eSwatini: Comunicato del vescovo sull’uccisione di Thulani Maseko


La sera del 22 gennaio 2023 «è stato brutalmente ammazzato a colpi di arma da fuoco Thulani Maseko, avvocato per i diritti umani e influente oppositore a eSwatini (ex Swaziland), l’unica monarchia assoluta nel continente africano. […] Maseko è stato anche il fondatore di MSF, una coalizione di partiti di opposizione, associazioni e chiese. Era un importante avvocato ed editorialista per i diritti umani nel regno e aveva in corso una battaglia giudiziaria con il re Mswati III per la decisione del monarca di rinominare il Paese Eswatini.»  (Africa exPress).

Sull’uccisione ci sono state molte reazioni, tra cui quella quella del responsabile per i Diritti umani delle Nazioni Unite.

Qui la dichiarazione che il vescovo di Manzini, mons José Luis Ponce de León ha pubblicato il 23 gennaio.


DIOCESI DI MANZINI – ESWATINI (Swaziland)

Dichiarazione del vescovo cattolico di Manzini

 “In mezzo a tutto ciò che sta accadendo nel paese, notiamo che nessuno è al sicuro. La mentalità dell’occhio per occhio sembra aver afferrato la nazione. La violenza ha raggiunto livelli allarmanti”. (Thulani Maseko)

“Una società che accetta questo livello di violenza è condannata a sperimentarne livelli ancora più alti che possono solo generare più morte e sofferenza”.  Questo è stato il mio messaggio dopo l’uccisione di due agenti di polizia a Manzini nell’ottobre 2022. Da allora si sono verificati altri omicidi. Purtroppo, sembra che li abbiamo accettati come la “nuova normalità” nel Regno di Eswatini.

Domenica 22 gennaio 2023 ci siamo svegliati con la notizia dell’insensata uccisione di Thulani Maseko. Il numero di dichiarazioni nazionali e internazionali sulla sua uccisione e la copertura mediatica parlano del tipo di persona che era e del suo ruolo nel momento presente del nostro paese.

Era preoccupato per i livelli di violenza che si stanno sperimentando e per l’impatto che hanno nella vita di molti. Credeva che solo un dialogo nazionale che includesse tutti potesse essere una solida base per il futuro del nostro paese.

Ha scritto: “Non c’è dubbio che eSwatini stia sopportando una guerra civile di basso profilo. Siamo preoccupati che senza il dialogo, il prossimo anno sarà più violento. (…) Alla fine di tutto, dobbiamo sederci e plasmare insieme il destino del paese.

La sua uccisione punta a coloro che fanno una scelta per la violenza, la morte, la paura e l’esclusione come fondamenta del nostro futuro comune. A loro si applicano le parole di nostro Signore: “Se aveste compreso anche voi, in questo giorno, la via della pace. Ma ormai è stata nascosta ai vostri occhi”. (Lc 19,41-42)

Rispondere alla sua uccisione con la violenza significherà andare contro ciò che lui ha rappresentato. Mostrerà anche che “ciò che costruisce la pace” è nascosto ai nostri occhi.

Come dice Papa Francesco: “La pace, che è un nostro obbligo, è prima di tutto un dono di Dio”.  (22.05.2022) Pertanto, in questo momento critico del nostro Paese, invito ogni persona della diocesi di Manzini a pregare quotidianamente per il dono di Dio della pace, ma anche  a a prendere un concreto impegno personale ad essere “operatore di pace” (Mt 5, 9), a rendere possibile la pace senza addurre scuse che il tempo non è giusto o che non è possibile resistere alla tentazione della violenza. Che questo avvenga attraverso le nostre parole e azioni, poiché entrambi, parole e azioni, hanno il potere di costruire e distruggere. Non dovremmo mai sottovalutarle.

Lo Spirito del Signore risorto ci dia la saggezza e il coraggio di trovare le vie per spezzare il ciclo della violenza.

I nostri cuori raggiungono nella preghiera la famiglia di Thulani Maseko, gli amici e tutti coloro che piangono la sua morte. Il Dio di ogni consolazione conceda loro pace e forza.  Gesù, il Buon Pastore, lo accolga a casa.

+ José Luis Ponce de León IMC
vescovo di Manzini
23  gennaio 2023

(Citazioni dalla rivista “The Nation”, gennaio 2023)


Su Eswatini nell’archivio MC

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ESwatini. Un paese in guerra con se stesso?




La guerra dei sonnambuli


Nel tempo del pericolo nucleare, i decisori politici e l’opinione pubblica sono prigionieri della logica binaria che non vede alternative alla violenza per rispondere alla violenza (e «vincere»). È necessario rimettere al centro i principi e i saperi della resistenza nonviolenta. Prima che sia tardi.

Di questi tempi bisognerebbe rileggere il libro I sonnambuli dello storico Christopher Clark che descrive tutti coloro che avevano le leve del potere e dell’informazione nel 1914 come sonnambuli, apparentemente vigili, ma incapaci, in realtà, di rendersi conto che stavano conducendo il mondo nel baratro di quella «grande guerra» che papa Benedetto XV avrebbe definito «l’inutile strage».

A giudicare dalle scelte fatte e reiterate dai governi rispetto alla guerra in Ucraina, e dalle posizioni veicolate dalla maggior parte dei mezzi d’informazione, un’analoga epidemia di sonnambulismo sembra contagiare anche i decisori e i media di oggi.

Essi, infatti, fanno scelte ed esprimono posizioni non all’altezza dei tempi che attraversiamo, perché prive di consapevolezza della «situazione atomica» nella quale siamo immersi.

Siamo come gli «utopisti al rovescio» de Le tesi sull’età atomica del filosofo Gunter Anders: «Mentre gli utopisti non sanno produrre ciò che concepiscono, noi non sappiamo immaginare ciò che abbiamo prodotto». Siamo incapaci di superare la distanza che separa la capacità distruttiva delle armi nucleari da quella di generare pensieri, discorsi e azioni consapevoli e responsabili. Soprattutto in questo varco critico della storia, nel quale la minaccia atomica viene brandita come mai prima.

Photo by Thomas Gaulkin/Bulletin of the Atomic Scientists.

100 secondi alla mezzanotte

Se questa definizione di Anders del 1960 era vera allora, quando la coscienza del pericolo atomico era diffusa, è incomparabilmente più vera oggi, quando si è persa la memoria del trauma di Hiroshima e Nagasaki: se nel 1960 le lancette dell’«orologio dell’apocalisse», l’orologio simbolico ideato dal «Bollettino degli scienziati atomici» per misurare quanto siamo vicini all’olocausto nucleare, erano posizionate a 7 minuti dalla mezzanotte (la fine del mondo), oggi sono a soli 100 secondi.

Questa dimenticanza dell’olocausto atomico la spiega bene lo storico Daniel Immerwahr su «The Guardian», riportato da «Internazionale» del 21-27 ottobre 2022: «Con il passare del tempo i traumi svaniscono, per nostra fortuna. Vogliamo che la bomba atomica sia proprio questo: un fatto arcaico definitivamente relegato nel passato. Ma non raggiungeremo questo obiettivo ignorando la possibilità della guerra nucleare. Dobbiamo smantellare gli arsenali, rafforzare i trattati e consolidare le norme contro la proliferazione. In questo momento stiamo facendo il contrario. La nostra coscienza nucleare si è atrofizzata. Ci rimane un mondo pieno di armi atomiche che però si sta svuotando delle persone consapevoli delle possibili conseguenze».

Benzina invece di pompieri

Questo svuotamento di consapevolezza sembra attraversare il dibattito pubblico e le scelte politiche fin dall’inizio dell’aggressione russa all’Ucraina conducendo tutti a irreggimentarsi nella logica binaria – pace/vittoria; resistenza/resa – che ha militarizzato il pensiero e la discussione, alimentando «l’emozione unidirezionale pro/contro, come se fossimo tutti noi sul campo di battaglia», come ha scritto la politologa Nadia Urbinati su «Domani» già il 5 marzo 2022.

Il sostegno armato alla legittima difesa degli ucraini è così diventato, immediatamente, il solo mezzo e l’unica via alla «pace». Altre possibilità di uscita dalla guerra sono state escluse. L’unica opzione è rimasta quella di mandare sempre più armi per raggiungere la «vittoria» (impossibile in un contesto di permanente minaccia atomica).

Abbiamo così visto all’opera, ancora una volta, il riflesso pavloviano, automatico, del rispondere alla guerra con la guerra, e di gettare benzina sul fuoco invece di inviare «pompieri» per spegnerlo e dipanare la matassa del conflitto in favore di una soluzione sostenibile e duratura. In un avvitamento progressivo verso l’escalation che ha riportato all’ordine del giorno anche il possibile uso di armi nucleari.

(Photo by Andrea Ronchini, Ronchini / NurPhoto / NurPhoto via AFP)

Ripartire dal dialogo

Tutto questo ha impedito ai singoli governi europei e all’Ue nel suo insieme di assumere una posizione di «neutralità attiva» – come ha chiesto fin da subito la Rete italiana pace e disarmo – che non è equidistanza tra aggressore e aggredito, ma la postura che forse le avrebbe consentito di ricoprire il ruolo di soggetto pacificatore nel contesto di un conflitto che non è scoppiato un anno fa, ma già nel 2014.

Una colpevole rinuncia, questa dell’Ue, che lascia il ruolo di mediatore all’autocrate Erdogan.

Chi, invece, si è tenuto vigile e lungimirante nella ricerca di una mediazione, è stato papa Francesco, con i suoi ripetuti appelli alla pace e al disarmo, sui quali ha condotto anche i principali leader religiosi con la straordinaria Dichiarazione del Colosseo dello scorso 24 ottobre, un testo che – proprio perché ignorato da media e governi – merita di essere ampiamente citato.

«Con ferma convinzione diciamo: basta con la guerra! Fermiamo ogni conflitto. La guerra porta solo morte e distruzione, è un’avventura senza ritorno nella quale siamo tutti perdenti. Tacciano le armi, si dichiari subito un cessate il fuoco universale. Si attivino presto, prima che sia troppo tardi, negoziati capaci di condurre a soluzioni giuste per una pace stabile e duratura. Siamo di fronte a un bivio: essere la generazione che lascia morire il pianeta e l’umanità, che accumula e commercia armi, nell’illusione di salvarsi da soli contro gli altri, o invece la generazione che crea nuovi modi di vivere insieme, non investe sulle armi, abolisce la guerra come strumento di soluzione dei conflitti e ferma lo sfruttamento abnorme delle risorse del pianeta. L’umanità deve porre fine alle guerre o sarà una guerra a mettere fine all’umanità. Il mondo, la nostra casa comune, è unico e non appartiene a noi, ma alle future generazioni. Pertanto, liberiamolo dall’incubo nucleare. Riapriamo subito un dialogo serio sulla non proliferazione nucleare e sullo smantellamento delle armi atomiche. Ripartiamo insieme dal dialogo che è medicina efficace per la riconciliazione dei popoli. Investiamo su ogni via di dialogo. La pace è sempre possibile! Mai più la guerra! Mai più gli uni contro gli altri!».

Mezzi coerenti con i fini

Per trovare, dunque, una via di uscita dalla guerra che non sia catastrofica per tutti – a cominciare dal popolo ucraino -, occorre recuperare un principio fondamentale e alcuni saperi dell’agire politico. Il principio è quello teorizzato già da Max Weber alla fine della Prima guerra mondiale: l’etica della responsabilità che, al contrario dell’etica delle intenzioni, cerca di prevedere le conseguenze dell’agire. Essa indica il rischio che un obiettivo buono possa essere realizzato producendo «effetti collaterali» negativi. Suggerisce, quindi, di mettere in campo mezzi coerenti con i fini da raggiungere. In altre parole: il fine non giustifica i mezzi.

Nel nostro tempo il «Principio responsabilità», riformulato da Hans Jonas come «etica per la civiltà tecnologica», prescrive di agire «in modo che le conseguenze dell’azione siano compatibili con la sopravvivenza di un’autentica vita umana sulla terra». È il principio espresso anche nel Manifesto Einstein-Russell del luglio 1955: «Dobbiamo imparare a pensare in modo nuovo. Dobbiamo imparare a domandarci non già quali misure adottare affinché il gruppo che preferiamo possa conseguire una vittoria militare, poiché tali misure ormai non sono più contemplabili; la domanda che dobbiamo porci è: quali misure occorre adottare per impedire un conflitto armato il cui esito sarebbe catastrofico per tutti?».

(Photo by Tiziana FABI / AFP)

La nonviolenza

Per fare in modo che il «principio responsabilità» sia applicato nei conflitti, però, non basta enunciarlo, occorre mettere in campo i saperi conseguenti della nonviolenza, fondati esattamente sulla coerenza tra i mezzi e i fini dell’agire. Si tratta, per esempio, dei saperi della mediazione che forniscono la consapevolezza che nei conflitti degenerati in violenza e lasciati a se stessi (o, peggio, alimentati da istigatori come l’industria bellica che vince tutte le guerre), a ogni azione violenta di una parte corrisponde un’azione contraria di livello di violenza superiore dall’altra, in un crescendo che arriva alla potenziale distruzione dell’altro, o di entrambi, se non intervengono soggetti terzi a mediare.

Si chiama dinamica dell’escalation, quella che Mohandas K. Gandhi spiegava dicendo che «occhio per occhio, il mondo diventa cieco».

Inoltre nella vulgata binaria che costruisce fin dagli inizi di questa guerra la narrazione tossica anti-pacifista, mancano i saperi di oltre un secolo di efficaci lotte nonviolente e resistenze disarmate. Essi, anche in Ucraina, soprattutto nel primo periodo di invasione, sono stati praticati dalla popolazione civile, prima di essere superati e oscurati dal massiccio invio di armi.

Sono saperi che non sfuggivano, per esempio, ad Hannah Arendt che ne La banalità del male, faceva un appello (inascoltato) affinché la resistenza disarmata danese all’occupazione nazista fosse studiata in tutte le facoltà di scienze politiche «per dare un’idea della potenza enorme della nonviolenza, anche se l’avversario è violento e dispone di mezzi infinitamente superiori». La Danimarca, infatti, fu l’unico paese in Europa che, sotto l’occupazione nazista, venne risparmiato da stragi e rappresaglie, e nel quale furono salvati dalla deportazione quasi tutti i cittadini di origine ebraica.

Corpi civili di pace

I movimenti per la pace, da almeno trent’anni – dalla guerra nella ex Jugoslavia -, propongono ai governi, senza essere mai stati presi in considerazione, la costituzione dei Corpi civili europei di pace, e mettono in campo esperienze di interventi di mediazione internazionale di pace nati e gestiti dal basso.

Con un esperimento di storia controfattuale potremmo immaginare che cosa sarebbe potuto accadere se nelle regioni del Donbass, a partire dal 2014, invece di far arrivare armi e armati a entrambe le parti, fosse stato inviato un Corpo civile di pace internazionale per fare interposizione, mediazione, comunicazione, riconciliazione tra le comunità, secondo la proposta che già nel 1995 Alex Langer aveva avanzato al Parlamento europeo. Langer non fu ascoltato, e nemmeno i movimenti nonviolenti che hanno continuato a proporlo, a progettarlo e, qualche volta, anche a sperimentarlo.

(Photo by Andrea Ronchini, Ronchini / NurPhoto / NurPhoto via AFP)

Obiettori e disertori

Tra i saperi da recuperare e valorizzare, ci sono poi quelli dei disertori e obiettori di coscienza, sia alla guerra di Putin che alla difesa armata dell’Ucraina.

Il movimento degli obiettori di coscienza russi è in crescita: si stima che siano almeno 100mila, come spiega Elena Popova, coordinatrice del Movimento degli obiettori russi: «Sono tanti i giovani che non vogliono partecipare alla guerra, e quelli che sono stati obiettori di coscienza in passato stanno ora aiutando altri a diventare obiettori. Grazie alla loro esperienza, guidano amici e familiari in tutto ciò che è necessario fare per non prendere parte all’esercito».

Anche i pacifisti ucraini – incontrati dalla delegazione della carovana #Stopthewarnow lo scorso ottobre (cfr. MC dic 2022) – rifiutano la logica della guerra a oltranza e chiedono al proprio governo di impegnarsi nei negoziati di pace. Per gli uni e gli altri è attiva la campagna internazionale di protezione e asilo.

Ripudiare la guerra

Nella Costituzione italiana il «principio responsabilità» e i saperi elencati sopra non mancano. A essa i costituenti iniziarono a lavorare poco meno di un anno dopo le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki.

Per questo, nell’articolo 11, non sembrò abbastanza esplicito il verbo «rinunciare» della prima stesura, e scelsero il verbo «ripudiare», che contiene il disprezzo per ciò che si è conosciuto e si vuole allontanare per sempre.

Inoltre, non sembrò sufficiente ripudiare la guerra come «strumento di offesa alla libertà degli altri popoli», ma aggiunsero anche come «mezzo di risoluzione delle controverse internazionali», nella duplice consapevolezza che i conflitti non sono eliminabili e che non si possono risolvere con la guerra. Soprattutto nell’epoca atomica. Per questo bisogna trovare mezzi alternativi alla guerra per affrontarli.

A questo scopo, il secondo comma dell’articolo 11 – che «consente, in condizioni di parità con gli altri stati, alle limitazioni di sovranità necessarie a un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le nazioni» e «promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo» – fa riferimento alle
Nazioni Unite che erano nate già nell’ottobre del 1945 per «liberare l’umanità dal flagello della guerra» attraverso la risoluzione delle «controversie internazionali con mezzi pacifici, in maniera che la pace, la sicurezza internazionale e la giustizia non siano messe in pericolo».

Un’altra difesa possibile

È alla luce di questi principi e saperi che le organizzazioni impegnate per la pace e il disarmo, riunite nel cartello Europe for Peace, hanno organizzato molte iniziative di mobilitazione dal basso: da quella del 5 marzo a quella del 23 luglio, dal 21-23 ottobre alla grande manifestazione del 5 novembre a Roma.

La richiesta ai governi, sempre più pressante, è di cessare il fuoco, indire una Conferenza internazionale di pace, sottoscrivere il Trattato Onu per la messa al bando delle armi nucleari.

Principi e proposte coerenti con la campagna «Un’altra difesa è possibile» che, in Italia, già per due legislature consecutive ha presentato in parlamento una proposta di legge organica per la creazione di una vera difesa civile, non armata e nonviolenta, secondo gli articoli 11 e 52 della Costituzione.

È necessaria una via d’uscita nonviolenta dalla crisi sistemica globale in corso, che è ecologica, climatica, idrica, energetica, alimentare, pandemica, e che genera continui conflitti per le risorse (circa 170, secondo l’università di Uppsala, Svezia). Oppure, con 13mila testate nucleari puntate sulle teste di tutti, non ne usciremo vivi.

Pasquale Pugliese*

* Filosofo di formazione, ha studiato il pensiero della nonviolenza. Per anni educatore in contesti complessi, oggi si occupa di politiche giovanili. Cura percorsi sulla nonviolenza, ed è formatore per il Servizio civile.
È impegnato nel Movimento Nonviolento e, fino al 2019, nella Segreteria nazionale. Fa parte della redazione di «Azione nonviolenta», rivista fondata nel 1964 da Aldo Capitini.
A Reggio Emilia ha contribuito a fondare e animare la Scuola di Pace.
Sul web, oltre ai suoi profili Facebook, Twitter e Instagram, cura un sito su nonviolenza e disarmo. Inoltre, oltre a collaborare con diverse testate, cura un blog personale sulla rivista vita.it.
Nel 2018 ha pubblicato il volume Introduzione alla filosofia della nonviolenza di Aldo Capitini. Elementi per la liberazione dalla violenza, i cui diritti d’autore vanno al Movimento Nonviolento, e nel 2021 Disarmare il virus della violenza. Annotazioni per una fuoriuscita nonviolenta dall’epoca della pandemia, entrambi editi da GoWare.




ESwatini. Un paese in guerra con se stesso?

ESwatini. Un paese in guerra con se stesso?

Dopo i disordini del 2021, gli insistenti appelli al dialogo lanciati da tutte le Chiese del paese sembravano aver aperto vie di speranza. In realtà, nuovi episodi di violenza ai primi di ottobre 2022, segnalano una situazione che sta degenerando, come scrive il vescovo in questo testo indirizzato alla sua gente, ma anche a tutti noi.

Alcuni di noi non hanno mai dimenticato la violenza sperimentata in eSwatini nel giugno 2021@. Nel mio caso perché non ero riuscito a raggiungere casa a Manzini dopo un incontro a Mbabane con il primo ministro in carica. I blocchi istituiti lungo la strada dai giovani mi avevano costretto a cercare un posto alternativo dove dormire. Avevamo trascorso quella notte ascoltando una sparatoria nelle vicinanze. La mattina seguente ci eravamo svegliati trovando pneumatici e veicoli bruciati e pietre sulla strada.

Le domande naturali che ci poniamo sono: a che punto siamo, un anno e mezzo dopo? Che cosa è stato fatto da allora?

Alcuni, probabilmente, speravano che fosse business as usual, tutto come prima, ma gli eventi degli ultimi mesi devono essere stati un brusco risveglio per loro.

Un dialogo nazionale

Sembra esserci un accordo comune sulla necessità di un dialogo nazionale. Credo che ogni voce che ha parlato dal giugno 2021 (il governo, le organizzazioni politiche, le Chiese, le Ong) abbia ripetuto lo stesso appello.

Molti, se non tutti, hanno anche sottolineato la necessità di avere «un dialogo sul dialogo». Ricordo che mons. Sithembele Sipuka (presidente della Sacbc – Southern african catholic bishops’ conference) ne ha parlato durante una conferenza stampa al termine della visita di solidarietà a eSwatini. Questo «dialogo sul dialogo» dovrebbe aiutare tutte le parti coinvolte a mettersi d’accordo su cosa si intende per dialogo e su come dovrebbe svolgersi.

Purtroppo, a parte la richiesta di un dialogo nazionale, non pare essere successo molto di più. Sembra che si senta parlare più del «no» («nessun dialogo in mezzo alla violenza») che del «sì» (una via da seguire). Non si dice nulla sulle misure adottate nell’ultimo anno e mezzo per attuarlo. Abbiamo sentito che il denaro per un dialogo nazionale è stato stanziato, ma non abbiamo mai saputo se sia mai stato usato e come.

Il fatto che i membri del parlamento abbiano chiesto al primo ministro di parlarne con Sua maestà Mswati III rafforza l’impressione che non sia stato fatto nulla.

Questo crea, almeno in me, la preoccupazione che la parola dialogo stia lentamente (o rapidamente?) perdendo ogni significato. Diventa più uno slogan che una realtà concreta.

Nel frattempo, probabilmente si è sviluppato un circolo vizioso. La violenza è giustificata dalla mancanza di passi concreti verso il dialogo, e il dialogo non ha luogo a causa della violenza che non si ferma nel paese.

Chi avrà il coraggio di romperlo?

Visita di solidarietà di FOCCISA (the Council of Churches for Southern Africa), foto davanti alla cattedrale di Manzini

Il paese sta cambiando

L’ultimo mese (ottobre 2022, ndr) ha visto chiaramente un aumento della violenza (che è sempre stata presente a livelli più bassi). È una nuova realtà per questo paese che si è sempre vantato di essere presentato come pacifico. È interessante notare che la popolazione sembra aver accettato che la violenza sia ormai diventata parte della nostra vita ordinaria. Come ho detto nella mia dichiarazione (del 19/10/2022)@, è molto probabile che la violenza aumenterà e continueremo tutti ad adattarci ad essa.

Giovedì 10 novembre la violenza ha colpito parti di Manzini. Mentre stavo lasciando la città per Mbabane, ho potuto vedere il fumo provenire dalla zona in cui erano stati dati alle fiamme il posto di polizia presso la stazione dei Satellite Bus e altri negozi. Tornato a Manzini ho visto che l’esercito era stato schierato. Vedere l’esercito e non la polizia è stata la prima cosa che mi ha sorpreso. La seconda sorpresa è stata di vederli con il volto coperto, un’indicazione della loro paura di essere identificati dai violenti e di esporsi al richio di essere uccisi in seguito o di avere le loro case date alle fiamme.

Chi avrebbe mai pensato che eSwatini potesse cambiare così rapidamente? Chi avrebbe mai pensato che questo (che vediamo in altri paesi in Tv) potesse accadere tra di noi?

Anche le nostre relazioni ne sono influenzate. Visto che quel giorno non c’erano mezzi pubblici a Manzini, la gente cercava buoni samaritani disposti a dare un passaggio. Qualcuno ha deciso che non doveva essere così, e le persone soccorse sono state costrette a scendere dai veicoli e a camminare, mentre ad altri è stato impedito di aiutare chiunque. Anche questa è violenza, quando alcuni decidono per gli altri.

Vandalismi e distruzione nella biblioteca di una scuola, Aprile 2022

La violenza

La paura è un altro elemento che sembra essere diventato parte della nostra vita quotidiana.

Dopo gli eventi dello scorso anno, ricordo che alcuni cattolici che conoscevo bene mi informavano della presenza di membri dell’esercito che «visitavano» le case di notte. Nulla era stato detto sui media al riguardo. Doveva essere un coprifuoco in cui tutti noi dovevamo rimanere a casa.

Non molto tempo fa, tornando a casa dopo la cena a casa di un prete, ho trovato un posto di blocco fatto dai membri dell’esercito. Erano pesantemente armati. Non ero a conoscenza di blocchi stradali che si svolgevano da parte dell’esercito di notte. Siamo riusciti a scherzare mentre volevano sapere perché ero in viaggio di notte. Non è stato annunciato alcun coprifuoco, ma sembra che dobbiamo giustificare il motivo per cui viaggiamo di sera.

Un nuovo tipo di paura è diventato parte della nostra vita. Proviene dalle Swaziland Solidarity Forces (Ssf). Esse rivendicano gli attacchi incendiari e le uccisioni. Minacciano di uccidere o incendiare le proprietà di coloro che non fanno ciò che viene loro detto. Non so se qualcuno sa chi siano e chi li sta finanziando. Queste domande – per quanto importanti – sono difficili da porre.

Stiamo progettando di costruire il nostro futuro sulla paura e su più violenza? Qualunque cosa seminiamo è ciò che abbiamo intenzione di raccogliere in seguito. Poiché la paura e la violenza sono attribuite al governo, stiamo progettando di sostituirle con la paura e la violenza di qualcun altro?

I media

Da un giornale locale di eSwatini

Quello dei mezzi di comunicazione è un altro settore in cui abbiamo assistito a cambiamenti. Ero solito dire in passato che si poteva trovare poco su eSwatini sui social media. C’era una sorta di autocensura in molti: «È meglio non parlare». Non è più così da giugno 2021. Molto di più può essere letto sui social media e sulle pagine web. La sfida è essere critici nei confronti di ciò che si legge. L’informazione è difficilmente «indipendente» e «imparziale», come proclamano i media.

Tutti noi dobbiamo interrogarci su ciò che viene e che non viene detto. Si può sottolineare che i media statali limitano ciò che viene riportato sulla violenza che ha luogo, ma la stessa cosa potrebbe essere detta di coloro che scelgono di non riportare nulla di positivo su quanto fatto dal governo perché potrebbe non piacere loro. Sembra importante dipingere l’altro come il nemico che deve essere affrontato.

Entrambe le parti dicono cose sui social media che non sono state provate e che l’altra parte nega che siano vere: «I mercenari sono entrati nel paese» e «ci sono stranieri tra i soldati del nostro esercito», sono due esempi familiari.

Violenza e media vanno insieme. L’informazione può essere usata come arma per instillare rabbia e paura. Anche qui bisogna chiedersi: chi paga per questo? A volte su Twitter è possibile trovare gli stessi post su profili di persone diverse che molto probabilmente non esistono. Tutto è impostato con un unico obiettivo: sostenere una parte o l’altra e influenzare il modo in cui le persone leggono la situazione.

In questi giorni è interessante vedere la mancanza di informazioni su eSwatini da fuori dei nostri confini. I media, che in passato parlavano così tanto dei nostri disordini, ora tacciono. Sembra che non ci sia alcun interesse per ciò che sta accadendo qui. Forse la nostra violenza non è abbastanza forte da renderla degna di essere denunciata.

Tentazioni

  • In mezzo a tutto questo, si possono individuare una serie di tentazioni che colpiscono ogni parte in causa:
  • «Questo passerà, le cose torneranno alla “normalità”. Tutto questo è solo il lavoro di pochi facinorosi».
  • «Non ci sarà corruzione una volta che avremo un sistema democratico».
  • «Possiamo distruggere il paese ora, lo ricostruiremo più tardi sotto un nuovo sistema politico».
  • La democrazia risolverà tutti i nostri problemi… in una notte.
  • Il pensare che chiunque può decidere per l’intera nazione.
  • Il pensare che combattere la violenza con la violenza le metterà fine.
  • Il pensare che la violenza di genere sia sbagliata ma la violenza politica sia giustificata.

Ignorare che:

  • eSwatini è una delle società più diseguali del mondo@;
  • nel paese manca formazione politica;
  • un futuro costruito sulla violenza innescherà solo altra violenza una volta che la popolazione sarà di nuovo infelice;
  • i nostri giovani provano rabbia, paura, frustrazione (ma non solo);
  • il 60/70% dei nostri giovani è disoccupato e potrebbe sentire di non avere nulla da perdere;
  • la maggior parte dei nostri giovani non ha mai fatto parte del processo che ha portato alla Costituzione del 2005 e potrebbe non identificarsi con essa.

È necessario inoltre:

  • Non ignorare quanto sia grande la necessità di un processo di guarigione già oggi a causa dei disordini dello scorso anno e quanto la violenza dividerà questa piccola nazione (famiglie e comunità) in futuro.
  • Non sentirsi superiori ad altri paesi senza imparare dalla loro esperienza di violenza e dai loro processi democratici.

Cattedrale di Manzini, preghiera per le vittime della violenza

Le chiese

Eswatini (già Swaziland) è conosciuto come un paese cristiano. Il numero di chiese, gruppi, profeti, pastori, apostoli e altri è molto grande. Ogni anno Sua maestà chiede un servizio di preghiera di ringraziamento a palazzo. Nonostante tutto questo, non riesco proprio a ricordare un momento in cui qualcuno di questi predicatori abbia mai aperto gli occhi della nazione sul fatto che questo tipo di disordini (che non erano mai stati visti prima) si sarebbero verificati. Tutti hanno rassicurato che tutto andava bene o sarebbe andato bene.

Tre sono i gruppi cristiani più conosciuti nel Regno, ciascuno dei quali riunisce un certo numero di chiese cristiane.Tra di essi c’è il Csc – Consiglio delle chiese dello Swaziland (di cui siamo padri e madri fondatori) che è il più piccolo (solo 13 Chiese). La cosa positiva è che la leadership di questi organismi fa del suo meglio per tenersi in contatto. La sfida consiste nel trovare un terreno comune su come affrontare la situazione. Ciò potrebbe essere dovuto a ragioni storiche e ai diversi modi in cui leggiamo la Bibbia.

Il Csc è stato il più visibile: ha rilasciato dichiarazioni, ha incontrato ogni possibile attore (governo, partiti politici, gruppi tradizionali …), ha coordinato visite di solidarietà nel paese, ha sostenuto le persone in prigione, ha fornito pacchi alimentari alle famiglie di coloro che sono morti durante i disordini.

La Chiesa cattolica, da sola, è stata attiva anche in diversi modi: ha rilasciato dichiarazioni, incontrato le parti interessate, riunito alcuni cattolici per riflettere sulla situazione e sul contributo che possiamo dare alla costruzione della pace, sostenuto le vittime della violenza, fornito pacchi di cibo, offerto consulenza, creato club per la pace nelle scuole superiori, dedicato giorni o settimane speciali di preghiera per la pace, aperto spazi per il dialogo locale, condiviso brevi dichiarazioni sui social media sull’importanza della nonviolenza.

Qualche settimana fa (in ottobre 2022, ndr) la polizia ha chiesto di utilizzare la nostra cattedrale per un incontro di preghiera. La violenza che l’ha colpita ha innescato direttamente questo bisogno di riunirsi per pregare. Abbiamo acconsentito. L’avevamo aperta in passato alle vittime di violenza da parte delle forze di sicurezza. Tutti abbiamo bisogno della guarigione e della guida di Dio.

Non ho potuto evitare di ricordare che nel febbraio 2013 (se la memoria non mi inganna), la polizia aveva fatto irruzione nella stessa cattedrale per fermare un incontro di preghiera per la pace nello Swaziland accusando gli organizzatori di mascherare un raduno per disturbare le elezioni nazionali dietro un incontro di preghiera.

Quello che stiamo facendo è una goccia nell’oceano. Sono necessarie molte più gocce. C’è sempre una sfida tra i cattolici (forse i cristiani in generale) su chi abbia la responsabilità di affrontare i disordini. Come dico sempre scherzosamente: «Quando la gente dice “la Chiesa è tranquilla”, quello che intende è che “il vescovo è tranquillo”, come se gli altri avessero il diritto di stare tranquilli».

Come ho scritto sui social media non molto tempo fa: «Il nostro paese è come una persona malata, che cura il dolore, ma non ciò che lo sta causando».

+ José Luis Ponce de León
vescovo di Manzini

Il vescovo José Luis visita una scuola vicino ai confini con il Mozambico per incoraggiare gli insegnati dopo le violenze, danni e incendi subitie dalla scuola.




Fratelli di guerra


Un libro sul conflitto e sul dialogo, prendendo spunto dagli incontri di Gesù descritti dai Vangeli. Un secondo libro sulla fraternità, partendo dalle storie di fratelli raccontate nella Bibbia. Con l’auspicio di fare diversamente. Un terzo libro sulla città di Kiev dove sia il dialogo che la fraternità si sono interrotti con la violenza.

Dialoghi e Vangelo

Mentre scriviamo sono trascorse già diverse settimane dall’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina e anche il mondo dell’editoria, com’è normale, fa i conti con la guerra in Europa, con l’indicibile che bussa alle nostre porte.

Vita e Pensiero, la casa editrice dell’Università Cattolica, promuovendo l’uscita dell’ultimo libro di Johnny Dotti e Mario
Aldegani, imprenditore sociale il primo, sacerdote murialdino il secondo, lo presenta così: «Mandiamo in stampa il volume in quest’alba in chiaroscuro del nuovo millennio, quando bagliori e furori di guerra incredibilmente insanguinano di nuovo l’Europa e minacciano il mondo. Ancora una volta il conflitto, dimensione naturale di ogni relazione umana e sociale, diventa automaticamente violenza e guerra a dimostrazione dell’incapacità di dialogare anche dell’umanità del XXI secolo».

Il libro s’intitola Che cosa cercate? Dialoghi e Vangelo, e passa in rassegna i dialoghi di Gesù, o con Gesù, da cui nascono spunti di orientamento di natura politica, spirituale ed economica.

Il libro, uscito alla vigilia di Pasqua del 2022, si è trovato immerso nella contemporaneità.

Scrivono gli autori: «Il dialogo è una scienza e un’arte. Una scienza perché coinvolge la possibilità di approfondire con un altro o con altri i nostri pensieri e le nostre convinzioni, come anche di condividere le nostre incertezze; la scienza del conversare, nell’Occidente, è diventata principalmente dialettica, a partire dal mondo greco sino ai nostri giorni. Il dialogo, però, è anche un’arte. Non è solo l’incontro di due pensieri, ma di due persone. Non è solo lo scambio tra due intelligenze, ma tra due anime, tra due cuori».

Il percorso di analisi prosegue e focalizza bene il vulnus che stiamo vivendo: in nome della dignità umana, agiamo fino alle estreme conseguenze, avendo come unico risultato la negazione di quella dignità alla quale diciamo di voler finalizzare le nostre azioni.

«Noi, esseri viventi che siamo “mancanza d’essere”, esistiamo perché coesistiamo, perché dialoghiamo. Il dialogo, quindi, ci pare l’orizzonte più concreto per dare forma all’affermazione tanto sbandierata sulla centralità della dignità umana, perché impegna, cioè dà in pegno la nostra parola e ingaggia la nostra presenza; ci riconosce e ci fa riconoscere nel tu per tu come nella manifestazione più alta della nostra dignità e della nostra gioia di vivere».

C’è di che riflettere, e molto, in un momento nel quale la parola e il pensiero sono negati dal rumore dei cingoli dei carri armati e dallo strazio dei civili travolti dalla tragedia della guerra.

Prove di fraternità

Altri spunti di riflessione ce li offre don Luigi Maria Epicoco, il giovane sacerdote brindisino che si è ritagliato con merito un ruolo nell’empireo degli «influencer» del mondo ecclesiale.

In marzo è uscito il suo ultimo libro In principio erano fratelli con Tau editrice.

Il punto di partenza dell’analisi di don Epicoco è il conflitto che alberga in ciascuno di noi, letto partendo dalla Bibbia.

Caino e Abele, i figli di Noè: Sem, Cam e Jafet. Poi Esaù e Giacobbe, Giuseppe e i fratelli.

Scrive l’editore umbro presentando il volume: «Tutto il racconto della Genesi è abbracciato da una grande parentesi di fraternità fallite. La Bibbia mette queste vicende proprio all’inizio perché nella parte più profonda dell’uomo è sedimentata una ferita, un fallimento, un anello debole, non la capacità ideale di essere in relazione e in comunione. C’è una parte di noi che va presa in considerazione, offerta a Dio e redenta, affinché non diventi famelica e omicida. Soltanto questo farà di noi persone libere e capaci di amarsi. Figli (quindi fratelli) e non servi».

Pensando a quanta difficoltà ha la chiesa ortodossa russa nel denunciare la follia dell’uso delle armi, queste parole risuonano fortissime.

E lo stesso Epicoco aggiunge: «Viviamo in un tempo in cui si sente spesso parlare di fraternità, e questo può risultare davvero controcorrente in un’epoca come la nostra, dominata da un potente individualismo alimentato dalla cultura contemporanea. Nel mondo degli individualisti non esistono fratelli, ma solo figli unici».

Un mondo di figli unici: un’immagine forte, che rende bene il contesto che stiamo vivendo.

Kiev

Il contesto della guerra, quella attuale, lo ha descritto bene l’inviato speciale di «Avvenire», Nello Scavo, che per Garzanti ha scritto Kiev, un vero e proprio diario dei primissimi giorni di guerra.

Nello Scavo, esperto inviato di guerra, raggiunge la capitale ucraina a metà febbraio 2022, quando la minaccia di un attacco russo si fa sempre più insistente, ma ancora in pochi credono possibile l’invasione.

Da quel momento, il giornalista registra senza censure il rapido tracollo di una situazione che si fa sempre più pericolosa: la dichiarazione dello stato di emergenza, il trasferimento delle ambasciate, e poi le esplosioni, le colonne di carri armati, il disperato esodo dalle città.

Giorno dopo giorno Nello Scavo descrive i movimenti delle truppe russe e la resistenza degli ucraini; approfondisce le conseguenze politiche ed economiche dei combattimenti; svela le ragioni ideologiche alla base delle decisioni dei leader.

Allo stesso tempo non dimentica la dimensione umana del dramma in corso, raccogliendo le testimonianze dirette di chi da un momento all’altro ha dovuto abbandonare la casa, ha perso la famiglia, ha scelto di imbracciare un fucile.

«Kiev» è un diario personale dal conflitto nel cuore dell’Europa, scritto sul campo da un giornalista chiaro nello spiegare le ragioni di quanti la guerra la decidono, ma soprattutto capace di dare voce a coloro che questa tragedia sono costretti a subirla.

Il suo scritto è prezioso.

«Non esistono parole giuste per raccontare la guerra – sostiene -. Ma di certo esiste il modo migliore: in presa diretta».

Questa guerra è la prima che vede i social network e l’hackeraggio informatico schierati sui due fronti e usati come arma.

Se l’informazione ufficiale è poco attendibile, e lo è, non rimane che ascoltare la voce dei testimoni. Sono loro gli unici in grado di restituirci la realtà del momento, a raccontare il qui e ora senza possibilità di fraintendimenti.

Sante Altizio


Libro Emi del mese:

 




Eswatini: visita di solidarietà dei vescovi dell’Africa australe

La Conferenza episcopale cattolica dell’Africa australe (Sacbc), che comprende Sudafrica, Botswana e Eswatini, ha condotto una visita nel regno di Eswatini (o eSwatini, ex Swaziland), vista la situazione dopo i disordini che hanno causato decine morti e danni materiali nel giugno e luglio scorsi. La visita di «solidarietà e pastorale» scrivono i vescovi, è stata guidata dal presidente della Sacbc monsignor Sithembele Sipuka e si è svolta tra il 6 e il 12 ottobre.

La delegazione della Sacbc è stata accolta dal governo di Eswatini e le è stato possibile incontrare diversi gruppi sociali del paese. Oltre al governo, la delegazione si è intrattenuta con diversi enti cattolici, con il Consiglio delle chiese, con molti gruppi della società civile e con singoli individui che hanno condiviso la loro visione sul paese.

Come risultato della visita i vescovi della Sacbc hanno riscontrato un desiderio, da parte di molti settori, di considerare una modifica dell’attuale forma di governo. Le ragioni sono molteplici. Ma la cosa importante – riportano i vescovi – è che occorre dare attenzione a questa richiesta, se non si vuole fare sprofondare il paese in ulteriori disordini che causerebbero morti e perdite economiche.

La delegazione è ottimista sul fatto che tutte le parti consultate, governo incluso, si sono dette disponibili al dialogo e al negoziato. La preoccupazione resta nel fatto che non tutti sembrano concordi sulle modalità con cui impostare i negoziati.

Inoltre, ricordano i vescovi, molte persone hanno espresso il desiderio di recuperare quel rapporto simbiotico tra il re di Eswatini e il suo popolo, che pare sia andato perduto.

I vescovi concludono con la richiesta fatta al primo ministro della necessità che tutti siano coscienti della gravità del momento storico che il paese sta passando e della necessità di implementare misure che aiutino nella costruzione di una società giusta e pacifica.

Testo completo sul sito della Conferenza episcopale cattolica dell’Africa australe

Danzatori tradizionali in Eswatini




Con altri occhi

testo e foto di Daniele  Biella |


Portare a scuola le migrazioni in carne e ossa. Per far conoscere ai ragazzi la concretezza delle vite dei protagonisti di un fenomeno troppe volte descritto in modo ideologico. Un rifugiato che si racconta in aula vale più di mille video su YouTube.

Siamo in un paesino della Brianza, in un pomeriggio d’autunno del 2019, quando ancora la pandemia non è entrata nelle nostre vite. Una bambina che sta per finire la scuola primaria, vede da lontano una persona e corre ad abbracciarla. La nonna, rimasta indietro, guarda la scena sbalordita e preoccupata: non conosce, infatti, quella persona, che ha anche il colore della pelle diverso dal suo. Ma la preoccupazione dura pochi attimi, perché la bambina risolve tutto con un sorriso e poche parole. «Nonna, è Wilfrid! È venuto nella nostra scuola a raccontarci la sua vita. È molto bravo e simpatico». La nonna si avvicina al giovane, che è nato nel 1996 in Camerun, e dal 2017 è rifugiato in Italia, e poco alla volta inizia a parlargli.

Una domanda dopo l’altra, la signora è sempre più a suo agio e, al momento dei saluti, la tensione iniziale non ha lasciato alcuna traccia.

«Quando ha saputo che stavo lavorando come aiuto cuoco in un ristorante non lontano da dove abitava, mi ha detto che sarebbe venuta una volta a mangiare. E dopo qualche tempo è accaduto», spiega Wilfrid qualche mese dopo agli alunni di una classe di seconda media mentre io, accanto a lui, osservo i volti divertiti dei ragazzi e della professoressa presente. «Per questo è importante conoscere la storia delle persone. La conoscenza è il primo passo per superare i pregiudizi», aggiungo.

In carne e ossa

Perché mi trovo dentro un’aula scolastica assieme a un giovane rifugiato, davanti a studenti curiosi che, per tutto il tempo dell’incontro, ci riempiono di domande? La risposta si chiama progetto «Con altri occhi».

Ogni anno, come giornalista che si occupa di tematiche migratorie, incontro nelle scuole migliaia di ragazze e ragazzi, in Brianza, ma anche in altre zone d’Italia, per far toccare loro con mano «le migrazioni in carne e ossa», e mostrare come sia possibile guardarle con altri occhi.

Il progetto, iniziato nell’anno scolastico 2016/2017, permette un incontro tanto eccezionale quanto normale: quello tra una persona che si trova in Italia dopo una migrazione forzata e ragazzi che, attraverso il suo racconto, possono capire meglio quello di cui i mass media parlano da anni, quasi sempre con toni accesi: «Gli sbarchi», «le carrette del mare», «l’accoglienza dei richiedenti asilo».

Quello delle migrazioni è un tema complesso che, se non affrontato in modo approfondito e adeguato, può generare disinformazione e luoghi comuni nocivi. Come è avvenuto in diverse situazioni, la persona migrante può diventare il capro espiatorio dei problemi delle comunità.

Narrazione e dialogo

«Il migrante che arriva in Italia dopo la fuga forzata dal suo paese non deve essere trattato con pietismo, non è un “poverino”, ma una persona con le sue caratteristiche che la rendono diversa dagli altri, proprio come me. Più sfortunata, certo, perché, a differenza mia, chi chiede asilo in Italia, o in una nazione non sua, ha dovuto abbandonare controvoglia i luoghi di una vita», dice Sergio Saccavino, direttore di Aeris Cooperativa sociale, storica realtà della provincia di Monza che oggi ha settecento soci lavoratori (soprattutto in ambito di assistenza educativa scolastica). È lui che mi ha chiesto, nel 2016, di diventare formatore per Aeris sulle migrazioni, portando con me persone rifugiate in Italia che la stessa cooperativa ospita in appartamenti della zona secondo il modello dell’accoglienza diffusa aderendo a progetti della prefettura e del ministero dell’Interno.

«C’è bisogno di un racconto diretto di quello che accade. Devono parlare i protagonisti. Noi abbiamo il dovere di fare un investimento culturale in tal senso», aveva aggiunto Saccavino. Detto, fatto: il progetto – che per le scuole è stato gratuito per i primi quattro anni, e che, con l’arrivo della pandemia, è stato strutturato in doppia modalità, online e in presenza, a seconda della situazione specifica – già nel primo anno ha coinvolto 5mila alunni e, a fine anno scolastico 2020-2021, ha raggiunto quota 15mila.

In ogni classe sono proposti due incontri: durante il primo si affrontano con i ragazzi le motivazioni e le dinamiche che spingono gli esseri umani a lasciare la propria casa. Lo si fa anche attraverso un gioco di ruolo e la narrazione diretta di alcuni viaggi giornalistici (su una nave di salvataggio, alle frontiere d’Italia e d’Europa, nei paesi di provenienza di chi arriva nel nostro continente). Nel secondo incontro, accompagno in classe una persona accolta in Italia, allo scopo di instaurare un dialogo a tu per tu con gli studenti.

Il libro

Ultimamente il progetto è diventato anche un libro, dal titolo Con altri occhi. Viaggio alla scoperta delle migrazioni (Fabbrica dei Segni editore, 2020), proprio perché l’ottimo riscontro di interesse verso il progetto ha convinto Aeris e Fabbrica dei Segni ad accordarsi per pubblicare un testo capace di raggiungere chiunque voglia approfondire, adulti compresi.

Ho scritto il libro raccogliendo le testimonianze dei quattro giovani rifugiati che mi hanno accompagnato in classe in questi anni (oltre a Wilfrid, c’è Harris, ghanese, Bourama, maliano, e Mamadou, della Guinea Conakry), ma anche le domande e le considerazioni degli studenti. Queste ultime rappresentano – e lo dico senza alcuna retorica – il modo più efficace per capire quanto le ragazze e i ragazzi (ma anche i bambini, dato che il progetto si rivolge a studenti dagli 8 anni alle scuole secondarie di primo e secondo grado) siano pronti a ragionare su quanto sta accadendo e, soprattutto, a «dire la loro» con responsabilità e senso della realtà.

Le relazioni (e la conoscenza) superano i muri

Andando nelle classi e dialogando in modo fitto con gli studenti, ho riscontrato una conferma non da poco: il concetto di multiculturalità, oramai, è pregnante. Il compagno di classe di origini straniere ha un nome e un carattere, prima di avere una nazionalità, e le relazioni che i ragazzi creano superano «muri» che invece a volte si instaurano nel mondo degli adulti.

Ci possono essere situazioni specifiche di intolleranza o bullismo, ma, in generale, si dice il vero quando si afferma che la scuola è più avanti del resto della società a livello di «gestione delle diversità». E non solo le diversità date dalle provenienze.

Quello che serve agli alunni (e, a volte, anche ai professori, che hanno bisogno formazione specifica per rispondere alle domande dei loro studenti senza trovarsi spiazzati), è avere tutti gli elementi per capire di che cosa si parla quando si discute di migrazioni. A cominciare dalle parole «giuste» (profugo, richiedente asilo, rifugiato, migrante economico, protezione umanitaria) e dalla conoscenza dei luoghi e delle situazioni di partenza delle persone.

«Quali sogni hai?»

«Perché sei partito?», è spesso la prima delle decine di domande che gli studenti pongono alla persona rifugiata durante gli incontri.

Le domande arrivano sempre come un fiume in piena: «Come è stato il viaggio con il barcone?», «quanti soldi ricevi dall’accoglienza in Italia?», «cosa fai durante la giornata?», chiedono gli studenti per capire i meccanismi concreti della migrazione. «Quali sogni hai?», «sei stato trattato male qualche volta, anche per le tue origini?», «cosa pensi del razzismo?», per capire a livello più profondo quello che ha dentro di sé una persona che viene da lontano. «Che squadra tifi?», «che musica ti piace?», «quale città italiana vorresti visitare?», «quale cibo preferisci?», «che numero di scarpe porti?», chiedono per stabilire una relazione orizzontale di normalità.

Le domande trovano sempre una risposta, e spesso fanno scattare confronti e discussioni anche profondi.

«Ho visto emergere ragionamenti e aspetti dei miei alunni che non avevo mai notato», mi hanno detto tante volte maestre, maestri, professoresse e professori.

Coinvolgimento emotivo

Un valore aggiunto del progetto è il fatto che i giovani rifugiati coinvolti parlano bene l’italiano. Si evitano, quindi, incomprensioni e difficoltà di dialogo: le loro storie, i loro racconti, arrivano diritti a destinazione, e spesso sono coinvolgenti a 360 gradi.

Ci sono, infatti, momenti di forte emozione, soprattutto quando i rifugiati parlano, con gli studenti più grandi, dei viaggi difficili e pericolosi che hanno affrontato nel deserto del Sahara o nel Mare Mediterraneo, o delle dure condizioni che devono sopportare le persone migranti e dei trattamenti cui sono sottoposte da parte dei trafficanti di esseri umani nelle prigioni illegali in Libia e nelle altre situazioni di violazioni dei diritti umani.

Uno dei momenti più coinvolgenti è quello nel quale Wilfrid racconta ai ragazzi di una canzone gospel che si è messo a cantare assieme ai compagni di gommone quando l’imbarcazione aveva iniziato a imbarcare acqua dopo la rottura del motore.

Durante il racconto, spesso, Wilfrid ne intona una strofa, creando un’atmosfera di forte empatia.

Empatia che trova sollievo quando il giovane camerunese racconta il miracoloso salvataggio da parte di una nave commerciale di passaggio che poi ha consegnato i naufraghi alla Guardia costiera italiana.

Messaggi su carta

«Quando ci ha raccontato quello che ha passato, si poteva percepire che era molto triste e aveva nostalgia del suo paese, ma nonostante tutto era sempre sorridente e per questo lo ammiro. Questa esperienza mi ha fatto capire molte cose e mi sono emozionata», scrive una ragazza di terza media su un foglietto al termine dell’incontro.

Ogni volta chiedo ai ragazzi, in forma anonima se preferiscono, un pensiero a caldo su quanto vissuto: ne ho raccolti migliaia. Sono diretti, a volte taglienti, mai scontati, veri.

«Dei ragazzi come noi hanno delle storie che meritano di essere ascoltate». «Ho imparato che se vedi una persona in difficoltà devi aiutarla perché ogni persona può fare la differenza». «Non sono una persona che prova pregiudizi verso le persone, ma questa esperienza mi ha chiarito le idee, e penso che gli immigrati siano persone come noi, alcune buone altre di meno». «Quando bisogna giudicare un libro si guarda il contenuto, non la copertina».

Nel libro che nasce dal progetto, una sezione è dedicata a molti di questi messaggi. Un’altra, invece, è dedicata a esempi di contaminazione positiva: piccoli fatti capitati dopo gli incontri in classe (come quello tra Wilfrid, la bambina e sua nonna) che aiutano ancora di più a superare le barriere invisibili del pregiudizio.

Per il resto, il testo riporta con ricchezza di esempi le leve che rendono valido un progetto sulle migrazioni proprio partendo da questa esperienza. L’intento è di spronare altre persone, altri enti, altri giornalisti, altre persone rifugiate a replicarlo in altre zone d’Italia.

Serve guardare il mondo con altri occhi, pur rimanendo se stessi: la conoscenza diretta delle storie di vita, oggi più che mai, è necessaria per fare evolvere questa nostra società nella giusta direzione, ovvero con un’identità forte perché aperta verso il mondo. Una società dove le fake news, le notizie false, non devono trovare terreno fertile.

«Come sta Harris?»

«Non è stato semplice, all’inizio, incontrare gli studenti e raccontare di me e della mia vita. Sono riuscito a farlo, ho preso in mano il coraggio e mi sono aperto, confrontandomi e soprattutto imparando molto da loro», ragiona Harris, il primo testimone coinvolto nel progetto di Aeris. «Ho 20 anni e non ho avuto una vita facile. Conoscere così tanti ragazzi ed essere ascoltato pur essendo giovane, è stata per me una grande scuola di vita. Spero davvero sia stato utile anche a tutti loro, uno per uno».

L’esempio che l’utilità c’è stata, e non solo quella, è arrivato direttamente a me a inizio 2021, ovvero quattro anni dopo l’incontro tra Harris e uno studente di prima media che ora affronta le superiori: «Ciao, mi fa piacere rivederti. Ma soprattutto, come sta Harris?», mi ha chiesto il ragazzo in un incontro fortuito per strada. Aggiungendo: «Sai che, nonostante sia passato tanto tempo, ricordo tutto di quello che ci siamo detti in classe? È uno dei ricordi più incisivi che porto dietro dalla scuola media».

Daniele Biella




Kenya: Chiamata a ricostruire insieme la nazione


Lettera dei Vescovi del  Kenya a tutta la popolazione
12 novembre 2020

“Quanto è bello e delizioso vivere insieme come fratelli e sorelle” (Ps. 133:1)

Preambolo

Noi della Conferenza episcopale del Kenya, riuniti per l’Assemblea plenaria del novembre 2020 presso il Villaggio di Subukia del Santuario di Maria, abbiamo avuto il tempo di riflettere e discutere dello stato della nostra nazione.

In primo luogo, riconosciamo le molte grazie e la protezione che Dio ci ha dato dopo l’annuncio della mortale pandemia di Covid-19. Notiamo con grande preoccupazione l’aumento del numero di persone infettate dal coronavirus, e le molte vite che stiamo perdendo ogni giorno. Inviamo le nostre condoglianze alle famiglie che hanno perso i loro cari per questa pandemia e vi assicuriamo le nostre continue preghiere. Per coloro che sono malati, vi assicuriamo le nostre preghiere per la guarigione.

Siamo molto preoccupati per gli oneri finanziari che ci troviamo di fronte a tutti noi, specialmente per i poveri che non possono permettersi le spese mediche per i malati, e le spese funebri per coloro che sono morti. Ci appelliamo alla generosità dei nostri cari kenioti per raggiungere i bisognosi e contribuire ad alleviare il peso finanziario e psicologico che stanno portando. Dovremmo essere guidati dalla nostra grande tradizione africana di condividere ciò che abbiamo.

Ci appelliamo anche agli ospedali, in particolare a quelli privati, a non sovraccaricare coloro che vengono per cure mediche.

Incoraggiamo il governo a considerare modi più creativi per contenere la diffusione del virus oltre ai protocolli universali raccomandati, tra cui l’uso di maschere, la distanza sociale, il lavaggio delle mani e la sanificazione. Ognuno ha la responsabilità personale di garantire un ambiente sicuro per le persone con cui viviamo, lavoriamo e interagiamo nella nostra vita quotidiana.

Vogliamo ricordare ai leader religiosi e ai fedeli dei protocolli sviluppati dal Consiglio inter religioso (Interfaith Council) che dobbiamo continuare ad essere più vigili e conformi per garantire la sicurezza dei nostri fedeli.

Osservazioni sulla relazione BBI

Cari kenioti, il 26 ottobre 2020 ci è stato presentato il rapporto BBI (Buinding Bridges Initiative), che è stato il prodotto di un lungo processo di stretta di mano.

Come Conferenza episcopale del Kenya, abbiamo accolto con favore la BBI come un’opportunità per tutti i kenioti di impegnarsi in modo costruttivo nel discutere di quelle questioni che riguardano il nostro paese e hanno causato conflitti e divisioni perenni.

La nostra speranza era che la relazione BBI affrontava le quattro principali preoccupazioni che abbiamo sollevato nella plenaria del 20 novembre a Nakuru, vale a dire:

  1. Riconciliazione e guarigione nazionale;
  2. Ripristino dei valori, governance democratica e istituzioni di governo, c) Recupero e ricostruzione dell’economia e dei servizi.
  3. La mancanza di riforme strutturate e redentrici, come è stato sottolineato nei 4 punti dell’Agenda del Dialogo nazionale e processo di riconciliazione del Kenya guidato da Kofi Annan nel 2008.

Come Vescovi, abbiamo seguito con grande processo dal suo inizio fino a questo momento. Come risultato di questo processo, e leggendo la relazione che è stata lanciata al Bomas del Kenya il 26 ottobre 2020, vogliamo fare le nostre osservazioni.

l. Esecutivo ampliato

Guardando alla proposta sull’esecutivo è molto chiaro che il documento BBI dà il potere al presidente di nominare un primo ministro e due vice primo ministro. L’esecutivo ampliato avrebbe dovuto riflettere il volto del Kenya e domare la struttura “winner-takes -it -all” (il vincitore prende tutto). Ma dare al Presidente il potere di nominare il Primo Ministro e i due vice rischia di consolidare più potere intorno al presidente creando così un Presidenza imperiale. Questo emendamento potrebbe creare lo stesso problema che si è proposto di risolvere.

È molto importante attenersi al principio della separazione dei poteri, perché è la spina dorsale della democrazia.

2. Un Parlamento gonfio

L’espansione del Senato a 94 membri e dell’Assemblea nazionale a 363 sarà un enorme onere per i contribuenti di questo paese che già sono oberati da un enorme peso per pagare il salario al numero attuale di legislatori. Non vi è alcun motivo per cui dovremmo avere un numero così elevato di legislatori. Non vogliamo più governo, ma un governo migliore.

3. IEBC politicizzato

La proposta di far nominare membri di partiti politici alla IEBC (Independent Electoral and Boundaries Commission) è pericolosa, poiché politicizzerà l’IEBC compromettendo così la sua indipendenza. Questa proposta trasformerà l’IEBC in un abito politico con interessi di parte. Sorgerà il problema di quanto saranno eque le elezioni.

4. Formazione del Consiglio di Polizia del Kenya

La proposta di formazione di un Consiglio di polizia del Kenya guidato dal Segretario di Gabinetto degli Interni con altri quattro membri, per sostituire l’IPOA (Independent Policing Oversight Authority) è una mossa che probabilmente renderà il Kenya uno stato di polizia e comprometterà l’indipendenza della polizia dall’esecutivo.

Lettura e discernimento della relazione BBI

Noi, vostri Pastori, vogliamo incoraggiare la lettura e la discussione della relazione. È necessario che i keniani abbiano la possibilità di interagire con esso, discuterne in altri ambiti e dare le loro opinioni. La relazione offre ai keniani l’opportunità di riflettere su come possano costruire una solida nazione democratica, giusta, pacifica e inclusiva di tutti. Dà loro la possibilità di vedere come possono far funzionare le istituzioni ed essere al servizio di ogni cittadino, indipendentemente dalla tribù, dall’appartenenza politica o dallo status sociale. È un’occasione per riflettere apertamente e candidamente sulle misure concrete per combattere l’impunità, la corruzione e la politica dell’esclusione.

Dovremmo quindi prestare attenzione quando si discute e si sottolinea come il documento potrebbe essere migliorato,  evitando il rischio di assumere posizioni dure e fare richieste settarie, e porre ultimatum che distruggono il significato e lo spirito stesso della BBI.

Per sua stessa natura la relazione è il prodotto della stretta di mano nata dal dialogo e dalla consultazione. È quindi della massima importanza che questo processo si muova sulla strada del dialogo e della costruzione del consenso, piuttosto che su prese di posizione.

Da parte sua, il governo e tutti gli attori politici non devono dimenticare che lo scopo principale e l’intenzione del processo BBI era quello di mettere insieme tutti i keniani. Si tratta di unità (costruire ponti , buinding bridges initiative BBI, ndr). Tutti devono quindi abbracciare uno spirito di patriottismo, ascoltare le raccomandazioni formulate e adeguare la relazione affinché rifletta il consenso popolare.

Ascoltando ciò che molti cittadini del Kenya stanno dicendo in tutto il paese, è urgente dare loro l’opportunità di rivedere la relazione per quanto riguarda alcune delle questioni sollevate in tutto il paese, vale a dire, l’esecutivo ampliato, l’aumento della rappresentanza dell’assemblea nazionale, la ricostituzione di IEBC, la creazione del Consiglio di polizia del Kenya, la sostituzione dell’IPOA, la rappresentanza delle donne, l’indipendenza della magistratura, persone con disabilità, ecc.

Il nostro intento circa la relazione BBI è quello di incoraggiare tutti i kenioti a leggerla e comprenderne il contenuto in vista della costruzione del consenso. A questo punto, vogliamo ricordare con forza a tutti gli attori, compresi noi stessi come vescovi, che questo processo ha gravi implicazioni per il futuro di questo paese. Le raccomandazioni costituzionali, amministrative e politiche contenute nel documento dovrebbero essere viste alla luce del discernimento. Esortiamo tutti coloro che sono coinvolti in questo processo ad aiutare i kenioti a comprendere in modo semplice il contenuto della relazione, evidenziando chiaramente proposte specifiche e le loro implicazioni. I nostri esperti di diritto sono incoraggiati tradurre la relazione in termini semplici per permettere a tutti di capire.

Il governo dovrebbe facilitare un solido processo di educazione civica per aiutare tutti i kenioti ad apprezzare la relazione al fine di prendere decisioni informate al riguardo.

Cari kenioti, soprattutto i nostri leader politici, non si tratta di competizione politica, non si tratta di pro o contro, SI o NO, non si tratta del 2022. Dovrebbe trattarsi del KENYA, di quale strada vogliamo prendere come kenioti, non solo per noi stessi, ma per i posteri. Si tratta di consenso.

È nostra raccomandazione, in quanto Vescovi cattolici in Kenya, che qualsiasi emendamento per migliorare la relazione sia ancora ascoltato e incluso, ove necessario. Ciò significa che la relazione è ancora un progetto in corso, non ancora inciso nella pietra; e quindi, ogni voce dovrebbe essere ospitata.

Dibattito sul Referendum

Noi Vescovi cattolici, dopo aver esaminato la relazione BBI,  vediamo che affronta le questioni a tre livelli, vale a dire proposte legislative e politiche, amministrative e istituzionali, e  proposte costituzionali. Inoltre, ci sono quelle proposte costituzionali che richiedono un referendum e altre che non lo richiedono.

Mentre c’è una richiesta di referendum, che ha generato opinioni pro e contro, noi vogliamo porci le seguenti domande:

  • Sulla scia degli effetti persistenti della pandemia di Covid-19 che ha colpito le famiglie in tutto il paese, è questo il momento di sottomettere i kenioti ad un’accresciuta attività politica per intraprendere riforme costituzionali fondamentali?
  • Colpito dalla pandemia Covid-19, con l’economia colpita, il paese ha i fondi necessari per effettuare un referendum prima del 2022, 18 mesi prima delle elezioni generalli, un processo che richiede altro denaro? Può il paese permettersi di spendere le sue risorse molto limitate in un referendum quando c’è una lotta nei settori dell’istruzione e della sanità per fornire un sostegno urgentemente necessario a causa degli effetti della pandemia di Covid-19?

Di conseguenza, riteniamo che le proposte legislative o che richiedono modifiche politiche o istituzionali e amministrative debbano essere trattate attraverso gli appropriati organi e  istituzioni di governo già esistenti. Le proposte che richiedono modifiche costituzionali da approvare con un referendum dovrebbero essere separate e gestite come un unico gruppo da approvare dai kenioti con un voto. Questo per evitare il rifiuto di buone idee che sono già state generate nella relazione BBI. Questo è il motivo per cui continuiamo a sottolineare l’importanza di costruire consenso piuttosto che lo schieramento.

Ethos nazionale: formazione della Coscienza

Siamo soddisfatti dell’enfasi posta sull’etica nazionale. Due sono i principali problemi come paese che abbiamo più e più volte evidenziato, questi sono:

  • Agire senza ascoltare la nostra coscienza, e
  • La corruzione rampante che ha permeato ogni settore della società.

La relazione BBI sottolinea questioni che toccano il nostro ruolo di leader religiosi.

Siamo preoccupati che come nazione stiamo perdendo la nostra coscienza collettiva. In Kenya negli ultimi venticinque anni e soprattutto dopo la nuova Costituzione del 2010, l’enfasi è stato sui diritti del popolo. Purtroppo, questo ha talvolta oscurato la coscienza della nazione, oscurando ciò che è giusto in coscienza, a vantaggio del solo diritto di agire. Mentre questa libertà umana intrinseca deve essere difesa, deve essere compresa nel contesto di ciò che è vero e ciò che è giusto. Queste richieste di diritti hanno talvolta offuscato le corrispondenti responsabilità personali e comuni. Lo sfruttamento dei bambini, la tratta di esseri umani, la violazione delle donne e degli uomini, la soluzione delle controversie con al violenza anche tra le coppie in cui il dialogo è sempre più in diminuzione, i litigi tra i leader, dimostrano tutti che un diritto ingannevole ha rimpiazzato la responsabilità di prendere decicioni morali e spirituali, e ha messo a tacere la coscienza.

Per questo, nella nostra lettera pastorale pubblicata lo scorso anno, abbiamo sottolineato la centralità della coscienza individuale per il rinnovamento e la riconciliazione della nostra Nazione.

Tuttavia, quando la coscienza è deformata o disinformata, e quando malizia o vizi guidano la persona, si finisce per scegliere il male rispetto al bene. Quando non ascoltiamo la nostra coscienza, ci immergiamo facilmente nel peccato e nella condotta malvagia, senza preoccuparci delle conseguenze delle nostre azioni sulla nostra vita e del nostro rapporto con Dio. La coscienza può essere deformata da cattive abitudini e vizi. In particolare tutte le azioni di avidità in tutte le sue forme e in gli altri vizi  capitali, il fatalismo e le tendenze suicide indicano tutte una coscienza deformata, fuorviata o disinformata. Il conflitto, la corruzione e l’avidità che vediamo in tutto il paese, nelle famiglie, nelle scuole, nelle comunità e negli affari pubblici nascono dall’ignorare e dal rifiutare la guida della coscienza nel prendere decisioni.

La nostra cultura come africani, kenioti

La relazione BBI mette in risalto il valore della coscienza nel capitolo sull’ethos nazionale. È difficile realizzare le nostre aspirazioni nazionali se non sono ancorate a un’etica fondata. Non siamo un popolo senza cultura, una cultura che ha valori e sistemi per garantirne il successo. Siamo africani, e kenioti in particolare, che vogliono continuare a migliorare la propria vita attraverso sistemi di governo migliori. Ma, questo processo, non dovrebbe in alcun modo allontanarci dalla nostra ricca cultura dell’essere umani, di essere religiosi ed essere persone che apprezzano gli altri, compresi i rifugiati provenienti da vicino e da lontano. La nostra grande tradizione africana di condividere ciò che abbiamo non deve essere inghiottita da una cultura materialistica. L’accumulo di ricchezza deve essere all’interno della nostra cultura di possedere solo ciò per cui hai veramente lavorato. I nostri bisnonni, le bisnonne erano conosciute per la loro generosità soprattutto agli sconosciuti. Ognuno in una famiglia aveva la sua giusta parte.

Riconosciamo quindi le proposte di questa sezione secondo cui gli anziani, i leader religiosi e le istituzioni di apprendimento hanno un ruolo fondamentale nel formare la coscienza, non solo dei bambini, ma anche degli adulti. Nessuna delle proposte avanzate nella relazione o nella Costituzione sarà realizzata se continueremo ad agire in modo da ignorare la nostra coscienza individuale e collettiva. Una coscienza formata si fonda sull’ethos in modo che siamo in grado di ascoltare Dio e noi stessi in ogni momento della nostra vita, sia giovani e che vecchi. Non dobbiamo quindi ingannare noi stessi credendo che bastino i documenti legali da soli a proteggerci dalla caduta in peccato. La migliore legge e la legge di Dio sono iscritte nella nostra coscienza. Come persone che credono Dio abbiamo l’obbligo di fare ciò che è giusto in ogni momento.

Siamo determianti aa intensificare i nostri sforzi per formare una società che abbia coscienza in linea con la relazione BBI. Accogliamo con favore e incoraggiamo la promozione dell’ethos sia nelle nostre istituzioni di apprendimento di base che in quello terziario. Ci impegniamo a sostenere tutte le parti interessate nella formazione dell’ethos nazionale, per il bene di tutti i kenioti.

Conclusione

Cari kenioti, come vostri Pastori, ci appelliamo a ciascuno e a ciascuno di voi a cercare il bene più grande della nostra nazione, a cercare l’unità e a lavorare per la vera riconciliazione. Chiediamo a tutti noi leader, e in particolare ai leader politici, di vedere un quadro più ampio di una nazione unita, resiliente e riconciliata, dove tutti noi siamo custodi dei nostri fratelli e sorelle. Questo è il momento di evitare la politica divisiva, di cercare le vie del dialogo e di condividere i nostri valori.

Rivolgendoci a voi, cari kenioti e a tutte le persone di buona volontà, da questo santuario mariano dove ci riuniamo ogni anno per pregare per la nostra nazione, invocando l’intercessione materna della Madre di Dio, chiediamo unità, amore e riconciliazione e la guarigione da tutti i mali e soprattutto dalla pandemia Covid-19.

Possa la Pace di Cristo rimanere con voi tutti. Dio vi benedica tutti! Dio benedica il Kenya!

Mons Philip Anyolo
presidente della  Conferenza episcopale del Kenya
Arcivescovo Kisumu e Amministratore Apostolico di Homa Bay

Data: giovedì 12 Novembre 2020

(seguono le firme di tutti gli altri vescovi)
[nostra traduzione dall’originale inglese]




Corea del Nord: Forse è iniziata una nuova era


Corea del Nord e Usa. Il tanto declamato incontro tra Donald Trump e Kim Jong Un è stato possibile per il grande lavoro diplomatico del presidente sudcoreano Moon Jae-in. La denuclearizzazione della Corea del Nord non è un programma di poco conto e richiede vari passaggi. Senza trascurare la circostanza che gli Stati Uniti mantengono in Corea del Sud 28.500 militari, che non piacciono né a Pyongyang né a Pechino. L’analisi (alternativa) del nostro Piergiorgio Pescali presente al summit di Singapore.

Una «nuova era, l’era della cooperazione tra Dprk e Usa si è aperta». Queste parole, forse fin troppo ottimiste, non provengono da comunicati diplomatici, quasi sempre inutili nella loro tendenza ad amplificare il successo di qualsiasi evento internazionale, ma da una fonte inaspettata: il Rodong Sinmun, il quotidiano del Comitato Centrale del Partito dei Lavoratori di Corea. Il 13 giugno 2018 il giornale nordcoreano, come tutti i mezzi di comunicazione del paese strettamente controllato dal governo, riassumeva – in ben quattro pagine – i risultati del summit tenutosi a Singapore tra Kim Jong Un e Donald Trump illustrando il tutto con 33 fotografie. Ma le sorprese non finiscono qui: per la prima volta nella loro storia i nordcoreani potevano leggere che lo stesso Grande Leader aveva «elogiato la volontà e l’entusiasmo del presidente (Trump, ndr) nel risolvere le divergenze in modo realistico attraverso il dialogo e i negoziati, lontano dalle ostilità che si erano create nel passato». Una dichiarazione sbalorditiva e sicuramente inattesa in un paese dove gli Stati Uniti sono visti come il perenne e principale pericolo per la sopravvivenza del suo popolo.

il presidente della Corea del Nord (a sinistra) con quello della Corea del Sud durante il loro secondo incontro (26 maggio 2018) nella zona demilitarizzata che divide le due Coree. Foto: The Blue House / AFP.

Il contributo di Moon Jae-in

La dichiarazione di Singapore è composta da quattro punti programmatici che delineano la strada da seguire per completare
il processo di pace e stabilire relazioni diplomatiche. Ad essa si è arrivati dopo lunghe e sofferte trattative, ma il punto di svolta lo si era avuto con l’elezione di Moon Jae-in alla presidenza della Repubblica di Corea (dal 10 maggio 2017, ndr). È stato questo avvocato e attivista dei diritti umani, figlio di profughi nordcoreani trasferitisi al Sud alla fine del 1950, arrestato negli anni Settanta per aver partecipato a manifestazioni studentesche contro la costituzione Yushin che dava pieni poteri all’allora presidente Park Chung-hee, a mediare tra le diplomazie statunitensi e nordcoreane riaprendo la via ad un dialogo che appariva impossibile. Già fautore della Sunshine Policy avviata da Kim Dae-jung (presidente dal 1998 al 2003, ndr) e perseguita da Roh Moo-hyun (presidente dal  2003 al 2008, ndr), con cui ha collaborato organizzando l’incontro del 2007 con Kim Jong Il, Moon Jae-in è sempre stato convinto che l’unica soluzione possibile per pacificare la penisola coreana fosse il dialogo. Così, quando nel maggio 2017 la disastrosa amministrazione di Park Geun-hye, caratterizzata da scandali e dalla politica del confronto muro-contro-muro con il Nord ebbe termine, Moon iniziò, o meglio, riprese, la linea di apertura ufficialmente interrotta nel novembre 2010 dal ministro dell’Unificazione sudcoreano.

Da allora Seoul e Pyongyang si sono confrontate a livelli diplomatici sempre più alti e neppure il test termonucleare del settembre 2017 seguito dal lancio del missile intercontinentale Hwasong 15 a novembre, sono riusciti a impedire che il 27 aprile 2018 (e poi il 26 maggio, ndr) Kim Jong Un entrasse nella Corea del Sud garantendosi un posto nella storia varcando, primo leader della Corea del Nord, il confine segnato dall’armistizio del 1953.

Da quell’incontro Moon ha lavorato indefessamente affinché il dialogo non si arenasse, come invece era accaduto con la Sunshine Policy, riuscendo anche a convincere Trump a ritirare la lettera inviata il 25 maggio in cui diceva di voler annullare il summit di Singapore.

Nel frattempo, Kim Jong Un teneva fede alla parola data chiudendo il sito di test nucleari di Punggye-ri, l’area dove sono state fatte scoppiare tutte le sei bombe nucleari, di cui l’ultima termonucleare, che tanto hanno scosso l’opinione pubblica fino a far ipotizzare a chi è meno attento alle questioni della penisola, lo scoppio di una guerra.

La dismissione di Punggye-ri, pur con tutti i dubbi sollevati dal rifiuto da parte nordcoreana di invitare esperti internazionali che installassero strumenti di monitoraggio in continuo, è stato un primo passo per iniziare un dialogo con gli Stati Uniti.

È stato questo lavoro di concerto tra Kim e Moon a permettere l’incontro di Singapore.

Giovani nordcoreane si esercitano per la parata sulle rive del Taedong, a Pyongyang. Foto: Tobias Nordhausen.

Come fare per accontentare tutti gli attori

Ora, però, la questione principale che ci si pone è quale denuclearizzazione sarà possibile in Corea del Nord? Il termine denuclearizzazione è di per sé molto vago e lascia spazio a innumerevoli interpretazioni. Gli Stati Uniti vorrebbero un disarmo nucleare completo, verificabile e irreversibile, il cosiddetto Cvid (Complete, Verifiable and Irreversible Dismantlement) così come descritto nella risoluzione 2.270 del 2016 delle Nazioni Unite. In questo documento si legge che la «Repubblica democratica popolare di Corea dovrà abbandonare tutti i programmi nucleari e abbandonare la produzione di armi nucleari in maniera completa, verificabile e irreversibile cessando immediatamente ogni attività ad essa correlata». Ma le incomprensioni tra Pyongyang e Washington sono spesso causate alla diversa interpretazione dei termini. Per gli asiatici la denuclearizzazione comprenderebbe anche la completa rimozione dei 28.500 militari statunitensi oggi stanziati in Corea del Sud. Per gli statunitensi, invece, almeno sino al vertice di Singapore, questa opzione non è mai stata contemplata. Anzi, il terrore della Cina è proprio quello di trovarsi i propri confini presidiati da truppe del Pentagono nel caso la Corea del Nord si avvicini troppo agli Usa.

Una soluzione che potrebbe accontentare entrambe le parti sarebbe il congelamento (e non lo smantellamento) del programma nucleare e missilistico di Pyongyang. Dopotutto Kim Jong Un ha già affermato di aver raggiunto il suo scopo con il lancio dell’Hwasong-15 nel novembre 2017 e lui stesso ha indicato come non improbabile una sospensione delle ricerche in campo atomico e missilistico. Il congelamento sarebbe un modo per accontentare tutti gli attori regionali: la Corea del Nord non sarebbe costretta per forza di cose a denuclearizzare per prima esponendo così il proprio lato debole al nemico; gli Stati Uniti, invece, avrebbero la garanzia che la nazione asiatica non perfezioni ancor più la sua tecnologia e non accresca di altre bombe termonucleari il proprio arsenale. Per la Corea del Sud, dal canto suo, si aprirebbe una nuova stagione di dialogo, una sorta di Sunshine Policy II, accrescendo il peso politico ed economico della nazione nella regione e garantendo a Moon Jae-in l’approvazione non solo dell’elettorato, ma anche dei potenti chaebol (i grandi conglomerati industriali controllati da un proprietario o da una famiglia, ndr). Il Giappone, sebbene non veda completamente soddisfatte le sue richieste di estinzione di pericolo nucleare e chimico-batteriologico provenienti dalla Corea del Nord, avrebbe però una nuova chance per riaprire il negoziato sui rapimenti dei propri cittadini avvenuti negli anni Ottanta, avendo al tempo stesso la riassicurazione di Washington di proteggere l’arcipelago con i propri sistemi antimissile. La Cina, che più di tutti teme un cambiamento dell’equilibrio di forze a favore degli Usa, verrebbe compensata dall’apertura di un mercato di 100 milioni di potenziali consumatori, 25 dei quali altamente affamati di nuovi prodotti. Attualmente le esportazioni cinesi sono frenate a Nord dall’embargo delle Nazioni Unite e a Sud dalla barriera del 38° parallelo.

Kim Jong Un e Donald Trump nel porticato del Capella Hotel di?Singapore. Foto: Kevin Lim / The Straits Times /Handout/Getty Images.

Lo scoglio nucleare e missilistico

Anche nel caso la Corea del Nord accettasse di interrompere i propri test nucleari e missilistici, le parti in causa dovranno comunque sedersi a un tavolo delle trattative per individuare modi e tempi per ottemperare alle proposte.

Pyongyang potrebbe sospendere i test dei soli missili intercontinentali, quelli che più impensieriscono gli Stati Uniti, ma non quelli a corto e medio raggio, capaci di raggiungere ogni punto del Giappone. Potrebbe anche non includere il programma spaziale che, seppur formalmente sia solo un programma civile, ha comunque implicazioni militari, come ben sanno gli stessi Stati Uniti. Anche nel caso si raggiungesse un accordo sul bando dei test missilistici Icbm (Intercontinental Ballistic Missiles, missili balistici intercontinentali), Pyongyang potrebbe continuare a sviluppare studi in laboratorio sui motori a combustibile liquido e, a seconda degli accordi che si andranno a sottoscrivere, le ricerche correlate ai missili imbarcati sui sottomarini. Dato che i test sui Icbm devono passare attraverso lo sviluppo dei missili Srbm (Short Range Ballistic Missiles, missili balistici a corto raggio) e sui motori a combustibile liquido, sarà molto probabile che gli Stati Uniti chiederanno la sospensione totale di questi esperimenti.

Alla Corea del Nord potrebbe anche venir chiesto di rientrare nel Ctbt, il «Trattato per il bando totale degli esperimenti nucleari» (Comprehensive Test-Ban Treaty) da cui era uscita il 10 gennaio 2003. Nel caso il paese accetti, sarà obbligato ad aprire i suoi siti di ricerca e di produzione a ispezioni internazionali, le quali potrebbero intervenire senza lungo preavviso nel caso vi siano prove di violazione del trattato. Inoltre, i tecnici del Ctbt sarebbero autorizzati ad installare strumenti di controllo in remoto nelle aree più delicate, incluse quelle ritenute segrete, che possano ravvisare eventuali attività non autorizzate. La rivelazione agli Stati Uniti o a parti terze delle proprie basi segrete, i centri di produzione missilistica e nucleare, le rotte, legali o no, attraverso cui i militari si riforniscono per i propri programmi, sarebbe sicuramente la fase più delicata: Pyongyang potrebbe vederla come il punto di non ritorno perché taglierebbe in modo pressoché definitivo ogni futuro sviluppo del paese in senso militare.

Kim Jong Un al centro tra Vivian Balakrishnan (autore del selfie) e Ong Ye Kung, ministri di Singapore. Foto: Vivian Balakrishnan.

Sanzioni e sviluppo economico

Questo calo delle difese da parte di Pyongyang, considerato critico e pericoloso da parte della leadership nordcoreana, dovrebbe essere a sua volta accompagnato da ampie assicurazioni da parte di Washington e dei suoi alleati che, una volta esposta e indifesa, la Corea del Nord non verrà attaccata in alcun modo, non solo militarmente, ma anche con ritorsioni economiche, politiche e di altro genere. Nei suoi comunicati ufficiali, Pyongyang ha sempre considerato le ritorsioni economiche come delle vere e proprie dichiarazioni di guerra e di questi collegamenti si dovrà tener conto quando le parti si siederanno di nuovo al tavolo delle trattative. La sospensione delle esercitazioni militari, dei voli dei bombardieri e la navigazione di portaerei e sottomarini nel Mar Giallo e nel Mar del Giappone, auspicate per la prima volta quest’anno da parte di Trump subito dopo il vertice di Singapore, dovrebbero risultare permanenti, possibilmente accompagnate da un patto di non aggressione, mentre la Cina (ed eventualmente la Russia) potrebbe proporsi come garante nella protezione militare di Pyongyang.

È anche impensabile cancellare il programma sino a quando non si instaureranno le condizioni per sopperire alle falle energetiche e finanziarie che ora vengono parzialmente colmate dal nucleare. L’economia nordcoreana ha estremo bisogno di elettricità. Le centrali che alimentano le industrie e le abitazioni civili sono vetuste e hanno urgente bisogno di essere rinnovate. L’embargo imposto dalle Nazioni Unite impedisce al paese di importare pezzi di ricambio così come il petrolio, e l’unica fonte di approvvigionamento rimangono le miniere di carbone la cui estrazione è fortemente rallentata da macchinari antiquati e da continui incidenti. In questa situazione i black out energetici sono frequenti, rallentando la produzione economica e costringendo la popolazione a fare i conti con improvvise interruzioni delle attività quotidiane. Se a Pyongyang e nelle altre città la situazione è ancora sostenibile, nelle campagne è, invece, più seria. Per far fronte alla carenza di energia elettrica quasi ogni casa nordcoreana ha pannelli solari che permettono il funzionamento degli elettrodomestici e dei macchinari meno energivori.

La società nordcoreana si sta sempre più dividendo in due, tra chi abita in città ed è testimone di mutamenti sempre più repentini e chi, invece, vive nelle campagne, dove la vita scorre più lineare e le riforme economiche e sociali si materializzano sotto forma di mercatini privati, commercio con il mercato nero, disoccupazione.

Se il trio Kim-Moon-Trump è riuscito a portare una nuova speranza di pace e sviluppo nella storia della penisola coreana, ora i nordcoreani aspettano fiduciosi un nuovo boom economico che permetta loro di migliorare le proprie condizioni di vita.

Piergiorgio Pescali


Il presidente nordcoreano a Singapore

Un selfie con Kim

Il comportamento di Kim Jong Un è molto diverso da quello dei suoi predecessori: il padre Kim Jong Il e il nonno Kim Il Sung. In questo cambiamento è stato aiutato anche dalla sorella Kim Yo Jong. A Singapore, il presidente nordcoreano è stato più «mediatico» del presidente Usa.

Il summit di Singapore si può riassumere in due foto particolarmente emblematiche: la prima è il selfie che il ministro degli Esteri singaporeano Vivian Balakrishnan ha scattato assieme al collega della Pubblica Istruzione Ong Ye Kung con un sorridente Kim Jong Un in mezzo a loro. La foto, fatta con un cellulare, è in assoluto il primo selfie del leader nordcoreano ed è stata scattata nel Gardens by the Bay durante il tour che ha portato Kim e l’ormai inseparabile sorella Kim Yo Jong allo Sky Park del Marina Bay Sands. Il ritratto mostra, forse più di ogni altra immagine, il nuovo corso che il Grande Leader vuole imprimere alla Corea del Nord. Non più immagini costruite e stereotipate come quelle che, per anni, hanno contraddistinto il padre e il nonno; per la prima volta questo selfie ha mostrato il Kim quotidiano, genuino, perfettamente a suo agio in un ambiente a lui estraneo, ma che sente come amico. L’estemporaneità della postura è perfettamente in linea con la nuova politica intrapresa dal leader nordcoreano sin dai primi giorni del suo governo. Una politica che, a differenza del padre, lo ha portato a stretto contatto con il popolo: le apparizioni del Grande Leader, rare durante il periodo di Kim Jong Il, si sono fatte sempre più frequenti e alla severità del padre si è sostituito il sorriso del figlio, sicuramente impresso nel suo carattere, ma dettato anche dal nuovo stile costruito dalla sorella, non per nulla vice direttrice del dipartimento di Propaganda e che esprime un senso di sicurezza ad una nazione stremata da anni di chiusura e di embarghi politici e economici.

Di Singapore Kim Jong Un ha apprezzato la pulizia e l’architettura degli edifici, «che ricordano la storia e il passato» aggiungendo di «aver imparato molto dall’esperienza fatta nella città-stato e che sarà utile per il futuro» del suo paese. Il panorama notturno che Kim ha osservato dallo Sky Park del Marina Bay Sands lo ha impressionato tanto da auspicare una trasformazione simile anche per la sua Pyongyang.

La seconda fotografia che racchiude la sintesi del summit ritrae Kim Jong Un e Donald Trump di spalle a tre quarti che camminano lungo il porticato che si affaccia sul giardino del Capella Hotel. Kim sta parlando a Trump sorridendo mentre, con la mano destra appoggiata all’altezza del gomito del braccio sinistro di Trump, accompagna il presidente Usa. L’immagine è emblematica perché racchiude la sintesi dei colloqui tra i due capi di stato. Kim ha il sopravvento su un Trump che, pur continuando a ricoprire la figura del borioso e dello spaccone, si lascia guidare dal collega nordcoreano sottomettendosi, almeno in parte, alle sue volontà. I due sembrano prendere confidenza l’uno con l’altro prima di avanzare verso un futuro che appare luminoso con le palme sullo sfondo. E tra loro è Kim Jong Un che guida il percorso e incoraggia il collega. Un ribaltamento di ogni prevedibile situazione: a Singapore non sono stati gli Usa a condurre i giochi, bensì la Corea del Nord. Seguendo Kim nel suo tour a Singapore, il bagno di folla e le inaspettate ovazioni a lui riservate hanno mostrato che, almeno in questa città, il leader nordcoreano è visto in modo diametralmente opposto rispetto a come è stato descritto in Occidente. Per contro il presidente statunitense è stato snobbato ed era chiaro che si sentisse un pesce fuor d’acqua al di là del contesto mediatico del Capella Hotel.

Sicuramente questo modo di vedere ha a che fare con gli storici legami politici e economici che Singapore ha avuto con la Corea del Nord a cui si aggiungono le simpatie personali tra Lee Kuan Yew (morto nel 2015, ndr) e con Kim Il Sung (morto nel 1994, ndr), fondatori, padri-padroni autoritari dei rispettivi stati. Lee Kuan Yew e Kim Il Sung condividevano l’assolutismo, il rigore e un’idea differente dei diritti umani, basati su una «visione asiatica» che predilige il diritto sociale a quello individuale.

Piergiorgio Pescali

 

 




Colombia: La pace bussa due volte


I guerriglieri delle Farc hanno lasciato i loro rifugi per andare nei «campi di normalizzazione». Dopo il referendum del 2 ottobre 2016, la fine di 52 anni di conflitto interno sembrava in pericolo. Invece, la pace ha bussato due volte. Il 24 novembre è stato firmato un nuovo accordo e il processo di pace ha avuto inizio. Di questo e altro abbiamo parlato con mons. Luis Augusto Castro Quiroga, presidente della Conferenza episcopale colombiana e mediatore nelle lunghissime trattative tra il governo di Manuel Santos e le Farc.

L unedì 3 ottobre tutto sembrava sfumato, volatilizzato: quattro anni di negoziati, la possibilità di porre fine a 52 anni di guerra civile, la speranza di un nuovo inizio per il paese. Il referendum sull’accordo di pace tra governo?Santos e le Farc – peraltro disertato dalla maggioranza dei colombiani – aveva visto prevalere, per poche migliaia di voti, il «no». Invece di perdersi d’animo, le parti si sono subito rimesse attorno a un tavolo per ascoltare le voci dissenzienti e per rinegoziare i punti più controversi.

In poco più di 40 giorni si è arrivati a una nuova edizione dell’accordo, che il 24 novembre è stato firmato dal presidente Manuel Santos e dal comandante Rodrigo Londoño, alias Timochenko, leader delle Farc. Pochi giorni dopo il testo è passato al vaglio del Senato e della Camera dei rappresentanti, che lo hanno approvato. Alla votazione non ha partecipato lo schieramento dell’ex presidente?Álvaro Uribe Vélez, contrario all’accordo per definizione (oltre che per precisi calcoli politici).

Considerata la lunghezza e difficoltà del percorso, è ancora troppo presto per dire se la pace arriverà per davvero. Quello che però si può dire con certezza è che le Farc (a parte piccole frange isolate) stanno rispettado gli impegni sottoscritti. A gennaio e febbraio migliaia di guerriglieri – tra cui 87 donne incinte e 65 madri allattanti – hanno lasciato montagne, foreste e accampamenti per andare nei 27 «campi transitori di normalizzazione» (Zonas veredales transitorias de normalización e Puntos transitorios de normalización) dislocati sul territorio del paese. Qui, al momento stabilito, consegneranno le armi nelle mani dei rappresentanti delle Nazioni Unite e cominceranno la preparazione per il loro reinserimento nella vita civile e il passaggio alla legalità.

«È cominciata l’ultima marcia delle Farc», ha annunciato l’Alto Commissariato per la pace (Alto Comisionado para la paz). Una frase ad effetto, ma fedele a ciò che sta accadendo.

Il prossimo settembre papa Francesco visiterà la Colombia. Al suo viaggio è stato dato un titolo significativo: «Demos el primer paso», «Facciamo il primo passo». Ad accogliere il papa non ci sarà mons. Luis Augusto Castro Quiroga, attuale presidente della Conferenza episcopale colombiana (Cec), che a luglio concluderà il suo mandato. Uno scherzo del destino considerando quanto, fin dagli anni Ottanta in Caquetá, mons. Castro si è speso per la pace e il suo ruolo di mediatore (non sempre compreso e sostenuto anche all’interno della stessa Chiesa cattolica colombiana) nei colloqui tra il governo?Santos e le Farc.

Abbiamo incontrato mons. Castro per parlare non soltanto del processo di pace, ma anche di tutti i problemi che pesano sulla Colombia a partire dalle diseguaglianze e dal narcotraffico.

Margot Silva, della FARC, con suo figlio  / AFP PHOTO / Luis Acosta

Dal «no» al nuovo accordo

Mons. Castro, al referendum del 2 ottobre ha vinto il «no» all’accordo di pace. Si è trattato di una sconfitta o semplicemente di uno stop temporaneo sul cammino verso la pace?

«È stata innanzitutto una sconfitta che però si è convertita in un passaggio interlocutorio. È stata una sconfitta sì, ma in una partita giocata tra due minoranze estreme perché la grande maggioranza dei colombiani non ha votato. E non ha votato soprattutto perché non aveva inteso di cosa si trattasse, cosa fosse in gioco.

Continuamente, direi tutti i giorni, io ripetevo al governo: fate un po’ di pedagogia, spiegate questa domanda bene e con semplicità.

Non da avvocato ad avvocato, ma a una persona semplice per aiutare a capire l’importanza di tutto questo. Non lo hanno fatto. Quindi, quelli del no invece di spiegare hanno iniziato a instillare terrore nei colombiani. Sembrava che il processo di pace fosse un processo di guerra. Sembrava un processo contro i colombiani e non a loro favore. Questa propaganda piena di terrore ha fatto sì che molti colombiani abbiano votato per il no.

E alla fine, per pochissimo, quelli del no hanno battuto quelli del sì.

Fin qui, dunque, è stata una sconfitta. Questa è però servita affinché sia quelli del sì come quelli del no s’incontrassero. E soprattutto s’incontrassero quelli del no e il governo per vedere quali fossero le modifiche che essi chiedevano per poter essere soddisfatti e dire sì al processo. Per molti giorni si sono riuniti e alla fine si è arrivati a una nuova edizione dell’accordo».

Le Farc come hanno reagito alla bocciatura dell’accordo iniziale, quello di agosto?

«La guerriglia è stata molto responsabile. Ha accettato tutte le osservazioni acconsentendo che esse entrassero nel nuovo schema d’accordo. Io stesso sono rimasto tutto un giorno con loro, mostrando le debolezze che c’erano nel testo di agosto e dicendo che avrebbero dovuto considerarle. E così hanno fatto.

Non si è tornati a votare con un referendum. Tutto è passato al Congresso (Senato e Camera dei rappresentanti, ndr), che è l’organo naturale di un paese, e questo ha iniziato a studiare e votare tutti i punti. E a votare le leggi necessarie affinché i punti si traducano in misure legalmente operative».

Mi permetta di insistere sul referendum di ottobre. Pur lavorando da sempre per la pace, come presidente della Conferenza episcopale, lei non si era dichiarato chiaramente a favore del «sì». Come mai?

«È stata una decisione della Conferenza episcopale, assunta tutti insieme.

Ci siamo dichiarati a favore del voto: che tutti i colombiani e tutti i cattolici andassero a votare. Però non abbiamo dato un’indicazione: né a favore del “no”, né a favore del “sì”. Doveva maturare nella coscienza dei cittadini ciò che a essi appariva come la scelta migliore. E così hanno fatto. Liberamente. Così abbiamo proceduto. Certamente a molti non è piaciuto quello che abbiamo fatto, neppure ai sostenitori del no. Tuttavia, il comportamento era corretto: fare appello alla coscienza di ogni colombiano, invitare a studiare la questione e quindi prendere una decisione. Questo è stato il nostro suggerimento».

Il post conflitto e le «nuove stanze» della Colombia

Lei parla continuamente di «pedagogia della pace». Cosa intende?

«È cercare di far capire alla Colombia il significato di questo processo. Soprattutto il post conflitto. Io mi sono dato un compito: disegnare un’immagine che la gente semplice capisca. Il post conflitto è come la costruzione di una casa nuova. In cosa consiste la novità delle diverse stanze? Che ognuna ha qualcosa che prima non esisteva. Per esempio, la stanza della politica. Essa necessita dell’elemento dell’inclusione, un elemento sempre assente in questi anni. Tutti coloro che erano esclusi dalla politica presero le armi contro lo stato. Prendiamo l’economia. In Colombia essa dà vantaggi solamente a un gruppo molto piccolo di colombiani. È un’economia a cui manca l’elemento della solidarietà. Se si firma la pace, occorre inventarsi un’economia solidale, come sempre richiesto dalla Chiesa. E così per gli altri settori: l’istruzione, la cultura.

Tuttavia, una casa senza cemento cade. Ci sono tre tipi di cemento. Quello etico, che naturalmente ha a che vedere con l’onestà. Come in qualsiasi parte del mondo la corruzione è un elemento molto dannoso. Essa danneggia profondamente la vita di ogni colombiano. Ecco perché è necessario un cemento etico. In secondo luogo, è necessario un cemento spirituale. Esso è il perdono e la riconciliazione. Infine, c’è il cemento culturale. È necessario avere una cultura della vita, dei diritti, delle relazioni umane. L’elemento culturale è molto importante per costruire questa nuova società.

Bene, questa è la pedagogia che può entrare facilmente nella testa di qualsiasi persona, perché tutti sappiamo come si costruisce una casa. Secondo me, questa immagine aiuta a capire il futuro della Colombia in termini di pace».

Monsignor Castro, ci spieghi perché le vittime dovrebbero perdonare.

«In Colombia, le vittime comprovate ufficialmente sono 8 milioni. Però per ognuna di loro ce ne sono almeno due in più: un figlio con mamma e papà, un padre con moglie e figli. Se per ogni vittima ce ne sono altre due coinvolte, arriviamo alla cifra di 24 milioni di vittime. Questo significa il 50% della popolazione. Se non ci sarà il loro perdono, mai smetteranno di essere vittime.

Non esiste la vittima felice. Una vittima sarà sempre infelice. Per questo è importante passare dalla condizione di vittima a quella di sopravvissuto. “Con l’aiuto di Dio io sono stato capace di superare l’odio e il sentimento di vendetta e costruirmi un futuro differente”. Questa è la speranza per ogni vittima. Per questo si insiste sul perdono. E sulla riconciliazione».

Le Farc non sono un cartello

Secondo rapporti internazionali e reportage, già dagli anni Novanta le Farc si sarebbero trasformate da organizzazione guerrigliera (o terrorista, per alcuni) in un cartello del narcotraffico che guadagna milioni di dollari. Questa interpretazione è realistica o è manipolata per motivi politici?

«Io direi più la seconda ipotesi che la prima. Le Farc sempre hanno negato di essersi convertite in un cartello della droga.

I guadagni che avevano venivano dalle imposte: se un narcotrafficante voleva droga, doveva pagare alla guerriglia una tassa. Il business rimaneva però nelle mani dei narcotrafficanti.

Per non essere troppo radicale direi che la gran parte delle Farc ha vissuto di questa imposta, nota come vacuna. Non possiamo scartare l’ipotesi che qualcuno si sia messo nel narcotraffico. Però non a livello di organizzazione.

Alcuni guerriglieri non hanno accettato il processo di pace e si sono staccati (sarebbero circa 100 uomini del Frente Primero, di stanza in Guaviare, guidato da Iván Mordisco e Gentil Duarte, e alcune decine appartenenti ad altri fronti, ndr). E credo, come tanti, che lo abbiano fatto perché si sono messi in questa attività. A costoro interessa il denaro e non la pace in Colombia. Sono delinquenti comuni. Però nelle Farc non c’è mai stata una scelta ufficiale di trasformarsi in trafficanti di droga veri e propri. L’hanno usata per ottenere risorse. Come lo hanno fatto con altri strumenti – orribili! – tipo il sequestro (le cosiddette «pescas milagrosas», ndr).

Naturalmente, in questo momento, le Farc cercano di dimostrare che mai sono state dei mercanti di droga. Allo stesso tempo ammettono che chiedevano soldi ai narcotrafficanti per autofinanziarsi».

Con quali esponenti delle Farc lei ha avuto modo di parlare?

«Con molta gente. Con i dirigenti. Con Iván Márquez, per esempio. Una delle ultime volte mi ha sorpreso. Durante una conversazione, a l’Avana, venne fuori una espressione latina. “Mi ricordo ancora qualche frase in latino”, disse lui. “E dove lo ha imparato?”, chiesi. “In seminario”, rispose. “E chi glielo insegnò?”, continuai io. Non so se posso dirlo in questa intervista, ma i padri della Consolata erano stati quelli che gli avevano insegnato il latino.

Un giorno egli decise di lasciare il seminario, ma chiese al vescovo se avesse potuto dargli un lavoro. Lui lo nominò professore in una struttura educativa. Il problema di Iván Márquez era che credeva che quel vescovo fossi io. Invece era mons. Cuniberti. In ogni caso, l’uomo ha maturato un grande rispetto per i missionari della Consolata che sono stati suoi formatori in filosofia, latino e altre discipline.

Questo lo racconto per dire che il dialogo fluiva in maniera molto facile, tranquilla e sincera. Quando il mio collaboratore portava una lista di richieste della gente, Márquez le prendeva e le distribuiva tra i suoi uomini affinché se ne occupassero. Con lui si dialogava. Con Timochenko, il leader maximo delle Farc, ci siamo incontrati solamente una volta. Verso la fine, quando capimmo che loro erano realmente decisi a fare il passo dalla guerra alla pace. E che non c’erano possibilità di tornare indietro».

Le cause economiche e sociali che, nel 1964, portarono alla guerra sono tuttora presenti: concentrazione della terra in poche mani, diseguaglianze, carenza di sanità e istruzione pubbliche. Lei non crede che senza una soluzione concreta di queste problematiche, la pace non potrà mai diventare effettiva?

«La prima causa della ribellione delle Farc contro lo stato fu la loro esclusione dalla politica. Non fu per la povertà né per altri motivi. Il fatto è che, essendo esclusi dalla politica, non potevano lavorare sugli altri aspetti dell’esistenza. Oggi l’obiettivo è integrarsi nella politica. Detto questo, l’accordo di pace non è tanto sugli elementi politici, dati per acquisiti, quanto su tutti gli altri aspetti della vita colombiana. In primo luogo, l’aspetto della terra, una terra superconcentrata in poche mani che non sono certamente quelle dei poveri. E poi il problema agricolo. Tutto è stato studiato nell’accordo di pace che è stato approvato. Una cosa è deciderlo, un’altra è metterlo in pratica. Per fare questo si richiedono ingenti quantità di denaro. Per fortuna molti paesi hanno iniziato ad aiutare».

L’applicazione di cui lei parla ha avuto inizio?

«È iniziata il primo dicembre del 2016. È iniziata con la definizione delle aree dove si concentrerà la guerriglia per le varie fasi del processo. La prima fase è quella del disarmo. Poi la formazione per integrarsi positivamente nella società. Formazione anche dal punto di vista lavorativo, apprendendo elementi che servano per aprirsi le porte nel mondo del lavoro. In generale, la implementazione di un accordo è più difficile della sua approvazione» .

Uribe, il grande oppositore

Mons. Castro, la sua opinione su Álvaro Uribe e sulle Autodefensas unidas de Colombia (Auc).

«Mettere questi due soggetti nella stessa domanda è una cosa… maliziosa… Sono due cose differenti. Io credo che il presidente Uribe

sia stato ferito quando Santos, già ministro sotto la sua presidenza, fu nominato presidente e prese una linea totalmente autonoma rispetto alla sua. E lo fece fin dal suo discorso iniziale. Questo ha fatto sì che Uribe sia diventato un grande oppositore.

Quando papa Francesco ha invitato Santos in Vaticano ha chiamato anche Uribe per cercare un riavvicinamento tra i due, ma non vi è riuscito (a dicembre 2016, ndr). Naturalmente Uribe ha molti nemici e si dice che, in passato, egli abbia avuto rapporti con i gruppi paramilitari come le Auc, composti da delinquenti. Su questa cosa però io non dico nulla perché non ho elementi per giudicare».

Chiudere il «ciclo del dolore»

Abbiamo visto che i numeri delle vittime sono impressionanti. Cosa può dire a una persona che ha perso un familiare o a un profugo?

«A queste persone si possono dire due cose. In primis, che esse hanno la possibilità di fare reclamo contro lo stato per i danni e le conseguenze sofferte perché la guerra era contro lo stato. Questo c’è negli accordi di pace.

In secondo luogo, come ho già spiegato, nel Tribunale per la pace ogni guerrigliero è obbligato a dire ciò che sa in termini di sparizioni, morti, sequestri. Se vuole avere degli sconti di pena, deve dire tutto quello che sa. Come successe in Sudafrica dove la commissione di conciliazione diceva: “Se dice la verità, lo favoriremo. In caso contrario, la giustizia cadrà su di lei con tutto il peso della legge”.

Le vittime, molte vittime possono ottenere risposte in termini di verità, che poi è quello che chiedono. “Che è successo a mio figlio?”, “Che è successo a mio marito?”, “Dove sta il cadavere? Se lo hanno ammazzato, che si possa almeno fare il funerale”. Tutto questo per chiudere il ciclo del dolore. Se esso non si chiude, lascia tutti nell’incertezza continuando a soffrire tremendamente.

Pertanto, da un lato ci sarà l’azione del Tribunale per la pace (organo giudiziale, ndr), dall’altro la Commissione della verità (organo extragiudiziale, ndr).

Da ultimo, l’ho già detto, bisogna invitare le vittime a fare un atto di coraggio: perdonare per non essere più vittime, perché il futuro che meritano non deve essere questo. Non cioè una triste vittima, ma una persona che si è conquistata un progetto di vita, un futuro differente. Una persona che, con l’aiuto di Dio, riconquista la tranquillità e serenità che merita».

Dunque, possiamo riassumere tutto in tre parole: verità, giustizia, perdono. È così?

«Sì, è corretto. Tutte e tre sono parole importanti. Verità per le vittime. Giustizia perché la guerriglia deve rispondere di quello che ha fatto. E perdono che è la motivazione interna di una persona per essere nuovamente felice».

Gli indigeni e il conflitto

L’oltre mezzo secolo di conflitto interno come ha influenzato la vita delle minoranze etniche?

«Le minoranze non sono state colpite in quanto minoranze, ma in quanto colombiane. Tutti siamo stati colpiti dalla guerra. Anche le minoranze etniche. Una delle conseguenze della guerra è stata la confisca della terra principalmente ai contadini e appunto agli indigeni. Sono stati soprattutto i gruppi paramilitari a farlo per beneficio di alcuni. Questo ha prodotto grandi sofferenze. Ci sarebbero molte cose da dire sulle minoranze indigene».

Per esempio?

«Per esempio che la Costituzione della Colombia afferma che esso è un paese multietnico. È un’espressione che a me provoca vergogna. Dire multietnico significa dire che è un paese di diversi, dove ognuno vive e lascia vivere e nulla di più. Mi sembra che sia troppo poco. Noi abbiamo bisogno non di un paese multietnico ma plurietnico. Anzi, ancora meglio sarebbe la parola interetnico in cui la maggioranza e le minoranze si relazionano, imparano le une dalle altre, crescono in un contatto mutuo. Invece, dicendo multietnico è come dire: “Io sono qui e tu là”, “Io non ti disturbo e tu non mi disturbi”. Una minoranza etnica che si chiuda (come succede in Colombia) poco a poco va a sparire perché le culture non crescono per intra-fecondazione ma per inter-fecondazione. Tutte le culture, tutti i popoli si arricchiscono. Se, al contrario, uno si chiude, va a debilitarsi.

Ricordo che, in questo momento, c’è un problema molto grave nel Nord della Colombia, tra i Guajiros: i loro bambini stanno morendo. Morendo di fame» (sono stati oltre 60 i bimbi morti nel 2016, ndr).

La coca e la narcoeconomia

È difficile non ricordare che la Colombia è nota in tutto il mondo per la droga. Oggi, nel suo paese, qual è il peso della narcoeconomia?

«Io non definirei assolutamente così la nostra economia. È un fatto che ci sia un lavaggio di dollari. Tuttavia, da parte dello stato c’è una coscienza ben chiara che esso non può funzionare con questo tipo di denaro. Il contrasto di questo business è molto grande. Le tonnellate e tonnellate di droga che si individuano ogni mese e anno testimoniano che stiamo lottando contro questo problema. Che è molto grande e che è internazionale.

All’interno dell’accordo di pace si stabilisce di aiutare a chiudere con la coltivazione della coca. Prima si era pensato di farlo attraverso la cosiddetta fumigazione (disinfestazione con glifosato, un erbicida probabilmente cancerogeno, ndr). Ci furono molte proteste, alcune corrette, altre meno».

La fumigazione avveniva anche tramite il Plan Colombia degli Stati Uniti…

«Sì, esso aiutava anche in quel senso. Comunque, ci furono proteste e dunque si decise di sradicare le piante manualmente. In tal modo non si contamina l’aria e non si causano problemi addizionali. Adesso anche le Farc andranno a distruggere le piantagioni di coca e lo faranno assieme all’esercito. Questa mi pare una buona cosa».

Però i cocaleros, i piccoli produttori, coltivano la coca perché non hanno alternative…

«No, non direi questo. Per 13 anni io sono stato vescovo del Caquetà, un dipartimento con una notevole produzione di coca. In quel momento – erano gli anni Ottanta-Novanta – la coltivazione della coca si poteva “giustificare”, detto tra virgolette. Cioè si potevano trovare ragioni sul perché si faceva: non c’erano strade, non c’erano aiuti per i campesinos; c’era un’assenza dello stato. Non c’erano né assistenza tecnica, né risorse. Da fuori arrivarono dunque i narcotrafficanti che dissero ai campesinos: “Vi invitiamo a seminare un altro tipo di semi che noi vi daremo”. Erano semi di coca. “Vi offriremo assistenza tecnica. In tre mesi ci sarà il raccolto che noi compreremo”. Insomma, tutto ciò che dovrebbe fare uno stato. “Voi – spiegavano i narcotrafficanti – guadagnerete 10 volte di più di quello che guadagnate in questo momento”. Che campesino poteva resistere a un’offerta di questo tipo? Individualmente, nessuno. Per fare una lotta adeguata contro questo occorreva formare comunità, come nell’esperienza di padre Franzoi (missionario della Consolata, ndr). Comunità unite che si opposero alla coca, avendo però delle alternative. Era il programma “No alla coca, sì al cacao”. Però, lo ripeto, erano attività comunitarie. Un individuo da solo non aveva la capacità di opporsi alla coca.

Questo per spiegare che, a causa dell’assenza dello stato, in quel momento le coltivazioni si giustificavano. Oggi no».

Cosa è cambiato oggi rispetto a un tempo?

«Oggi lo stato non è quello di allora. La Colombia è un paese molto diverso. Con strade, metodi di coltivazione.

La coca è un prodotto miracoloso: in tre mesi la semini e la raccogli. Se un professore può chiedere tre mesi di licenza, va, semina la sua coca e ritorna. Questo è un esempio ironico per spiegare che è una coltivazione molto rapida. Per questo genera molti profitti.

Tutti i produttori di qualsiasi cosa lottano sempre perché non trovano consumatori in numero sufficiente. Al contrario, per la coca i consumatori abbondano e stanno tutti negli Stati Uniti e nel mondo industrializzato. Ogni volta chiedono di più e chi maneggia il business sa che più produce, più venderà.

Questa è la situazione. Però, lo ripeto, c’è tutto un programma per sradicare le coltivazioni di coca e per controllare questo businness».

Lei ritiene che ciò sia possibile?

«Io credo di sì. Credo sia possibile. Perché oggi c’è più volontà, più forza. Non c’è un gruppo che favorisca la produzione come le Farc che da lì traevano le imposte. Anzi, adesso andranno a lavorare per il suo sradicamento. Pertanto, io credo che, se si vuole, si può fare».

AFP PHOTO / OSSERVATORE ROMANO

La Colombia e Francesco

La prossima visita del papa in Colombia potrà aiutare il processo di pace?

«Per prima cosa va detto che il papa già ha aiutato in maniera importante il processo di pace nel paese. Ogni volta che c’era un evento speciale lui faceva un intervento speciale. Quando visitò l’Avana fece un intervento illuminante per il paese. Tutto il tavolo delle trattative e specialmente la guerriglia chiedeva di incontrarsi con il papa. Questo non fu possibile. Fummo a l’Avana. Ci spiegarono la richiesta. Parlammo con il cardinal Ortega per capire che possibilità ci fossero. Ci rispose che non c’era alcuna possibilità perché era già tutto programmato e non si poteva cambiare. Allora si chiese non di variare il programma, ma che il papa dicesse qualcosa nell’ambito degli eventi previsti. Il papa accettò e disse parole importanti sulla pace, parole che aiutarono moltissimo.

In ogni caso, il suo interesse per il processo di pace è stato continuo. Tanto che, dal presidente Santos agli altri protagonisti, tutti gli sono grati».

Se dovesse fare un appello finale, lei che direbbe?

«Direi, prima di tutto, che Dio ci illumini per continuare a lavorare per la pace. Per una pace che sia integrale, che non si riduca solamente a lotta di forze per ottenere il potere, che sia veramente la costruzione di relazioni sane tra tutti i colombiani, tra i colombiani e la natura, tra i colombiani e Dio. Una pace completa, insomma.

Come Chiesa, in questi anni di conflitto e di polarizzazione, abbiamo un compito molto difficile da perseguire. Però, poco a poco, tutti stanno cominciando a capire l’importanza e il valore di questo sforzo per la pace».

Paolo Moiola

Il dono della «penna della pace» da presidente Juan Manuel Santos prior a papa Francesco il 16/12/2016 in Vaticano. / AFP PHOTO / POOL / VINCENZO PINTO




Good morning Korea


Diciotto missionari provenienti da undici paesi diversi, sparsi in Asia fra i grattacieli e le steppe, confusi tra miliardi di persone, un sussurro di Vangelo che cerca di arrivare, anzi, che arriverà, sulle ali dello Spirito, al cuore del grande continente. Questa la realtà dei missionari della Consolata tra Sud Corea, Mongolia e Taiwan. Questo è il pensiero che mi accompagna «turisteggiando» a Seul.

Cammino per le strade di Seul ormai da un paio d’ore. Mi sono preso una giornata di vacanza per girare liberamente in città, visto che forse è l’ultima volta che ho l’opportunità di farlo. La capitale coreana mi piace molto. Ho imparato a sentirmi a casa qui, pur senza conoscere la lingua della gente, cosa che mi avrebbe permesso di apprezzare di più un mondo tanto diverso, eppure così affascinante. Vagolo senza meta, dopo aver pagato il dazio alla cultura visitando il tempio confuciano di Jongmyo che ancora mancava alla mia agenda di turista, ovviamente interessato, in quanto missionario, alle religioni dell’Estremo Oriente. Bighellono per Tapgol Park, dove un anziano mi ferma, mi chiede da dove vengo e con fatica, in un inglese improbabile, mi racconta perché quel luogo è così importante per l’anima coreana: «Independence from Japan». Mi racconta fatti che risalgono all’inizio del secolo scorso, ma che sembrano di millenni fa se si pensa a cosa è successo qui da cento anni a questa parte e alla velocità che la storia ha impresso a questo angolo di mondo. La Corea (ma lo stesso si può dire di Taiwan, altro posto che ho imparato a conoscere in questi anni) è passata dalle stalle alle stelle alla velocità della luce: sulle rovine di un paese frantumato e diviso dalla guerra civile degli anni ’50 si è innestato il turbo di un progresso vertiginoso.

Zigzagando per il centro

Seul è immensa. Venticinque milioni di coreani, dei cinquanta complessivi che compongono la popolazione nazionale, vivono in questa immensa area metropolitana che non dista molti chilometri dal sempre turbolento confine con la Corea del Nord. Tuttavia, almeno in centro, ormai mi oriento senza troppa difficoltà, anche se ogni tanto sono costretto a estrarre la cartina dallo zainetto perché sotto ai grattacieli la città ti può confondere e il fatto di girare a sinistra invece che a destra ti può complicare non poco la vita. Gli isolati sono enormi e, se ci si sbaglia, i percorsi si possono allungare a dismisura prima di rendersi conto che si sta camminando nella direzione errata. Guardo la mappa quasi di nascosto perché il coreano è solitamente persona gentilissima e si avvicina come un falco appena intuisce la benché minima difficoltà del turista. Iniziano allora conversazioni surreali con l’improvvisata guida che non capisce dove tu vuoi andare, ma ti spiega come fare a raggiungere luoghi di cui manco avresti immaginato l’esistenza. Quanto mi piacerebbe poter andare oltre agli stereotipati annyeonghaseyo (buongiorno) o gamsahabnida (grazie), le uniche due parole di coreano che conservo da un viaggio all’altro. Ho provato ad ammucchiae qualcuna in più nel mio improvvisato bagaglio di viaggiatore, ma il coreano è lingua impegnativa, il cui studio esige dedizione costante e pratica. Alla fine mi sono arreso.

Oggi, dopo questi anni di servizio all’Istituto che mi hanno portato a viaggiare più volte in Oriente, mi resta la nostalgia, condita da un pizzico di rammarico, dei passi non fatti, dei libri non letti… dei film non visti, insomma, della Corea che avrei potuto esplorare anche dalla mia camera e che invece è rimasta sconosciuta. In questi anni mi sono accorto che per capire l’Asia (e la Corea non fa certo eccezione) non basta il «mordi e fuggi», occorre immergersi, entrare nel tessuto, accettare la sfida di rimanere ai margini di un mondo che quando inizia ad essere minimamente intellegibile è soltanto perché vuole fuggire di nuovo, inseguito senza concedersi. Percorrendo Insa-dong, la via dei turisti, non posso far altro che strisciare i piedi con fatica in mezzo a gente di ogni dove. Riconosco facilmente alcuni americani – sono ancora parecchi, molti di loro militari – alcuni europei. Ogni tanto, forse, mi pare di riconoscere un accento australiano, che poi magari è neo-zelandese, o canadese, o chi lo sa… Per non parlare delle migliaia di asiatici che intasano i piccoli negozietti di souvenir: cinesi, giapponesi, taiwanesi, vietnamiti, eccetera, eccetera. Insa-dong è una babele orizzontale, una spremuta di mondo in poche centinaia di metri che terminano in Yulgok-ro, la grande arteria che separa il turista dai tesori della Seul reale. A destra il meraviglioso palazzo di Changdeokgung, patrimonio dell’Unesco, costruito originariamente nel 1405 e a tutt’oggi uno degli edifici storici meglio conservati della nazione. Camminando a sinistra, si raggiunge invece il palazzo di Gyeongbokgung, la più grande delle cinque residenze reali che arricchiscono oggi la Seul storica e culturale. Distrutta completamente durante la dominazione giapponese e ricostruita grande e bella per urlare in faccia al mondo che il corpo muore ma l’anima sopravvive e alimenta la fiamma dell’orgoglio nazionale. Come quello del vecchietto di Tapgol Park: «Independence from Japan».

Nel cuore della gente

Evito i palazzi storici e opto per tornare sui miei passi, puntando diritto verso Jogyesa, il più famoso tempio buddhista di Seul e il più frequentato della Corea. Entro nel grande cortile che si apre di fronte al tempio principale e mi fermo a guardare tante persone che arrivano come formiche, lasciano le scarpe davanti agli ingressi ed entrano, piazzandosi in ginocchio di fronte alle tre grandi statue di Buddha, raffigurato nelle principali fasi della vita: giovinezza, età matura e vecchiaia. Chissà cosa portano nel cuore queste persone che si inchinano ritmicamente di fronte all’Illuminato. Che pensieri si celano dietro i mantra con cui ritmicamente recitano le loro preghiere? Non si immaginano neppure che dietro di loro, a pochi metri di distanza e in rispettosa attesa, un missionario cattolico li sta guardando con interesse e timore, chiuso nel suo mutismo ignorante. Vorrei fare tante domande… non consisterebbe anche in questo il dialogo interreligioso?

Mi smarco dalla folla religiosa di Jogyesa e cammino fino a immergermi in quella chiassosa, variopinta e globalizzata di Myeong-dong. Se non fosse per le scritte in coreano potresti pensare di essere a Milano, New York o Rio de Janeiro… luci, musica, colori, persino i vestiti della gente sembrano essere stati fotocopiati ed applicati in serie alle varie persone. E qui che Asia c’è? Cosa vede il missionario, in piedi, in rispettosa e curiosa attesa dietro alle vetrine di uno delle migliaia di negozi di maquillage che intasano i marciapiedi con i loro banchetti promozionali? O di quel negozio di moda giovanile, dove personale bellissimo, frutto di sacrifici non indifferenti in palestra e cosmesi aspetta le frotte di giovani che vi accorrono rapidi. Che Asia è quella che si apre davanti ai miei occhi, così familiare che mi sembra di averla già vissuta altrove, eppure così diversa? Che pensano quei giovani? Che cercano nella vita? Cosa studiano? Andranno al tempio?

Qualcuno di essi forse andrà in Chiesa. Il Cristianesimo si è diffuso moltissimo in Corea, soprattutto quello protestante, diviso in centinaia di chiese dalla diversa denominazione, ma dalla simile architettura. Le grandi croci luminose che squarciano il cielo notturno della capitale con raggi di vario colore confermano che la presenza evangelica è numerosa e appariscente. A Myeong-dong si staglia la cattedrale cattolica, dedicata all’Immacolata Concezione. Costruita originariamente in una piazzetta del vecchio quartiere, conquistando metri quadrati a ristoranti e negozietti, oggi la grande chiesa si è ritagliata una spianata importante e un colpo d’occhio più imponente. Come i cattolici stessi, del resto. Anch’essi hanno guadagnato il loro spazio importante in seno alla società coreana. Oggi, sono circa il 10% della popolazione, ben organizzati, strutturati, con un clero abbondante e efficiente.

Il gruppo dei missionari della Consolata in Asia (Corea, Mongolie e Taiwan) con i membri della direzione generale dell’Istituto.

I missionari e l’Asia

Dentro questa chiesa, dal 1988, siamo anche noi Missionari della Consolata. Ci rifletto un po’ nel lungo viaggio in metropolitana che mi riporta a casa. Penso ai vari confratelli che si sono succeduti in questo angolo di mondo e alle domande che sicuramente devono essersi fatti per confrontarsi con la realtà quotidiana della Corea. Penso ai giovani coreani che hanno intercettato nel loro cammino, al linguaggio che hanno dovuto imparare per confrontarsi con loro. Sette di essi sono oggi Missionari della Consolata e lavorano in varie parti del mondo. Uno, padre Han Pedro, è rientrato in Corea e aiuta i nuovi arrivati a entrare più velocemente nel tessuto della società coreana. Lui per primo sa che non è facile capire la Corea, al punto che lui stesso ha sentito il bisogno, dopo tanti anni passati in Italia e in Brasile, di rimettersi a studiare. La sua sensibilità verso la pace e la giustizia lo ha portato ad avvicinarsi al tema del riavvicinamento fra le due Coree, un campo vastissimo per esercitare il ministero missionario della consolazione.

Altri si sono dedicati al dialogo interreligioso, cercando di comunicare nella vita di tutti i giorni, negli incontri di studio specializzati e nella condivisione di momenti di spiritualità, la ricchezza del proprio essere cristiano, il valore della comunità, la bellezza dell’interculturalità. Altri ancora hanno cercato i poveri, gli scarti di questa società del benessere, e sono andati a vivere con loro, lontani dalle luci del centro e dai grandi schermi digitali che dalle pareti dei grattacieli trasmettono la pubblicità di paradisi artificiali e inni al consumo. Oggi, diversi migranti giunti dall’Africa o dall’America Latina chiedono aiuto a missionari che li capiscono perché ne parlano le lingue e ne hanno conosciuto le culture provenendo dai loro stessi paesi di origine o avendovi lavorato.

A cena racconto il giro che ho fatto. Conto i confratelli intorno alla tavola. Ci sono tutti perché si sono riuniti per salutarmi visto che presto ripartirò per l’Italia. Seul è proprio immensa, mi dico, e loro sono così pochi. Mentalmente allargo lo sguardo oltre la Corea per cogliere anche il saluto dei tre missionari che vivono a Taiwan e dei quattro confratelli della Mongolia. La Consolata in Asia è tutta racchiusa in quel pensiero che subito diventa preghiera: 18 missionari provenienti da 11 paesi diversi, persi fra i grattacieli e le steppe, confusi tra miliardi di persone, un sussurro di Vangelo che cerca di arrivare, anzi, che arriverà, sulle ali dello Spirito, al cuore di questo grande continente.

Ugo Pozzoli
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Già direttore di MC, ora consigliere generale dell’istituto con responsabilità per l’Europa e l’Asia.