Siria: Terroristi passati e futuri


Siamo entrati in una prigione del Rojava per incontrare un ex terrorista dell’Isis. L’organizzazione islamista è in ritirata, ma non è morta. Se lo stato curdo dovesse cadere, potrebbe tornare a farsi minacciosa.

Raqqa (Rojava). Sono passati cinque anni da quando la resistenza curda cacciava i terroristi dell’Isis fuori dalle città principali del Rojava, nel Nord Est della Siria. I combattenti dell’Ypg (Unità di protezione popolare) e dell’Ypj (Unità di protezione delle donne) riconquistavano le città di Raqqa, Kobane, Deir ez-Zor e Qamishle. Riprendevano possesso di territori diventati, nei quattro anni di occupazione dei militanti dello Stato islamico (Isis, o Daesh, acronimo arabo di «Stato islamico dell’Iraq e del Levante»), teatro di esecuzioni di massa, torture e distruzione.

Sono passati cinque anni e, oggi, la domanda è: i terroristi dell’Isis sono stati davvero sconfitti o si stanno solo nascondendo in attesa di riorganizzarsi? Qui in Rojava, gli attentati sono diminuiti, ma non sono mai cessati del tutto. Un ulteriore intensificazione del terrorismo sta avvenendo proprio in questi mesi, complici una nuova serie di bombardamenti da parte della Turchia e le conseguenze del devastante terremoto di febbraio. Questi eventi hanno favorito la fuga di diversi detenuti, riunitisi, in seguito, alle cellule terroristiche nascoste.

Per comprendere meglio lo stato delle cose, ho chiesto alle autorità curde di poter intervistare uno dei detenuti.

Dopo diverse settimane di controlli delle mie credenziali, colloqui e incontri con le autorità, riesco ad avere il permesso di parlare con un prigioniero, un uomo che aveva militato nelle file dell’Isis fino al suo arresto, avvenuto nel 2017, e che, prima della sua radicalizzazione, aveva anche vissuto e studiato in Italia.

L’ex terrorista sta scontando la sua pena nel carcere di al-Hasakah, il più grande del Rojava. Qui si trovano 3.500 detenuti di cui 700 minori, ragazzi soprannominati «i cuccioli del califfato».

Le misure di sicurezza sono tantissime. Proprio qui, il 20 gennaio 2021, un gruppo armato attaccò il carcere causando un’evasione di massa. L’attacco si trasformò in una battaglia, durata nove giorni, che vide la morte di 140 persone, tra guardie del carcere e forze dell’ordine.

Per questo costante stato di pericolo, vengo perquisito a fondo e scortato da alcuni militari.

Manette ai polsi di Adnan Bu Zedi, l’ex terrorista dell’Isis da noi intervistato in un carcere del Rojava. Foto di Angelo Calianno.

Dentro il carcere

Ad accogliermi c’è Omar (nome di fantasia), uno dei responsabili della sicurezza. A lui, chiedo di parlarmi della situazione attuale: «In Rojava deteniamo la maggior parte dei terroristi del Daesh, arrestati durante le operazioni di questi anni, operazioni che ancora continuano in tutto il territorio. Ci sono sempre tentativi di fuga. Qui, ce ne sono stati almeno venti negli ultimi due anni.

Come hai potuto vedere, i bombardamenti da parte della Turchia non favoriscono il nostro lavoro. Erdogan, e i capi dello Stato maggiore turco, per anni si sono scontrati con noi ma, capendo che il popolo curdo resiste e combatte, stanno tentando questa nuova tecnica: debilitare la sicurezza attorno alle strutture di detenzione, favorendo la fuga di potenziali terroristi che possono attaccarci dall’interno, mentre la Turchia prova a invaderci».

Gli chiedo: anche le famiglie dei detenuti, quelle rinchiuse nei campi profughi, sono considerate alla stregua di terroristi?»

«Le misure di sicurezza nei campi sono più leggere. All’interno di un territorio delimitato, quelle persone possono muoversi come vogliono, ricevono cibo e assistenza medica. Cerchiamo di trattare anche le famiglie dei terroristi con umanità ma, personalmente, credo che la maggior parte di loro siano terroristi. A parte la mia opinione, in questi campi troviamo continuamente, durante le perquisizioni, armi nascoste tra le tende. Purtroppo, la maggior parte delle radicalizzazioni oggi, avvengono proprio nelle prigioni e nei campi di detenzione, è un processo difficile da evitare. Possiamo dividere i criminali in base al grado di pericolosità, attuare misure di isolamento, ma parliamo di migliaia di persone, è un’impresa impossibile da raggiungere con le nostre risorse. Ora incontrerai uno dei prigionieri, io sarò dietro di te, armato, pronto a intervenire in qualsiasi caso. Potrai chiedergli quello che vuoi, tranne informazioni sulla prigione, domande a proposito dei suoi compagni o qualsiasi cosa possa rivelare la logistica del carcere. Inoltre, non potrai dire nulla su quello che accade al di fuori di qui, niente notizie sulla situazione politica o particolari sulle nostre misure di sicurezza».

Incontro con Adnan, carcerato ed ex terrorista

Adnan Bu Zedi, l’ex terrorista dell’Isis ritratto di schiena (su sua richiesta); in carcere dal 2017, non sa ancora quando e se sarà liberato, né quanto potrebbe durare la sua pena. Foto di Angelo Calianno.

Due soldati accompagnano un uomo, incatenato mani e piedi, verso la stanza messa a disposizione per l’intervista.

L’ex terrorista ha la testa coperta da un cappuccio nero, è visibilmente molto magro. Tolto il cappuccio, ci presentiamo. Pronuncia le sue prime frasi in un italiano quasi perfetto, ma preferisce continuare l’intervista in arabo. L’uomo dice di chiamarsi Adnan Bu Zedi, ha 39 anni ed è di nazionalità tunisina. Si trova in carcere dal 2017. Adnan è laureato in matematica. Dopo l’università, grazie a un programma interculturale, si è specializzato studiando a Roma e a Siena. Adnan ha vissuto in Italia quattro anni, dove ha anche lavorato, come commesso, per una famosa catena di negozi di abbigliamento.

«Sono stati molto belli i miei anni in Italia. Quando sono arrivato ero sì, musulmano, ma non molto praticante. Nemmeno la mia famiglia è stata mai molto religiosa», mi racconta.

La storia della radicalizzazione di Adnan comincia dal suo ritorno in Tunisia, nel 2011, durante le proteste della Primavera araba. «Sono tornato in Tunisia perché dovevamo fare qualcosa contro la corruzione e la povertà. La religione non aveva nulla a che fare con le mie azioni. Io volevo solo avere una vita normale, ma la situazione di quegli anni non ci permetteva di pensare al futuro, per questo erano cominciati gli scontri e le proteste. In quei giorni però, ho conosciuto dei ragazzi che mi hanno introdotto alla moschea e ai movimenti più radicali.

È stato facile avvicinarmi alla religione. Stavo vivendo un momento personale molto brutto. La mia fidanzata mi aveva lasciato, ero senza lavoro, avevo litigato con la mia famiglia e, di conseguenza, ero sprofondato in una brutta depressione. Questo è stato il motivo per cui mi sono avvicinato alla moschea, ad Allah e ai miei compagni. Ho trovato conforto e una nuova famiglia: mi sentivo parte di qualcosa.

Qualche tempo dopo, uno dei miei nuovi amici alla moschea, mi ha parlato della Siria. La guerra stava devastando il paese, c’era bisogno di riportare la parola di Allah in quelle terre e così, siamo partiti. Il nostro viaggio è stato interamente pagato da un benefattore (15mila dollari), leader del nostro movimento. Sono arrivato a Istanbul con regolare visto turistico. In seguito, illegalmente, con i miei compagni abbiamo passato il confine per arrivare in Siria. Lì è cominciata la nostra opera. Tutto questo è avvenuto prima dell’arrivo del Daesh. Il nostro gruppo non era violento, quello che facevamo era semplicemente predicare per strada, nelle moschee, e avvicinare i ragazzi più giovani all’Islam “giusto”. Quello è stato un bel periodo per me, economicamente stavo molto bene, tanto che mi sono riappacificato con la mia famiglia, alcuni di loro mi hanno anche raggiunto in Siria. Il movimento si sciolse dopo circa un anno, il nostro leader si era ammalato gravemente. Quindi, ho trovato un lavoro presso un distributore di benzina. Subito dopo, ho sposato una ragazza siriana.

Alla fine del 2013, alcuni miei amici mi hanno chiamato dicendomi che si stava formando una nuova organizzazione, un gruppo che avrebbe riportato ordine e la parola di Allah in Siria: era nato il Daesh. Mi sono trasferito a Raqqa e mi sono unito ai miei nuovi compagni. Io ho l’asma e, per l’Islam, chi è infermo non può combattere. Mi occupavo della logistica, soprattutto della ricerca di alloggi e infrastrutture per i combattenti».

In quei giorni, il Daesh si macchiava di orrendi crimini. Venivano uccise centinaia di persone senza motivo. Chiedo ad Adnan: vedendo questo, non hai mai avuto ripensamenti? Lo trovavi giusto? «Ho più volte avuto dei ripensamenti e considerato di poter tornare in Tunisia. I miei compagni, però, erano molto bravi a farmi cambiare idea. Devo dire che il fattore economico aveva un grosso peso: fino a quando eravamo affiliati, non avevamo mai problemi di soldi. Ci tengo a dire che, per me, le uccisioni erano sbagliate, perché nel Corano è scritto che non bisogna uccidere. Certo, ci sono alcuni casi in cui la violenza è necessaria: se, ad esempio, una donna tradisce, merita di morire; se un uomo ruba, è giusto che gli venga tagliata una mano».

Nel 2017, quando l’Isis cominciava a indebolirsi, Adnan, sua moglie e due figli, denunciati da un ex compagno «pentito», sono stati arrestati mentre cercavano di scappare verso la Tunisia.

Quando gli chiedo come si sente oggi e cosa farebbe se mai dovesse uscire dal carcere, mi risponde: «In galera ho capito il senso della vita. Se mai dovessi uscire, la mia priorità sarebbe quella di tenermi fuori dai guai, lontano dai problemi. Vorrei avere una vita tranquilla. La prima cosa che farei sarebbe quella di mangiare del miele, mangerei un po’ di miele ogni giorno, mi manca il suo sapore, non l’ho più assaggiato da quando sono qui».

Lo stadio di calcio di Raqqa; è stato teatro dei momenti più drammatici durante l’occupazione dell’Isis; è qui che avvenivano molte delle esecuzioni pubbliche; gli spogliatoi per gli atleti sono stati trasformati in celle per la detenzione degli «infedeli». Foto di Angelo Calianno.

Reem, la signora della pace

Lasciato il carcere di al-Hasakah, torno a Raqqa, quella che è stata la roccaforte dell’Isis per quattro anni. Qui sono state migliaia le persone, considerate «infedeli», giustiziate dal Daesh.

Cosa è successo a tutti quelli che, in qualche modo, sono sopravvissuti ai giorni di occupazione dei terroristi? Come vivono oggi? Quali sono le loro speranze per il futuro?

Reem, la «signora della Pace», ritratta di schiena in una delle stanze della sua piccola Ong; Reem indossa il burqa solanto per proteggere la sua identità. Foto di Angelo Calianno.

Una delle persone più adatte a rispondere a queste domande è Reem, una donna che ha fondato una piccola Ong che si prende cura delle vittime del terrorismo: persone che hanno avuto danni psicologici e fisici, gente che ha perso lavoro e famiglia. Grazie a un team di 37 volontari tra medici, psicologi e insegnanti, Reem cerca di guarire la ferita profonda lasciata dalla guerra. Per il suo impegno, molti poeti siriani le hanno dedicato delle odi, soprannominandola «Lady Peace» (signora della pace).

Mi racconta: «Pochi si rendono conto dei danni psicologici che il Daesh ha provocato e continua a provocare. Sono tantissime le persone che fanno fatica a uscire di casa, a causa dei traumi subiti durante i giorni di occupazione. Io sono una di loro. Vengo da una famiglia cristiana, mi sono convertita per sposare mio marito. A casa avevo una statua della Madonna e, per questo, un giorno degli uomini hanno fatto irruzione e distrutto tutto a colpi di mitragliatrice: tutti i miei ricordi.

Mentre provavo a lasciare Raqqa, una pattuglia del Daesh ci ha bloccato per strada prendendo a bastonate il taxi che ci trasportava: il motivo era che mia figlia, di 15 anni, non indossava un burqa integrale. Sono stati giorni tremendi, non ci si poteva fidare di nessuno, molti erano pronti a denunciarti anche solo per ottenere un pasto caldo. Un giorno, nel mio quartiere, hanno radunato tutti gli uomini non musulmani e quelli sciiti e, davanti ai nostri occhi, li hanno decapitati. Dopo aver assistito alla scena, la moglie di uno di quegli uomini è morta sul colpo, stroncata da un infarto.

Io, per l’ansia, da allora esco raramente e ho cominciato a fumare moltissimo. Ho ancora paura che quacuno mi possa fermare per strada e uccidere. Per la mia attività, per quello che ho deciso di fare aiutando le vittime del Daesh, sono in cima alle loro liste delle persone da eliminare. Per questo preferisco che non mi si veda in volto».

Un’immagine del centro di Raqqa, sullo sfondo s’intravvede la chiesa armena dei Santi Martiri. Foto di Angelo Calianno.

Torture e indottrinamento

Camminando per Raqqa, sono tantissimi i luoghi che portano le cicatrici della guerra contro il terrorismo. Centinaia sono i palazzi distrutti per essersi trovati in mezzo alla linea di fuoco nei combattimenti tra i terroristi e la coalizione internazionale. Malgrado le case siano ad alto pericolo di crollo, sono comunque occupate abusivamente. Molte di queste abitazioni hanno subito ulteriori crolli dovuti al terremoto del 6 febbraio, evento che ha ucciso migliaia di persone in Siria, molte nemmeno registrate come cittadini. Le uniche alternative, per chi ha perso tutto, sono l’occupazione abusiva o la vita in una tenda di un campo profughi.

Uno dei luoghi più noti per la detenzione, e le esecuzioni dell’Isis, è stato lo stadio di calcio di Raqqa. Un guardiano mi apre il cancello, mi mostra le stanze dove i terroristi tenevano gli «infedeli». Persone catturate perché non avevano osservato la sharia, o semplicemente perché di un’altra religione.

Qui incontro Majid, sunnita, uno dei ragazzi che, in queste celle, ha passato mesi. «Nel 2014 – racconta – il Daesh aveva distrutto la chiesa dei Santi Martiri, qui a Raqqa. Allora io, insieme a tanti musulmani, sciiti e sunniti, e a cristiani di varie confessioni, sono andato lì per rimettere su la croce, in segno di protesta contro l’occupazione. Sono stato arrestato in quell’occasione. Non mi sono mai tirato indietro contro le ingiustizie, ho sempre cercato di far sentire la mia voce con proteste pacifiche. Ovviamente, questo dava molto fastidio e così mi hanno arrestato e torturato. Le torture si alternavano a tentativi di indottrinamento. I primi giorni mi trattavano bene, mi davano molto da mangiare e, in seguito, mi parlavano a lungo del motivo per cui mi sarei dovuto unire al Daesh. Quando mi sono rifiutato, una delle prime volte, mi hanno legato, incappucciato e lasciato nel centro del corridoio, proprio qui all’ingresso degli spogliatoi dello stadio. Tutti quelli che passavano mi picchiavano, mi tiravano calci in testa, nelle costole, sulla schiena. Sono rimasto in quello stato per diversi giorni.

Poi, ancora nuovi tentativi di conversione e nuove torture. Una delle peggiori che ricordo è chiamata al-Shabh («il fantasma», in arabo), una tortura che consiste nell’essere appeso con le braccia in tensione dietro la schiena. Sono stato lasciato così quasi un giorno. Sono stato accusato di essere sciita, perché nella mia famiglia ci sono diverse persone che si chiamano “Alì”. In seguito, mi hanno accusato di essere comunista, ateo e di aver combattuto con i partigiani curdi».

«Durante quel periodo, mi sono gravemente ammalato di dissenteria. I miei carcerieri mi davano solo un minuto per poter andare in bagno, puoi immaginare le condizioni igieniche. Sulla porta della mia cella, con delle pietre, avevo disegnato un ideale passaggio rappresentato da un arco con dei fiori. Quell’immagine mi ha dato speranza. Sono rimasto imprigionato per 5 mesi e 20 giorni. Sono stato liberato perché la mia famiglia ha pagato un riscatto. Ancora oggi però, soffro di attacchi di ansia. Dormo pochissimo e ho continuamente incubi. Ci sono dei suoni che mi scatenano ancora terrore: il tintinnio delle chiavi, il rumore di un cancello che si apre, dei passi lungo il corridoio. Chi è sopravvissuto fisicamente all’Isis, dentro ha ancora delle ferite inguaribili».

Oggi Majid lavora in diversi campi di rifugiati in tutto il Medio Oriente. Si occupa di portare avanti progetti d’arte e pittura con i bambini che hanno perso casa e famiglia. Come prima immagine, quando si presenta ai ragazzi, mostra quell’arco con i fiori che gli ha dato speranza durante la prigionia.

Chi sostiene l’Isis

Oltre ai bombardamenti ordinati da Erdogan, a favorire l’Isis ci sarebbe anche Assad con il suo regime. Il presidente della Siria, secondo diversi comunicati dell’intelligence curda e Usa, decidendo di non intervenire in alcun modo per contrastare i terroristi dello Stato islamico, ne favorirebbe la circolazione e la sopravvivenza. Un recente dossier del Washington Institute (un centro studi statunitense sul Medio Oriente, ndr), parla anche di veri e propri finanziamenti in denaro e fornitura di armi.

Così come Erdogan, anche Assad auspica il crollo della democrazia del Rojava, cosa che gli darebbe la possibilità di occupare i territori del Nord Est, molto ricchi di petrolio.

Malgrado non ci sia più una vera occupazione da parte del Daesh, e la maggior parte delle cellule terroristiche si sia rifugiata nelle zone rurali e sulle montagne, il pericolo del terrorismo è ancora reale. Proprio nella struttura governativa curda, che mi ha ospitato a Raqqa, il 26 dicembre 2022 i terroristi dell’Isis hanno fatto irruzione, uccidendo sei persone.

A seguito di questo attacco, una nuova operazione antiterrorismo, effettuata dall’Sdf (Syrian democratic force), chiamata «Per i martiri di Raqqa», ha portato all’arresto di 32 terroristi e di decine di complici che ne favorivano la latitanza.

A oggi, sono 55 i villaggi sospettati di ospitare e sostenere gli uomini dello Stato islamico. Negli ultimi tre anni, grazie agli interventi dell’Sdf, sono stati sequestrati centinaia di milioni di dollari in contanti, nascosti da alcuni «facilitatori» che si occupavano degli aspetti finanziari del terrorismo islamista.

Malgrado la comprovata efficienza delle operazioni militari, moltissimo c’è ancora da fare, soprattutto per quanto riguarda l’aspetto umanitario che coinvolge profughi e detenuti. Campi di detenzione e carceri rischiano di essere, secondo il parere dei vertici dello Stato maggiore curdo, degli incubatori per i terroristi di domani.

Angelo Calianno
(seconda parte – fine)

Periferia di al-Hasakah: in gran parte delle città non esistono discariche ufficiali, l’immondizia viene lasciata in enormi spazi, appena fuori dai centri abitati; qui s’incontrano molti ragazzi e bambini che, tra la spazzatura, cercano materiali da riciclare, soprattutto metalli da poter rivendere a peso. Foto di Angelo Calianno.


Dopo i 45mila morti del terremoto

La tragedia e il cinismo di Erdogan e Assad

I l devastante terremoto che, il 6 febbraio 2023, ha colpito il Sud Est della Turchia e il Nord Ovest della Siria, rischia di influire pesantemente anche sugli equilibri geopolitici del Medio Oriente.

Per quanto riguarda la Turchia, la zona colpita, una delle più povere del paese, è abitata per la maggior parte da curdi. Città come Salinurfa e Gaziantep, sono da sempre i centri principali dei movimenti di opposizione a Erdogan. Con le elezioni alle porte, previste prima per giugno 2023 ma, molto probabilmente, anticipate al 14 maggio, il presidente turco potrebbe usare il controllo degli aiuti come mezzo di propaganda. Erdogan si gioca molta della sua credibilità nella gestione di questa emergenza. In Turchia, la consapevolezza del rischio di un terremoto di questa entità esisteva da anni. Il governo parla di 4,2 miliardi di euro, spesi negli ultimi 20 anni, per la messa in sicurezza di case e infrastrutture. I partiti di opposizione rispondono che, visto quello che il sisma ha causato, quei soldi sono stati spesi in alcune zone piuttosto che in altre, svantaggiando i curdi, i nemici di sempre di Erdogan.

Le elezioni anticipate potrebbero giocare molto a sfavore dell’attuale presidente, ma anche per l’opposizione, che non ha ancora un leader abbastanza carismatico da contrapporre a Erdogan.

In Turchia sono arrivati volontari da tutto il mondo. La macchina degli aiuti si è mossa velocemente. Nonostante questo, al momento (6 marzo), sono oltre 40mila le vittime di questo terremoto.

Ancora più complicata è la situazione in Siria. Il terremoto, oltre alle migliaia di vittime dovute allo stato precarissimo delle costruzioni, ha causato l’ennesima evasione di terroristi dello Stato islamico da alcuni dei centri di detenzione. Inoltre, la Siria è ancora uno stato sottoposto a sanzioni, quindi, l’ingresso di aiuti umanitari e invio di denaro è molto complicato.

Il ministro del Tesoro degli Stati Uniti, Wally Adeymo, ha dichiarato sospese, almeno temporaneamente, alcune delle penalizzazioni nei confronti del paese, per permettere l’ingresso alle organizzazioni umanitarie.

Tuttavia, i soccorsi sono arrivati e stanno arrivando molto in ritardo. Le Nazioni Unite ne hanno posticipato l’invio per il timore che Assad possa usare il coordinamento degli aiuti come ulteriore arma per rafforzare il proprio regime, e controllare quelle aree ancora a lui ostili. In questo momento, le Ong stanno cercando un modo per inviare denaro, e supporto, direttamente alle organizzazioni umanitarie già presenti in Siria (come, ad esempio, i volontari White Helmets), evitando così che tutto debba passare al vaglio di Damasco. A questo, si sono opposti Iran e Russia, alleati del presidente Assad.

A oggi, sono quasi seimila le vittime in Siria, numero destinato drammaticamente a salire, poiché sono davvero poche le aree raggiunte dai soccorsi.

Un ulteriore problema, che la Siria dovrà affrontare, sarà l’ondata di persone che tenteranno di fuggire dal paese, il terremoto ha distrutto quel poco che rimaneva di molte aree già provate da più di un decennio di guerra.

An.Ca.

L’interno della chiesa armena dei Santi Martiri oggi interamente ricostruita dopo essere stata distrutta durante l’occupazione dei miliziani dell’Isis; la ricostruzione è avvenuta anche grazie all’aiuto di molti volontari, soprattutto musulmani. Foto di Angelo Calianno.

I cristiani del Rojava

Fuga senza fine

Nel 2011, erano 400 le famiglie di cristiani residenti a Raqqa. Una comunità, molto praticante, partecipava a tutte le funzioni domenicali e delle festività, soprattutto quella natalizia. L’occupazione dell’Isis, l’impossibilità di praticare la propria religione e le persecuzioni, hanno causato la  fuga della maggior parte dei fedeli. Oggi, a Raqqa sono rimasti meno di 60 cristiani, quasi tutti uomini. Malgrado alcune chiese siano state ricostruite (come quella armena in foto), non si celebrano più messe per la mancanza di parrocchiani. Dei 150mila cristiani che si stimano presenti nel Rojava, una gran parte sta a al-Qamishle e dintorni. In tanti si sono trasferiti a Erbil, nel Kurdistan iracheno, dove la comunità cristiana è relativamente benestante.

An.Ca.

L’esterno della chiesa armena dei Santi Martiri oggi interamente ricostruita dopo essere stata distrutta durante l’occupazione dei miliziani dell’Isis; la ricostruzione è avvenuta anche grazie all’aiuto di molti volontari, soprattutto musulmani. Foto di Angelo Calianno.




Iraq. Una fuga che non si arresta


Dopo gli attentati degli estremisti islamici e una discriminazione mai veramente scomparsa, anche in Iraq la presenza dei cristiani è in costante diminuzione. Come ci hanno confermato sacerdoti e fedeli incontrati in alcune chiese di Baghdad.

Baghdad. È la mattina del 31 ottobre 2010 quando, nel centro della città, si sente una forte esplosione. Un’autobomba salta in aria vicino alla sede della borsa valori, nel cuore della capitale. Due uomini di guardia rimangono gravemente feriti. Le forze di sicurezza si mobilitano, circondano l’area dell’attacco, un elicottero sorvola la scena. Il vero obiettivo però è un altro, questo primo attentato forse serve solo da diversivo.

Ore dopo, nella chiesa siro cattolica di Sayidat al-Nejat (Nostra Signora della Salvezza), una delle più grandi di Baghdad, si sta celebrando la messa.

Cinque uomini appaiono ai cancelli, indossano uniformi da guardia di sicurezza privata. Un’auto bomba deflagra in strada, uno dei cinque si fa esplodere all’ingresso della chiesa. Gli altri quattro entrano sparando sulla folla e prendono in ostaggio 120 fedeli.

Molti si nascondono sotto le panche, altri si mettono in ginocchio. I terroristi urlano di fare silenzio, uno di loro telefona al canale televisivo di Al-Baghdadiya. Dichiarano di essere una cellula affiliata ad Al Qaeda e pretendono la liberazione di alcuni compagni rinchiusi nelle carceri irachene e libanesi.

Nel frattempo, le forze di sicurezza circondano l’edificio, l’elicottero sulla scena dell’attentato alla borsa valori si è spostato sulla zona del nuovo attacco.

Nella chiesa ci sono due giovani sacerdoti che stavano celebrando la messa. Provano a far ragionare i terroristi e tenere calmi i fedeli. Padre Saad Abdal Tha’ir e padre Waseem Tabeeh vengono messi in ginocchio e freddati sull’altare.

Le forze di sicurezza irachene decidono di non negoziare. Irrompono nell’edificio. Si sente un’altra esplosione e un lungo scontro a fuoco.

Quando la chiesa viene liberata e messa in sicurezza, i morti sono 58: due sacerdoti, 46 fedeli, inclusi due bambini e una donna incinta di tre mesi. Un terzo sacerdote presente alla messa, padre Raphael Qatin, morirà in ospedale in seguito alle ferite riportate. Il resto dei corpi sono di poliziotti e terroristi.

Settanta sono i feriti gravi, 26 dei quali, grazie all’intervento della Chiesa, vengono trasferiti a Roma per essere curati.

Quattro anni dopo, quella cellula terroristica affiliata ad Al Qaeda, verrà conosciuta dal mondo come «Isis».

Una strada di Baghdad con, in lontananza, la chiesa armena ortodossa di Meskenta. Foto Angelo Calianno.

Per i cristiani la fuga continua

Oggi la chiesa di Nostra Signora della Salvezza è stata totalmente ricostruita. Le mura che circondano l’edificio sono dipinte con le immagini di papa Francesco, venuto qui in visita a marzo del 2021 per onorare e ricordare le vittime dell’attentato. Per i 46 fedeli e i 2 sacerdoti, il 31 ottobre 2019 si è chiusa la fase diocesana della causa di beatificazione.

Il sagrestano Natiq Anwar, sopravvissuto all’attentato del 2010. Foto Angelo Calianno.

Attorno ai muri, tra scritte e pensieri di pace con le immagini del pontefice, ci sono anche reti metalliche, filo spinato, telecamere di sicurezza e sbarre di metallo. Natiq Anwar è il sagrestano della chiesa, uno dei sopravvissuti all’attacco del 2010 e tra quelli curati a Roma. Mentre mi guida all’interno della chiesa e nella cripta racconta: «È accaduto tutto molto velocemente. Io sono stato ferito da una delle esplosioni, ricordo l’arrivo di questi uomini in divisa, il boato, le urla che provenivano dalla chiesa e tanto sangue ovunque. Sono invalido da allora, ho subito diverse operazioni a reni e fegato e ho gravi problemi di vista».

«Dopo quello che hai vissuto e data l’instabilità della sicurezza nel paese, hai paura che ci possano essere altri attacchi?», gli chiedo. «Sì, io ho sempre paura che possa riaccadere, ogni volta che entro qui e che guardo verso i cancelli, mi immagino che improvvisamente possano ricomparire degli uomini e che tutto si ripeta. Ma sono un servo di Dio, non rinuncio a lavorare qui, questo è il mio posto».

In uno dei cortili della chiesa incontro Burnahnuddin Assaq Ibrahim, uno dei cinque rappresentanti cristiani del parlamento iracheno, una piccola minoranza dei 329 membri.

«Ognuno di noi è responsabile di una provincia. Devo essere sincero però, negli ultimi anni soprattutto, ci sentiamo rispettati. Quando parliamo, i nostri colleghi ci ascoltano e cercano di venire incontro alle nostre richieste. Il vero problema è che i cristiani scappano da questo paese. La paura degli attacchi e l’instabilità causano la fuga. Nel 2003 eravamo quasi un milione e mezzo, oggi siamo circa 300mila. Però noi cristiani, anche se di diverse confessioni, siamo uniti tra noi».

Sono giorni particolari in Iraq, è l’anniversario della morte dell’Imam Musa Al Kadhim, settimo imam e martire sciita seppellito qui a Baghdad.

Per tre giorni, pellegrini sciiti da tutto il mondo arabo e dall’Asia centrale, vengono qui per pregare davanti al grande santuario. Per strada ci sono tende e migliaia di banchetti allestiti con cibo gratuito. I pellegrini arrivano a piedi, a volte camminando scalzi, non solo dalle province irachene ma anche da Iran, Libano, Pakistan, Uzbekistan.

«Ogni anno, solo per organizzare le baracche con il cibo gratuito per i pellegrini, i leader politici di fede sciita spendono migliaia e migliaia di dollari. Tutto questo è una manovra politica per ottenere voti e consensi, molte di queste persone mangiano carne forse una volta l’anno, non hanno mai visto così tanto cibo tutto insieme nella loro vita e arrivano da zone veramente povere», confessa un poliziotto di pattuglia.

Straordinarie sono anche le misure di sicurezza. Le chiese e le comunità cristiane non sono i soli bersagli dei terroristi, ma anche, e di recente soprattutto, i santuari e le moschee sciite. Proprio durante i giorni del pellegrinaggio, puntualmente l’Isis minaccia di attaccare la moschea di Al Khadim. Molti, in questi anni, sono stati gli attentati sventati, ma anche quelli arrivati a segno, come l’autobomba del 2014 che uccise 21 persone, o le granate che, nel marzo 2021, uccisero dieci uomini tra i pellegrini in visita al santuario.

La chiesa di Nostra Signora del Rosario, a Baghdad. Foto Angelo Calianno.

Identità: musulmano o non musulmano

Il parlamentare cristiano Burnahnuddin Assaq Ibrahim. Foto Angelo Calianno.

In questo contesto, con l’attenzione dei media e delle forze di sicurezza concentrata sulle strade del pellegrinaggio, con il traffico, le cucine a cielo aperto, è molto complicato scorgere e raggiungere le chiese cristiane di Baghdad.

Spesso sono situate in quartieri periferici e molti degli edifici religiosi non si differenziano dalle case attorno. Per intravedere una croce, quasi mai visibile da lontano, occorre arrivare molto vicino all’entrata.

Raggiungo la cattedrale latina di San Giuseppe, fondata nel 1632, elevata a sede di arcidiocesi il 19 settembre 1848, dove mi accoglie padre Francis Domenique.

Padre Peter, sacerdote di Sayidat al-Nejat. Foto Angelo Calianno.

La chiesa si affaccia su una strada anonima in un quartiere residenziale, all’interno delle mura però si apre un altro mondo: un campetto da pallavolo, una sala lettura, dei cortili dove i pochi giovani cristiani possono incontrarsi e socializzare.

Uno di questi ragazzi è Raed.

«Non è facile essere cristiani qui. Non dico che viviamo degli episodi di razzismo direttamente, ma, ad esempio, se faccio domanda per un lavoro e c’è un candidato musulmano con la mia stessa preparazione, in questo caso sicuramente si preferirà lui. Oltre a questo, i ragazzi sono davvero pochi, moltissimi vanno via: in Kurdistan o magari in Europa. Ho tanti amici che sono via e mi raccontano come va lì. Non è che hanno una vita semplice, certo, le difficoltà si trovano in tutto il mondo, però sono liberi di professare la propria religione senza imbarazzo o discriminazione. I miei amici all’estero non sono giudicati per la propria religione, questa è una grande libertà che qui non è affatto scontata».

«E tu, se potessi, o magari ci stai pensando, andresti via?». Sorride: «Sì, penso che potrei andare via se mi si presentasse un’occasione».

Padre Dominque Francis, sacerdote di San Giuseppe e Teresa. Foto Angelo Calianno.

All’interno del cortile, impegnato a giocare a pallavolo con i ragazzi, incontro anche Zayed, frate domenicano. «Padre Zayed, com’è la vita dei cristiani oggi in Iraq? Alcune persone, tra le autorità che ho intervistato, mi hanno detto che le varie correnti cristiane sono unite tra di loro. Secondo lei, è davvero così?».

«No – risponde -, non penso che i cristiani in Iraq siano uniti e credo che questa disunione sia una delle cause dei nostri problemi. La discriminazione è reale, come il grande esodo dei cristiani che preferiscono andare via. La verità è che all’estero, anche se in un paese straniero, è comunque più facile che qui. La discriminazione può manifestarsi in diverse maniere, sia diretta che indiretta. Ti faccio un esempio pratico: sui nostri documenti deve esserci scritta la religione, ma si può solo scrivere musulmano o non musulmano. Potrà sembrare cosa da poco, ma è così che poi funziona anche il resto. Le altre religioni non sono contemplate, o sei musulmano oppure no».

La difficile quotidianità dei convertiti

In un altro quartiere periferico, fuori dalla chiesa della Madonna del Rosario, incontro Joseph (nome di fantasia), che mi chiede di mantenere segreta la sua identità.

Joseph è di origine musulmana, ma si è convertito al cristianesimo. Racconta: «In Iraq, la vita più difficile ce l’abbiamo noi che ci siamo convertiti. Io ho sempre voluto essere cristiano, da quando ero bambino e giocavo a calcio con gli altri ragazzini nel cortile di una chiesa qui vicino. Prima di convertirmi dovevo andare in chiesa di nascosto, una volta presa la decisione, la mia famiglia non mi ha più rivolto la parola. Da quel momento sono cominciati tutti i miei guai, lavoravo in un ufficio che aveva relazioni con l’estero e mi è stata fatta molta pressione per andare via. Trovare e mantenere un lavoro è la cosa più difficile per i cristiani in Iraq, per chi come me, poi, si è convertito, è anche peggio».

«Hai mai vissuto episodi di violenza?». «Personalmente, violenza fisica no. Sono stato insultato molte volte, anche dalla mia famiglia. Purtroppo, i miei genitori, fratelli e sorelle, sono stati vittime di vessazioni a causa della mia conversione. Le violenze peggiori si perpetrano contro le donne, soprattutto quelle di origine musulmana che decidono di sposare un altro convertito. La moglie di un mio amico in una zona a Sud del paese, poco tempo fa, è stata vittima di un lancio di pietre perché non portava il velo. Baghdad è più libera da questo punto di vista, ma la discriminazione è dietro l’angolo. Non dimenticarti poi, che in caso di attacco da parte degli estremisti, noi siamo sempre il loro bersaglio preferito».

«L’Isis continua a operare?», chiedo. «Certamente, soprattutto nei villaggi sulle zone di confine. Hanno bisogno di cibo e denaro per finanziarsi. E le comunità cristiane sono viste come una nuova risorsa per ottenere riscatti».

Angelo Calianno*

(*) Dello stesso autore, sul sito MC, si possono trovare due altri reportage dall’Iraq
– aprile 2019
– e maggio 2019.

 


Croce con le foto dei 48 «martiri» uccisi nell’attentato islamista del 2010 nella chiesa di Sayidat al-Nejat. Foto Angelo Calianno.

Cristiani in Iraq, qualche numero

Resistono in trecentomila

In Iraq, il grande esodo della comunità cristiana non si è mai fermato. Nel 2003, erano un milione e 300mila. Oggi, stando alle ultime statistiche, sarebbero soltanto 300mila i cristiani rimasti in questa nazione. Negli ultimi quindici anni, in tutto il paese, sono state più di sessanta le chiese danneggiate o distrutte da attentati terroristici e
conflitti.

Centomila cristiani, provenienti dalla Piana di Ninive a Mosul, occupata dall’Isis fino al 2017, sono stati costretti ad abbandonare le proprie case distrutte dalla guerra e oggi vivono in Kurdistan. Un grande sforzo economico, da parte della comunità cattolica internazionale, è stato fatto per ricostruire case e luoghi di culto a Mosul, con la speranza del ritorno dei fedeli.

La visita di papa Francesco (*), nel marzo dello scorso anno, ha acceso una flebile speranza che le cose possano migliorare. Questa comunità, che per secoli si è sentita abbandonata, con la visita del pontefice per la prima volta si è sentita riconsiderata.

Già Carol Wojtyla aveva programmato un viaggio qui nel 1999. Il progetto poi venne ostacolato dagli Stati Uniti e da Bill Clinton. Questi temeva che la presenza del papa avrebbe rafforzato Saddam Hussein.

Oggi il paese si dibatte tra gli attentati dell’Isis e le milizie filoiraniane tornate molto attive soprattutto dopo la morte del generale Qasem Soleimani, ucciso proprio a Baghdad.

Durante la sua visita in Iraq, papa Francesco ha detto: «Il terrorismo quando ha invaso questo caro paese, ha barbaramente distrutto parte del suo meraviglioso patrimonio religioso, tra cui chiese, monasteri e luoghi di culto di varie comunità. Ma anche in quel momento buio sono brillate delle stelle. Penso ai giovani volontari musulmani di Mosul che hanno aiutato a risistemare chiese e monasteri, costruendo amicizie fraterne sulle macerie dell’odio, e a cristiani e musulmani che oggi restaurano insieme moschee e chiese». Oggi i cristiani in Iraq si dividono tra caldei, siriaci, armeni, latini, melchiti, ortodossi e protestanti.

A.Cal.

(*) Su quella visita: Luca Lorusso, MC, aprile 2021.

Questo slideshow richiede JavaScript.

 




Nigeria: Estremisti fulani, armati e impuniti

testo di Marta Petrosillo di ACS |


Meno noti dei terroristi di Boko Haram, uccidono più di loro. Gli islamisti fulani, nella cintura centrale del paese, fanno migliaia di vittime, anche per motivi religiosi. Nell’impunità e nell’indifferenza del mondo.

Nel 2018 la Nigeria è stato il secondo paese al mondo per numero di vittime da terrorismo: per il Global terrorism index 2019 (Gti), le vittime sono state 2.040, meno dell’Afghanistan (7.379), più dell’Iraq (1.054).

In un rapporto dello scorso settembre, la Croce rossa internazionale ha illustrato cifre da guerra: nell’ultimo decennio gli attacchi del noto gruppo islamista Boko Haram hanno provocato, soprattutto nel Nord, 27mila morti, 22mila dispersi, di cui più della metà minorenni, e più di 2 milioni di sfollati.

Delle 2mila vittime del 2018 contate dal Gti, però, ben 1.158 sono attribuite non a Boko Haram, ma agli estremisti fulani.

Se gli sforzi dell’esercito nigeriano, infatti, ottengono finalmente qualche vittoria contro Boko Haram, cresce però il pericolo dei pastori islamisti che, nella cintura centrale del paese, uccidono impuniti.

Un problema che affligge gli agricoltori cristiani almeno dal 2013, ma di cui il mondo si è accorto solo nell’aprile 2018, dopo l’attacco alla chiesa di Sant’Ignazio nel villaggio di Mbalom, nello stato di Benue. Quel giorno sono stati trucidati 17 parrocchiani e due sacerdoti.

Storia di un popolo

I Fulani sono un popolo semi nomade dedito alla pastorizia, presente in larghe parti dell’Africa occidentale, dalla Mauritania al Camerun. Dei circa 20 milioni totali, 14 milioni vivono nella sola Nigeria.

Si tratta di un’etnia con una lunga storia alle spalle: è possibile trovarne menzione già in antichi scritti arabi.

Molti di loro hanno iniziato a dedicarsi all’allevamento del bestiame tra il XIII e il XIV secolo. La tribù ha vissuto il suo momento di maggiore espansione prima del periodo coloniale, tra il XVIII e il XIX secolo, assumendo il nome di califfato di Sokoto, e si ritiene che si debba a essa la diffusione dell’Islam nell’Africa occidentale. Con l’arrivo dei colonizzatori francesi e britannici, tuttavia, l’impero fulani è collassato.

Sebbene vi siano anche dei Fulani sedentari, la cultura tradizionale è stata preservata principalmente dai nomadi.

Radicalizzati e armati

I mandriani fulani in Nigeria hanno sempre fatto pascolare liberamente il loro bestiame nel Nord del paese e nella cosiddetta Middle Belt, la cintura di stati che si frappone tra il Nord a maggioranza musulmana e il Sud a maggioranza cristiana.

Alcuni attribuiscono l’escalation di violenza degli ultimi anni a fattori di tipo etnico o economico. Certamente le tensioni tra agricoltori e pastori, aggravate dalla diversa appartenenza etnica, sono sempre state presenti. È anche vero che i cambiamenti climatici e la riduzione delle terre da pascolo stanno spingendo i Fulani a spostarsi in zone nuove. Ma negli ultimi anni gli attacchi si sono fatti sistematici, più feroci e, soprattutto, con una connotazione religiosa.

Gli obiettivi, infatti, sono spesso cristiani, così come le aree sono quelle a maggioranza cristiana.

Don Polycarp Lamma, della diocesi di Jalindo, non ha dubbi sul fatto che le violenze siano religiosamente motivate: «Quando attaccano, gridano “Allah u Akbar”. Se volessero semplicemente attaccare un diverso gruppo etnico, perché gridare una simile frase? Vogliono attaccare i cristiani».

Sebbene il Gti spieghi che gli eventi attribuiti agli estremisti fulani riflettono l’uso del terrorismo come una tattica utilizzata nel conflitto tra pastori e agricoltori, e che non ci sia un vero e proprio gruppo unico e organizzato, è innegabile che molti tra di loro si sono radicalizzati e, soprattutto, si sono dotati di armi di ultima generazione che prima non possedevano.

Nigeria, Kaduna / © Aid to the Church in Need

I sospetti sul potere

«Prima i Fulani portavano le mandrie assieme alle loro famiglie e avevano con sé dei semplici bastoni – ci racconta mons. William Amove Avenya, vescovo di Gboko, nello stato a maggioranza cristiana di Benue -, oggi sono armati di fucili Ak 47. Armi costose che non possono permettersi. Chi le fornisce loro? Poi, in quelle aree ci sono check point ogni due chilometri. Perché nessuno li ferma?».

Nonostante i ripetuti massacri, nessun colpevole è stato fino a oggi indagato, arrestato o condannato.

Secondo alcuni, il principale motivo di questa assenza di misure di contrasto alla violenza, sta nell’appartenenza dell’attuale presidente Mohammed Buhari proprio all’etnia fulani.

«Vogliono colpire i cristiani, e il governo non fa nulla per fermarli, perché anche Buhari è di etnia fulani», ha dichiarato lo scorso anno ad Acs, Aiuto alla Chiesa che soffre il vescovo di Lafia, nello stato di Nassarawa, mons. Matthew Ishaya Audu.

A lui si unisce anche monsignor Peter Iornzuul Adoboh: «È triste, ma dobbiamo constatare che è come se vi fosse un ordine da parte del governo federale di non intervenire. E così i Fulani uccidono, distruggono e poi fuggono, mentre nessuno fa niente. Anzi, se la polizia trova la gente locale con le armi che cerca di difendersi, generalmente arresta questi anziché i Fulani. I mandriani si sentono forti, perché c’è un loro uomo al potere che li protegge».

Buhari è perfino il patrono della principale organizzazione di pastori fulani, la Miyatti Allah cattle breeders association of Nigeria, Macban, che, secondo alcune Ong locali, dovrebbe essere perseguita per terrorismo. E, come fa notare la Ong nigeriana International society for civil liberties & the rule of law (nota come Intersociety), l’ondata di violenze dei Fulani si è intensificata già a partire dal giugno 2015, un mese dopo l’elezione di Buhari a presidente.

© ACN / Diocesi di Makurdi

Difficile da definire, chiaro nella sua gravità

Se il Gti parla di 1.158 vittime degli estremisti fulani nel 2018, e Amnesty international cita, per lo stesso anno, 2.000 morti e 182mila sfollati, Intersociety sostiene addirittura che i morti siano 2.400, a testimonianza di quanto sia ancora difficile da descrivere e monitorare il fenomeno.

Intersociety aggiunge che tra il giugno 2015 e il dicembre 2018, gli estremisti fulani hanno ucciso non meno di 6mila cristiani e incendiato o distrutto più di mille chiese. Una tendenza che purtroppo non pare invertirsi nel 2019: nei primi quattro mesi dell’anno, infatti, i fondamentalisti hanno massacrato tra i 550 e i 600 cristiani, e distrutto centinaia di abitazioni e dozzine di chiese. Un numero superiore anche alle vittime di Boko Haram che, nello stesso periodo, ha ucciso «solo» 200 cristiani.

© ACN / Diocesi di Makurdi

Il fattore religioso

Difficile sostenere la tesi secondo la quale quello religioso non sia almeno uno dei fattori all’origine delle violenze. Così come riteniamo sia improprio descrivere quanto accade oggi in Nigeria come un «conflitto etnico tra pastori e agricoltori».

Il numero delle vittime – che si contano anche tra i Fulani – è troppo sbilanciato da una parte.

«I mandriani arrivano di notte, mentre la gente dorme – spiega mons. Adoboh -. Le abitazioni dei contadini in genere sono isolate, perché circondate dai terreni e, dunque, gli assassini possono agire indisturbati.

Lo schema è semplice: danno fuoco alla casa costringendo gli abitanti a uscire. Poi li massacrano. Adulti, bambini, donne incinte, anziani. Sono davvero scene orribili. I contadini cristiani non hanno le armi per difendersi, mentre i fulani sono armati fino ai denti».

Sì perché a inizio 2018, mentre le violenze dei Fulani si facevano più numerose e cruente, il governo nigeriano ha disposto il sequestro o la consegna volontaria di tutte le armi da fuoco personali. Un passo mirato a rastrellare le armi in vista delle elezioni generali del febbraio 2019, e a ridurre le violenze. Un provvedimento comprensibile in un paese come la Nigeria, nella quale circola gran parte degli otto milioni di armi dell’intera Africa occidentale, e dove il 59% dei loro detentori sono civili, solo il 38% membri delle forze armate governative, il 2,8% poliziotti.

Il problema, però, è che tale misura non è applicata ai Fulani.

© ACN / Diocesi di Makurdi

Espansione islamista

«Viviamo nel terrore. I Fulani sono ancora qui e rifiutano di andarsene. E noi non abbiamo armi per difenderci», scriveva nel gennaio 2018 su Twitter padre Joseph Gor, ucciso poi mentre celebrava la messa assieme a padre Felix Tyolah e a 17 fedeli il 24 aprile a Mbalom.

La piccola chiesa di Sant’Ignazio a Mbalom è stata colpita mentre i vescovi della Nigeria si trovavano a Roma per la visita ad limina apostolorum. Ma anche a distanza l’episcopato si è fatto sentire attraverso un comunicato ufficiale nel quale ha apertamente messo sotto accusa la mancanza di azione da parte del governo. «Il fatto che sia stato teso un agguato ai due sacerdoti, assieme ai loro parrocchiani, proprio durante la celebrazione della santa messa di mattino presto, suggerisce che il loro omicidio sia stato accuratamente pianificato. Questo atto malvagio non può essere definito un attacco per vendetta (come spesso è stato sostenuto in questi casi). Per quale motivo sono stati attaccati? Perché nessuno è intervenuto?».

All’indomani del tragico attacco a Mbalom, mons. Wilfred Chikpa Anagbe, vescovo di Makurdi, ha dichiarato ad Acs: «C’è una chiara agenda, un piano per islamizzare tutte le aree a maggioranza cristiana della Middle Belt nigeriana».

Lo stato di Benue, tra i pochi nell’area a maggioranza cristiana è, infatti, quello più colpito dalle violenze. Tra i cristiani è forte il sospetto che vi sia un piano per espandere l’influenza islamista nella cintura centrale e nella Nigeria meridionale.

Impunità

Più volte i vescovi hanno richiamato le autorità federali al proprio dovere. Anche il 22 maggio 2018, la giornata in cui si sono celebrati i funerali delle vittime di Mbalom e si sono tenute in tutto il paese marce di protesta pacifiche per chiedere al governo di porre un freno agli attacchi. Quel giorno i vescovi hanno intimato al presidente Buhari di fare il proprio dovere. Primo fra tutti, l’allora arcivescovo di Abuja, il card. John Onaiyekan, che, in un messaggio al presidente, ha affermato: «Proteggi le nostre vite oppure fatti da parte. I nigeriani continuano a venire uccisi e molti di noi si stanno chiedendo se esiste ancora un governo nella nostra nazione».

Eppure la risposta è stata debole. La proposta di Buhari è stata semplicemente quella di creare delle aree per permettere ai Fulani di far pascolare le proprie mandrie; aree, peraltro, che dovrebbero essere sottratte ai contadini. Vi è stata perfino una campagna dal provocativo slogan: «Meglio vivi senza la terra, che morti con la terra».

© ACN / Diocesi di Makurdi

Sotto gli occhi di tutti

Intanto si aggrava di giorno in giorno il bilancio delle vittime. Nella notte del primo agosto scorso un gruppo di uomini armati ha ucciso un sacerdote, don Paul Offu, parroco di Saint James the Greater (Ugbawka) nella diocesi di Enugu. È stato il sito web della diocesi a riferire che, con tutta probabilità, è stato ucciso da mandriani fulani.

Stessa sorte era toccata precedentemente, sempre nell’area di Enugu, a padre Clement Rapuluchukwu Ugwu, parroco di San Marco. Il sacerdote, rapito nella notte del 17 marzo 2019, è stato poi trovato morto nella boscaglia dai suoi parrocchiani.

Il 15 luglio 2019 una donna incinta è stata brutalmente uccisa assieme ad altri due cristiani ad Ancha, nello stato nigeriano di Plateau. Cinque giorni dopo, il 20 luglio, nella diocesi di Jalindo nello stato di Taraba, il giovane agricoltore cristiano Solomon Yuhwam è stato ucciso nella sua abitazione da mandriani fulani. Nel marzo del 2014 era riuscito a salvarsi – fingendosi morto – da un altro attacco fulani che era invece costato la vita a suo fratello e a tanti altri cristiani del suo villaggio.

La lista è lunga, così come è elevato il numero di cristiani che fuggono dalle proprie case, spingendo le diocesi dell’area ad aprire campi di accoglienza.

Eppure sembra che nessuno possa o voglia fermare le violenze, nonostante i ripetuti appelli, anche all’Occidente, da parte dei vescovi nigeriani. «Non commettete lo stesso errore che è stato fatto con il genocidio in Ruanda – ha più volte ribadito monsignor William Amove Avenya, vescovo di Gboko -. Era sotto gli occhi di tutti, ma nessuno lo ha fermato».

Marta Petrosillo




Cristiani in Pakistan

Testo e foto di Marta Petrosillo, portavoce di Acs (Aiuto alla Chiesa che soffre) Italia


Nel paese asiatico i cristiani sono il 2 per cento della popolazione. Spesso i più poveri e disprezzati. Le discriminazioni quotidiane, per molti, diventano vera e propria persecuzione che condanna a una vita di paura e stenti.

Cristiani che lavorano nella fornaci per fare i mattoni

L’invito alla preghiera del muezzin sovrasta la voce del sacerdote durante la preghiera del mattino. È questa la prima immagine che abbiamo del Pakistan. Un’immagine altamente significativa di quella che è la realtà vissuta dai cristiani pachistani: cittadini di seconda classe, ospiti nella loro stessa patria.

La loro non è la semplice condizione di minoranza in un paese musulmano. Perché qui i meccanismi di una società a maggioranza islamica, di per sé discriminanti nei confronti delle minoranze religiose, incontrano il sistema castale indiano che emargina le caste inferiori, cui spesso i cristiani appartengono. Il tutto si traduce in miseria ed emarginazione in un contesto in cui la fede cristiana diviene un marchio a vita.

Visitando il Pakistan con una delegazione di Aiuto alla Chiesa che soffre Italia, abbiamo avuto modo di conoscere dal vivo la realtà di questa piccola comunità – le stime ufficiali parlano di circa il 2% di cristiani a fronte di un 97% di musulmani – che, pur incontrando difficoltà quotidiane, conserva una fede incrollabile.

Tutti conoscono Asia Bibi, la donna condannata a morte per blasfemia che ha finalmente riacquistato la propria libertà dopo essere stata assolta. E molti hanno sentito parlare della cosiddetta legge antiblasfemia, che prevede l’ergastolo per chi profana il Corano, e la pena capitale per chi, come nel caso di Asia, è accusato di aver offeso il profeta Maometto. Ma è soltanto la punta di un iceberg. Perché la vita dei cristiani in Pakistan è fatta di discriminazioni quotidiane, di ingiustizia, di opportunità negate.

Autosegregazione

A Karachi, metropoli di oltre 20 milioni di abitanti, molti cristiani vivono in quartieri come quello di Essanagrì, che significa «quartiere di Cristo». Più di mille famiglie cattoliche abitano in case fatiscenti in vicoli al cui lato scorre una fognatura a cielo aperto.

I bambini giocano a piedi nudi nella sporcizia fino a quando non sono costretti a iniziare a lavorare anche a soli 10 anni. Nella piccola scuola elementare St. Mary gli alunni sono costretti a bere l’acqua sporca semplicemente filtrata, con un logico proliferare di malattie.

Come molti altri quartieri cristiani, Essanagrì è un vero e proprio ghetto. Ma per i cristiani spesso l’autosegregazione è una scelta obbligata.

La locale comunità è stata costretta a costruire un muro che separa il quartiere dal vicino insediamento musulmano. «Non è raro che i cristiani vengano attaccati – spiega il parroco, don Joseph Saleem -. Recentemente in questo quartiere sono stati uccisi cinque ragazzi cristiani».

Eppure i cristiani mostrano apertamente e orgogliosamente la propria fede. Su ogni porta è dipinta una croce e la domenica la piccola e spoglia chiesa di Santa Maria è gremita al punto che molti fedeli devono ascoltare la messa dalle viuzze attigue. «Ogni domenica vi sono due messe, ma partecipano talmente in tanti che molti riescono a malapena a sentire le parole del sacerdote».

Nessun Dio all’infuori di Allah

«Non c’è nessun Dio all’infuori di Allah». Cartelloni come questo si trovano in tutta Karachi e ve n’è uno anche all’ingresso di Kuda ki basti (una basti è l’equivalente della nostra borgata), un quartiere che si sta sviluppando nell’area Nord della metropoli pachistana, oggi in rapida crescita.

Tra le strade del quartiere ancora in costruzione, i mega poster con il volto di Khadim Hussain Rizvi, invitano a unirsi alle fila del Tlp, il partito islamista Tehreek-e-Labbaik Pakistan da lui fondato.

Don Augustine Soares, parroco di San Giuda, ci mostra un piccolo lotto di terra dove spera possa sorgere al più presto la chiesa di San Barnaba. «La presenza di una chiesa in un quartiere è essenziale per i cristiani – ci spiega – se c’è una chiesa, i cristiani sanno che non verranno facilmente cacciati dalle loro case. Per loro è una garanzia».

Per il momento le messe sono celebrate in una piccola sala parrocchiale, altrimenti la chiesa più vicina è quella di San Giuda che – come abbiamo potuto verificare – si trova a oltre tre quarti d’ora di macchina.

Persecuzioni quotidiane

La presenza islamica si fa ancora più evidente quando raggiungiamo la parrocchia di San Giuda. In questo quartiere fino a 10-15 anni fa vivevano perlopiù famiglie cattoliche. Ma da quando queste sono andate via, soprattutto per motivi di sicurezza, l’area si è popolata di immigrati afghani.

Anche questa chiesa ha avuto la sua dose di persecuzione. Nel 1989 è stata profanata da giovani musulmani, mentre nel 2004 è stata incendiata. Infine nel 2009 alcuni talebani hanno attaccato sei abitazioni cristiane, uccidendo il piccolo Irfan Masih, di appena 11 anni.

Non è purtroppo l’unico caso in cui sono stati attaccati dei cristiani che vivevano in quartieri musulmani. Nel nostro soggiorno a Karachi, ad esempio, abbiamo incontrato Vikhram John, 25 anni, che nel settembre 2017 si è trasferito assieme alla sua famiglia nel quartiere K.D.A. Mahmoudabad di Karachi. Quella di Vikhram era l’unica famiglia cristiana dell’intero vicinato e non ci è voluto molto prima che fosse presa di mira. «Inizialmente ci dicevano che facevamo troppo rumore quando pregavamo – ci racconta il ragazzo cattolico -, poi hanno iniziato a lanciare sassi contro la nostra casa». Le intimidazioni, gli insulti e le angherie si sono fatte sempre più insistenti. Poi alcuni musulmani hanno minacciato di voler rapire e convertire forzatamente all’islam la sorella, obbligandola a sposare uno di loro. Il giovane cattolico ha fronteggiato quanti avevano espresso la minaccia, ma è stato picchiato al punto da perdere la vista all’occhio sinistro. «Oggi la famiglia di Vikhram è costretta a nascondersi – ci riferisce l’avvocatessa cattolica Tabassum Yousaf che assiste il giovane – mentre l’uomo arrestato per la sua aggressione è già fuori su cauzione».

Conversioni forzate

La stessa avvocatessa ci racconta quanto sia estesa la piaga dei rapimenti e delle conversioni forzate all’islam di giovani cristiane. «In questi giorni – riferisce in una telefonata al nostro rientro in Italia – sto seguendo il caso di Neha, una ragazza cristiana di appena 15 anni che vive a Itihad, un piccolo centro vicino Karachi». Il 28 aprile scorso, sua zia Sundas, convertitasi all’islam qualche anno fa, ha chiesto ai genitori di Neha il permesso di portare la ragazza all’ospedale dove era ricoverato suo figlio. I genitori si sono fidati della donna, ma era una trappola. La piccola Neha è stata costretta a convertirsi e a sposare un uomo di 45 anni, già sposato, il cognato della zia, che le ha usato violenza. Neha è riuscita a scappare soltanto giorni dopo grazie a una delle figlie del marito.

«Quella delle conversioni forzate è purtroppo una piaga che colpisce numerose famiglie – ci racconta la Yousaf che ha da poco costituito, assieme ad altri attivisti, un comitato interreligioso atto a denunciare e a gestire tali casi -. Ogni anno in Pakistan almeno mille ragazze cristiane e indù vengono sequestrate, violentate e costrette a contrarre matrimonio islamico con il proprio stupratore. Il più delle volte la famiglia sa bene chi ha rapito la propria figlia, ma le ragazze vengono costrette con la forza a dichiarare che si sono convertite volontariamente. E quando ciò accade la polizia chiude il caso.

Molto spesso i familiari non sporgono neanche denuncia, perché gli aggressori musulmani li minacciano di accusarli di blasfemia. Dicono loro: “Se non smettete di cercare vostra figlia, strappiamo delle pagine del Corano, le mettiamo davanti casa vostra e diciamo che avete profanato il libro sacro. Così per voi sarà la fine”».

Ingiustizie sociali e giudiziarie

Essere cristiani in Pakistan, significa infatti anche avere meno difese rispetto a quanti appartengono alla religione di maggioranza. A livello sociale, ma anche giudiziario.

Lo ha imparato a sue spese la famiglia di Sawan Masih, uno dei 25 cristiani che si trovano attualmente in carcere perché accusati di blasfemia. Sawan è stato accusato di aver offeso Maometto nel 2013 da un conoscente musulmano.

In seguito all’accusa, una folla ha dato fuoco all’intero quartiere cristiano in cui Sawan viveva, Joseph Colony a Lahore, distruggendo 200 case di cristiani e due chiese. Ma mentre gli 83 responsabili dell’attacco al quartiere sono stati tutti liberati su cauzione, Sawan è stato condannato a morte in primo grado nel 2014, e ancora attende il processo d’appello. Il processo viene infatti costantemente rimandato perché «il giudice incaricato è sempre impegnato in altre cause», come ci spiega l’avvocato del giovane cristiano, Tahir Bashir, che incontriamo a Lahore assieme alla moglie di Sawan, Sabia, che cresce da sola i loro tre figli.

Questo slideshow richiede JavaScript.

La schiavitù dei mattoni

Eppure Sawan è fortunato, perché, come ci riferisce Cecil Chaudhry, direttore esecutivo della Commissione nazionale di Giustizia e Pace del Pakistan – organismo della Conferenza episcopale locale -, dal 1990 al 2017, ben 23 cristiani sono stati uccisi perché accusati di blasfemia, ancora prima di essere processati.

Tra loro Shama e Shahzad Masih, arsi vivi in una fornace di mattoni, assieme al bimbo che lei portava in grembo, il 4 novembre 2014.

Shama era stata accusata ingiustamente di aver bruciato alcune pagine del Corano. Così una folla di 400 persone li ha gettati tra le fiamme.

La tragica morte della coppia – che ha lasciato tre figli – ha messo in luce un’altra grave problematica: la schiavitù delle fabbriche di mattoni che colpisce anche numerosi cristiani.

Normalmente il processo di schiavizzazione ha inizio con un prestito elargito dal proprietario della fabbrica. Per ripagare il debito, spesso l’equivalente di due o trecento euro, necessari a dar da mangiare ai propri figli, intere famiglie lavorano per generazioni. Il debito non si estingue mai, in parte per la paga irrisoria percepita e, in parte, perché i proprietari delle fabbriche spesso ingannano i cristiani, nella quasi totalità dei casi analfabeti, dicendo loro che non hanno ancora restituito il dovuto quando invece è stato ampiamente saldato.

E poi sopraggiungono le malattie, la necessità di trovare i soldi per le doti delle figlie femmine, e così un circolo vizioso senza uscita.

Sono tra i due e i tre milioni i pachistani impiegati in questo settore redditizio soltanto per i proprietari delle fabbriche.

Tra i lavoratori, un alto numero di cristiani finisce in trappola, soprattutto a causa della discriminazione incontrata in ambito lavorativo.

Catene da spezzare

Abbiamo visitato una fabbrica di mattoni che si trova nella periferia di Lahore. La zona è quella di Karoul, nell’area Nord della città. Il viaggio in macchina è stato di circa un’ora, eppure sembra di essere tornati indietro di almeno un paio di secoli.

C’è odore di fumo, di immondizia bruciata, e il terreno è un misto di fango e sporcizia.

I lavoratori e le loro famiglie vivono in piccole stanze senza neanche il tetto, né servizi igienici. Molti di loro contraggono malattie, si feriscono gravemente sul lavoro, soffrono di gravi problemi respiratori a causa del fumo della fornace, mentre alcuni perdono addirittura la vita predisponendo il forno in cui vengono cotti i mattoni.

«In questi mattoni c’è realmente il mio sangue e il mio sudore», ci racconta Asif Masih, 30 anni, mentre ci mostra come realizza i pezzi disponendo il fango in una forma rettangolare adagiata su di una tavoletta che imprime su ogni mattone il logo della fabbrica.

Gli operai guadagnano una rupia per mattone e sono quindi necessari 160 mattoni perfettamente integri, per riuscire a guadagnare un solo euro. Inoltre se qualche pezzo si rompe o è imperfetto non viene conteggiato. I mattoni sono composti semplicemente da acqua e terra e disposti in lunghe file ad asciugare al sole prima di essere trasportate al forno. Durante l’inverno la pioggia scioglie tutti i mattoni, vanificando intere giornate di lavoro.

Assieme ad Asif lavorano anche la moglie Reema e Yousaf, 13 anni, il primo dei quattro figli della coppia. Molte famiglie, per riuscire a guadagnare un po’ di più, arruolano i figli già in tenerissima età. Gli altri tre figli di Asif e Reema, i piccoli Almas, 8 anni, Danish, 5, e Akas, 18 mesi, giocano poco distante con le pietre e il fango. Sembra un gioco, ma per loro, come per tanti altri, quel fango molliccio si trasformerà in catene impossibili da spezzare.

Marta Petrosillo
portavoce di Acs Italia




Reportage da Kirkuk: I sopravvissuti (alla follia dell’Isis)


L’Isis ha portato distruzione, morte e follia non soltanto a Mosul. Siamo andati nella città petrolifera di Kirkuk, a lungo contesa dalle varie fazioni in lotta, per incontrare i sopravvissuti della guerra. Molti altri vivono nei campi profughi (a volte da anni) in attesa di capire la loro sorte.

testo e foto di Angelo Calianno

Sono passati quasi 5 anni dalle invasioni e dai massacri dell’Isis in Iraq. Dal 2017 la presenza degli uomini del Daesh è stata notevolmente ridimensionata fino a ridursi a poche frange che combattono ancora in Siria. Alcune tra le città precedentemente occupate – come Sinjar, Mosul, Kirkuk – sono state riconquistate, anche se sono andate semidistrutte durante le battaglie per riperderne il controllo.

Dove sono oggi tutti quegli uomini e donne che hanno combattuto contro l’Isis? Dove sono e cosa fanno oggi le persone sopravvissute a maltrattamenti, abusi e violenze? Ci sono ancora cellule dormienti dell’Isis? Dove sono gli accusati di collusione con i terroristi dello Stato islamico?

Tra Erbil, Mosul e Kirkuk incontro alcune delle persone che hanno vissuto quei giorni, che hanno perso molti dei propri cari durante gli scontri e gli attentati di questi ultimi, tremendi anni.

Il petrolio (come sempre)

Uno dei più grandi obiettivi del Daesh durante la sua prima comparsa è stata proprio Kirkuk.

Questa è oggi una città di circa 600 mila abitanti di diversi credi religiosi, tra cui sunniti, sciiti e cristiani. L’importanza della città risiede nel suo sottosuolo, uno dei più ricchi e antichi giacimenti di petrolio del Medioriente. Una stima dello scorso novembre ha calcolato che, se si estraesse tutto il petrolio greggio da quest’area, la sua quantità ammonterebbe a oltre 9 miliardi di barili: questo dice molto sul motivo per il quale sia stata così contesa.

I terroristi del califfato sono arrivati a Kirkuk e nella sua provincia nel 2014. La regione è stata strenuamente difesa dalle milizie curde dei peshmerga che l’hanno contesa all’Isis fino al 2017. Anche lo stato semiautonomo del Kurdistan avrebbe voluto, in qualche modo, annettersi i giacimenti di petrolio ai suoi territori. Nel 2017, le milizie sciite del governo iracheno però sono entrate in città con i carri armati a riprenderne il controllo.

Si è sfiorato un altro conflitto interno tra curdi iracheni e iracheni, diversi civili sono stati feriti e tantissimi curdi, inclusi i peshmerga, hanno ripiegato verso la capitale Erbil, lasciando definitivamente Kirkuk nelle mani di Baghdad.

A Kirkuk

Arrivo nella zona di Kirkuk in auto con Ahmed Salah, un militante peshmerga che ha combattuto un po’ ovunque sul fronte anti Isis. Alcuni dei suoi zii e cugini sono morti proprio in questa zona, durante i primi scontri contro gli uomini dello Stato islamico.

Per arrivare qui da Erbil abbiamo attraversato tre check-point, uno peshmerga e due delle forze di sicurezza irachene. «Da questi villaggi e queste campagne – mi racconta -, molta gente si è unita al Daesh. Vedi quella casa? Oggi è tenuta sotto controllo 24 ore al giorno: uno dei ragazzi che ci abitava con la sua famiglia era un terrorista, oggi è in carcere. Ha molti fratelli e si teme che alcuni di loro possano far parte delle cellule dormienti».

Pensi ci siano molte persone che segretamente ancora supportano l’Isis?, gli chiedo. «Io penso di sì, lo pensa anche l’intelligence, vedi quel ragazzo ad esempio?».

Mi dice indicando un ragazzo vestito con abiti tradizionali, barba lunga e con visibili problemi di ritardo mentale.

«Il Daesh arruolava molte persone con poca istruzione, gente che aveva problemi mentali o problemi economici. Li indottrinavano con la religione islamica. Io conosco quel ragazzo e la sua famiglia: non si sarebbe mai vestito così prima. È stato arruolato anche lui, poi per il suo chiaro stato psicologico è stato lasciato in pace e riaffidato alla famiglia che comunque è sotto controllo».

Tu hai combattuto un po’ ovunque – dico al mio interlocutore -. C’è stato un episodio che più di altri ti ha segnato? «Ce ne sono stati tanti, uno dei più brutti è stato quando ho trovato mio cugino e mio zio uccisi qui vicino. Tuttora non ne sappiamo il motivo, ma durante l’invasione del Daesh si moriva per niente. Forse però l’immagine che non mi toglierò mai dalla mente è un’altra…».

Ahmed Salah tira fuori il cellulare per farmi vedere alcune fotografie, ritraggono un pickup bianco con quattro cadaveri senza vestiti al suo interno: «Qui eravamo tra Mosul e Sinjar. Avevamo scavato delle trincee per ostacolare qualsiasi attacco potesse arrivare con i mezzi terrestri. Una mattina, all’alba, vediamo questo pickup venire a tutta velocità verso di noi. Non si vedeva nulla per la nebbia e il parabrezza era tutto sporco di terra e polvere».

«Abbiamo aperto il fuoco contro il veicolo che poi si è infossato nella trincea. Quando abbiamo aperto le portiere del mezzo abbiamo trovato loro: erano quattro ragazzini nudi e legati. Sull’acceleratore era stata messa una pietra. Erano sicuramente stati rapiti, avevano subito abusi e poi erano stati lanciati contro di noi. Non siamo mai nemmeno riusciti a fare il riconoscimento dei cadaveri per sapere chi fossero, ma forse per i parenti, in quei giorni, è stato meglio non sapere la fine che avevano fatto i loro figli».

Ahmed Salah mi saluta e si incammina verso casa, ma dopo qualche secondo torna indietro per dirmi qualcos’altro: «Vorrei aggiungere un’altra cosa, un dubbio che per noi è sempre stato importante. All’inizio, durante gli scontri con il Daesh, venivamo continuamente bombardati. I colpi di mortaio si susseguivano notte e giorno, senza tregua. Poi le esplosioni cessavano non appena gli americani mettevano piede nel nostro campo. La stessa cosa accadeva quando dalle nostre postazioni gli americani cercavano di colpire i terroristi, non centravano mai l’obiettivo al primo colpo, ma sempre al terzo o al quarto. Queste coincidenze sono accadute più di una volta e a tutti i peshmerga hanno sempre creato molto sospetto».

Nel nome di Allah

A Kirkuk incontro altri due ragazzi che sono sfuggiti per un soffio alle spedizioni punitive dell’Isis. Essendo cristiani erano uno i primi bersagli da persegure. Il modo in cui sono riusciti a scappare è davvero particolare: «Siamo scappati perché uno dei nostri amici era con il Daesh. Prima di arrivare a Kirkuk ci ha telefonato per avvisarci, così siamo riusciti a fuggire con le nostre famiglie».

Chiedo loro: conoscevate molte persone che si sono unite al Daesh? Se sì, perché lo hanno fatto secondo voi? «Ne conoscevamo diverse, con due in particolare lavoravamo trasportando ortaggi e frutta nei mercati. Sai, all’inizio, quando ne parlavano e facevano le prime riunioni nelle moschee, non sembrava una cosa così grande. Nessuno pensava che saremmo arrivati a questo punto, alla guerra, alle violenze. I miei amici si sono uniti al Daesh perché a loro sembrava una cosa giusta. Erano sunniti. Il governo sciita di Baghdad aveva impoverito le loro famiglie, vedevano la corruzione ovunque. Il Daesh aveva promesso che ci sarebbero stati soldi divisi più equamente nel nome di Allah. Io penso che quando si sono resi conto di quello che sarebbe successo, fosse troppo tardi per tirarsene fuori. Sono riusciti però a salvare noi».

Avete avuto più notizie di loro? «No, penso siano morti. Non sono più tornati a casa e le loro famiglie comunque sono sorvegliate dall’esercito, nel caso dovessero tornare o altri terroristi si facessero vedere».

Gli Yazidi del campo profughi

Gli uomini dell’Isis hanno perpetrato violenze ovunque, ma c’è un gruppo su cui si sono particolarmente accaniti, i credenti di una fede religiosa che i terroristi hanno praticamente decimato. Sono gli Yazidi, ritenuti dal Daesh, per il loro singolare credo religioso, adoratori del diavolo.

Uno degli stermini più atroci che l’Iraq abbia mai vissuto si è consumato a Sinjar. Il 4 agosto 2014 gli uomini del Daesh hanno ucciso 5mila persone, mentre in 7mila sono stati rapiti, la maggior parte donne per diventare «schiave del sesso», e bambini, poi mandati nelle scuole di rieducazione per diventare militanti, erano tutti di fede yazida.

Mirza è una di quelle persone riuscite a fuggire dal massacro. Ha 39 anni, anche se dimostra molto più della sua età. Lo incontro in una tenda nel campo di rifugiati a Shari, nella provincia di Dohuk. L’Iraq ha decine di campi profughi destinati ai cosiddetti «rifugiati interni», quelle persone che hanno perso le proprie case e terre durante il conflitto contro l’Isis. In questo campo sono quasi 5mila. Vivono accatastati in tende consumate dalle intemperie.

Mirza ha combattuto nell’esercito iracheno per 11 anni, per questo, quando l’Isis è arrivato a Sinjar, il suo nome era in cima alla lista delle persone da eliminare. Da 4 anni Mirza vive qui con la sua famiglia. In una delle tende a lui destinate ha aperto un piccolo laboratorio dove ripara apparecchi elettrici. Nel campo tutto funziona solo con i generatori a gasolio. Lo intervisto mentre si riscalda davanti a una stufetta a legna. Fuori ci sono tre gradi e la pioggia battente ha ricoperto le strade del campo di fango.

Mirza, raccontami di come hai fatto a fuggire da Sinjar? In quanti siete scappati? «Prima del 4 agosto 2014, già da giorni sapevamo che il Daesh sarebbe arrivato. Avevo dei conoscenti che si trovavano vicino al loro campo, furono loro ad avvisarci di scappare. Ci dissero che altrimenti sarebbe potuta finire molto male per noi. Con mio fratello prendemmo tutta la nostra famiglia: i nostri figli, mogli, fratelli e sorelle, eravamo in 30, la notte prima che arrivassero gli uomini del Daesh ci nascondemmo in montagna».

Come avete fatto a sopravvivere? Siete più tornati a Sinjar?, gli chiedo. «Ogni notte scendevo nei villaggi a valle per prendere da mangiare, dalle montagne abbiamo poi passato illegalmente il confine con la Siria dove siamo rimasti per tre mesi, poi anche lì la situazione cominciò a peggiorare. Allora sono riuscito a trovare uno smuggler che ci ha portato di nuovo in Iraq e poi in Kurdistan. Abbiamo speso tutto quello che avevamo per il viaggio, 1.000 dollari. Sono in questo campo da allora».

Conoscevi alcune delle persone che si sono arruolate con l’Isis? A molti faccio la stessa domanda, come hanno potuto farlo secondo te? Molte delle persone, prima che arrivasse Daesh, vivevano in pace e non avevano mai fatto del male a nessuno.

«Io penso che dipenda moltissimo dalla loro istruzione ed educazione, da dove vengono, dalle loro famiglie, per molti all’inizio sembrava una cosa buona, nessuno quando si sono arruolati aveva parlato di sterminare gli Yazidi, uccidere i propri amici perché di religione diversa. La propaganda era più religiosa e mirata contro l’invasione occidentale, contro le multinazionali che volevano usare la nostra terra, contro la corruzione. Ogni giorno però la situazione diventava più grave fino ad arrivare a quello che sappiamo oggi. Ci hanno sterminati», mi dice commuovendosi.

«Io conoscevo alcune delle persone che hanno attaccato Sinjar. Molto probabilmente oggi sono morte. Io non ce l’ho con loro. So che sono stati manipolati e che gli hanno riempito la testa di sciocchezze. Però nessuno ci ha difeso, ora con la mia famiglia viviamo qui, senza lavoro, senza futuro. Quest’anno non ci hanno nemmeno consegnato il gasolio per il riscaldamento e da giorni non fa altro che piovere. Io vorrei tornare un giorno a Sinjar, ma oggi Sinjar non esiste più».

Mirza mi racconta che nel campo ci sono anche diverse ragazze che sono state rapite da Daesh e poi segregate a Mosul per essere «schiave sessuali»: «Conosco le famiglie di tutti qui, alcune di queste ragazze, da allora, da quando sono riuscite a scappare, non parlano più, non riesco a immaginare quanto possa essere doloroso solo ricordare quello che è successo».

Bassem, cristiano di Mosul

Spostandomi a Mosul mi ritrovo in una città in rovina. In questi vicoli, oggi devastati dai bombardamenti americani, sono morti insieme agli uomini dello Stato islamico anche migliaia di civili. In alcune di queste case, mi dice la gente per strada, l’Isis teneva segregate sia ragazze che ragazzi per abusare sessualmente di loro. Altri luoghi invece, come chiese e scuole, venivano usati come carceri o stanze per le esecuzioni.

Davanti alla chiesa armena di Etchmiadzin, sventrata dalle bombe americane, incontro Bassem.

Vive in uno stanzino qui accanto, poca roba ammassata sotto un edificio pericolante, lo incontro mentre beve whisky da una bottiglia di plastica con due suoi amici. Molti non musulmani comprano a poco prezzo distillati fatti in casa: per tanti di loro, soprattutto dopo la distruzione di Mosul, è l’unica via di fuga dalla realtà.

Bassem, perché hai deciso di vivere in questo centro storico ormai distrutto?, gli chiedo. «Ho sempre vissuto qui. Non me ne sono andato quando è arrivato Daesh, non me ne sono andato quando gli americani bombardavano e non me ne vado adesso. Poi li vedi quelli?».

Mi dice indicando alcuni ragazzi con un vecchio veicolo a tre ruote: «Girano di edificio in edificio per rubare tutto quello che trovano, soprattutto metalli come il rame. In questa chiesa ci sono ancora candelabri, lapidi, targhe di ottone. Io sono qui per proteggerla».

Bassem toglie il lucchetto della catena che chiude la porta della chiesa. Entrando, tra calcinacci e vetri rotti, solleva il maglione per mostrarmi delle cicatrici sulla schiena: «Un giorno mi hanno portato qui perché hanno trovato a casa mia una parabola per la televisione e dell’alcol. Mi hanno preso a bastonate sulla schiena e lasciato per terra. Non sono riuscito a muovermi per settimane. Ridevano mentre lo facevano e mi sputavano addosso».

Bassem mi mostra altri angoli della chiesa e racconta ancora dei giorni dei bombardamenti. Lo fa con un sorriso abbozzato, con il sollievo di essere sopravvissuto, ma senza molta speranza di vedere una ricostruzione. Dopo aver riconquistato la maggior parte delle città irachene, è cominciata la ricerca dei dispersi, migliaia sono le persone di cui non si ha più traccia.

Tra novembre 2018 e gennaio 2019 sono state trovate oltre 200 fosse comuni contenenti migliaia di cadaveri giustiziati dall’Isis. Al momento sono state scoperte nelle province di Ninive (la maggior parte attorno alla città di Mosul), Kirkuk, Salahuddin e Anba.

Secondo le prime stime dell’Onu, le vittime trovate sarebbero 12mila. Si è cominciato un lento e paziente riconoscimento dei cadaveri che potrebbe portare in futuro a dei processi per crimini contro l’umanità. Tutti gli intervistati mi hanno parlato delle vittime ancora da ritrovare. Nella stessa Mosul, ad esempio, tantissimi corpi si trovano ancora sotto le macerie della città, impossibili da estrarre se non ci sarà una ricostruzione.

Dopo l’Isis: giustizia sommaria, sospetti, paura

Il segno dell’Isis non è stato lasciato solo addosso alle sue vittime. Proprio in questi giorni Human Rights Watch ha pubblicato un dossier che parla di arresti indiscriminati e torture da parte dell’intelligence irachena e di quella curda, ai danni di chi – in qualche modo – ha interagito con gli uomini del Daesh.

Ragazzi che lavoravano nei ristoranti dove gli uomini del califfato andavano a mangiare, musulmani sunniti che praticano un islam più radicale, famiglie di ragazzi arruolati nelle file dell’Isis. Moltissimi vengono arrestati, interrogati, spesso con violenza, e una volta rilasciati, tutta la loro comunità li marchia come terroristi. Tra di loro ci sono molti minorenni, Human Rights Watch, nel suo dossier, riporta che fino a dicembre 2018 il numero di minori detenuti superava i 1.500, di cui 185 condannati con l’accusa di terrorismo. Recentemente, 19 di loro hanno dichiarato di essere stati percossi con tubi di plastica e torturati con scosse elettriche, fino ad essere costretti a confessare di aver fatto parte dell’Isis. Tutto pur di far cessare le torture.

Il terrorismo in queste terre non ha portato solo morte e distruzione ma ha lasciato una scia di paura: la paura di un’altra guerra e che nuovi gruppi di terroristi possano apparire da un giorno all’altro. Questa paura ha fatto chiudere spesso un occhio alle autorità sui metodi usati nelle indagini antiterrorismo, e ha portato ad un sovraffollamento, spesso non giustificato, delle carceri.

Il timore che l’Isis possa tornare ha inoltre insinuato il sospetto della gente nei confronti dei propri vicini di casa, a dubitare dei propri conoscenti, a volte dei propri amici.

Malgrado questo, ogni persona da me incontrata o intervistata mi ha espresso speranza. Non quella di avere una vita migliore o rivivere nelle proprie case ricostruite, ma quella di tornare a vivere in pace, senza paura che il terrore possa tornare a regnare per queste strade.

Angelo Calianno


Yazidi: Il tempio vuoto

Su una montagna, a 60 km da Mosul, sorge il sacro tempio degli Yazidi, dove una volta l’anno i fedeli si recano in pellegrinaggio.
È un freddissimo giorno di febbraio, piove da molti giorni, ci togliamo le scarpe per camminare nella parte sacra del tempio, sentendo la pietra bagnata e gelata del pavimento delle ampie corti. Uno dei sacerdoti mi mostra il pozzo sacro: «Qui – mi racconta -, è dove tutte le ragazze, dopo essere scappate o liberate dalla cattività dell’Isis, vengono per purificarsi, per essere di nuovo pulite».

Come mai è così vuoto il tempio?, chiedo. «Da quando è arrivato l’Isis il numero di chi viene al tempio è sempre minore, persino nelle nostre festività principali ho visto centinaia di persone in meno. Tutto questo è il frutto dei massacri e anche della fuga di tanti nostri fedeli all’estero».

Si è stimato che su quasi 600mila yazidi, 100mila siano fuggiti all’ estero durante i primi attacchi dello Stato islamico. Oggi 6.500 sono le persone, per lo più donne, che portano il peso e i segni della cattività, durata in alcuni casi 3 anni. Sopravvissute ai rapimenti, agli stupri sono passate da questo tempio per lavarsi via la violenza, per ricominciare una nuova vita.

A.Cal.

 

Archivio MC: sulla vicenda degli Yazidi la rivista ha pubblicato un dossier uscito a marzo 2017 e firmato da Simone Zoppellaro.

 




Reportage da Mosul: Le bombe non conoscono religione


Dalla famosa moschea di Al-Nuri, oggi distrutta, Al-Baghdadi ha fatto conoscere al mondo l’Isis (il Daesh). Era il 4 luglio del 2014. Mosul è stata liberata tre anni dopo, il 9 luglio 2017. Di quella città oggi è rimasto un gigantesco cumulo di macerie e migliaia di persone senza casa. E senza attenzione mediatica: Mosul ormai è sparita dalle prime pagine.

Testo e foto di Angelo Calianno

Nell’estate del 2014 gli uomini dell’Isis entrano nella città di Mosul, in Iraq. Dalla grande moschea di Al-Nuri, il terrorista Abu Bakr Al-Baghdadi si autoproclama «Califfo dello Stato islamico» e dichiara il jihad contro l’Occidente.

L’occupazione di Mosul dura tre anni. Anni in cui chiunque non rispetti le rigide regole degli uomini dell’Isis, chiunque non sia musulmano sunnita, chiunque non si vesta in modo appropriato o semplicemente abbia un’antenna satellitare o ascolti musica occidentale, viene severamente punito, torturato, a volte ucciso.

Molti fuggono con la famiglia e chi non ce la fa, cerca di uscire il meno possibile da casa, sopravvivendo come può.

Come la città di Kirkuk per il petrolio, Mosul è una città chiave in Iraq per le sue riserve d’acqua. A circa 50 km da qui infatti sorge la diga di Mosul, la più grande del paese e la quarta in tutto il Medioriente. La diga, che sbarra il corso del Tigri, prima dell’occupazione forniva energia elettrica a due milioni di persone, nonché acqua per l’agricoltura in tutta la provincia. Continuamente a rischio crollo fin dalla sua costruzione, dal 2016 vede delle aziende italiane impegnate nella sua riparazione tra cui la Trevi (di Cesena) e la Bdm (di Roma). Nel 2016, dato l’elevato rischio della zona, gli operai lavoravano protetti da 500 bersaglieri del Sesto reggimento di Trapani (sostituiti da altri reggimenti ogni sei mesi).

Dagli Assiri a Saddam Hussein

La città di Mosul viene finalmente liberata il 9 luglio 2017. La liberazione avviene per mano di una coalizione guidata da raid aerei degli Stati Uniti con il supporto terrestre delle milizie curde dei peshmerga e dell’esercito iracheno.

Quella che verrà denominata «la battaglia di Mosul» dura nove mesi, gli ultimi tre in particolare sono quelli più intensi, con gli scontri più aspri e sanguinosi. Questi mesi verranno poi ricordati come i «100 giorni di Mosul».

Il numero dei «danni collaterali» è drammatico. Non si sa con precisione quanti civili rimangano uccisi durante i bombardamenti, ma le stime parlano di oltre 500 persone decedute e oltre 300 mila senza una casa. Gran parte della città, specialmente il suo centro storico, oggi è un cumulo di macerie.

Fondata dagli Assiri sulle rive del Tigri, poi conquistata dagli Arabi, occupata dai Mongoli, dominata dagli Ottomani, a Mosul hanno convissuto per secoli cristiani, musulmani, yazidi, armeni, curdi ed ebrei. Qui, nel 1743, migliaia di uomini di religioni diverse si coalizzarono e combatterono con successo contro lo Shah di Persia che aveva deciso di invadere la città.

Prima dell’occupazione dell’Isis, Mosul aveva 38 quartieri, ognuno con una propria connotazione e un proprio mercato, un’incredibile alternarsi di moschee e chiese a pochi passi l’una dall’altra, come quelle di Al-Tahira e di San Tommaso. Proprio dell’apostolo Tommaso si dice che sia vissuto qui durante il suo viaggio verso l’India. Qu, inoltre, c’erano gli antichissimi mausolei di Giona e San Giorgio, anche questi distrutti dall’Isis. Conosciuta come «la Città dei profeti», è stata meta di carovanieri e viaggiatori come Ibn Jubayr (1145-1217), che nel suo libro Il Viaggio di Ibn Jubayr, scritto nel 1185, ne descrisse la bellezza e particolarità.

La parola Mosul deriva da Al Mawsil che vuol dire «collegamento» o «unione», perché questo è stata per secoli, un ponte tra Iraq, Turchia, Siria e Kurdistan, almeno fino ai giorni nostri.

Mosul comincia a vivere un grande cambiamento durante il regime di Saddam Hussein. Nel 1980 Saddam dichiara guerra all’Iran e attua quello che diventa un processo di «arabizzazione» dello stato, molte famiglie non sunnite scappano in Turchia e Siria. Inoltre, per non essere inviati in guerra, fuggono oltre confine anche moltissimi curdi e yazidi. In due decenni la popolazione sunnita di Mosul raggiunge l’80%. Questa maggioranza renderà la conquista di Mosul, da parte del califfato, ancora più semplice, come vedremo tra poco.

Raccontare Mosul

Entro a Mosul in automobile. Per arrivarci dal Kurdistan supero cinque check point: due dei quali peshmerga, le milizie curde, uno delle forze di sicurezza irachene e uno dell’esercito iracheno.

Il livello dei controlli di sicurezza è ancora molto alto, in uno dei posti di blocco intervisto Mohammed, un peshmerga che ha combattuto contro l’Isis.

Gli chiedo il perché di così tanta sicurezza, visto che Mosul è stata liberata. «Ci sono – mi spiega – ancora molte cellule dormienti da queste parti, non tutti i terroristi sono stati sconfitti, alcuni semplicemente sono scappati e si nascondono».

«Mohammed, tu sei curdo e peshmerga. Hai combattuto in territorio iracheno per liberare delle città. Tra voi e gli iracheni di origine araba c’è sempre stata un po’ di diffidenza, come ti sei sentito in quei giorni a questo proposito? – gli domando -. E poi quanto è stato difficile combattere contro l’Isis?».

«Hai ragione – replica Mohammed -, tra di noi i rapporti non sono stati sempre buonissimi, ma più per ignoranza. Quando ci siamo trovati a combattere fianco a fianco con i soldati iracheni alla fine abbiamo fatto amicizia, poi noi peshmerga combattiamo sempre contro gli invasori. Quando sono arrivati quelli del califfato per difendere le città sono accorsi vecchi peshmerga da tutti i villaggi curdi del paese, tutti pronti ad andare in prima linea, alcuni avevano 70 anni.

Devo dire che i primi mesi di combattimento sono stati difficili, ma solo per il fatto che loro erano davvero ben armati. Avevano armi automatiche e mezzi pesanti, noi spesso ci guardavamo negli occhi e ci chiedevamo da dove venissero tutte quelle armi, chi le aveva date ai Daesh? Le cose sono cambiate quando siamo stati dotati di Milan tedeschi (razzi anticarro, ndr), allora abbiamo cominciato a respingerli e guadagnare terreno. Gli uomini del Daesh non erano poi questi grandi combattenti, molti di loro erano spesso sotto l’effetto di sostanze stupefacenti. Una volta ben equipaggiati e con l’aiuto del supporto aereo, abbiamo combattuto e vinto».

Quando imbocco la strada principale di Mosul si nota subito la devastazione. L’ingresso è una grande discarica di rifiuti dove pascola qualche capra. Più oltre si vedono gli scheletri dei palazzi sventrati dai bombardamenti.

Il prezzo pagato dai civili

Il mio interprete si chiama Sardar Abudlahh, ha lavorato qui con i giornalisti arrivati durante e dopo la liberazione, mi racconta:

«I giorni dopo la liberazione arrivarono qui in tantissimi, Tv straniere e giornalisti. Entravano in città dentro le jeep dell’esercito e posavano facendosi fotografare con elmetti e giubbetti antiproiettile militari. In realtà poi facevano solo qualche minuto di registrazione e andavano via, pochissimi sono andati tra i vicoli a parlare con la gente di questo luogo, chiedendo quale fosse il loro stato d’animo dopo la liberazione.

Le vittime civili sono state tantissime, Mosul è stata liberata sì, ma a che prezzo? Alla gente che ha perso la famiglia per colpa dei bombardamenti, alla gente che non aveva colpa di questa guerra, quasi nessuno ha chiesto che cosa avesse da dire.

C’è stata anche una grande campagna mediatica attorno a tutto questo. In quei giorni sembrava che l’unica cosa importante da dire fosse: siamo degli eroi, abbiamo sconfitto i terroristi del Daesh e riconquistato Mosul! I giornalisti hanno continuato a venire per i successivi due mesi, poi pian piano hanno cominciato a dimenticarsene, come vedrai tu stesso per le strade».

Nessuno qui chiama gli uomini del califfato «Isis» ma «Daesh» (acronimo di Al Dawla Al Islamiya fi al Iraq wa al Sham, Stato islamico dell’Iraq e della Siria). Per la gente del luogo la parola «Isis» risulta offensiva perché la connotazione «Stato islamico» potrebbe far pensare che tutto l’islam sia coinvolto con il terrorismo. Chiunque incontri ci tiene molto a ribadirmi questo concetto.

Camminando per i vicoli distrutti della città vecchia di Mosul vedo tanti ragazzini che scavano tra le macerie: cercano rame, ferro, acciaio, qualsiasi cosa possano poi rivendere per qualche dollaro.

La settimana prima del mio arrivo, mi raccontano, un bambino di 6 anni è saltato in aria per aver calpestato una bomba, fino a quel momento inesplosa. Questi incidenti sono molto comuni, più volte gli agenti di polizia mi ribadiscono di non entrare troppo all’interno degli edifici crollati, per l’elevato pericolo di esplosioni o cedimenti.

Le storie di Mahmoud e Amir

In uno dei tanti vicoli incontro Mahmoud. Nato e cresciuto qui, non ha mai voluto abbandonare Mosul, mi mostra le cicatrici inferte da un coltello e racconta:

«Queste me le hanno fatte i Daesh, dicevano che i miei pantaloni erano troppo corti, così mi hanno portato nella chiesa armena che usavano per le esecuzioni. Pensavo che mi avrebbero ucciso, poi mi hanno picchiato e con un coltello, mi hanno fatto questi tagli sulle caviglie. Così dovrò ricordare per sempre di indossare pantaloni più lunghi».

Mahmoud conosceva tutti in questo lato della città, camminando per le rovine mi racconta porta per porta la storia delle famiglie che ci abitavano, fino ad arrivare a quella che era casa sua. Anche lui ha perso una figlia, l’ultima nata della famiglia, aveva 5 anni. Mi mostra commosso una piscina gonfiabile, unico oggetto rimasto dei giocatoli della piccola. Subito dopo si fa molto serio e comincia a imprecare contro i terroristi e contro l’America. Urlando mi dice:

«I miliziani del Daesh avevano occupato questa che era casa nostra e poi gli americani con le loro bombe hanno distrutto tutto. Le bombe americane hanno ucciso mia figlia e tanti ancora sono sotto le macerie ed è impossibile tirarli fuori. Perché? Cosa abbiamo fatto noi? Io avevo amici cristiani, eravamo tutti amici, vivevamo in pace, noi non siamo terroristi, perché?».

Ci vuole un po’ di tempo per far calmare Mahmoud e continuare a camminare insieme. Dopo ogni vicolo, a noi si aggiunge qualcun altro: sono le persone che vogliono raccontare la propria storia. Vogliono ribadirmi che loro non hanno niente a che fare con i terroristi estremisti, che l’islam è una religione di pace.

Tra le persone che si sono aggiunte al nostro cammino c’è Amir. Ha lavorato per anni come falegname, anche lui ha perso casa e la bottega durante i raid americani. Amir mi mostra le rovine di una scuola e, con le lacrime agli occhi, mi dice che lì ci andava suo figlio, anche lui morto durante i bombardamenti, aveva 8 anni.

Racconta: «In questa scuola ci andavano sia cristiani che musulmani, siamo sempre stati rispettosi delle idee e religioni altrui, poi sono arrivati i miliziani del Daesh e poi le bombe».

Fa un gran sorriso e conclude: «Le bombe non conoscono religione».

Mentre saluto Amir si avvicina un uomo, si chiama Fares Abdurazal. Mi dice che si è sparsa la voce che sto intervistando persone per la città e vuole raccontarmi anche lui qualcosa.

Storia di Fares

Fares lavora per il municipio di Mosul, si occupa di registrare e controllare gli indirizzi di residenza. Gli chiedo perché Al-Baghdadi e i suoi uomini hanno scelto di conquistare proprio Mosul e come hanno fatto a rimanerci così tanto.

Mi risponde: «Non è che gli uomini del Daesh volessero conquistare solo Mosul, loro volevano conquistare quanto più potevano. Ci sono riusciti meglio qui perché la maggior parte delle persone è di fede sunnita, e purtroppo all’inizio hanno trovato molto supporto in questa maggioranza. Vedi, molti sono in disaccordo con il governo iracheno dominato dagli sciiti. All’inizio tanti hanno visto negli uomini del Daesh la speranza di ristabilire un governo sunnita e un islam più tradizionale. Anche durante il periodo di Saddam si verificò la stessa cosa, essendo sunnita, prese tantissimi voti da Mosul».

«E tu durante giorni delle battaglie dov’eri? Cosa facevi?», gli domando. «Io mi sono dovuto nascondere. Ero ricercato dai miliziani del Daesh come tutti quelli che lavoravano per il governo. Insieme a yazidi e cristiani eravamo il primo bersaglio. Sono scappato con la mia famiglia prima sulle montagne e poi in Kurdistan. Sono tornato perché questa è casa mia e spero che un giorno questa città possa essere ricostruita». Gli chiedo ancora: «Mi hai detto che qui i terroristi hanno avuto molto supporto, so che alcune persone di Mosul si sono arruolate nelle loro file, è vero? Tu ne conosci qualcuno?». «Purtroppo è vero, la maggior parte però veniva dai piccoli villaggi di campagna piuttosto che dalla città, era più facile fare il lavaggio del cervello a loro. Molti poi hanno scoperto quali erano le vere intenzioni dei miliziani del Daesh, hanno visto come agivano, ma a quel punto era troppo tardi per tirarsene fuori, ora sono morti o in galera. Io ne conoscevo alcuni, si sono uniti ai terroristi perché erano ignoranti, noi sapevamo che sarebbero stati una disgrazia. Hanno portato anche vergogna alle loro famiglie perché adesso anche loro sono sotto controllo, 24 ore al giorno. Magari sono innocenti, ma il governo teme che si risveglino cellule dormienti e io so che ce ne sono ancora tante».

«Tu lavori per il governo locale, c’è un piano di ricostruzione?». «Una proposta per un piano di ricostruzione venne fatta subito dopo la liberazione ma, come vedi, non è stato fatto nulla. Non penso che il governo iracheno riuscirà mai a ricostruire qualcosa senza un aiuto dall’estero, ma penso che nemmeno quello arriverà. Sembra che si siano tutti dimenticati di Mosul». Poi aggiunge: «Io credo che sia l’America quella che dovrebbe ricostruire Mosul. Io non ce l’ho con gli americani, ma sono loro che hanno distrutto la città con i bombardamenti. È vero: ci hanno aiutato a sconfiggere il Daesh, ma non dimenticarti che hanno anche ucciso più di 500 innocenti e tanti sono ancora sotto le macerie. Le chiamano vittime collaterali, ma erano le nostre famiglie e amici. Non ce l’ho con loro, ma chi distrugge poi dovrebbe ricostruire. Sarebbe un bel gesto e per noi vorrebbe dire tantissimo».

Succo di melograno (ma nessuna ricostruzione)

Mosul oggi versa in uno stato di povertà estrema: non essendoci ricostruzione, non c’è lavoro. Sono circa 300mila le persone che sono scappate da qui. Tanti vanno a Erbil, capitale del Kurdistan, sperando di trovare un lavoro, altri tentano di passare illegalmente il confine con la Turchia.

Le Nazioni Unite hanno stimato che per ricostruire la città sarebbe necessario un miliardo di dollari. Purtroppo, Mosul non è l’unica emergenza che necessita di aiuti umanitari in Iraq. C’è un altissimo numero di rifugiati che arriva dalla Siria, senza contare i cosiddetti «rifugiati interni», cioè tutte quelle persone a cui è stata distrutta la casa o il villaggio durante l’occupazione dell’Isis e che – da quattro anni – vivono nelle tende, nei campi profughi.

Una cosa che non ho incontrato a Mosul, a differenza di molti altri luoghi in guerra, è stato qualcuno che mi chiedesse denaro per strada, cosa molto comune in situazioni del genere. Ho trovato invece nei racconti della gente, insieme alla tristezza, molta fierezza. Ho trovato molta ospitalità, gentilezza e anche i primi segni di speranza.

A gennaio 2019 l’Università di Bologna ha annunciato una campagna di scavo archeologico sulle rovine di Ninive, l’antica capitale Assira che sorgeva proprio nell’odierna Mosul.

La Trevi ha vinto un ulteriore appalto per il prolungamento dei lavori sulla diga di Mosul, fondamentale per l’approvvigionamento idrico ed elettrico della città, che – al momento – continua a essere dipendente dai generatori diesel.

Fuori dal centro storico distrutto un piccolo nuovo centro sta rinascendo, i commercianti hanno trovato uno spazio dove sistemare il bazar, i giovani sono tornati a iscriversi all’Università e i ragazzini salgono in cima alle colline per farsi dei selfie con la valle del Tigri alle spalle. Le giovani coppie sulle panchine bevono succo di melograno fresco comprato dai venditori ambulanti, che piano piano stanno riprendendo a vendere i propri prodotti in giro.

Scene di vita normali in un luogo che, negli ultimi anni, di normale ha avuto pochissimo.

Lasciando Mosul, tra i saluti e le raccomandazioni di chi ho intervistato, mi si chiede di raccontare di come sono stato accolto. Mi si chiede di dire, a chi incontrerò, che qui sognano un giorno di ospitare nuovamente viaggiatori e scambiare con loro due chiacchiere davanti a un bicchiere di tè. Sperando che Mosul possa tornare quello che è stata, un collegamento tra genti e culture diverse.

Angelo Calianno

L’autore

Nato a Cisternino (Brindisi), Angelo Calianno da anni scrive da luoghi in conflitto in Medioriente, Asia e Africa. Per MC ha scritto un reportage dall’Afghanistan pubblicato a maggio 2018 e reperibile sul sito della rivista.


Cronologia essenziale

Mosul, non rimasero che macerie

 

  • 1916, Maggio – Alla dissoluzione dell’Impero ottomano, Francia e Inghilterra si dividono i territori del Medio Oriente (accordi di Sykes-Picot). All’inizio Mosul, praticamente più vicina alla Siria che a Baghdad, è sotto il controllo francese. Il crescente interesse per il petrolio iracheno da parte degli inglesi, porta, dopo una serie di trattative, al passaggio della città sotto il controllo del Regno Unito.
  • 1932 – Il Regno Unito instaura una monarchia sotto il proprio controllo. Nasce lo stato dell’Iraq.
  • 1950 – Dopo la creazione di Israele, le famiglie ebree di Mosul lasciano la città per emigrare nel nuovo stato.
  • 1967 – Mosul fonda la sua Università, la seconda più grande in Iraq dopo quella di Baghdad.
  • 1979, Luglio – Dopo diversi tentativi di colpi di stato sin dalla fine degli anni ‘60, il governo iracheno viene rovesciato da Saddam Hussein, che rimarrà al potere per oltre 20 anni. Di fede sunnita, Saddam riceve molti consensi dalla città di Mosul.
  • 1980, Settembre – L’Iraq dichiara guerra all’Iran (sciita). Molti dei curdi (soprattutto di fede cristiana), sciiti e yazidi, fuggono da Mosul per non essere mandati al fronte. La maggior parte si rifugia in Siria e Turchia.
  • 2003, Marzo – Gli Stati Uniti e gli alleati invadono l’Iraq (seconda Guerra del Golfo). Oltre Baghdad, gli altri punti cardine dello stato sono Kirkuk, per le risorse petrolifere e Mosul per quelle idroelettriche, petrolifere e logistiche. I dintorni di Mosul sono teatro di scontri tra le forze leali a Saddam Hussein e i soldati statunitensi, coadiuvati dalle milizie peshmerga. Nell’aprile 2003 le forze governative irachene sconfitte abbandonano Mosul. Le forze speciali americane tengono sotto controllo la città per poi lasciarla sotto il presidio peshmerga.
  • 2014, Giugno – Gli uomini dell’Isis occupano Mosul e ne fanno la loro capitale simbolica. Rimangono nella città fino alla sua liberazione del luglio 2017. Durante questa occupazione stilano una propria «Costituzione» da far rispettare agli abitanti della città. Per chi si oppone sono previste punizioni fisiche e detenzione; per le violazioni giudicate più gravi, si viene giustiziati.
  • 2017, Luglio – Dopo mesi di assedio, Mosul è liberata. Difficile dare una stima della sua popolazione attuale: un grande numero di persone, registrate come residenti, in realtà si è spostato a Erbil, per cercare lavoro, o illegalmente in Turchia. Le ultime stime del 2017 contavano 1 milione e 377 mila abitanti; altri 700 mila sono scappati o sono stati uccisi durante la guerra contro l’Isis. Oggi la maggior parte della città e della sua economia sono da ricostruire.

Angelo Calianno

Fonti: BBC World, Washington Post.


I protagonisti della battaglia di Mosul

Al-Baghdadi, i Peshmerga e gli altri

Al-Baghdadi – Il suo vero nome è Ibrahim Awwad Ibrahim Al-Badri, nato a Samarra in Iraq nel 1971. Al-Baghdadi nasce da una famiglia della classe media irachena di fede sunnita. Cresce in un sistema sociale tribale diviso in clan, il suo in particolare si dichiara direttamente discendente del profeta Maometto. Per la sua stretta osservanza delle regole islamiche viene soprannominato dai suoi familiari «il credente». Prosegue poi gli studi della fede islamica fino a prendere una laurea con specializzazione sugli studi coranici all’Università di Baghdad. Dopo la laurea insegna in alcune moschee attorno Baghdad, ma nel 2003 Al-Baghdadi diventa a tutti gli effetti un militante combattente. Viene successivamente arrestato a Falluja e imprigionato per 10 mesi a Camp Bucca, prigione irachena gestita dagli Usa.

Durante la prigionia predica il Corano con lunghi sermoni sull’islam e la guerra contro l’Occidente, proprio in carcere comincia ad avere i primi seguaci. Durante la detenzione conosce anche alcuni di quelli che successivamente saranno i suoi uomini in Siria. Una volta libero, combatte in Siria a fianco del gruppo terrorista Al-Nusra. Fonda l’Isis, che, dopo varie divergenze, viene espulso da al-Qaeda.

Il nuovo gruppo comincia a conquistare territori nell’Est della Siria e nell’Ovest dell’Iraq, fino a Mosul, dove – nel luglio del 2014 – Al-Baghdadi, davanti alle telecamere, si auto proclama Califfo dello Stato islamico.

Nell’estate del 2017 la Russia dichiara la morte di Al-Baghdadi, ucciso in un raid aereo a Raqqa, in Siria. Tuttavia, non ci sono prove evidenti. Il 23 agosto 2018 viene divulgato un audio con la voce del leader dell’Isis che incita alla lotta contro gli infedeli. Anche se l’audio non è mai stato autenticato, molti pensano che Al-Baghdadi sia ancora vivo e si nasconda tra Siria e Iraq.

Peshmerga – I peshmerga sono dei combattenti e guerriglieri curdi. Il loro gruppo pare si sia formato dopo il crollo dell’Impero ottomano agli inizi del 1900. Per anni gruppo di guerriglieri indipendenti sono diventati, di fatto, l’esercito della regione indipendente del Kuridstan in Iraq. I peshmarga annoverano tra le proprie file anche diverse donne che hanno combattuto, oltre che contro l’Isis, anche a fianco degli Stati Uniti contro Saddam Hussein nel 2003. La parola peshmerga vuol dire letteralmente «prima morte» e sta a significare la volontà di essere sempre i primi a combattere, a sacrificarsi e pronti a morire.

Italia in Iraq – Il totale delle forze di coalizione anti-Daesh, tra Iraq e Siria, è di 74 nazioni. La presenza italiana è la seconda come numero, subito dietro a quella degli Stati Uniti. Oggi l’Italia ha 700 soldati e 100 carabinieri dislocati su 11 basi. Il contingente italiano si occupa dell’addestramento e formazione delle truppe locali, nonché dello sviluppo e installazione di sistemi di sicurezza. Molti dei peshmarga curdi sono stati addestrati dagli italiani nella base di Erbil.

Coalizione anti Isis – La coalizione per la liberazione di Mosul fu guidata dagli aerei statunitensi con la partecipazione dell’aviazione australiana, il supporto delle forze armate irachene e quelle curde dei peshmerga. Il primo febbraio 2019 l’Australia ha ammesso alla BBC, pubblicamente per la prima volta, che durante l’attacco di Mosul le bombe della coalizione hanno ucciso diversi civili. Amnesty International ha accusato l’esercito iracheno e gli Stati Uniti, per l’enorme numero di civili uccisi durante i bombardamenti e di gravi violazioni dei diritti umani. A oggi non è stato designato alcun responsabile.

Angelo Calianno

Fonti: BBC, The Guardian, difesa.it, Tolo News, The Atlantic.




Iraq: Il ritorno dei cristiani nella piana di Ninive, ricostruire dopo l’Isis

Testi di Marta Petrosillo, foto ACS |


Estate 2014: centinaia di migliaia di cristiani fuggono da Mosul e dalla piana di Ninive. L’Isis ha iniziato la sua avanzata con distruzioni e massacri. Quando la zona viene liberata più di due anni dopo, molti decidono, con coraggio, di tornare. Vogliono ricostruire una presenza cristiana vecchia di duemila anni. In prima fila a sostegno delle popolazioni le Chiese cristiane.

Ritornare a vivere a casa propria dopo l’Isis, dopo l’orrore, dopo aver visto tanti, familiari e amici, abbandonare per sempre il paese, è possibile. Ce lo dimostrano i cristiani iracheni che, nonostante il dolore e l’incertezza, non si sono arresi a chi voleva cancellare la loro presenza da queste terre e oggi sono tornati in gran numero nella piana di Ninive dalla quale erano dovuti fuggire in massa.

Quando è stata liberata tra fine 2016 e inizio 2017, e quando si sono potute constatare le distruzioni compiute, nessuno sperava in un simile miracolo.

Iraq Ninive area Qaraqosh/Bakhdida – ritorno a casa

Tornare in città distrutte

A Qaraqosh, piccolo centro urbano a circa 30 km a Sud Est di Mosul, nel Nord dell’Iraq, noto per essere la roccaforte della cristianità nel paese, si stima che siano ritornati 25.650 cristiani: il 46 per cento di quanti abitavano la cittadina prima dell’invasione dell’Isis nell’agosto 2014.

Notevoli risultati si sono registrati anche in altri villaggi della piana: a Karemlesh, distante 5 km da Qaraqosh, sono rientrati il 26 per cento dei cristiani fuggiti nel 2014, mentre a Telskuf, 60 km più a Nord, i rientri sono stati ben 5.313, ossia il 73 per cento, la quota più alta della zona. Proprio nel villaggio di Telskuf è stata riconsacrata la prima chiesa della piana di Ninive, quella di San Giorgio, danneggiata e profanata dall’Isis. «Un messaggio di speranza e di vittoria. Lo Stato islamico voleva cancellare la presenza cristiana e invece i jihadisti se ne sono andati, mentre noi siamo tornati», ha detto monsignor Bashar Matti Warda festeggiando la riconsacrazione della chiesa l’8 dicembre 2017.

Le Chiese unite per ricostruire

Il processo di ricostruzione ha visto le Chiese irachene in prima linea. L’opera di ripristino e di riedificazione delle oltre 13mila abitazioni bruciate, distrutte e danneggiate dallo Stato islamico, è stata ed è coordinata, infatti, dal Comitato per la ricostruzione di Ninive (Nrc, Nineveh Reconstruction Committee), istituito il 27 marzo 2017 dalle tre Chiese dell’Iraq: caldea cattolica, siro cattolica e siro ortodossa, con la collaborazione della fondazione pontificia Aiuto alla Chiesa che soffre.

Ognuna delle tre Chiese ha due suoi rappresentanti nel comitato. Monsignor Timothaeus Mosa Alshamany, arcivescovo della Chiesa siro ortodossa di Antiochia e priore del monastero di San Matteo, dopo la firma dell’accordo ne ha sottolineato la duplice, storica portata: da un lato lo spirito ecumenico, dall’altro la reale possibilità per migliaia di cristiani di tornare alle loro radici e a una vita dignitosa. «Oggi – ha affermato – siamo una Chiesa davvero unita; unita per la ricostruzione delle case nella piana di Ninive, per infondere fiducia nei cuori delle persone che vivono in quei villaggi e per invitare quelli che li hanno lasciati a tornare».

Iraq, Bartela, 10/09/017, distribuzione di piantine di palma alla chiesa della Vergine Maria della Chiesa ortodossa siriaca. © ACS

Ripristinare la dignità

Molti sacerdoti si sono trasformati in ingegneri, architetti e geometri. Don Georges Jahola è uno di loro: è il sacerdote siro cattolico che ha coordinato la ricostruzione di Qaraqosh. Non appena celebrata la messa, don Jahola smette i paramenti e prende il cellulare per seguire i lavori. Gli abbiamo parlato a fine gennaio scorso: «Dopo 2 anni di occupazione dello Stato islamico, al nostro rientro abbiamo trovato quattro chiese bruciate, due siro cattoliche e due siro ortodosse. Abbiamo trovato una chiesa totalmente distrutta, mentre altre erano gravemente danneggiate. Abbiamo celebrato la messa in chiese bruciate. Ora stiamo costruendo e ristrutturando edifici dove poter svolgere catechesi e altre attività pastorali».

La priorità è quella di ristabilire una presenza cristiana, per fare in modo che anche altre famiglie decidano di tornare. «Vogliamo creare spazi per i bambini e per il tempo libero degli adulti e dei giovani», continua don Jahola che ricorda anche le drammatiche condizioni in cui ha trovato Qaraqosh: «Abbiamo visto una città distrutta. Da un lato a causa di oltre due anni di abbandono, dall’altro per via della furia dell’Isis. Il 35% delle case era stato distrutto. Ci siamo spaventati, ma non ci siamo persi d’animo. Abbiamo mappato tutte le case, le abbiamo fotografate, assegnato loro un codice ed elencato i danni di ciascuna. Qui in Iraq se non ci pensa la Chiesa a far fronte alle necessità di questa povera gente non lo farà nessuno».

Oggi, laddove un tempo sventolavano le bandiere nere dell’Isis, sono tornate le famiglie cristiane. «Quasi tutte le parrocchie hanno riaperto – continua don Jahola -. Soltanto due anni fa era impensabile poter ritornare a Ninive. Ma questo significa per noi riacquistare le nostre radici e poter vivere la nostra fede in unione con quella dei nostri antenati».

«Qui c’è il nostro futuro»

Ritornare a casa non è stato semplice per i cristiani. «È stata una ferita al cuore quando ho visto cosa rimaneva della mia abitazione e della mia città», ci confida Wisam, rientrato a Qaraqosh assieme alla sua famiglia dopo aver vissuto da rifugiato a Erbil, capoluogo del Kurdistan iracheno, per oltre due anni.

Ad aiutare Wisam e gli altri cristiani desiderosi di tornare a casa vi è anche Amjeed Tareq Hano, un giovane di 28 anni che aiuta il team di 70 ingegneri al lavoro nella sola Qaraqosh. Sulla sua scrivania un’alta pila di richieste. «Per poter ricevere un sostegno i proprietari devono contribuire personalmente alla ricostruzione o al ripristino – spiega il giovane ad Acs -. Soltanto così possiamo contenere i costi e aiutare altre famiglie».

Amjeed sottolinea come il governo iracheno non abbia affatto sostenuto l’opera di ricostruzione. «Sconfiggiamo l’Isis armati di intonaco e mattoni».

Dopo la presa della piana di Ninive da parte dell’Isis, anche Amjeed ha vissuto con la sua famiglia a Erbil. Non ha mai rimpianto la decisione di rimanere nel proprio paese, in Iraq. «Dobbiamo bollire l’acqua, l’elettricità è prodotta dai generatori e le strade sono piene di buche. L’Iraq è tutto fuorché sicuro, ma questa è la nostra casa e qui è il nostro futuro. E la nostra patria ha estremamente bisogno della presenza di noi cristiani».

Iraq, Qaraqosh, giugno 2018, padre Georges Jahola mostra figure e dati del piano di ricostruzione. © ACS

Un nuovo vescovo per i Caldei

Ma se nella piana di Ninive il ritorno dei cristiani dopo la liberazione dallo Stato islamico è stato a dir poco sorprendente, a Mosul, seconda città dell’Iraq, la situazione è ben diversa.

«La nostra più grande sfida è quella di restituire la fiducia ai fedeli, così che possiamo lavorare insieme per costruire il futuro dei cristiani in Iraq», ci dice monsignor Michaeel Najeeb Moussa, domenicano, poco dopo la sua ordinazione episcopale come vescovo dei caldei di Mosul avvenuta il 25 gennaio. Dopo quasi cinque anni da quando lo Stato islamico aveva costretto il suo predecessore monsignor Emil Shimoun Nona a lasciare la città, la comunità caldea di Mosul e della piana di Ninive ha nuovamente un pastore.

Vi sono molti funzionari governativi e anche studenti universitari cristiani che si recano a Mosul ogni giorno, ma nessuno ha il coraggio di rimanere stabilmente a vivervi. Il timore è che permangano in città cellule nascoste di jihadisti e, in ogni caso, che l’Isis possa tornare. In più i cristiani ora faticano a fidarsi anche dei loro ex vicini di casa musulmani che in molti casi hanno aiutato i combattenti islamisti. «Preferiscono percorrere anche 85 chilometri per tornare a dormire nei villaggi della piana di Ninive, perché qui non si sentono al sicuro», ci spiega il presule.

Al momento neanche lui può tornare a risiedere in città: «L’85 per cento delle chiese di Mosul è stato distrutto così come l’arcivescovado». Ma monsignor Najeeb spera di tornarvi presto ed è sicuro che la presenza di un vescovo in città donerà di nuovo speranza anche agli altri. «Credo che il ritorno dei cristiani a Mosul sia possibile, e credo che tutto cambierà quando si tornerà a celebrare stabilmente la messa, come si è fatto per duemila anni, prima dell’arrivo dell’Isis».

Convertirsi, fuggire o morire

Monsignor Najeeb ha avuto un ruolo essenziale nella salvaguardia delle radici cristiane. Quando è fuggito a Erbil, dopo l’arrivo dell’Isis nel 2014, ha salvato decine e decine di manoscritti antichi che catalogava e digitalizzava da decenni per preservare il patrimonio storico del popolo cristiano e di tutti gli iracheni.

Esattamente come il suo predecessore, l’arcivescovo emerito dei caldei di Mosul, Emil Shimoun Nona, anche monsignor Najeeb ha affrontato lo stesso destino dei cristiani di Mosul e della piana di Ninive.

Nella notte tra il 9 e il 10 giugno del 2014, l’Isis ha preso possesso della città, costringendo alla fuga oltre metà della popolazione. Ai pochi cristiani che, nelle prime settimane dopo l’arrivo dell’Isis, sono rimasti a Mosul, è stata imposta inizialmente la jizya, la tassa, cosiddetta «di protezione», riscossa ai non musulmani ai tempi dell’impero ottomano. Ma il piano per trasformare l’Iraq e la Siria in un unico Califfato islamico non poteva prescindere dall’eliminazione delle minoranze religiose. Così a metà luglio i jihadisti hanno marchiato le case cristiane della città con la lettera araba «ن», iniziale della parola nasara: nazareni. Quindi i fondamentalisti hanno obbligato i cristiani rimasti a scegliere se convertirsi, fuggire oppure essere uccisi. Nelle ore seguenti code interminabili di auto e di persone si sono dirette verso il Kurdistan iracheno e la piana di Ninive. Ma chi ha optato per la seconda scelta si è visto costretto a fuggire di nuovo nella notte tra il 6 e il 7 agosto 2014, quando lo Stato islamico ha preso possesso di 13 villaggi cristiani della piana.

In una sola notte, oltre 125mila fedeli hanno dovuto abbandonare le proprie case senza poter prendere nulla. Molti di loro hanno camminato per ore in pigiama prima di giungere a Erbil o alla vicina città di Duhok. Sfuggiti alla crudeltà dei miliziani, gli ultimi cristiani in Iraq hanno dormito per giorni nelle chiese, nelle scuole, all’ombra di palazzi fatiscenti per poi trovare «finalmente» una casa in tende asfissianti in cui le temperature, nella calda estate del 2014, sfioravano i 44 gradi.

Poi, fortunatamente, grazie alle Chiese locali e alla generosità di molti benefattori, le famiglie hanno trovato alloggio in case prefabbricate o in appartamenti in affitto dove hanno vissuto almeno fino alla metà del 2017.

Iraq, Qaraqosh, giugno 2018, madre e figli davanti alla loro casa ricostruita a Qaraqosh. © ACS

Una storia di persecuzioni

Quella perpetrata dallo Stato islamico non era tuttavia la prima persecuzione subita dai cristiani iracheni. Il loro numero complessivo nel paese era già diminuito da un milione e 200mila fedeli nel 2003 ai poco più di 300mila del 2014.

L’instabilità del paese, in seguito all’inizio della guerra nel 2003 e alla caduta del regime di Saddam Hussein, ha significato l’inferno per la minoranza cristiana, schiacciata nel fuoco incrociato tra sunniti e sciiti e direttamente perseguitata.

In città come Baghdad, Bassora, Kirkuk, Mosul, tante famiglie cristiane si sono viste recapitare messaggi minatori sull’uscio delle proprie case e, col passare del tempo, hanno dovuto rinunciare alla Messa di Natale nella sera del 24 e a fare l’albero e il presepe se non all’interno delle proprie case. Alcuni cristiani hanno dovuto pagare la jizya, sono stati espropriati delle loro terre e le donne si sono abituate a coprire il capo con un foulard, per confondersi tra le musulmane.

Numerosi rapimenti e uccisioni di fedeli, sacerdoti e perfino vescovi hanno segnato gli ultimi anni della vita dei cristiani in Iraq.

Uccisi in odio alla fede

A Mosul, uno dei simboli del martirio cristiano in Medio Oriente, dopo la caduta di Saddam sono stati uccisi in odio alla fede oltre mille cristiani. La persecuzione non ha risparmiato né l’arcivescovo caldeo monsignor Faraj Rahho, rapito e poi ucciso nel 2008, né il suo segretario, padre Ragheed Ganni.

Padre Ragheed non aveva voluto arrendersi alle minacce di chi gli intimava di chiudere la sua chiesa dello Spirito Santo a Mosul. È stato ucciso il 3 giugno, al termine della Messa. «Ti avevo detto di chiudere la chiesa. Perché non l’hai fatto?», gli ha domandato uno dei suoi assassini. «Come posso chiudere la casa di Dio?», ha risposto lui prima di soccombere al fuoco dei proiettili.

Non vi è dunque da stupirsi se nei lunghi mesi tra il 2014 e il 2017, molti cristiani hanno lasciato il paese in preda allo sconforto e a causa della mancanza di prospettive future.

Poi però con la liberazione della piana di Ninive e la ricostruzione delle case cristiane è avvenuto un vero e proprio miracolo. Lo stesso che oggi si attende a Mosul.

Marta Petrosillo

Iraq, dicembre 2014, bambini al centro “Werenfried” creato per accogliere persone forzate a lasciare le loro case dall’Isis. © ACS


La solidarietà del papa viaggia in Lamborghini

«Ci lasciano increduli e sgomenti le notizie giunte dall’Iraq: migliaia di persone, tra cui tanti cristiani, cacciati dalle loro case in maniera brutale». Così papa Francesco all’Angelus del 10 agosto 2014. Sono passati soltanto tre giorni dalla presa dei villaggi della piana di Ninive, ma il santo padre nomina già come suo inviato speciale nel paese il cardinal Fernando Filoni, prefetto della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli, e già nunzio in Iraq dal 2001 al 2006. È il primo di molti gesti di vicinanza del pontefice ai cristiani iracheni e alle altre minoranze schiacciate dall’Isis.

«Cari fratelli e sorelle, siete nel mio cuore», dirà poi il santo padre in un videomessaggio registrato il 6 dicembre 2014 per i cristiani di Mosul ricordando l’importanza della loro testimonianza di fede, «la vostra resistenza è martirio, rugiada che feconda».

Segni concreti di vicinanza

Sin dall’inizio della tragica avanzata dell’Isis il papa esprime il desiderio di visitare i suoi fedeli iracheni. Le precarie condizioni di sicurezza non rendono possibile la visita, anche se il viaggio del cardinal Parolin in terra irachena, dal 24 al 28 dicembre 2018, fa ben sperare per il futuro.

Tuttavia i cristiani d’Iraq percepiscono forte la vicinanza del pontefice, attraverso le sue parole, la sua preghiera e i suoi gesti concreti.

Già nel 2016 papa Francesco, attraverso la fondazione Aiuto alla Chiesa che soffre, ha finanziato con 100mila euro la Saint Joseph Charity Clinic che a Erbil offre assistenza medica gratuita.

Poi il 15 novembre 2017, Francesco ha deciso di devolvere al progetto Acs per la ricostruzione dei villaggi cristiani della piana di Ninive, parte del ricavato della vendita all’asta della Lamborghini Huracan da lui ricevuta in dono dalla casa automobilistica.

I fondi ricevuti sono stati impiegati nella ricostruzione di due strutture della Chiesa siro cattolica distrutte dalla guerra nel villaggio di Bashiqa: l’asilo intitolato alla Vergine Maria e il centro polivalente dell’omonima parrocchia, che sarà a disposizione di oltre 30mila abitanti di diverse etnie e fedi.

M.P.

Iraq, Qaraqosh, giugno 2018. Cristiani che ricostruiscono le loro case con l’aiuto di ACS. © ACS




Paesi islamici: Donne e cristiane, due volte nel mirino


Testo di Marta Petrosillo sulla condizione delle donne cristiane nei paesi islamici |


In alcuni paesi a maggioranza islamica, le frange estremiste fanno sentire il loro peso. E le donne cristiane affrontano una condizione di doppia discriminazione: sono donne e sono cristiane. Dalle violenze sessuali alle norme sull’abbigliamento, al diritto famigliare, fino alle situazioni estreme di rapimenti e conversioni forzate le donne rischiano per la loro fedeltà al Vangelo.

Doppiamente discriminate: perché donne e perché cristiane. È la condizione di tante donne che vivono in molti paesi del mondo, in particolare in alcuni dei 50 a maggioranza islamica1.

Anche se, ovviamente, vi sono considerevoli differenze tra un paese musulmano e un altro, possiamo identificare alcuni schemi comuni: disparità di genere, violenze domestiche, stupri, femminicidi, mutilazioni genitali, matrimoni forzati di adolescenti e bambine.

In 12 di essi, la sharia è l’unica fonte del diritto2, mentre in altri – a volte anche paesi in cui l’Islam non è maggioranza -, pur essendoci sistemi legislativi non confessionali, la legge coranica, discriminatoria nei confronti delle donne, è comunque applicata al diritto civile e a questioni di diritto privato, come il matrimonio, il divorzio, l’eredità, la custodia dei figli3. Ciò significa che, ad esempio, la testimonianza di una donna in tribunale vale la metà di quella di un uomo4. Se quanto appena detto si applica a tutte le donne, quindi anche alle musulmane, le fedeli di minoranze religiose devono affrontare il doppio delle ingiustizie e delle discriminazioni.

A queste condizioni ordinarie, si aggiungono poi, sempre più spesso, le violenze da parte dei gruppi estremisti.

@ Jadranko Marjanovic / Fòock.com

La violenza dei gruppi radicali

Le cause delle violenze ai danni delle donne cristiane nel mondo da parte di gruppi islamisti radicali sono numerose. Tra queste: l’odio a sfondo religioso; il desiderio di umiliare, conquistare, intimidire e disonorare gli «infedeli» e le loro comunità; la specifica intenzione di strappare le donne alla loro fede.

Molti gruppi jihadisti considerano lo stupro e la conversione forzata delle donne non musulmane come parte della da’wa, letteralmente «richiamo, appello, propaganda», una forma di proselitismo inteso come un dovere per gli aderenti a questi gruppi.

Interessante, a tal proposito, una sorta di vademecum pubblicato dall’Isis nel dicembre 2014, nel quale si trova, tra gli altri, anche il seguente passaggio: «Non vi è alcun dubbio tra gli studiosi che sia permesso catturare le donne miscredenti, infedeli, quali le appartenenti alla gente del libro o le pagane».

Molte delle molestie e degli abusi sessuali ai danni delle donne appartenenti a minoranze religiose sono istigati da leader fanatici che attraverso le loro accese prediche incitano e/o perdonano le violenze contro gli infedeli.

Nel 2013 un leader del radicalismo salafita giordano, residente a Damasco, Yasir al Ajlawni, ha emesso una fatwa che consentiva a tutti gli oppositori di Bashar al-Assad di «catturare e avere rapporti» con qualsiasi donna non sunnita. Tale fatwa ha di fatto giustificato quanto accaduto qualche tempo dopo a Qusair, città del governatorato di Homs, allora in mano al fronte al-Nusra, dove la quindicenne cristiana Mariam è stata presa dal comandante del battaglione del gruppo jihadista e costretta a contrarre matrimonio islamico con lui. Violentata e ripudiata, è stata poi «passata» ai suoi uomini. L’iter si è ripetuto con quindici uomini in quindici giorni. Dopodiché la giovane, ormai mentalmente instabile a causa dello shock, è stata uccisa5.

Il codice di abbigliamento

Il salafita radicale egiziano Hisham el-Ashry, nel gennaio 2013 ha affermato in tv in prima serata che le donne cristiane dovrebbero coprirsi, ma che «se preferiscono essere stuprate, possono continuare a non portare il velo».

Apparentemente dello stesso avviso è l’imam Sami Abu-Yusu, della moschea salafita Al-Tawhid di Colonia, in Germania, secondo il quale le molestie e gli abusi verificatisi nel capodanno del 2016 nella città tedesca non sono avvenuti per colpa di molestatori e stupratori, quanto delle donne che si trovavano in piazza «seminude e con indosso del profumo provocante»6.

Questi casi ci introducono a un altro problema: il codice d’abbigliamento islamico. Anche se indossare indumenti quali hijab, niqab o abaya non è obbligatorio nella maggior parte degli stati musulmani, a volte le donne che non si attengono al codice di abbigliamento islamico sono insultate, assalite, violentate e perfino uccise perché vestite in maniera «provocante».

In alcuni paesi, invece, il velo è obbligatorio per legge, e anche le donne non musulmane sono costrette a indossarlo in pubblico. Uno di questi è l’Iran, dove l’articolo 102 del Codice penale prevede sanzioni per le donne che si mostrano con il capo scoperto. In Arabia Saudita le donne che non indossano un abaya (lungo vestito nero che copre l’intera figura) e che non coprono il viso e i capelli sono spesso molestate dalla mutawwi’a, la polizia religiosa. In Sudan la legge punisce con un massimo di 40 frustate chiunque «abbia un abbigliamento indecente o immorale». Sono diversi infatti i casi di donne cristiane condannate alla fustigazione o al pagamento di multe salate soltanto per aver indossato i pantaloni o gonne ritenute troppo corte dalla temuta hisbah, la polizia religiosa.

Stupri e rapimenti

Un altro dramma è quello degli stupri e dei rapimenti. Se in genere nel mondo le violenze sessuali sono tra i crimini denunciati con più difficoltà (in media il 10 per cento delle vittime), ciò è ancor più riscontrabile nei paesi a maggioranza islamica. Le donne che sono state stuprate hanno paura di essere rinnegate dalla propria famiglia o di diventare vittime di delitti d’onore. Inoltre, nei paesi in cui la legge punisce l’adulterio, un esempio è il Pakistan, le donne che hanno subito violenza rischiano perfino di essere condannate.

La sharia definisce lo stupro (zina bil-jabr) come una forma imposta di fornicazione o adulterio (zina). In alcuni paesi, tante donne preferiscono tacere perché sanno che se non riusciranno a provare la violenza, verranno accusate di adulterio – provato dalla stessa denuncia di stupro – e incorreranno in punizioni quali arresto, fustigazione o condanna a morte per lapidazione, una pena ancora applicata in Arabia Saudita, Pakistan, Sudan, Yemen, Emirati Arabi Uniti e in dodici stati della Nigeria del Nord.

Se sono molte le donne islamiche che decidono di rimanere in silenzio, sono ancora più numerose le vittime non musulmane che non denunciano la violenza subita. Ciò le rende degli obiettivi facili.

Nel 2003 la Commissione nazionale sullo status delle donne in Pakistan ha riferito come almeno l’88% delle donne pachistane detenute in carcere fossero state arrestate per aver denunciato uno stupro che non avevano potuto provare. Nel paese asiatico numerose braccianti e lavoratrici domestiche cristiane e indù subiscono violenza dai loro datori di lavoro.

Mappa dei paesi a maggioranza islamica

Le conversioni forzate

Un altro fenomeno preoccupante è il rapimento e la conversione forzata di donne, ragazze e perfino bambine, appartenenti a minoranze religiose, poi costrette a contrarre matrimonio islamico con il proprio aggressore. Secondo molte Ong locali, ogni anno in Pakistan almeno mille ragazze indù e cristiane vengono rapite e costrette a convertirsi. Un numero probabilmente inferiore a quello reale, data la difficoltà con cui tali eventi vengono denunciati alle autorità.

Quando la famiglia della vittima sporge denuncia alla polizia locale, l’aggressore sostiene che la ragazza si è convertita spontaneamente e accusa a sua volta la famiglia di cercare di costringerla a riabbracciare il Cristianesimo. La vittima viene dunque invitata a testimoniare, ma sarà costretta a giurare di essersi convertita volontariamente. E come se non bastasse, non è raro che la famiglia della ragazza sia a sua volta minacciata – specie se vi sono altre figlie femmine – e costretta a cambiare città.

Uno degli ultimi casi riguarda Elisha Iqbal, appena 12 anni, violentata e costretta a convertirsi all’Islam. Elisha è stata sequestrata a Pindorian, Islamabad, da un uomo nel febbraio 2018, ma quando suo padre Iqbal e sua madre sono andati a denunciare il fatto, anziché cercare la ragazza, i poliziotti li hanno arrestati per aver formulato false accuse.

Un altro caso drammatico che riguarda un tentativo di conversione forzata in Pakistan è quello di Asma Yaqoob, la venticinquenne cristiana di Sialkot, bruciata viva lo scorso aprile dal suo fidanzato perché si era rifiutata di convertirsi all’Islam.

Il caso di Boko Haram

In Nigeria, la setta islamista Boko Haram (cfr. MC ottobre 2016) ha dichiarato apertamente di considerare il rapimento e la conversione forzata delle donne cristiane come parte di un piano per terrorizzare i cristiani e obbligarli a lasciare il Nord della Nigeria. Una pratica balzata agli occhi del mondo con il rapimento di 276 studentesse avvenuto a Chibok, nello stato di Borno, nella notte tra il 14 e il 15 aprile del 2014. Tante ragazze – l’ultimo caso è del febbraio 2018 – hanno raccontato di essere state rapite e condotte in case di imam e emiri per essere violentate e convertite con la forza.

Roma 24-2-2018 – Aiuto alla chiesa che soffre – Colosseo rosso – le lacrime di Rebecca – foto di Cristian Gennari

Tra loro Rebecca Bitrus, 28 anni, recentemente arrivata in Italia ospite di Aiuto alla Chiesa che Soffre. Era il 21 agosto 2014 quando membri di Boko Haram hanno invaso il suo villaggio nello stato di Borno, al confine tra Ciad e Niger. Rebecca, incinta del terzogenito, fuggiva assieme a suo marito Bitrus e ai loro figli Zachary e Jonathan, all’epoca di tre e un anno. Con i bambini però non riuscivano ad andare abbastanza veloci e, siccome Rebecca sapeva che se i Boko Haram li avessero raggiunti avrebbero ucciso suo marito, ha detto a Bitrus di andare avanti senza di loro.

Non ci è voluto molto prima che i terroristi raggiungessero la donna e i suoi due bambini. Catturati, li hanno condotti in un loro accampamento assieme ad altri prigionieri. È iniziato così un lungo incubo durato due anni, durante il quale Rebecca ha perduto il bimbo che portava nel grembo e il più piccolo degli altri due. «Ricordo ancora le grida delle ragazze violentate davanti ai miei occhi». I jihadisti hanno intimato più volte a Rebecca di convertirsi all’Islam, ma lei ha sempre rifiutato. Così, per punirla, hanno preso il piccolo Jonathan lanciandolo nel fiume e lasciandolo annegare. Rebecca però non si è piegata e i suoi carcerieri l’hanno rinchiusa in una cella senza acqua e cibo per giorni. Quando hanno riaperto la cella, convinti di trovarla morta, hanno scoperto invece che era ancora viva. L’hanno poi venduta come schiava a un membro della setta che ha abusato ripetutamente di lei. Da una di queste violenze è nato in seguito un bambino, a cui è stato dato un nome islamico che lei, una volta libera, ha cambiato in Cristopher, portatore di Cristo. Quando l’esercito nigeriano ha raggiunto l’area in cui era tenuta prigioniera, Rebecca ha approfittato della distrazione dei suoi carcerieri per fuggire assieme ai suoi figli. Ora si è ricongiunta con suo marito, con il quale vive assieme al loro Zachary e al piccolo Christopher.

L’Egitto di al-Sisi

Donna irachena – © ACS

Non troppo diversa la situazione in Egitto, dove sono frequenti i rapimenti e le conversioni forzate di donne cristiane. Tali episodi non rappresentano una novità nel paese, nel quale si riportano casi fin dai tempi della presidenza di Sadat (1970-1981), ma a partire dalle rivolte di Piazza Tahir ha raggiunto livelli preoccupanti. Rapimenti e conversioni forzate non mancano neanche oggi, con l’attuale presidenza del generale al-Sisi, nonostante le promesse governative al riguardo. Un ex rapitore, intervistato dal World Watch Monitor nel 2017, ha infatti rivelato che esiste una rete di salafiti dediti a rapire le ragazze cristiane per convertirle all’Islam. I soldi per finanziare tale network provengono in larga parte dall’Arabia Saudita.

Una ragazza cristiana può valere fino a 2.500 euro. Anche qui, quando le ragazze scompaiono, inizia il calvario delle famiglie, costrette a fare i conti con un sistema discriminatorio.

Il più delle volte anziché registrare il caso come rapimento, gli agenti si limitano a segnalare la sparizione della ragazza.

Un episodio significativo è quello di Nadia, adolescente cristiana rapita a soli 14 anni dalla sua casa nella periferia del Cairo. La famiglia ha sporto denuncia contro un uomo di 48 anni. Ma pochi mesi dopo le autorità hanno deciso di chiudere il caso, quando l’avvocato del rapitore ha fornito loro un certificato di matrimonio tra l’uomo e la sua sposa quindicenne. Tutto regolare dunque, nonostante la legge egiziana affermi che il matrimonio e la conversione di ragazze minorenni sia illegale.

Marta Petrosillo
portavoce di Acs Italia

Note:

1- Due in Europa, 15 in Asia-Pacifico, 19 in Medio Oriente-Nord Africa, 14 in Africa Subsahariana.

2- Mauritania, Somalia, Sudan, Arabia Saudita, Afghanistan, Brunei, Iran, Iraq, Maldive, Pakistan, Qatar, Yemen. Anche nella Provincia di Aceh (Indonesia) e in 12 stati della Nigeria del Nord.

3- Algeria, Isole Comore, Egitto, Etiopia, Libia, Marocco, Gibuti, Bangladesh, Tanzania, Kuwait, Malesia, Oman, Filippine (Minadanao), Siria.

4- Sicuramente in Arabia Saudita e in Pakistan. Secondo alcuni attivisti, anche nelle corti shariatiche inglesi: si legga Flora Bagenal, Britain probes Sharia courts’ treatment of women, upi.com, 28/06/2016.

5- Rape and atrocities on a young Christian in Qusair, Agenzia Fides, 02/07/2013.

6- Katherine Weber, Egyptian preacher suggests christian women wear veils to avoid rape, Christian Post, 10/01/2013.

7- «Violenze di Colonia? Colpa delle donne, indossavano profumo ed erano mezze nude». Il commento di un imam della città tedesca, L’Huffington Post, 21/01/ 2016.


Aiuto alla Chiesa che Soffre

Aiuto alla Chiesa che Soffre (Acs) è una Fondazione pontificia nata nel 1947 e attualmente presente in 23 paesi con altrettante sedi nazionali.

Ha una doppia missione.

Da un lato quella di sostenere la Chiesa in tutto il mondo e in particolar modo laddove essa è perseguitata, discriminata o priva di risorse. Sono oltre 5mila i progetti realizzati annualmente in 150 paesi. Recentemente la tragica situazione mediorientale ha spinto Acs ad agire in special modo in quest’area, sostenendo le chiese e le popolazioni locali soprattutto con aiuti emergenziali e umanitari. In Iraq dal giugno 2014, inizio della crisi dell’Isis, al giugno 2017, ha finanziato progetti per oltre 35,7 milioni di euro ed è impegnata nella ricostruzione dei villaggi cristiani della Piana di Ninive distrutti dallo Stato islamico. In Siria dal marzo 2011 al dicembre 2017 la Fondazione è intervenuta con progetti per oltre 20 milioni di euro.

La seconda parte della missione di Acs consiste nel denunciare le violazioni alla libertà religiosa e nel promuovere il rispetto di questo fondamentale diritto. Uno strumento importante è in tal senso il Rapporto sulla libertà religiosa nel mondo. Nato nel 1999, il rapporto, tradotto in 7 lingue, fotografa la situazione della libertà religiosa in 196 paesi con riferimento a tutte le fedi.

Inoltre la Fondazione pontificia promuove eventi di sensibilizzazione sul dramma dei cristiani perseguitati. L’ultimo è stato il 28 febbraio 2018, quando Acs ha illuminato di rosso il Colosseo in ricordo dei tanti cristiani che ancora oggi versano il loro sangue a causa della propria fede. Prima ancora, la Fondazione aveva illuminato di rosso la fontana di Trevi a Roma, la cattedrale e il palazzo di Westminster a Londra, la basilica del Sacro Cuore a Parigi, il Cristo Redentor a Rio de Janeiro e molti altri monumenti in tutto il mondo.

Acs Italia

Segretariato italiano – P.zza San Calisto, 16
00153 Roma – tel. 06 6989.3911 – fax 06 6989.3923

http://acs-italia.org/




Una fede pericolosa: Crescono le persecuzioni anticristiane nel mondo

Testo di Cristian Nani – direttore di Porte Aperte Onlus – Foto Open Doors |


Persecuzioni. Nel mondo un cristiano ogni 12 viene perseguitato: oltre 215 milioni di persone vessate e discriminate a causa della loro fede. Sono stati 3.066 i martiri nel 2017, e migliaia le chiese, le abitazioni, i negozi di cristiani distrutti. Il rapporto World Watch List 2018, pubblicato da Porte Aperte/Open Doors, mostra, in una classifica, le 50 nazioni dove le persecuzioni sono maggiori.

Henry fa il falegname, un’attività che ama e svolge nella sua città, Marawi (Sud delle Filippine). Il 23 maggio 2017 è un normale giorno di lavoro per lui, quando qualcuno bussa alla porta. Aprendo si trova di fronte un gruppo di sconosciuti. Lui domanda chi siano, loro rispondono: «I tuoi assassini».

Il commando fa parte di un gruppo affiliato all’Isis, miliziani di varia estrazione in grado di prendere in ostaggio l’intera città di Marawi per cinque mesi1.

Henry (nome di fantasia, ndr) viene malmenato e incappucciato per essere condotto in una sorta di carcere nel quale è tenuto in ostaggio per vari giorni. Quando verrà liberato dalle forze militari filippine, racconterà di aver visto l’inferno. Persone rapite con lui vengono bendate e decapitate, alcune donne sono violentate: lui e altri sono costretti a guardare.

Nell’agenda di questi gruppi è chiaro l’intento di eliminare la presenza cristiana dalla zona.

Henry è tra le molte vittime di quella che Porte Aperte nel suo rapporto annuale World Watch List 2018 definisce «oppressione islamica», cioè la fonte primaria di persecuzione dei cristiani nel mondo.

Reena, vietato convertirsi

Reena invece è una ragazza di 19 anni che viveva in un villaggio in una zona remota dell’India (per ragioni di sicurezza non citiamo il nome del villaggio, né il vero nome della ragazza, ndr).

Lei e la famiglia sono ex induisti convertiti alla fede cristiana.

In cerca di lavoro come insegnante, nel settembre del 2016 era approdata in una scuola per un colloquio: «Il preside mi ha offerto dei dolcetti tipici, che ho mangiato – ha raccontato -. Da lì in poi non ricordo più nulla». Drogata e privata della libertà per svariati giorni, ancora oggi non ricorda niente di quello che ha subito. I partner locali di Porte Aperte che la seguono nella cura del trauma, pensano che Reena abbia rimosso il ricordo di quei giorni perché troppo doloroso. Quando ha ripreso conoscenza, si è ritrovata in un treno fermo in un luogo a 14 ore di distanza da casa sua.

Oggi Reena sta abbastanza bene, non ha ancora trovato un lavoro, ma nel frattempo è tornata a scuola per continuare gli studi.

Gli aggressori rimangono impuniti, mentre il preside della scuola continua a minacciare la famiglia, ed è per questa ragione che la ragazza si è trasferita da suo fratello in un altro villaggio.

Il numero di aggressioni di questo tipo contro i cristiani in India stanno aumentando.

Reena è una delle vittime della seconda più importante fonte di persecuzione anticristiana nel mondo: il «nazionalismo religioso».

L’ostilità anticristiana

Monitorando oltre 90 paesi, con ricerche che partono anche dal basso (quindi dal campo missionario, grazie alla presenza nel territorio), Porte Aperte fotografa ogni anno la persecuzione anticristiana nel mondo attraverso il rapporto World Watch List.

Per persecuzione s’intende «qualsiasi ostilità subita come conseguenza dell’identificazione dell’individuo o di un intero gruppo con Cristo. Questa può includere atteggiamenti, parole e azioni ostili nei confronti dei cristiani».

Il rapporto evidenzia, in una sorta di classifica, i primi 50 paesi dove maggiormente si perseguitano i cristiani. Nelle posizioni più «basse» si trovano i paesi nei quali si è registrato un livello di persecuzione «alto». Salendo verso i primi posti, si passa attraverso un livello «molto alto» per approdare, nelle prime posizioni, al livello della persecuzione «estrema».

La metodologia adottata per stilare la Wwlist considera ogni sfera della vita dei cristiani (privato, famiglia, comunità, chiesa, vita pubblica e violenza) ed è progettata per monitorare le strutture profonde della persecuzione e non solo gli incidenti violenti.

Il team di ricerca distingue due categorie principali con cui la persecuzione può esprimersi: la prima riguarda le pressioni e le vessazioni subite in ogni aspetto della vita che si manifestano in una quotidiana miscela di soprusi, abusi, marginalizzazione e violazione di diritti fondamentali come l’accesso alle cure, al lavoro, all’istruzione, alla giustizia, e così via. La seconda categoria di persecuzioni, invece, è la violenza, quella di fatto più riportata dai mezzi di comunicazione poiché più d’impatto in termini mediatici. Sebbene la seconda sia quella più visibile e quasi l’unica presente nel dibattito pubblico, è la prima quella più diffusa: la prevaricazione nascosta e costante che devasta la vita di milioni di cristiani a causa della loro fede.

Iraq: campo di sfollati cristiani

Dietro ogni persecuzione c’è un persecutore

Ma chi sono gli attori di questo fenomeno? È chiaro che si tratti di singoli individui, ma anche di gruppi, o addirittura istituzioni, ostili ai cristiani. Ecco un elenco di quelli che nei fatti sono veicoli di odio e intolleranza anticristiana: governi locali e nazionali; leader di gruppi etnici; leader religiosi non cristiani; leader di altre chiese cristiane; movimenti radicali; normali cittadini, incluse le folle istigate in vari modi; le famiglie stesse dei cristiani; i partiti politici; gruppi rivoluzionari o paramilitari; il crimine organizzato; organizzazioni multilaterali.

È importante avere in mente questa varietà di attori poiché fa comprendere come, per esempio in alcune aree rurali della Colombia, sia successo che certi leader di gruppi indigeni, con la connivenza delle autorità locali, abbiano inflitto a membri dello stesso gruppo indigeno convertiti al cristianesimo gravi vessazioni fino all’incarcerazione, tortura, esproprio dei beni ed espulsione dal villaggio. Quando l’attore è uno stato, per fare un altro esempio, la dinamica cambia: le Maldive, dove molti italiani trascorrono le proprie vacanze, sono un paese islamico che ritiene ogni maldiviano necessariamente musulmano. Questo comporta che, quando un maldiviano si converte o è semplicemente interessato al cristianesimo, affronta pressioni dallo stato stesso. Il Pakistan, con la famosa legge contro la blasfemia (emblematico il caso di Asia Bibi), è un altro esempio di stato che prevarica, ma supportato da movimenti radicali che puntano all’eliminazione della presenza cristiana. Mentre in Messico i cartelli della droga possono aggredire le chiese che in qualche modo interferiscono con i loro scopi criminali, in Sri Lanka è accaduto che monaci buddisti abbiano incitato le folle a inveire e aggredire i cristiani locali considerati agenti contaminanti della cultura tradizionale del paese.

Trend della persecuzione

Nigeria: Uno dei sopravvissuti agli attacchi dei Boko Haram

In termini assoluti la persecuzione aumenta. È questo che emerge dalla Wwlist 2018 che prende in considerazione il periodo 1 novembre 2016 – 31 ottobre 2017. Nella classifica delle prime 50 nazioni dove più si perseguitano i cristiani, troviamo ben tre paesi con un punteggio al di sopra di 90 su 100: Corea del Nord, Afghanistan e Somalia (rispettivamente 1°, 2° e 3° posto), con un livello di persecuzione estremo a tal punto da rendere la vita impossibile per i cristiani e da costringerli alla clandestinità.

La Corea del Nord e l’Afghanistan quest’anno hanno un punteggio del tutto simile: solo per poco il regime di Kim Jong-un è al primo posto (per il 15° anno di fila). Essere scoperti in Corea del Nord a partecipare a una riunione di preghiera o in possesso di una Bibbia, può significare la morte o la reclusione nei famigerati campi di rieducazione, veri e propri lager denunciati anche dalle Nazioni Unite. Si stima che tra i 40 e i 70mila cristiani languiscano in questi campi a causa della loro fede. Per quanto riguarda l’Afghanistan, sebbene sia un paese più conosciuto in Italia rispetto alla Corea del Nord, rimane altresì poco noto per le condizioni dei cristiani che vi abitano, costretti a vivere nel terrore di essere scoperti. Convertirsi dall’islam al cristianesimo in Afghanistan significa andare incontro al ripudio della famiglia e della società, fino alla tortura, all’incarcerazione e alla morte.

Nel mondo sono ben 11 le nazioni in cui si registra una persecuzione estrema simile a quella dei paesi appena citati. Tra le regioni del mondo in cui i cristiani vengono perseguitati, l’Africa cresce, avendo alcune sue nazioni nelle prime posizioni (Somalia 3°, Sudan 4°, Eritrea 6°, Libia 7°). In Asia centrale, in paesi come Uzbekistan (16° posto), Turkmenistan (19°), Tagikistan (22°) e Kazakistan (28°), dal dissolvimento dell’Urss, l’islam è cresciuto esponenzialmente, anche nella sua corrente più oppressiva, generando intolleranza nei confronti dei cristiani.

Tra le fonti di persecuzione, il nazionalismo religioso, in particolare legato all’induismo e al buddismo, risulta in forte aumento, soprattutto in seguito all’incremento delle violenze anticristiane in India (11° posto) e delle discriminazioni in paesi buddisti come Laos (20°), Myanmar (24°), Nepal (25°, nuovo ingresso nella classifica) e Buthan (33°).

I numeri della persecuzione

Sono stati 3.066 i martiri cristiani accertati nel 2017, di cui 2.000 solo in Nigeria del Nord, regione interessata dall’estremismo islamico. Oltre 215 milioni sono i cristiani perseguitati nel mondo (1 ogni 12) secondo la Wwlist. Almeno 15.540 attacchi sono avvenuti ai danni di chiese, case e negozi di cristiani: bruciati, saccheggiati o totalmente distrutti. Impressionante è il fenomeno dei matrimoni forzati, particolarmente forte in Pakistan: almeno 1.240 giovani donne cristiane sono state rapite e forzate a sposare uno sconosciuto. Oltre 1.000 sono stati i rapimenti a fine di abuso e violenza carnale. Tutto ciò prefigura chiaramente quella che viene definita la doppia vulnerabilità delle donne cristiane in questi contesti: perseguitate in quanto cristiane e in quanto donne.

Questi dati sono solo la punta dell’iceberg, poiché il sommerso, il non denunciato, è potenzialmente enorme (basti pensare anche solo all’impossibilità, in alcuni contesti, di denunciare un crimine o un abuso a causa della connivenza delle autorità locali).

L’India: la grande democrazia

Vale la pena soffermarsi sul caso dell’India, salita addirittura all’11° posto della Wwlist, con un grado di persecuzione definibile estremo. Il partito Bjp (Bharatiya Janata Party) al governo con il primo ministro Modi, ha una chiara agenda volta a induizzare il paese, facendo forte leva su un nazionalismo religioso che inevitabilmente crea intolleranza nei confronti dei non induisti e decreta un’emarginazione dei cristiani. I fatti dicono che il numero di attacchi contro comunità cristiane (che a volte hanno provocato anche morti) è cresciuto esponenzialmente negli ultimi anni.

L’India, quella che gli europei conoscono come una grande e pacifica democrazia, non esiste più da tempo, e i primi a pagarne il prezzo sono proprio i cristiani.

Quando nei consessi internazionali si addebitano alle autorità indiane violazioni dei diritti fondamentali dei cristiani, esse rispediscono aspramente le accuse al mittente senza alcuna spiegazione.

Una fede pericolosa

È dunque la fede cristiana una fede pericolosa?

Ebbene sì, in molti paesi e per oltre 215 milioni di uomini e donne. Esattamente come era pericoloso essere cristiani ai tempi della chiesa primitiva, quella degli Atti degli apostoli, là dove la fede cristiana ebbe inizio.

Cristian Nani
direttore di Porte Aperte Onlus

Note:

1- Il 23 maggio 2017, Marawi (città di circa 200mila abitanti, capoluogo della provincia di Lanao del Sur, isola di Mindanao) è stata occupata dai jihadisti del gruppo Maute (un clan familiare locale che ha giurato fedeltà allo Stato Islamico) con l’appoggio del gruppo radicale filippino Abu Sayyaf. Lo scopo era quello di creare una sorta di califfato fedele ai principi dell’Isis.

L’esercito regolare di Manila ha messo sotto assedio la città con oltre 7mila militari e bombardamenti aerei. Dopo 148 giorni, a ottobre, i jihadisti sono stati sconfitti. Secondo l’agenzia Fides: «Sono oltre 1.000 le vittime del conflitto: 163 soldati, 822 militanti e 47 civili». Secondo l’Ocha, delle 350mila persone fuggite dall’area durante il conflitto, molte devono ancora rientrare.


Le fonti della persecuzione

  1. Oppressione islamica: l’obiettivo è portare il paese o il mondo sotto la «Casa dell’islam» attraverso azioni violente o meno, che colpiscono i cristiani in modo particolare. Esempi: Pakistan, Iran, Arabia Saudita.
  2. Nazionalismo religioso: lo scopo è imporre la propria religione come elemento caratterizzante della propria nazione (principalmente induismo e buddismo, ma anche altre religioni). Esempi: India, Nepal o Sri Lanka.
  3. Antagonismo etnico: cerca di introdurre con forza l’influenza di norme antiche e tradizioni in un contesto tribale. Spesso si presenta sotto forma di religione tradizionale che si oppone alla presenza di cristiani nella società. Esempi: Yemen, Somalia o Afghanistan.
  4. Protezionismo denominazionale: cerca di mantenere la propria denominazione cristiana come unica espressione legittima o dominante del cristianesimo nel paese e quindi vessa qualsiasi altra denominazione. Esempio: Etiopia.
  5. Oppressione comunista e postcomunista: cerca di mantenere il comunismo come ideologia prescrittiva e/o controlla la chiesa attraverso un sistema di registrazione e di sorveglianza. Esempi: Corea del Nord, Laos o Vietnam.
  6. Intolleranza secolare: ha lo scopo di sradicare la religione dal dominio pubblico e, se possibile, anche dal cuore delle persone, e impone una forma di laicità atea come una nuova ideologia di governo. Esempi: si tratta di una tendenza che diffonde un sentimento anticristiano, ad esempio quando i cristiani difendono principi morali collegati alla propria fede (famiglia e matrimonio tradizionale, ecc.).
  7. Paranoia dittatoriale: siamo di fronte a un dittatore che fa di tutto per mantenere il potere e reprime con forza qualsiasi cosa sembri una minaccia. Esempi: Eritrea, Corea del Nord.
  8. Corruzione e crimine organizzati: l’obiettivo è creare un clima di impunità, anarchia e corruzione al fine di arricchirsi. Esempi: Messico, Colombia.

C.N.


Porte Aperte/Open Doors

Porte Aperte/Open Doors è un’agenzia missionaria attiva da oltre 60 anni nel campo del sostegno ai cristiani perseguitati di ogni denominazione. Nasce dalla visione di un missionario, conosciuto come Fratello Andrea, «Il contrabbandiere di Dio» (dal titolo del best seller che racconta la sua storia).

L’opera missionaria, iniziata nel 1955 portando Bibbie oltre la cortina di ferro, oggi è diventata un’organizzazione attiva e strutturata in oltre 80 paesi. Conosciuta negli ultimi anni soprattutto per il report sulla persecuzione anticristiana nel mondo (World Watch List), oggi opera attraverso molti progetti che spaziano dagli aiuti umanitari di prima necessità al sostegno spirituale e psicologico alle vittime, dalla fornitura di materiale formativo cristiano alla costruzione di infrastrutture utili alle comunità locali. Inoltre opera nei paesi liberi affinché si diffonda nell’opinione pubblica internazionale una sempre maggiore consapevolezza sulla condizione dei cristiani in queste nazioni.

Porte Aperte Onlus
CP 114 – 35057 San Giovanni Lupatoto (VR)
www.porteaperteitalia.orgsito internaz.: www.opendoors.org

 




GHOUTA, SIRIA: CHIAMIAMO LE COSE CON IL LORO NOME. QUESTO E’ L’INIZIO DELLA PACE.

Lettera delle Sorelle Trappiste in Siria |


Quando taceranno le armi? E quando tacerà tanto giornalismo di parte ?

Lettera pubblicata su Avvenire
su CIVG (Centro di Iniziative per la Verità e la Giustizia)
e su Ora Pro Siria

Noi che in Siria ci viviamo, siamo davvero stanchi, nauseati da questa indignazione generale che si leva a bacchetta per condannare chi difende la propria vita e la propria terra.

Più volte in questi mesi siamo andati a Damasco; siamo andati dopo che le bombe dei ribelli avevano fatto strage in una scuola, eravamo lì anche pochi giorni fa, il giorno dopo che erano caduti, lanciati dal Ghouta, 90 missili sulla parte governativa della città. Abbiamo ascoltato i racconti dei bambini , la paura di uscire di casa e andare a scuola, il terrore di dover vedere ancora i loro compagni di classe saltare per aria, o saltare loro stessi, bambini che non riescono a dormire la notte, per la paura che un missile arrivi sul loro tetto. Paura, lacrime, sangue, morte. Non sono anche questi bambini degni della nostra attenzione?

Perché l’opinione pubblica non ha battuto ciglio, perché nessuno si è indignato, perché non sono stati lanciati appelli umanitari o altro per questi innocenti? E perché solo e soltanto quando il Governo siriano interviene, suscitando gratitudine nei cittadini siriani che si sentono difesi da tanto orrore (come abbiamo constatato e ci raccontano), ci si indigna per la ferocia della guerra?

Certo, anche quando l’esercito siriano bombarda ci sono donne, bambini, civili, feriti o morti. E anche per loro preghiamo. Non solo i civili: preghiamo anche per i jihadisti, perché ogni uomo che sceglie il male è un figlio perduto, è un mistero nascosto nel cuore di Dio. Ed è a Dio che si deve lasciare il giudizio, Lui che non vuole la morte del peccatore, ma che si converta e viva.

Ma questo non significa che non si debbano chiamare le cose con il loro nome. E non si può confondere chi attacca con chi si difende.

A Damasco, è dalla zona del Ghouta che sono cominciati gli attacchi verso i civili che abitano nella parte controllata dal governo, e non viceversa. Lo stesso Ghouta dove – occorre ricordarlo ? – i civili che non appoggiavano i jihadisti sono stati messi in gabbie di ferro: uomini, donne, esposti all’aperto e usati come scudi umani. Ghouta: il quartiere dove oggi i civili che vogliono scappare, e rifugiarsi nella parte governativa, approfittando dalla tregua concessa, sono presi di mira dai cecchini dei ribelli…

Perché questa cecità dell’Occidente? Come è possibile che chi informa, anche in ambito ecclesiale, sia così unilaterale?

La guerra è brutta, oh sì, sì se è brutta! Non venitelo a raccontare ai siriani, che da sette anni se la sono vista portare in casa… Ma non si può scandalizzarsi per la brutalità della guerra e tacere su chi la guerra l’ha voluta e la vuole ancora oggi, sui Governi che hanno riversato in Siria in questi anni le loro armi sempre più potenti, le loro intelligence… per non parlare dei mercenari lasciati deliberatamente entrare in Siria facendoli passare dai Paesi confinanti (tanti che poi sono diventati Isis, va ricordato all’Occidente, che almeno questa sigla sa cosa significa). Tacere sui Governi che da questa guerra hanno guadagnato e guadagnano. Basta vedere che fine hanno fatto i più importanti pozzi petroliferi siriani. Ma questo è solo un dettaglio, c’è molto più importante in gioco.

La guerra è brutta. Ma non siamo ancora arrivati alla meta, là dove il lupo e l’agnello dimoreranno insieme, e per chi è credente bisogna ricordare che la Chiesa non condanna la legittima difesa; e se anche non si augura certamente il ricorso alle armi e alla guerra, la fede non condanna chi difende la propria patria, la propria famiglia, neppure la propria vita. Si può scegliere la non-violenza, fino a morirne. Ma è una scelta personale, che può mettere in gioco solo la vita di chi lo sceglie, non si può certo chiederlo ad una nazione intera, a un intero popolo.

Nessun uomo che abbia un minimo di umanità vera, può augurarsi la guerra. Ma oggi dire alla Siria, al governo siriano, di non difendere la sua nazione è contro ogni giustizia : troppo spesso è solo un modo per facilitare il compito di quanti vogliono depredare il Paese, fare strage del suo popolo, come accaduto in questi lunghi anni nei quali le tregue sono servite soprattutto per riarmare i ribelli, e i corridoi umanitari per far entrare nuove armi e nuovi mercenari.. e come non ricordare quali atrocità sono accadute in questi anni nelle zone controllate dai jihadisti? Violenze, esecuzioni sommarie, stupri… i racconti rilasciati da chi alla fine è riuscito a scappare ?

In queste settimane ci hanno fatto leggere un articolo veramente incredibile: tante parole per far passare in fondo una sola tesi, e cioè che tutte le Chiese di Oriente sono solo serve del potere…per convenienza… Qualche bella frase ad effetto, tipo la riverenza di Vescovi e Cristiani verso il Satrapo Siriano…un modo per delegittimare qualunque appello della Chiesa siriana che faccia intravedere l’altro lato della medaglia, quella di cui non si parla.

Aldilà di ogni inutile difesa e polemica, facciamo un ragionamento semplice, a partire da una considerazione. E cioè che Cristo – che conosce bene il cuore dell’uomo, e cioè sa che il bene e il male coabitano in ciascuno di noi, vuole che i suoi siano lievito nella pasta, cioè quella presenza che a poco a poco, dall’interno, fa crescere una situazione e la orienta verso la verità e il bene. La sostiene dove è da sostenere, la cambia dove è da cambiare. Con coraggio, senza doppiezze, ma dall’interno. Gesù non ha assecondato i figli del tuono, che invocavano un fuoco di punizione .

Certo che la corruzione c’è nella politica siriana (come in tutti i Paesi del mondo) e c’è il peccato nella Chiesa (come in tutte le Chiese, come tante volte il Papa ha lamentato)

Ma, appellandoci al buon senso di tutti, anche non credenti : qual è l’alternativa reale che l’Occidente invoca per la Siria? Lo Stato islamico, la sharia? Questo in nome della libertà e la democrazia del popolo siriano? Ma non fateci ridere, anzi, non fateci piangere…

Ma se pensate che in ogni caso non sia mai lecito scendere a compromessi, allora per coerenza vi ricordiamo, solo per fare un piccolo esempio, che non potreste fare benzina ‘senza compromessi coi poteri forti’, dato che la maggior parte delle compagnie ha comprato petrolio a basso costo dall’Isis, attraverso il ponte della Turchia: così quando percorrete qualche chilometro in auto, lo fate anche grazie alla morte di qualcuno a cui questo petrolio è stato rubato, consumando il gasolio che doveva scaldare la casa di qualche bambino in Siria..

Se proprio volete portare la democrazia nel mondo, assicuratevi della vostra libertà dalle satrapie dell’Occidente, e preoccupatevi della vostra coerenza, prima di intervenire su quella degli altri..

Non ultimo, non si può non dire che dovrebbe suscitare almeno qualche sospetto il fatto che se un cristiano o un musulmano denuncia le atrocità dei gruppi jihadisti è fatto passare sotto silenzio, non trova che una rara eco mediatica, per rivoli marginali, mentre chi critica il governo siriano guadagna le prime pagine dei grandi media.. Qualcuno ricorda forse l’intervista o un intervento di un Vescovo siriano su qualche giornale importante dell’Occidente? Si può non essere d’accordo, evidentemente, ma una vera informazione suppone differenti punti di vista.

Del resto, chi parla di una interessata riverenza della Chiesa siriana verso il presidente Assad come di una difesa degli interessi miopi dei cristiani, dimostra di non conoscere la Siria, perché in questa terra cristiani e musulmani vivono insieme. E’ stata solo questa guerra a ferire in molte parti la convivenza, ma nelle zone messe in sicurezza dall’esercito ( a differenza di quelle controllate dagli ‘altri’) si vive ancora insieme. Con profonde ferite da ricucire, oggi purtroppo anche con molta fatica a perdonare, ma comunque insieme. E il bene è il bene per tutti: ne sono testimonianza le tante opere di carità, soccorso, sviluppo gestite da cristiani e musulmani insieme.

Certo, questo lo sa chi qui ci vive, pur in mezzo a tante contraddizioni, non chi scrive da dietro una scrivania, con tanti stereotipi di opposizione tra cristiani e musulmani.

“Liberaci Signore dalla guerra…e liberaci dalla mala stampa…”.

Con tutto il rispetto per i giornalisti che cercano davvero di comprendere le situazioni, ed informarci veramente. Ma non saranno certo loro ad aversene a male per quanto scriviamo…

Le sorelle Trappiste in Siria  – marzo 2018

Chi sono Le Monache Trappiste in Siria?

Da “Più forti dell’odio Visita alle monache trappiste in Siria”

“Da Tibhirine ad ‘Azeir. Dall’Algeria, passando per la Toscana alla Siria. Questo è l’itinerario che ha portato nel 2005 alcune trappiste dal Monastero di Valserena vicino Cecina a scegliere la Siria, una delle culle del monachesimo antico, per fondarvi un monastero di vita contemplativa. Nel 1996 c’era stato l’eccidio dei sette monaci trappisti a Tibhirine in Algeria, un fatto tragico verso religiosi innocenti che aveva colpito l’opinione pubblica mondiale. L’ordine cistercense nonostante l’efferatezza del delitto volle continuare l’esperienza in terra islamica e custodire l’eredità spirituale dei sette monaci. L’appello fu accolto dalle trappiste di Valserena, una comunità che avevo conosciuto e frequentato durante gli anni del Seminario e dove feci gli Esercizi spirituali prima della mia ordinazione sacerdotale nel giugno del 1984. Le monache, dopo una prima esperienza ad Aleppo scelsero di installarsi nel villaggio maronita di ‘Azeir fra Homs e Tartous al confine settentrionale tra Siria e Libano. Fino al marzo 2009, la Siria era stata una nazione fiorente e pacifica dove anche le varie componenti religiose convivevano tranquillamente. Anzi, negli anni terribili della guerra e dei massacri le differenze religiose non sono state mai un problema. In questa regione ci sono, uno accanto all’altro, villaggi cattolici maroniti, armeni, greco ortodossi, greco cattolici e villaggi mussulmani, sunniti e alawiti: la convivenza tra islamici e cristiani delle varie confessioni era normale, fatta di rispetto e dialogo sincero. Il regime di Assad aveva le sue rigidità e i suoi limiti, racconta madre Marta la priora, ma grazie ad esso era possibile tale convivenza e si viveva tranquillamente.”

don Sandro Lusini

Per saperne di più sulle suore leggi anche l’articolo di Rodolfo Casadei, Un giorno nel monastero delle suore trappiste italiane in Siria.