Popolazione e ambiente


In questa seconda puntata dedicata al tema demografico, affrontiamo le relazioni tra crescita della popolazione e impatti sull’ambiente. Con una evidenza: i poveri hanno molti più figli, ma la loro responsabilità sulla crisi ecologica è inferiore a quella dei ricchi.

Inumeri non sempre sono veritieri e niente lo dimostra meglio dell’argomento popolazione. Ad esempio, stando alle rilevazioni, la nazione più popolata del pianeta risulta essere la Cina che ospita 1 miliardo e 450 milioni di persone. Ma se mettiamo la popolazione a confronto con il territorio disponibile, scopriamo che lo stato a più alta densità, ossia con più alta concentrazione di popolazione, è il Principato di Monaco con 18mila persone per chilometro quadrato. La Cina arriva 84ª con 151 persone per chilometro quadrato. Un numero che la colloca dopo Malta (8ª), l’Olanda (27ª), la Gran Bretagna (52ª), la stessa Italia che si trova al 75° posto.

In conclusione, la popolazione la si può guardare sotto varie angolature, con graduatorie che cambiano di continuo.

 

L’equilibrio perduto

Con il passare dei decenni, un problema si è fatto sempre più acuto, quello che riguarda l’impatto della crescita demografica sull’ambiente. Salvo casi straordinari, come quello dell’isola di Pasqua che, attorno al 1400, fu deforestata per fare spazio alle statue note come moai, l’umanità ha sempre vissuto in equilibrio con il pianeta.

In altre parole, il prelievo di risorse e la produzione di rifiuti avveniva in maniera tale da rispettare la capacità della natura di rigenerare le risorse rinnovabili ed assorbire le sostanze di scarto. Un equilibrio che però ha cominciato a rompersi nel corso del secolo scorso, come conseguenza di un sistema economico che, in maniera ossessiva, aveva come unico obiettivo la crescita di produzione e consumo noncurante dei limiti del pianeta. Un’ossessione che ci ha portato a tutti i disastri ambientali che conosciamo oggi. In particolare, all’esaurimento di risorse, sia di tipo rinnovabile che non rinnovabile, e all’eccesso di rifiuti, primo fra tutti l’anidride carbonica il cui accumulo in atmosfera sta provocando i cambiamenti climatici.

Lentamente, stiamo capendo che questi ultimi sono un problema serio, ma quello che ancora ignoriamo è che le conseguenze non saranno uguali per tutti. Qualche assaggio, è vero, lo abbiamo anche in Europa con perdita dei ghiacciai, lunghi periodi di siccità, straripamento di fiumi, ma i veri drammi stanno avvenendo e, sempre di più, avverranno altrove.

Geografi e climatologi ci avvertono che le aree più esposte ai danni derivanti dai cambiamenti climatici saranno quelle del Sud del mondo con effetti diversificati: in alcune regioni il problema maggiore sarà l’aridità, in altre l’eccesso di acqua.

Fra le aree destinate ai danni da aridità c’è l’Africa mediterranea e subsahariana che sta già registrando una riduzione di piogge con inevitabili conseguenze sull’agricoltura e quindi sulla sicurezza alimentare.

Mentre metà della popolazione africana già vive in condizione di insicurezza alimentare, si teme che i cambiamenti climatici ridurranno le rese agricole del 30% entro il 2050. E, tuttavia, l’aumento di popolazione farà crescere la richiesta di cibo del continente del 50%.

L’Asia meridionale è l’altra grande area dove i cambiamenti climatici produrranno gravi conseguenze sia in ambito agricolo che sociale, ma per ragioni opposte a quelle dell’Africa.

In questa zona si assisterà a monsoni caotici e violenti che provocheranno vaste inondazioni e distruzione di tutto ciò che i venti troveranno lungo il proprio percorso. Fenomeni che paradossalmente produrranno anche scarsità di acqua potabile, perché le inondazioni dreneranno nei fiumi fertilizzanti e altre sostanze chimiche che avveleneranno le loro acque. Contaminazione aggravata dall’innalzamento del livello del mare che allagherà i campi con acqua salata compromettendo irrimediabilmente la loro fertilità. Le zone più a rischio sono le coste solcate dai delta. In particolare, si teme per il Bangladesh, paese piatto e densamente popolato con una grande quantità di famiglie ancora dipendenti dall’agricoltura. Se il livello del mare dovesse innalzarsi di 45 centimetri, come potrebbe succedere se non si riuscisse ad arrestare la crescita della temperatura terrestre, l’11% del territorio bengalese potrebbe essere invaso dal mare, con gravissime conseguenze umane, sociali ed economiche. Secondo alcune previsioni, da qui al 2050, in Bangladesh i cambiamenti climatici potrebbero costringere una persona su sette ad abbandonare la propria casa, per un totale di 18 milioni di sfollati.

Ciò che stiamo imparando dai cambiamenti climatici, se mai ce ne fosse bisogno, è che i processi naturali trascendono i confini politici creati dagli umani. Effetto serra, venti, correnti marine, sono fenomeni di tipo planetario che possono avere la propria origine in un punto del globo e provocare i propri effetti in un altro.

Le emissioni di CO2

Dal 1850 al 2011 l’umanità ha prodotto qualcosa come 1.500 miliardi di tonnellate di anidride carbonica (CO2) attribuibili per il 27% agli Stati Uniti, mentre l’Unione europea se ne intesta un altro 24%. In termini di popolazione, gli Usa rappresentano solo il 4,2% della popolazione mondiale, mentre l’Unione europea il 5,6%. Da un punto di vista storico la Cina ha contribuito solo per il 13% delle emissioni globali, mentre la sua popolazione rappresenta il 18% della popolazione complessiva.

Quanto all’Africa, la sua partecipazione alle emissioni di CO2 è stata appena del 2%, ma la sua popolazione rappresenta oltre il 16% di quella mondiale.

La dimostrazione pratica di come i ricchi abbiano inquinato e i poveri ne paghino le conseguenze.

Oggi il maggiore emettitore di anidride carbonica in termini assoluti è la Cina che si intesta

il 27% delle emissioni annuali globali. Per correttezza dovremmo precisare che buona parte delle sue emissioni
andrebbero ascritte a consumatori di altre nazioni perché nella nuova geografia internazionale del lavoro, la Cina è stata ormai eletta a fabbrica mondiale.

Ma, pur sorvolando su questo aspetto, se distribuiamo le tonnellate di anidride carbonica emesse dalla Cina per i suoi abitanti, otteniamo un’emissione pro capite annuale di 7,3 tonnellate. Gli statunitensi, invece, ne producono mediamente 14,5 a testa, mentre gli europei 6.

Si calcola che, per rimanere in equilibrio con il pianeta, nessuno dovrebbe emettere più di 2,2 tonnellate di anidride carbonica pro capite all’anno, per cui la Cina è come se avesse una popolazione 3,3 volte superiore a quella che di fatto ospita. La popolazione degli Stati Uniti, invece, è come se fosse 6,5 volte più alta mentre quella dell’Unione europea 2,7 volte più elevata.

In altre parole, prendendo come riferimento le emissioni ammissibili, è come se la Cina ospitasse 4,7 miliardi di individui invece di 1,4, gli Stati Uniti 2,1 miliardi invece di 332 milioni e l’Unione europea 1,2 miliardi invece di 447 milioni.

La conclusione è che, contando le teste, oggi la Cina risulta avere una popolazione quattro volte più alta degli Stati Uniti. Contando le emissioni pro capite di anidride carbonica è come se ne avesse solo il doppio. Quanto all’Africa, che emette anidride carbonica corrispondente a una sola tonnellata a testa, è come se avesse 650 milioni di abitanti invece di 1,4 miliardi.

L’impronta ecologica

Molti altri aspetti potrebbero essere presi in considerazione per valutare la dimensione reale di ogni nazione: il consumo di acqua, il consumo di risorse e di cibo, i rifiuti prodotti. Ma ce n’è uno che in qualche modo li ricomprende tutti ed è la così detta impronta ecologica. Un concetto elaborato da alcuni ricercatori americani per valutare l’impatto dei nostri consumi sulla natura.

Più precisamente, l’impronta ecologica misura la quantità di terra fertile utilizzata da ogni individuo per sostenere i propri consumi. Purtroppo, noi abbiamo perso il contatto con la natura e abbiamo dimenticato che gran parte dei nostri consumi proviene dalla terra. L’esempio più evidente è il cibo. Ma anche la carta affonda le sue radici nella terra perché proviene dagli alberi. Perfino l’anidride carbonica che esce dalle nostre marmitte può essere espressa in metri quadrati di terra, perché è riciclata dalle piante. Ad esempio ogni volta che bruciamo un litro di benzina abbiamo bisogno dell’intervento di 5 metri quadrati di foresta.

Facendo tutti i conti, si scopre che ogni americano utilizza ogni anno 8 ettari di terra fertile, mentre un bengalese 0,8. Gli italiani stanno nel mezzo con 4,7 ettari.

Se prendiamo l’insieme delle terre fertili del mondo e le dividiamo per la popolazione terrestre, troviamo che ogni abitante può avere un’impronta di 1,5 ettari. All’incirca un terzo della popolazione terrestre sta sotto, ma poiché i benestanti sono largamente al di sopra, nel complesso l’impronta media mondiale è di 2,7 ettari che è l’80% più grande di quella ammissibile. Come dire che un pianeta terra non ci basta più. Già ora ce ne servirebbero quasi due. Non a caso l’anidride carbonica si sta accumulando nell’atmosfera per l’insufficiente presenza di organismi vegetali capaci di assorbirla.

In conclusione, se valutiamo la popolazione delle singole nazioni in base alla loro impronta ecologica, cambia tutto.

La popolazione cinese si rivaluta dell’80% passando da 1,4 miliardi a 2,6 miliardi. Quella statunitense si rivaluta del 433%, passando da 332 milioni a 1,7 miliardi. Quella italiana si rivaluta del 146% passando da 59 milioni a 145 milioni. Al contrario, quella indiana si riduce del 20% passando da 1,4 miliardi a 1,1.

Fertilità versus eccessi

Troppo spesso attribuiamo la responsabilità degli squilibri naturali a chi fa molti figli. Ma dimentichiamo che le popolazioni ad alta fertilità sono anche quelle con tassi di consumo e di inquinamento al di sotto della soglia di sostenibilità.

Per risolvere i problemi dell’umanità, piuttosto che puntare il dito contro di loro faremmo bene a mettere in discussione i nostri eccessi.

Francesco Gesualdi
(seconda puntata – fine)




Otto miliardi


Questa è la soglia superata dalla popolazione mondiale lo scorso novembre. Un dato che va interpretato visto che nei paesi occidentali il numero si sta contraendo, mentre in quelli africani sta aumentando. Con importanti ricadute a tutti i livelli.

Non si conosce se si sia trattato di un nastro rosa o celeste, né su quale porta sia stato appeso, ma le Nazioni Unite sostengono che il 18 novembre 2022, da qualche parte nel mondo, c’è stata una nuova nascita che ha portato la popolazione globale oltre la soglia degli otto miliardi.

La popolazione cresce quando le nascite superano le morti, ma questo risultato può essere ottenuto attraverso una varietà di combinazioni che condizionano fortemente l’età media dei cittadini. Ad esempio, dove l’alto tasso di natalità convive con un alto tasso di mortalità degli adulti, la crescita della popolazione è caratterizzata da un’età media bassa: la popolazione è più giovane (come accade in gran parte dei paesi africani). Se, al contrario, la crescita è caratterizzata da una bassa natalità che si accompagna a una mortalità altrettanto bassa degli adulti, è probabile una prevalenza di popolazione adulta e anziana (come accade, ad esempio, in Italia).

Queste differenze si fanno sentire sul piano economico perché l’età condiziona la capacità di lavoro e, quindi, di produzione.

Storia della popolazione

Nel mondo, la popolazione ha cominciato a crescere in maniera significativa nel 1800 a partire dall’Europa.

Oltre a un’alta natalità (una media di 4 figli per donna feconda), varie altre ragioni hanno contribuito al fenomeno: una migliore alimentazione, città più pulite grazie alla costruzione di sistemi fognari più moderni, scoperte mediche e farmaceutiche che hanno iniziato a limitare la mortalità infantile e adulta. Si calcola che, fra il 1800 e il 1850, la popolazione europea sia passata da 187 a 266 milioni di abitanti, un aumento del 42% che ha fatto parlare di rivoluzione demografica. La crescita demografica, però, non è stata accompagnata da un’uguale crescita di posti di lavoro. Di conseguenza, sono stati tantissimi coloro che hanno scelto di cercare miglior fortuna all’estero. In totale, si stima che, fra il 1800 e il 1930, i migranti europei siano stati 60 milioni, soprattutto verso le Americhe e l’Oceania.

Intorno al 1910 la popolazione europea o di origine europea (includendo Stati Uniti, Canada, Oceania e anche paesi latino-americani di forte immigrazione, come l’Argentina) rappresentava più di un terzo di quella mondiale (contro il 20 per cento di un secolo prima), e cresceva più rapidamente di quella del resto del mondo. Ma poi la corsa è rallentata e, pur con un breve sussulto negli anni Sessanta (conosciuto come «baby boom»), il numero di nascite per donne feconde (tasso di fertilità) è sceso sotto il due: un livello cioè che porta la popolazione a contrarsi.

Nel frattempo, la popolazione stava cominciando a crescere nei cosiddetti paesi del Terzo Mondo: pratiche come la bollitura dell’acqua, le vaccinazioni e le disinfestazioni con il Ddt nelle regioni malariche, riducevano la mortalità, mentre la natalità rimaneva a livelli sostenuti. Basti dire che nel 1950, in Rwanda, Kenya, Filippine, la media di figli per donna fertile era superiore a sette, mentre in Cina e India era attorno a sei. Fatto sta che, fra il 1950 e il 1987, la popolazione mondiale è raddoppiata passando da 2,5 a 5 miliardi di individui. Un raddoppio in 37 anni non si era mai visto nella storia dell’umanità.

Siamo in otto miliardi. Foto di Eberhard Grossgasteiger – Unsplash.

Il caso Cina

Dopo il 1987 la popolazione mondiale ha continuato a crescere, ma non allo stesso ritmo perché il tasso di natalità si è ridotto quasi ovunque. A ogni latitudine, ma per ragioni diverse: dove per il diverso ruolo sociale conquistato dalle donne; dove per la maggiore istruzione che ha permesso a esse di avere un maggiore controllo del proprio corpo; dove per la promozione massiccia di anticoncezionali; dove, ad esempio in India, per l’istituzione di premi per tutti coloro che accettavano di sottoporsi a sterilizzazione; dove per il divieto alle coppie di oltrepassare un determinato numero di figli.

Quest’ultima pratica è stata assunta in particolare in Cina nel 1980 quando Deng Xiaoping ha proibito alle coppie di avere più di un figlio. Chi trasgrediva la regola rischiava di perdere il posto di lavoro e di pagare multe esorbitanti. Si poteva addirittura arrivare all’assurdo che il secondo o il terzo figlio non potesse essere registrato all’anagrafe condannando i malcapitati a non avere nessun riconoscimento sociale.

Nel 2015 la regola del figlio unico è stata tolta tornando a quella di due figli che era in vigore durante gli anni Settanta. Poi, nel maggio 2021, è stato addirittura introdotto il permesso di avere fino a tre figli. Troppo tardi. Nel 2022 la popolazione cinese è calata di circa 850mila persone. Secondo le Nazioni Unite, se dovesse persistere la tendenza alla perdita di popolazione, la Cina passerebbe dagli attuali 1,4 miliardi di abitanti a 1,2 nel 2050 e scenderebbe sotto il miliardo entro il 2075. Stando così le cose, già nel corso di questo 2023, l’India dovrebbe sorpassare Pechino come nazione più popolosa del pianeta. Nel frattempo, la Cina è diventato il paese con il più alto numero di anziani: nel 2019 le persone oltre sessanta anni erano 254 milioni; nel 2040  si prevede che saranno 402, il 28% dell’intera popolazione. Con gravi ripercussioni per il sistema economico: la riduzione del numero di persone in età lavorativa potrebbe provocare un calo della produzione, un aumento del costo del lavoro e una crescita vertiginosa della spesa sanitaria e sociale per l’assistenza ai più anziani.

Il caso africano

A livello mondiale il tasso medio di fertilità è di 2,4 figli per donna fertile, appena sopra il 2,1, detto «tasso di conservazione», perché considerato il livello minimo utile a impedire alla popolazione di contrarsi. Ma moltissime nazioni sono ormai sotto questa soglia. In Italia, ad esempio, siamo a 1,24, in Spagna a 1,23, in Corea del Sud addirittura a 0,85. Le Nazioni Unite prevedono che la popolazione di 61 nazioni si ridurrà di almeno l’1% fra il 2022 e il 2050.

Gli unici paesi in controtendenza sono quelli più poveri, soprattutto dell’Africa, continente con un tasso medio di fertilità di 4,3, lo stesso che avevamo in Europa nel 1800.

Secondo i dati della Banca mondiale, relativi al 2020, il primato spetta al Niger con 6,9 nascite per donna fertile. Seguono la Somalia con 6,4, la Repubblica Democratica del Congo con 6,2, il Mali con 6, l’Angola con 5,4, la Nigeria con 5,3. In conclusione, l’Africa subsahariana è l’area del mondo con il più alto tasso di crescita demografica, tanto da aspettarsi un raddoppio entro il 2040, passando da 1,1 a 2,1 miliardi di persone.

Secondo le proiezioni delle Nazioni Unite, la popolazione mondiale continuerà a crescere fino a raggiungere 10,4 miliardi nel 2100, poi dovrebbe stabilizzarsi o addirittura diminuire. Ma continuare a trattare il tema della popolazione mondiale come un tutt’uno non ci dà il vero quadro della situazione. In effetti in tema di popolazione il mondo va diviso in tre fasce: quella a rapida crescita demografica, quella a modesta crescita, quella a crescita zero o negativa. Ognuna di esse presenta i propri problemi e le proprie specificità.

Siamo in otto miliardi. Foto di Sam Chen – Pixabay.

Paesi in denatalità

Nel 2021 si sono contati una quarantina di paesi con crescita negativa, guidati dalla Lituania che ha subito una riduzione demografica dell’1,19%. Fra essi compare anche l’Italia che nel 2021 ha avuto un calo complessivo di residenti dello 0,3% rispetto al 2020. Già nel 2008 il Parlamento europeo aveva lanciato grida di allarme precisando che la denatalità avrebbe voluto dire invecchiamento della popolazione, meno persone al lavoro e quindi meno soldi per sanità e previdenza sociale a causa delle minori entrate fiscali.

Nel 2021 gli over 65 in Italia erano 13,9 milioni e rappresentavano il 23,5% della popolazione totale. Nel 2050 la loro quota è attesa al 34,9%, e c’è chi trema pensando alle difficoltà che ci attendono. Una popolazione di vecchi non può badare a se stessa: senza un’adeguata base di giovani disposta a farsene carico è destinata a soccombere sotto il peso degli enormi bisogni economici, sociali, sanitari, assistenziali.

Nella situazione opposta si trova l’Africa con tre quarti della popolazione al di sotto dei 35 anni, 900 milioni di individui. Quasi metà di loro, 35% dei residenti, è in età da lavoro collocandosi fra i 15 e i 35 anni. E, tuttavia, un terzo dei giovani africani è disoccupato e un altro terzo sottoccupato. Solo il 17% ha un lavoro salariato regolare, ed è lontana la prospettiva che questa quota possa crescere. Ogni anno in Africa il mercato del lavoro vede l’ingresso di 10-12 milioni di nuovi giovani, ma l’offerta di nuovi posti non supera i 3 milioni. Di questo passo, avverte la Banca per lo sviluppo africano, nel 2025 i giovani africani senza alcuna prospettiva di lavoro saranno 263 milioni. Situazione destinata ad aggravarsi considerato che, nel 2050, le persone fra i 15 e i 35 anni in Africa sono attese a 850 milioni. In conclusione, l’unica prospettiva di vita per molti giovani africani è la migrazione, principalmente dalle campagne verso le città e dai paesi africani a più bassa capacità produttiva verso quelli a maggiore capacità produttiva. Già oggi 19 milioni di africani si trovano in un paese del continente diverso da quello di nascita. Ma altri 17 milioni si trovano in continenti diversi dall’Africa.

Il ruolo delle migrazioni

Considerato che il mondo è formato da aree con una penuria di giovani e altre con un eccesso,  sarebbe interesse di tutti un riequilibrio attraverso una maggiore libertà di movimento delle persone. I paesi che stanno invecchiando potrebbero ringiovanirsi e i paesi con molti giovani potrebbero migliorare la propria economia tramite le rimesse degli emigranti. Ma in Europa, e in particolare in Italia, solo pochi hanno messo a fuoco che questa è la strada da battere. Fra essi Tito Boeri che, da presidente dell’Inps, non ha perso occasione per ricordarci il ruolo insostituibile dei migranti: senza i due milioni e mezzo di lavoratori stranieri che pagano le tasse e versano i contributi, il sistema previdenziale italiano non ce la farebbe. Chi invece sembra non averlo capito è la politica che pure avrebbe il compito di individuare i problemi e trovare le soluzioni. Il fatto è che i fenomeni si mettono in moto da soli, e quando la politica li intercetta, spesso succede che invece di gestirli in un’ottica di bene comune li cavalca per fini elettorali. Paradossi della democrazia.

Francesco Gesualdi
(prima parte – continua)

Siamo in otto miliardi. Foto di Humberto Chavez – Unsplash.