Missionari della Vita

Testo di Gigi Anataloni, direttore MC


Il 4 novembre scorso, a mezzogiorno, la Chiesa di Colombia è stata chiamata a «vivere per la vita e la pace», una manifestazione corale di tre minuti per dire «no» a ogni violenza, in particolare quella contro i popoli indigeni. «La vita è ferita – ha detto con forza l’arcivescovo di Popayan, Luis José Ruenda -. La vita ha bisogno di noi. La vita ferita ha bisogno di tutti. In questi giorni abbiamo ascoltato con dolore la notizia che arriva a tutta la Colombia e al mondo intero dal Cauca. La vita è ferita: ci sono stati due massacri, ci sono state molte morti. Molti indigeni, molti operatori sociali, molti contadini, molti giovani hanno perso la vita negli ultimi tempi».

Ha poi continuato: «La vita è ferita e la vita ferita ha bisogno di tutti noi, missionari, iniziando dalla difesa della vita nel ventre materno: non possiamo accettare l’aborto come un diritto. La donna ha diritto ad essere missionaria della vita. L’anziano ha diritto di terminare degnamente la sua vita. Noi dobbiamo essere missionari della vita nella società e nel privato, nel ventre materno e nel campo di battaglia, in tutti i luoghi dobbiamo essere difensori della vita, […] per la vita, per la vita nel ventre materno e per la vita minacciata dalle forze oscure che cercano di distruggere la nostra società». Per questo alle 12.00 del 4 novembre in tutta la Colombia si sono fermati per tre minuti: per suonare le campane, per pregare in ogni casa e per applaudire per un minuto alla vita «perché, applaudendo un minuto, sappiamo che la vita ha bisogno di noi e che la vita è nelle nostre mani».

Le parole dell’arcivescovo sono un fortissimo stimolo alla Chiesa colombiana, ma hanno anche un valore universale perché sono una chiamata a difendere e promuovere la vita in tutte le sue fasi: dal grembo materno alla vecchiaia; in tutte le sue dimensioni sia che riguardino l’uomo che l’ambiente; e in ogni luogo: dal conforto della casa alle lotte per una società più giusta, pacifica, inclusiva e sicura per ognuno, di qualsiasi popolo, nazione, cultura e religione egli sia.

La vita è ferita. È un grido che ci riguarda tutti. Un grido che in questo tempo prima di Natale assume una valenza anche più profonda. La memoria della nascita di Gesù non può essere lasciata alle «luci d’artista» che abbelliscono le nostre strade, né alle promozioni pubblicitarie che riducono un evento chiave della nostra fede a una grande abbuffata consumista. Non possiamo neanche accontentarci dei presepi nelle scuole o sulle piazze, e neppure di quelli ovvii (e dovuti) nelle chiese. Ma far memoria della nascita di Cristo richiede un rinnovato impegno per promuovere la vita in tutte le sue dimensioni, contro tutti i nuovi Erodi.

Il vescovo della Colombia ci ha ricordato che siamo «missionari della vita»: la Vita, quella con la «V» maiuscola, che è Gesù, e missionari di tutto quello che è vita ed è essenziale per la vita. Essere «missionari» vuol dire essere «attori» non «spettatori», vuol dire prendere posizione, assumersi responsabilità e agire; non restare indifferenti di fronte ai continui attentati alla vita, passati a volte come conquiste di civiltà (vedi aborto, eutanasia, fecondazione assistita); promuovere, difendere e sostenere la famiglia; approfondire le questioni senza accontentarsi dei social e diffondere fake news; diventare coscienti dei problemi, dei bisogni e delle potenzialità del proprio territorio e agire per migliorarne la qualità di vita e servizi; interessarsi del proprio condomino, conoscere i propri vicini, avere un’attenzione speciale per gli anziani e per eventuali famiglie povere e in difficoltà; rifiutare il degrado che prospera nell’indifferenza; cambiare attitudine (non padrone, ma servo – direbbe Gesù) nei confronti degli altri, che non sono dei nemici, ma uomini come me e fratelli e sorelle, anche se vengono da altri paesi e hanno la pelle superficialmente diversa dalla mia.

Gesù ci ha dato una regola aurea: «Ama il prossimo come te stesso» (cfr. Mt 22,39) che è anche «fai agli altri quello che vorresti sia fatto a te» (cfr. Mt 7,12). Gli spazi di azione sono senza fine e ognuno può trovare il suo, basta vincere la logica del «divano», non accontentarsi di manifestare e smetterla di dare la colpa agli altri. Anche se poco, anche se arriva
solo al marciapiede davanti a casa, faccio tutto quello che mi è possibile per creare un ambiente più bello, più accogliente, più fraterno, più giusto, dove si respiri pace, dove nessuno si senta escluso,
dove la vita – in tutte le sue dimensioni – sia davvero difesa, accolta, promossa e coccolata.

C’entra con il Natale? Vedete voi. È bello fare il presepio, partecipare alla messa di mezzanotte, ritrovarsi tutti in famiglia per un bel pranzo insieme, ma l’accogliere il «Signore della vita e che è Vita» deve trasformare il nostro modo di vivere quotidiano. Buon Natale.




Non si eliminano così anche gli ulivi

Leggo: «“I paesi coinvolti dal virus zika devono autorizzare la contraccezione e l’aborto”. È questo l’ultimo appello sull’epidemia lanciato stavolta non dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), ma direttamente dall’Onu. L’alto commissario delle Nazioni unite per i Diritti umani, Zeid Raad al-Hussein, ha fatto sapere che garantirà alle donne in questi paesi anche consulenza su salute sessuale e riproduttiva. Ma soprattutto ha rivolto un invito ai governi e parlamenti: “Le leggi e le politiche che restringono il loro accesso a questi servizi devono essere riviste con urgenza, allineandosi agli obblighi inteazionali sui diritti umani per garantire il diritto alla salute per tutti”, ha affermato al-Hussein. “Chiediamo a questi governi di cambiare tali leggi, perché come possono chiedere alle donne di evitare gravidanze?”, ha aggiunto Cecile Pouilly, portavoce dell’alto commissario» (da repubblica.it, 05/02/2016). Parole pesanti queste, come la morte.

Scusate, ma quando leggo notizie come quella sopra riportata mi viene da chiedermi quale concezione abbiano i burocrati dell’Onu della persona umana. Non vedo molta differenza ideologica tra queste sentenze che escono dal Palazzo di Vetro e quelle che piovono da Bruxelles a proposito degli ulivi pugliesi infettati di Xylella. Gli ulivi si tagliano, i feti si eliminano, tutto nel nome della salute e della sicurezza. Gli ulivi stanno lì dove sono stati piantati 10, 100, 1000 anni fa. Il parassita li attacca e loro non possono neppure scuotere i rami per resistere. Ma la persona umana?

Si dice che non si può «chiedere alle donne di evitare gravidanze». Allora via tutti gli ostacoli e i limiti a «anticoncezionali e aborto», per garantire il «diritto alla salute per tutti». Per tutti, eccetto i nuovi figli e figlie in attesa di nascere. Ma rischiano di nascere malati! E poveri. Allora, per sicurezza, uccidiamoli prima. E per evitare problemi di coscienza, cambiamo le leggi cosicché quella che in realtà è un’operazione di eugenetica diventa un’operazione umanitaria.

Non intendo entrare nel merito della vexata quaestio dei contraccettivi, e neppure mettere in discussione il dovere delle istituzioni nazionali e inteazionali di proteggere la salute di tutti. Neppure mi sogno di sottovalutare il dramma vissuto da migliaia di famiglie nelle regioni colpite dal virus, famiglie, tra l’altro, che già vivono in situazioni di gravissima povertà. Mi voglio limitare a condividere con voi il profondo disagio che provo di fronte alla deriva molto materialista della nostra società. Mi preoccupa un mondo nel quale si ha paura ad accogliere alcune migliaia di bambini probabilmente malati perché, in fondo, non si pensa in termini di sofferenza (per loro e le loro famiglie), ma piuttosto in termini di spesa e guadagno e non si ha nessuna intenzione di investire per migliorare l’habitat degradato in cui nascono. Quello stesso mondo non esita a sganciare migliaia di bombe in Siria e spende miliardi in armamenti, ha i fondi per nuovi stadi e le Olimpiadi, ma non trova i soldi per chi fugge da guerre e miseria, per risanare le periferie urbane e costruire nuove scuole, e non osa credere nella gratuità dell’amore, come quello di genitori disposti ad accogliere e amare un figlio anche malato. Ricordo una giovane famiglia che si rifiutò di permettere ai medici di interrompere l’alimentazione del loro bimbo prematuro per accelerae la morte inevitabile. Visse solo 22 giorni quel piccolo. Ebbe un nome e una storia. Oggi, andando al cimitero, quei genitori possono dire «ti abbiamo tanto amato», senza portare il peso di un «ti abbiamo ucciso».

È proprio la capacità di amare gratis, anche contro il buonsenso, che ci caratterizza ed è una delle dimensioni più belle e sorprendenti del nostro essere uomini. Più bazzico il Vangelo, più rimango affascinato dalla fiducia che Dio ha nell’uomo: una fiducia tale da credere che l’uomo sia capace di comportarsi da Dio, di essere perfetto come Dio è perfetto, di essere misericordioso come Dio è misericordioso, capace della stessa gratuità di Dio.

Il problema è che siamo noi uomini a non credere negli uomini. Si parla tanto di umanità, di «diritti umani». Ci si riempie la bocca di libertà, sicurezza, diritti. Ma chi ha una concezione più alta dell’uomo? Chi promette sicurezza e salute eliminando dolore e sensi di colpa? O chi crede nella capacità di gratuità, d’amore, di dono di sé, di sacrificio e di pensare «noi» e non solo «io»?

Amo gli ulivi e ho perplessità sulle soluzioni drastiche usate per «difenderli», ma gli uomini sono ben più degli ulivi. Sono capaci di amare, e questo è il più grande antidoto alla malattia e alla morte.