanza e sostenibilità nel tempo. Al contrario, una visione più ristretta della protezione della natura giudica questa modalità di utilizzo della terra e delle sue risorse inconciliabile con la conservazione.

Coloro che dipendono dalle loro terre per sopravvivere sono certamente più motivati a proteggere l’ambiente in cui vivono rispetto a guardie forestali malpagate, trasferite lontano dalle famiglie, spesso incapaci o riluttanti a perseguire i veri criminali e quindi inclini a concentrare le loro energie su obiettivi più facili: le popolazioni locali.

«Noi, i popoli indigeni, siamo stati parte integrante della biosfera dell’Amazzonia per millenni. Abbiamo usato e protetto le sue risorse con grande attenzione e rispetto, perché è la nostra casa e perché sappiamo che la nostra sopravvivenza e quella delle generazioni future dipendono da questo. La nostra profonda conoscenza dell’ecologia della nostra casa, il nostro modo di convivere con le peculiarità della biosfera, la riverenza e il rispetto che abbiamo per la foresta tropicale e i suoi abitanti, piante o animali che siano, sono la chiave per garantire il futuro del bacino amazzonico, non solo per il nostro popolo, ma per l’intera umanità», Coica, Confederazione delle Organizzazioni Indigene del Bacino dell’Amazzonia, 1989.

Contrariamente a ciò che si potrebbe pensare, sfrattare i popoli indigeni dalle loro case trasformate in aree protette, raramente contribuisce alla conservazione della natura. Anzi, è spesso controproducente perché circonda il territorio di persone risentite, che spesso continuano a dipendere dalle risorse del parco. Inoltre, nega un’evidenza sempre più palese: quando coloro che se ne sono sempre occupati in maniera sostenibile sono costretti ad andarsene, gli ecosistemi soffrono. Alcune recenti ricerche* stanno sconvolgendo la logica conservazionista. In seguito allo sfratto delle comunità indigene, gli incendi incontrollabili, il bracconaggio e le specie invasive spesso aumentano. Uno studio condotto all’interno del Chitwan National Park del Nepal* ha addirittura mostrato una minore densità di tigri nel cuore dell’area liberata dalla presenza umana. Sembra che il modo in cui le comunità gestivano le aree circostanti creasse un habitat migliore per le tigri stesse.

Ragazza Penan, Malaysia.

Incrementano la biodiversità

La coltivazione a rotazione, chiamata anche debbio, si riferisce a una tecnica di coltivazione a cicli, che prevede prima la pulizia del terreno da coltivare (di solito utilizzando il fuoco) e poi il suo abbandono per alcuni anni, per permettergli di rigenerarsi. In tutto il mondo, governi e gruppi ambientalisti hanno cercato a lungo di eliminare la coltivazione a rotazione, spesso definendola in termini peggiorativi «taglia e brucia».

Oggi gli scienziati hanno compreso che questa tecnica può «dare spazio a sorprendenti livelli di biodiversità»*. Le comunità che la utilizzano, come i Kayapò del Brasile, riescono a tenere sotto controllo le varie specie di piante che compongono la foresta. Ciò influisce positivamente sulla biodiversità e crea habitat di grande importanza. Contribuisce inoltre a incrementare la biodiversità disegnando un mosaico di habitat differenti.

Ricerche condotte sulle attività di sostentamento dei cacciatori-raccoglitori nel bacino del fiume Congo* dimostrano che le loro tecniche portano a un significativo miglioramento dell’ambiente come habitat di fauna selvatica, inclusi gli elefanti.

Eppure, nonostante i benefici ecologici del debbio siano sempre più riconosciuti, in molti altri casi questa pratica è bandita o le comunità che dipendono da essa vengono sfrattate. L’impatto sulle comunità indigene coinvolte è serio, anche dal punto di vista della salute.

Nelle riserve delle tigri dell’India, i villaggi che si trovano all’interno creano pascoli per animali che spesso si rivelano prede importanti per le tigri. Quando vengono rimossi, il Dipartimento Forestale deve trovare altri modi per mantenere floridi questi pascoli, pena una diminuzione della biodiversità.

Controllano gli incendi

«I danni che abbiamo oggi (a causa degli incendi devastanti), potrebbero essere limitati permettendo agli Aborigeni di fare quello che hanno perfezionato nel corso di migliaia di anni». Professor Bill Gammage, Australian National University.

Sia in Australia che in Nord America, i primi colonizzatori notarono l’aspetto insolito del territorio, più simile a un parco che a delle foreste: alberi distribuiti su pianure sterminate ma nessuna traccia di sottobosco. Un intrinseco pregiudizio impedì loro di capire che quei paesaggi erano il risultato di una cura del territorio molto sofisticata ed estesa. Bill Gammage, esperto di tecniche aborigene di gestione del territorio, ha dimostrato che quelle popolazioni avevano sviluppato un sistema di utilizzo del fuoco che permetteva loro di ricavare dalla terra tutto ciò di cui avevano bisogno.

In Australia ci si sta sempre più rendendo conto che i sistemi aborigeni limitavano il rischio di grandi e devastanti incendi. Negli ultimi novant’anni gli incendi boschivi sono costati al governo australiano quasi sette miliardi di dollari Usa. Allo stesso modo, in Amazzonia, l’incidenza di incendi è molto più bassa nei territori abitati dagli indigeni.

Ma, così come è accaduto per la coltivazione a rotazione, anche gli incendi controllati sono stati dichiarati illegali, e vengono persino criminalizzati.

Fermano la deforestazione

Le immagini satellitari* forniscono una prova evidente del ruolo che i territori indigeni giocano nel prevenire la deforestazione. Quando i popoli tribali vivono nelle loro terre con diritti pieni e riconosciuti, e la certezza che quelle terre rimarranno sempre nelle loro mani, usano le foreste in modo di gran lunga più sostenibile dei nuovi venuti: allevatori, taglialegna e contadini che abbattono gruppi di alberi in un colpo solo.

Un’analisi su vasta scala* condotta sia sulle aree protette sia nelle foreste gestite dalle comunità indigene ha dimostrato che queste ultime resistono meglio alla deforestazione rispetto alle prime. E non sorprende se si pensa che le comunità hanno molti buoni motivi per proteggere e gestire efficacemente le foreste da cui dipendono per sopravvivere, mentre molte aree protette esistono solo sulla carta e vengono gestite miseramente da staff spesso sottopagato, immotivato e a volte corrotto.

«Abbiamo protetto le foreste per migliaia di anni, ora ci cacciano come animali. Ma ogni giorno, alberi immensi vengono tagliati di nascosto e venduti di contrabbando. I funzionari della foresta hanno deciso di mandarci via, così che queste attività possano continuare indisturbate», portavoce degli Adivasi Iruliga, Bangalore, India.

Fermano lo sfruttamento eccessivo

Prove storiche inconfutabili* dimostrano che ai popoli indigeni bastava cacciare un numero limitato di animali da branco per controllarne la popolazione e prevenire lo sfruttamento eccessivo dei pascoli. Studi condotti a Yellowstone*, ad esempio, mostrano che i loro metodi erano molto efficaci nel controllare la popolazione dei cervi e dei bisonti. Dopo lo sfratto delle tribù dal parco, invece, i guardaparco hanno dovuto sparare a 13.000 cervi nel tentativo di controllarne il numero. L’eliminazione selettiva dei bisonti a Yellowstone continua ancora oggi.

Controllano il bracconaggio

I popoli indigeni conoscono la loro terra intimamente. Nel corso di generazioni hanno accumulato una conoscenza ineguagliabile della flora e della fauna autoctone e delle relazioni che le uniscono, e questo sapere li ha resi i più efficienti ed efficaci manager delle loro terre.

Sistemi complessi di controllo della caccia e della raccolta aiutano a mantenere l’ordine sociale della tribù, e allo stesso tempo proteggono le risorse da cui la comunità stessa dipende. In molte etnie è vietato uccidere animali giovani, gravidi o considerati totem; mentre eccedere nello sfruttamento delle specie, e caccia e pesca sono consentiti solo in alcuni periodi. Il risultato di questi tabù e pratiche è l’efficace razionamento delle risorse nel territorio, che arricchisce la biodiversità e dà a piante e animali il tempo e lo spazio necessari a prosperare.

Bambino boscimano nel Botswana, 2004.

Caccia di sussistenza e sostenibilità

I Boscimani del Kalahari vengono picchiati, torturati e arrestati se cacciano per sfamare le loro famiglie. Sebbene il governo li etichetti come bracconieri, non esistono prove che la loro caccia di sussistenza sia insostenibile. Al contrario, è perfettamente compatibile con la conservazione: i Boscimani sono motivati a proteggere la fauna selvatica dalla quale dipendono più di chiunque altro. Ma quando le iniziative di conservazione strappano ai popoli tribali il controllo di terre e risorse, la loro capacità di auto-sostentarsi viene compromessa. E quando questo accade, essi rischiano di diventare complici dei bracconieri piuttosto che dei conservazionisti verso i quali hanno imparato a nutrire risentimento.

In quanto «occhi e orecchie» della foresta, i popoli indigeni si trovano nella posizione migliore per prevenire, individuare e denunciare le attività di bracconaggio. Ma una volta rimossi dalle loro terre, perdono la possibilità e, forse, anche la motivazione a farlo. Per controllare il bracconaggio devono quindi essere investiti fondi ingenti in armi e guardie. Spesso queste misure sono inefficaci e portano a una crescente corsa agli armamenti tra bracconieri e guardiani. E perdono tutti, natura inclusa.

Un rapporto sullo sfratto dei Masai dalle terre di Ngorongoro (Tanzania) dello United Nations Environment Program (2009)* si chiude con questa constatazione: «L’allontanamento di questi guardiani naturali – e a basso costo – dalle loro terre, ha portato a un incremento dell’attività di bracconaggio e alla susseguente quasi totale estinzione dei rinoceronti».

Survival International

Natura: né vergine né selvaggia

La Campagna di Survival International

Per i popoli indigeni la terra non è un’entità da sfruttare bensì un universo da sostenere e mantenere in equilibrio a cui l’uomo appartiene al pari di qualsiasi altro essere vivente. Difenderla è semplicemente il loro modo di vivere, e non un dovere, perché dal suo stato di salute dipende la loro stessa sopravvivenza e quella delle future generazioni.

Alla base del concetto di «conservazione» c’è invece una concezione dualistica del rapporto uomo-natura che considera la natura come un dominio autonomo distinto dalla sfera delle azioni umane. Un luogo incontaminato in cui l’uomo si pone solo come una mera forza distruttiva finché non interviene a esercitare la sua giurisdizione per assicurarne la preservazione.

Ma secondo i popoli indigeni la natura non è «vergine» né «selvaggia», se non nell’immaginario occidentale. E a conferma della loro visione, oggi esistono prove scientifiche che dimostrano che la fisionomia della maggior parte delle regioni ecologicamente più importanti del pianeta, così come le conosciamo oggi, sono il prodotto culturale di una manipolazione molto antica della flora e della fauna, operata da società umane a loro volta condizionate e plasmate da secoli di convivenza con esse.

L’approccio non potrebbe essere più distante. Da un lato un rapporto dell’uomo con la natura fondato su valori di uguaglianza, reciprocità ed equilibrio: la visione ecocentrica dei popoli indigeni, capaci di sfruttare le risorse dei loro ambienti senza mai alterarne i principi di funzionamento e i cicli di riproduzione. Dall’altra un movimento conservazionista radicale e razzista che a partire dagli Usa del XIX secolo si è espanso soprattutto in Africa e Asia sfrattando illegalmente milioni di indigeni dalle loro floride terre ancestrali per farne santuari inviolabili, liberi da qualsiasi presenza umana, con conseguenze drammatiche.

È tempo di fermare brutali violazioni dei diritti umani che danneggiano anche l’ambiente. Survival International è il movimento mondiale per i diritti dei popoli indigeni e ha lanciato una campagna per promuovere un nuovo modello di conservazione che rispetti i diritti dei popoli indigeni e riconosca il loro ruolo di migliori custodi del mondo naturale.

Survival lotta per una svolta radicale nelle politiche della conservazione: per lo smascheramento del suo “lato oscuro” e l’esplorazione di soluzioni innovative fondate sul rispetto dei diritti indigeni, in particolar modo il diritto alla proprietà collettiva della terra e a proteggere e alimentare le terre natali. E chiede rispetto per le loro conoscenze e i loro sistemi di gestione delle risorse naturali. I popoli indigeni meritano di essere riconosciuti come i migliori custodi delle loro terre e, di conseguenza, della natura da cui tutti dipendiamo.

Survival International

Per maggiori informazioni sulla campagna visita la pagina: www.survival.it/conservazione

Nota

* Per tutti gli studi e le ricerche citati, rimandiamo al corposo apparato di note presente nel rapporto di Survival International, Parks need peoples. I parchi hanno bisogno dei popoli, da cui questo dossier è stato tratto. Il documento in .pdf può essere facilmente scaricato.

Fonti

  • M. Chapin, A Challenge to Conservationists, WorldWatch, novembre-dicembre 2004.
  • M. Colchester, Conservation Policy and Indigenous Peoples, Cultural Survival Quarterly 28, no. 1 (2004).
  • M. Dowie, Conservation Refugees: The Hundred-Year Conflict Between Global Conservation and Native Peoples, Mit Press (2009).
  • R. Duffy, Are we hearing a “call to arms” from wildlife conservationists?, Just Conservation (2014).
  • M. Gauthier e R. Pravettoni, Come si costruisce un parco naturale, Il Post (2016).
  • Iucn, Sacred Natural Sites: Conservation of Biological and Cultural Diversity, Earthscan (2010).
  • J. Vidal, The tribes paying the brutal price of conservation, The Guardian (2016).
  • Altre fonti sul sito www.survival.it/conservazione.

Questo dossier è stato firmato da:

  • Survival International È il movimento mondiale per i diritti dei popoli indigeni. Dal 1969 li aiuta a difendere le loro vite, a proteggere le loro terre e a determinare autonomamente il loro futuro. Le società industrializzate sottopongono i popoli indigeni a violenza genocida, a schiavitù e razzismo per poterli derubare di terre, risorse e forza lavoro nel nome del «progresso» e della «civilizzazione». La missione di Survival è prevenire il loro sterminio, e ottenere un mondo in cui questi popoli siano rispettati come società contemporanee e i loro diritti umani tutelati. A finanziare il lavoro di Survival, che è rigorosamente apartitica e aconfessionale, sono quasi esclusivamente le donazioni dei singoli, insieme ai proventi di piccole iniziative di raccolta fondi. Tra le campagne più urgenti del momento c’è quella per un nuovo modello di conservazione della natura, tema di questo dossier.
  • A cura di: Marco Bello, giornalista redazione MC.
  • foto: Le immagini di questo dossier sono state fornite da Survival International, www.survival.it.




India: Water grabbing sul tetto del mondo


Gli stati himalayani sono determinati a sfruttare tutto il loro enorme potenziale idrico. Risulta infatti esponenziale l’aumento di richieste di sfruttamento della risorsa, sia da parte di imprese pubbliche (che ricevono fondi dalle grandi banche internazionali), che di imprese private. E le dighe, con il loro devastante impatto ambientale e sociale, si moltiplicano.

Enormi riserve idriche, ghiacciai, fiumi d’acqua abbondante e limpida, scarsa popolazione e poca industria: una ricetta perfetta per alimentare il nuovo grande gioco dell’Asia sulle risorse idriche. Cina e India si contendono uno dei beni più preziosi su quello che viene chiamato il «tetto del mondo», le montagne himalayane. Qui si concentrano le riserve di acqua dolce più vaste del globo terrestre e vi sgorgano i fiumi più importanti dell’Asia, il Brahmaputra, il Mekong, l’Indo e il Gange. Fiumi le cui acque, flora e fauna sono minacciate da inquinamento industriale, pesca sregolata, deforestazione e dalla costruzione di grandi infrastrutture, soprattutto dighe per la produzione di energia.

Il governo indiano e cinese si sfidano nello sfruttamento non solo delle acque del proprio territorio, ma anche di quelle dei paesi confinanti come il Nepal e il Bhutan. Un vero water grabbing (accaparramento idrico) fatto a colpi di trattati internazionali.

Da un lato ci sono i rappresentanti dei governi, dall’altro grandi imprese private o pubbliche costruttrici di infrastrutture idriche. Il tutto con la supervisione e il beneplacito delle istituzioni finanziarie nazionali e internazionali per lo «sviluppo», tra queste ultime la Banca Mondiale e la Banca Asiatica per lo Sviluppo.

Il ritorno di Banca Mondiale

Le priorità della finanza internazionale sembrano cambiate, dunque, dagli anni ’90, quando la Banca Mondiale aveva dimostrato interesse per le istanze dei diritti ambientali. Nel 1991, infatti, era stata la stessa Banca Mondiale a commissionare una valutazione sulla diga Sardar Sarovar sul fiume Narmada, ascoltando le proteste locali e la solidarietà internazionale.

L’ex membro del congresso Usa e alto funzionario dell’Onu, Bradford Morse, insieme all’avvocato canadese per i diritti umani Thomas Berger, viaggiarono nell’area per valutare l’impatto della diga sugli abitanti locali.

Il rapporto scritto dai due, noto come Morse Report, pubblicato nel 19921, rivolse pesanti critiche alla diga, promossa nel nome dello sviluppo e della riduzione della povertà. Puntò il dito sui maltrattamenti delle comunità indigene e sul fatto che i benefici economici attesi erano stati solo momentanei e non avevano favorito le comunità locali, mentre gli impatti ambientali e la frammentazione sociale cadevano sulle spalle dei soggetti più vulnerabili. Anche gli aiuti stanziati per «compensare» le famiglie danneggiate dalla diga erano risultati essere solo palliativi e avevano creato dipendenza economica tra coloro che prima potevano contare sulla propria terra e beni comuni gestiti dalla collettività.

In nome della sostenibilità

Il Rapporto Morse era stato il risultato di una lunga lotta da parte di movimenti sociali, in primis il Narmada Bachao Andolan (Movimento per la Salvezza della Narmada), e aveva portato la Banca Mondiale a ritirarsi dagli investimenti sulle grandi dighe.

Ora però il colosso finanziario fa finta di aver dimenticato e torna sui suoi passi. Nel 2013 ha rilanciato il water grab delle grandi dighe durante il «Fragility Forum» tenutosi a Washington, dichiarando che «l’idroelettrico a grande scala rappresenta una soluzione [al cambio climatico e alla povertà] per l’Africa, l’Asia Meridionale e il Sudest Asiatico». Nelle parole di Rachel Kyte, la vicepresidente della Banca per lo sviluppo sostenibile e influente voce dell’istituzione, «la scelta degli anni ’90 fu un errore»2.

I paesi «fragili» da soccorrere, in cui consolidare le economie garantendo generose infrastrutture, questa volta in nome della sostenibilità, sono tanti. Fra questi l’India, che gode di fondi diretti della Banca Mondiale e della sua branca asiatica, la Banca Asiatica per lo Sviluppo (Adb).

Il governo indiano appoggia pienamente il piano e non vede di buon occhio obiezioni in merito.

Per lo studioso indiano Ramachanda Guha, la lobby pro-idroelettrico ha avuto successo nell’eliminare le voci contrarie, inclusi gli studi ambientali scientifici esistenti, pur di non mettere a rischio lucrosi progetti3.

Sfruttare il più possibile

Gli stati himalayani, soprattutto Himachal Pradesh, Uttarakhand, Sikkim e Arunachal, sono determinati a sfruttare tutto il potenziale individuato. Risulta infatti esponenziale l’aumento di richieste di sfruttamento della risorsa idrica, sia da parte di imprese pubbliche (che ricevono fondi dalle grandi banche internazionali), che di imprese private grosse e piccole.

Per la geomorfologia delle strette valli himalayane, sono pochi i progetti che prevedono grandi laghi artificiali. Tuttavia, i cosiddetti progetti Run-of-River, cioè impianti a pompaggio o ad accumulazione, comportano lo scavo di numerose gallerie per le derivazioni d’acqua. Per scavarle, si ricorre, soprattutto nelle ore notturne, alla dinamite, e si sono registrati smottamenti sismici, innumerevoli crepe nelle case, prosciugamento di fonti d’acqua e importanti perdite nell’agricolura (soprattutto alberi da frutta) dovute alle polveri che si accumulano sulla terra e sulle foglie.

I nuovi progetti spesso non hanno un solido studio di fattibilità alle spalle. Secondo una fonte governativa, mentre una volta in Himachal Pradesh l’individuazione di un sito per un progetto idroelettrico prevedeva una visita in loco per considerare diverse variabili, ora si avvale della tecnologia remote sensing, attraverso satelliti e applicazioni cartografiche, per individuare i salti d’acqua. Molto spesso poi i permessi vengono concessi senza una visita sul luogo, che può essere ad esempio una vallata lontana e dalle strade non facilmente percorribili.

Il caso delle inondazioni dell’Uttarakhand

Per la fatalità della storia, nello stesso anno in cui la Banca Mondiale annunciava il suo ritorno nel grande giro d’affari delle dighe, una pesante pioggia di più giorni cadde sulla regione occidentale dell’Himalaya. Nello stato dell’Uttarakhand causò violente inondazioni e smottamenti del terreno. Fu il disastro «ambientale» più grave nel paese dopo lo tsunami del 2004. Era giugno, piena stagione turistica per i numerosi siti di pellegrinaggio hindu presenti nella zona. Ci volle molto tempo al governo per fare una stima delle vittime, che si aggira poco sotto le 6.000 e di cui si sono trovati pochissimi corpi.

Gli esperti climatologi ammisero che l’entità delle piogge era fuori dalla media stagionale, ma affermarono che il colpevole non si poteva cercare nel meterno. «Avete sentito alcuni arrivare a dire che è stato un omicidio. Ma io lo chiamo ecocidio», affermò Devinder Sharma del Forum for Biotechnology and Food Security alla Cnn. «La copertura forestale è stata ridotta terribilmente [per fare spazio a strade, linee di trasmissione e altre infrastrutture per le dighe], c’è una considerevole attività mineraria nella regione [soprattutto di estrazione di sabbie per cemento], e le strade sono costruite senza un piano ragionato. In più, i grandi progetti idroelettrici in varie fasi di costruzione sono nell’ordine delle centinaia, con i loro tunnel che sfregiano le montagne».

Vimal Bhai dell’organizzazione Matu Jan Sanghatan denunciò la situazione intorno alla diga di Tehri, la più alta di tutta la regione. Mentre ai tempi il governo e l’impresa pubblica che la gestisce, la Thdc, ne difendeva l’utilità per controllare inondazioni improvvise, ora si trovano con una infrastruttura danneggiata che rappresenta un rischio per la popolazione. In più, nei mesi immediatamente successivi al disastro, Thdc non volle diminuire l’altezza dell’acqua del lago e anzi chiese il permesso per aumentarne il livello e generare così maggiore elettricità.

L’urgenza di rivedere l’intera politica energetica

Dopo il disastro, la Corte Suprema dette immediatamente l’indicazione al Ministero dell’Ambiente di istituire una commissione d’inchiesta. Il documento finale dell’Expert Body (Eb) diretto dal Dr. Ravi Chopra e pubblicato nell’aprile successivo riconobbe la relazione diretta tra l’instabilità del terreno, le alluvioni e i progetti idroelettrici, e dichiarò chiaramente l’urgenza assoluta di fermare almeno 23 progetti e di rivedere profondamente l’intera politica energetica nella regione.

Il collettivo India Climate Justice ribadì che le cause erano state molteplici: eccessiva deforestazione che aveva creato instabilità del terreno e non permetteva l’assorbimento dell’acqua, turismo di montagna e traffico su strada sregolati, estrazione di sabbie dai letti dei fiumi, costruzioni inadatte senza regolari permessi e studi di hotel e altri edifici4.

Un concetto non condiviso e selvaggio di «sviluppo» per questa regione porta dunque inevitabilmente a politiche irresponsabili e complici. Il collettivo riaffermò che «questa tragedia è un crimine, perché i nostri legislatori e amministratori sono parte della grande ingiustizia climatica su scala globale, che minaccia, sfolla e uccide coloro che si trovano più impoveriti e marginalizzati».

La sconcertante perseveranza

Dopo la grande commozione e dolore provocati dalla tragedia, ciò che sconcerta è la perseveranza nelle stesse politiche energetiche e di gestione del territorio. E che non si limitano all’Uttarakhand.

Il vicino stato dell’Himachal Pradesh ha fatto dell’idroelettrico il fiore all’occhiello della sua promozione come green state, con una economia verde e con esclusiva produzione di energia rinnovabile. Tuttavia, anche qui si parla di centinaia di progetti in fase di pianificazione o costruzione, tra cui la più grande diga privata del paese, la Karchham Wangtoo5 dalla capacità installata di 1.200 Mw e di proprietà del colosso indiano Jindal Group.

Il vice chancellor dell’Università dell’Himachal Pradesh, prof. A. D. N. Bajpai ha messo in allerta per il rischio enorme a cui è esposto l’intero distretto del Kinnaur nel malaugurato caso di un terremoto nella regione, che è per altro dichiarata ad alto rischio sismico6.

Energia che non serve

Questo scenario risulta ancora più difficile da comprendere se si consultano i dati ufficiali, come ricordano organizzazioni quali Sandrp e il Manthan Centre. L’elettricità prodotta da queste grandi dighe non trova facilmente un acquirente, per il prezzo troppo alto o per l’eccessiva offerta, a seconda della stagione7.

Gli abitanti locali, soprattutto in Kinnaur, hanno lanciato lo slogan di una «no-go zone» per l’idroelettrico e difendono orgogliosamente la loro economia basata sull’agricoltura e sulla produzione di frutta. Si organizzano in comitati di supporto e in più occasioni le loro domande si sono unite a quelle dei lavoratori del cantiere, quando hanno incrociato le braccia per le condizioni di lavoro e l’insicurezza nell’escavazione dei tunnel, già costata la vita a un numero non registrato di lavoratori.

Nonostante in molti casi gli sforzi della resistenza non siano stati sufficienti, hanno alimentato una sempre maggiore coscienza della necessità di un cambio non solo nella tecnologia dei progetti. Poco a poco si diffonde una domanda più di fondo: per cosa viene usata questa energia e chi ne risulta beneficiato? Quali sono le altre tecnologie che si potrebbero utilizzare? Su quale scala? Quali sono le infrastrutture di cui davvero la gente locale ha bisogno, in un’ottica di decentralizzazione?

Anche se le risposte e le proposte alternative sembrano ancora lontane, spesso è proprio all’interno della resistenza che si schiudono le prime sementi di qualcosa di diverso, e la presa di coscienza ne è il primo fertilizzante.

Daniela Del Bene
Coeditrice di Ejatlas

Note

  • 1- Bradford Morse & Thomas R. Berger, Sardar Sarovar – Report of the Independent Review, reperibile in formato pdf nel sito ielrc.org.
  • 2- Howard Schneider, World Bank turns to hydropower to square development with climate change, «The Washington Post», 08-05-2013.
  • 3- Ramachandra Guha: Expediency trumps expertise, «The Gulf Today», 13-07-13.
  • 4- La dichiarazione si può leggere in Climate justice statement on the Uttarakhand catastrophe, «Sandrp. South Asia Network on Dams, Rivers and People», sandrp.wordpress.com, 25-06-2013.
  • 5- Il progetto Karchham-Wangtoo è la più grande infrastruttura idroelettrica dell’India in mano privata, del Jindal Group. Il gruppo austriaco Andritz ha partecipato con alcune componenti. Al momento 800 abitanti della zona hanno avviato un’azione legale per ottenere le compensazioni pattuite che non vengono rispettate.
  • 6- Rakhee Thakur, Mega projects endangering Himachal Pradesh, «The Times of India», 07-11-2015.
  • 7- Per informazioni più dettagliate: Ankur Paliwal, Drowned in power, «Down To Earth», downtoearth.org.in, 15-04-2014; e Hydropower in Himachal: Do we even know the costs?, «Sandrp. South Asia Network on Dams, Rivers and People», sandrp.wordpress.com, 04-10-2014.




Perù. La verità difficile


Dal 1980 al 2000 il conflitto interno peruviano ha fatto quasi 70mila vittime tra morti e desaparecidos, soprattutto tra poveri e indigeni delle zone rurali presi tra i due fuochi di Sendero Luminoso e delle forze statali. La Commissione per la Verità e la Riconciliazione istituita nel 2001 ha affrontato il problema della memoria e della giustizia. Ma molto rimane ancora da fare.

Domenica, 10 del mattino. Ho appuntamento con i miei studenti dell’Università cattolica per visitare il «Lugar de la Memoria». Il grande edificio non è visibile dalla strada e si raggiunge con difficoltà scendendo scale piuttosto scomode. Quando arrivo trovo il posto pieno di visitatori, quasi tutti studenti, ma anche famiglie, suore e turisti stranieri.

Mentre spiego ai giovani la strage di Putis1 del 1984, l’assassinio di otto giornalisti a Uchuraccay2 del 1983 e il lavoro svolto dalle organizzazioni per i diritti umani, penso che senza il lavoro della Commissione Verità tutto ciò che stiamo visitando non esisterebbe.

Il contesto peruviano

Ci sono molte differenze fra la realtà peruviana e quelle di altri paesi dell’America Latina come il Cile, l’Argentina, il Brasile o l’Uruguay in cui furono istituite Commissioni per la verità.

Un primo fattore particolare è la proporzione della violenza: quanto accadde in Perù tra il 1980 e il 1993 non può essere ridotto alla categoria di incidenti di terrorismo o guerriglia urbana e repressione. In molte zone si raggiunse il livello di una guerra, con attacchi alle caserme, battaglie, stragi. Sendero Luminoso riuscì a operare su un territorio grande quasi come l’Italia (il Perù ha una superficie di circa quattro volte il nostro paese, ndr).

È vero che molti peruviani preferiscono parlare di terrorismo e di eccessi delle forze di sicurezza, ma questo succede perché è difficile accettare che sia stata una vera e propria guerra.

Una seconda particolarità del conflitto peruviano riguarda i due gruppi insorgenti, Sendero Luminoso e il Movimiento Rivoluzionario Túpac Amaru (Mrta), i quali furono molto violenti contro la popolazione civile, specialmente i contadini più poveri. I senderistas ammazzavano villaggi interi, compresi i bambini. Disprezzavano le comunità più fedeli alle proprie tradizioni come se fossero state composte da primitivi. Per questo motivo anche tra gli indigeni asháninka dell’Amazzonia soffrirono in tantissimi. Il Mrta assassinava omosessuali e tossicodipendenti in diverse città dell’Amazzonia.

Un terzo elemento specifico del caso peruviano è il fatto che, sul versante delle istituzioni, il maggior responsabile delle desapariciones, degli stupri di massa, delle esecuzioni extragiudiziali e delle torture non fu una dittatura militare ma un governo democratico, quello di Fernando Belaúnde (1980-1985). Belaúnde lasciò ai militari la responsabilità di lottare contro i sovversivi e, quando essi compirono le atrocità poi documentate dalla Commissione Verità, ne diventò complice proteggendoli tramite leggi ad hoc.

Infine, un’altra differenza sta nel fatto che negli altri paesi del Sud America molte delle vittime dei militari furono persone residenti in città, normalmente gente di sinistra appartenente alla classe media, in Perù, invece, le principali vittime furono indigeni poveri che abitavano in campagna e non parlavano spagnolo. I senderisti li uccidevano per rappresaglia e i militari seguivano la politica della tierra arrasada, «terra bruciata» (la repressione indiscriminata contro la popolazione sospetta di appartenere o fiancheggiare la guerriglia, ndr), uccidendo contadini innocenti.

I crimini commessi contro le comunità indigene avvennero in un contesto di forte odio razziale: i militari erano convinti dell’inferiorità degli indigeni ed erano sicuri di rimanere impuniti. Un razzismo, comunque, presente non solo tra i militari, ma diffuso tra la popolazione ancora oggi: un’eredità coloniale che continua a essere forte e viva due secoli dopo l’indipendenza (in un paese nel quale si stima che la popolazione indigena raggiunga il 45% dei quasi 31 milioni di abitanti; un altro 31% sarebbe composto da meticci, ndr). Molti peruviani di ascendenza europea, ad esempio, considerano gli indigeni i responsabili dell’arretratezza del paese. L’indifferenza è l’attitudine più comune nei confronti dei loro problemi: la povertà, lo sfruttamento e l’inquinamento dei loro territori.

Sconfitta e memoria

La violenza del governo di Belaúnde contro i contadini contribuì a fare crescere Sendero Luminoso. Il successore di Belaúnde, Alan García (presidente del Perù dal 1985 al 1990, e poi nuovamente dal 2006 al 2011, ndr) fermò la politica della «terra bruciata», ma le sparizioni e le violenze continuarono. Le stragi nei villaggi di Accomarca3 e Cayara4, o nelle carceri di Lima5, in cui ci furono più di duecento morti tra i detenuti, avvennero durante il suo governo. I seguenti governi di Alberto Fujimori (dal 1990 al 2000) furono caratterizzati da uno stile autoritario di cui è un esempio l’auto-golpe del 1992 tramite il quale il presidente fece sciogliere il parlamento e proclamò la legge marziale. Poco dopo, quando il leader di Sendero Luminoso, Abimael Guzmán, fu arrestato e imprigionato Fujimori, fu considerato il grande pacificatore. Il movimento terrorista andò in crisi e il governo riuscì a sbaragliarlo. Oggi resiste in alcuni luoghi isolati ed è molto vicino ai narcotrafficanti.

La sconfitta di Sendero Luminoso permise ai peruviani di recuperare la fiducia nella possibilità di continuare a vivere nel loro paese e di progettare il loro futuro: farsi una famiglia, studiare, costruire una casa. La gente cercò di dimenticare gli anni della violenza.

Il Perù incominciò a ricevere grandi investimenti. Aprirono nuovi negozi, grandi shopping center, ditte straniere. Si potrebbe dire che il lusso e il consumismo accecarono chi voleva essere abbagliato per dimenticare la violenza e le sue cause. I più poveri non potevano permettersi di acquistare nuove macchine o vestiti ma ricevevano dal governo fujimorista cibo e altre donazioni. E loro, cioè la parte di popolazione che maggiormente aveva sofferto nel conflitto, ringraziavano Fujimori per la pace.

Convocando la Commissione nel mezzo di una crisi

Otto anni dopo la cattura di Guzmán, nel 2000, pochi ricordavano il tempo della violenza e Fujimori, al suo terzo, contestato, mandato, era stato travolto da molti scandali di corruzione che lo avevano costretto a scappare in Giappone. Quando nel governo provvisorio di Valentín Paniagua si volle fare un’inchiesta sulla corruzione al tempo di Fujimori, gli organismi per i diritti umani ne approfittarono per proporre l’istituzione di una commissione sulle violazioni dei diritti umani.

Non solo convinsero Paniagua, ma riuscirono a fare in modo che l’inchiesta riguardasse un lasso di tempo che andava indietro fino al governo di Belaúnde durante il quale Paniagua era stato presidente della Camera di Deputati.

Ufficialmente Paniagua e poi il suo successore Alejandro Toledo*, volevano una commissione il più possibile plurale, e scelsero i commissari per il loro valore morale: un vescovo, un pastore evangelico, un militare, una imprenditrice. Fra i dodici membri c’erano anche Sofía Macher che era stata Segretaria esecutiva della Coordinadora Nacional de Derechos Humanos, il sacerdote Gastón Garatea*, il sociologo Rolando Ames che nel primo governo di García aveva partecipato come senatore di sinistra all’inchiesta sul massacro delle carceri, e Carlos Iván Degregori, antropologo che aveva lavorato ad Ayacucho ed era uno dei più grandi ricercatori su Sendero Luminoso. Come osservatore per la Chiesa Cattolica c’era il vescovo Luis Bambarén*. Questi cinque personaggi avevano lavorato molto per i diritti umani al tempo del conflitto, denunziando i crimini dei senderisti e dei militari.

Mi causò una certa sorpresa il fatto che, all’interno di questa pluralità, non si fosse nominato nessun rappresentante delle vittime. E la situazione più curiosa fu che, pur essendo il razzismo il fattore che causò strage tra molti innocenti, non si pensò di includere persone dai tratti indigeni fra i commissari: quasi tutti erano uomini bianchi che abitavano a Lima, nessuno parlava quechua, la lingua indigena predominante in Perù. La stessa Commissione avrebbe poi scoperto che il 75% delle vittime della violenza parlava quechua. In una società con tante divisioni etniche e sociali non fu la partenza migliore.

Un altro punto problematico fu il fatto che la Commissione, inizialmente, non capì che il suo lavoro non era nato da una domanda della società: per i crimini commessi da Sendero Luminoso e Mrta, i responsabili erano già in prigione e la gente non sentiva il bisogno di fare nuove ricerche. Nel caso dei crimini delle forze di sicurezza statali, era molto diffusa l’idea che fossero stati il prezzo da pagare per la pace.

Anche i contadini sentivano molto lontana la Commissione. Quando essa organizzò udienze pubbliche – ad esempio ad Ayacucho, uno dei posti in cui più aveva sofferto la popolazione indigena – nelle quali le vittime raccontavano le violenze subite, la gente pensò che i commissari volessero ascoltare i testimoni per semplice sadismo, perché ai bianchi piaceva vedere soffrire gli indigeni.

In più, alcune decisioni importanti della Commissione erano state prese senza valutarne le conseguenze sociali.

Informe final e conseguenze politiche

Nonostante i problemi menzionati, dopo mesi di lavoro intenso in tutto il Perù, sistemando e ordinando centinaia di testimonianze, la Cvr produsse un documento molto corposo e completo: l’«Informe Final», in nove volumi, un lavoro di ricerca che approfondiva molti aspetti della violenza e del suo contesto.

La difficoltà maggiore per la Commissione durante il suo lavoro non era stata tanto quella di scoprire i crimini del tempo de Belaúnde, quanto piuttosto quella di mostrare come la gente avesse accettato la situazione. Più difficile che mostrare l’orrore commesso da terroristi e militari, era stato mostrare la sua accettazione nell’opinione pubblica.

L’Informe Final ricevette quasi unanime rifiuto da parte della classe politica: i partiti di Belaúnde, García e Fujimori e i loro alleati non volevano nessuna responsabilità: dicevano che nel lavoro della commissione aveva pesato un preconcetto antimilitarista. Soltanto la sinistra riconobbe il valore del documento.

Anche il capo della Chiesa peruviana del tempo, il cardinale Cipriani*, fu contro l’Informe, specialmente perché si era sentito chiamato in causa nei passaggi in cui esso parlava di un ruolo negativo della Chiesa nella zona del conflitto. Va notato che nel periodo più cruento, Cipriani non era ancora vescovo ad Ayacucho.

Data la resistenza nell’accoglienza del documento, alcuni settori numericamente piccoli della società civile (i cattolici legati alla teologia della liberazione e le Ong che si occupavano dei diritti umani) lavorarono per promuoverne la diffusione e la conoscenza. Al loro impegno si devono i risultati positivi di questi anni.

Giustizia. L’Informe final continua a essere uno strumento per tutti quelli che cercano giustizia. Le Ong per i diritti umani hanno avviato processi giudiziari per molti casi. Il più conosciuto è quello contro Fujimori, il quale, arrestato in Cile dopo gli anni di autoesilio in Giappone, ed estradato in Perù, è stato condannato al carcere per violazioni dei diritti umani, soprattutto per le vicende legate al Gruppo Colina6 che rapì e ammazzò gli studenti dell’università La Cantuta7 e fece stragi come quella di Barrios Altos8. Altra condanna importante è stata quella relativa alla strage di Accomarca9 accaduta nel 1985.

Purtroppo i processi sono molto lenti e diverse vittime muoiono senza ottenere giustizia. Migliaia di desaparecidos non sono ancora stati rintracciati e le famiglie probabilmente moriranno senza sapere dove si trovano.

Riparazioni. Molte vittime hanno ricevuto riparazioni individuali e collettive sotto forma di opere di sviluppo delle comunità più povere. C’è un Registro Central de Víctimas che ha funzionato con molta attenzione per consegnare la riparazione a chi veramente aveva sofferto nel conflitto.

Memoria. In questo ambito le difficoltà continuano a essere grandi. I militari e i fujimoristi sono stati molto abili nel manipolare il ricordo di quegli anni allo scopo di minare la credibilità della Commissione presentando ogni denuncia a carico loro come un attentato dei terroristi e dei loro alleati. Il presidente Belaúnde, ad esempio, continua a essere ricordato come un uomo gentile e innocuo: in pochi sanno che durante quegli anni migliaia di contadini furono assassinati.

Per coltivare la memoria, in un primo momento si è formato il gruppo «Para que no se repita», il quale però non legava la violenza dei decenni passati a problemi permanenti del paese come il razzismo, o ai crimini contro i diritti umani più recenti, come quelli contro molti contadini uccisi negli ultimi anni.

Nel 2005 è stato aperto il memoriale «El ojo que llora» (l’occhio che piange), opera di una scultrice olandese, Lika Mutal, fatta secondo la logica di uno spazio buddista di meditazione. Sarebbe stato meglio in Perù un memoriale più vicino alla tradizione cristiana, alla quale apparteneva la maggioranza delle vittime, o laica. Comunque, l’assenza di altri spazi ha motivato i famigliari delle vittime a andare lì.

Alla fine del 2015 è stato aperto il Lum «Lugar de la Memoria, la Tolerancia y la Inclusión Social», grazie al finanziamento del governo tedesco. Si trova in un quartiere benestante ed è difficile da raggiungere, come «El ojo que llora», ma è sempre pieno di gente. Sembra che molti abbiano capito che questo spazio è fondamentale per ricordare ciò che ha vissuto il Perù nel conflitto.

Ultimamente, pare che alcuni cambiamenti possano avvenire con il nuovo governo di Pedro Pablo Kuczynski. La ministra della Giustizia Marisol Pérez Tello pare intenzionata a fare in modo che lo stato accetti le sue responsabilità: è andata al «Ojo que llora» a chiedere perdono alle vittime della violenza. In più il governo sta per iniziare un programma per cercare i desaparecidos.

La via peruviana ha le sue caratteristiche e difficoltà, ma lo sforzo della Commissione e della gente impegnata nella costruzione di una società più giusta può lentamente ottenere risultati.

Wilfredo Ardito Vega

L’autore

Avvocato, insegnante universitario e scrittore. Ha conseguito il master in Diritto Internazionale dei diritti umani all’Università di Essex, in Inghilterra, il dottorato in Legge alla Pontificia Università Cattolica del Perù (Pucp). È docente alla Facoltà di Legge della Pucp, all’Università del Pacifico e all’Università Nazionale San Marco. Eletto a difensore universitario della Pucp. Ha pubblicato diversi volumi sui diritti umani, la discriminazione e i popoli indigeni, e tre romanzi di cui il primo tradotto in italiano nel 2011 per Emi con il titolo Cercando Almuneda.

Archivio MC

Sul Perù MC ha pubblicato numerosi articoli, ne segnaliamo solo alcuni:

Sul web

http://www.cverdad.org.pe/ifinal/index.php

Note

1- Nel dicembre del 1984, 123 persone, tra cui 19 bambini e ragazzi, furono assassinate dai militari della base di Putis, provincia di Huanta, Ayacucho, zona con forte presenza di Sendero Luminoso. I militari, dopo aver violentato alcune donne, uccisero i contadini buttandone i corpi nelle fosse che le vittime stesse avevano scavato (ndr., cfr. Cvr, Informe Final, Tomo VII, cap 2, 14).

2- Nella località quechua di Uchuraccay, Ayacucho, il 26 gennaio 1983 furono assassinati otto giornalisti, la loro guida e un membro della comunità per mano dei membri della comunità di Uchuraccay stessa costituiti in un gruppo di autodifesa contro i Sendero Luminoso. Essi credevano che i giornalisti fossero parte della guerriglia. Uchuraccay si spopolò completamente nel giro di pochi mesi in seguito alle 135 morti provocate da Sendero Luminoso e dalla repressione dell’esercito (ndr., cfr. Cvr, Informe Final, Tomo V, cap 2, 14).

3 e 9- Il 14 agosto 1985 una pattuglia dell’esercito uccise 62 persone, tra cui donne, anziani e bambini, di Accomarca, provincia di Vilcashuamán, Ayacucho (ndr., cfr. Cvr, Informe Final, Tomo VII, cap 2, 15).

4- In seguito a un attacco di Sendero Luminoso contro l’esercito il 13 maggio 1988, ci fu una violenta risposta delle forze armate che nei giorni seguenti, nelle comunità di Cayara, Erusco e Mayopampa, dipartimento di Ayacucho, provocò la morte o la sparizione di 39 persone accusate di far parte della guerriglia (ndr., cfr. Cvr, Informe Final, Tomo VII, cap 2, 27).

5- Il 19 giugno 1986 più di 200 detenuti nel carcere di San Pedro (Lurigancho) e nell’ex carcere di San Juan Bautista sull’isola El Fronton, accusati di terrorismo o già condannati, furono assassinati da agenti dello stato nel contesto di alcuni disordini scoppiati nei penitenziari (ndr., cfr. Cvr, Informe Final, Tomo VII, cap 2, 67).

6- Il Grupo Colina era lo squadrone della morte, costola dei servizi segreti, che operò durante il periodo di governo di Fujimori, catturando, arrestando e assassinando chi fosse sospettato di sovversione (ndr., cfr. Cvr, Informe Final, Tomo III, cap 2, 3).

7- Per Sendero Luminoso, l’università La Cantuta fu la principale fonte di reclutamento e base per la trasmissione della sua ideologia. Nel luglio del 1992 furono sequestrati e uccisi 9 suoi studenti e il professore Hugo Muñoz (ndr., cfr. Cvr, Informe Final, Tomo VII, cap 2, 22).

8- Il 3 novembre 1991 il Grupo Colina assassinò 15 persone (compreso un bimbo di 8 anni) nella zona centrale di Lima, Barrios Altos (ndr., cfr. Cvr, Informe Final, Tomo VII, cap 2, 47).

[*] I personaggi segnati con l’asterisco sono stati tutti, in diversi momenti, intervistati da MC.