Criptovalute, il denaro invisibile


Create dai computer, circolanti soltanto via internet, figlie della tecnologia: sono le criptovalute (Bitcoin, Ethereum, Litecoin, ecc.), la nuova forma del denaro. Un denaro elettronico che circola senza intermediazione bancaria, ma che non si salva né dall’economia illegale né dalla speculazione.

La moneta vive tra noi. La vediamo sotto forma di banconote, assegni, carte di credito o di metallo. Eppure, tutto ciò che la riguarda ci appare complesso. Non capiamo bene come funzioni, come sia governata, come si intrecci con i prezzi, col debito pubblico, come si rapporti con l’estero. Oggi, inoltre, sta emergendo un ulteriore elemento di complicazione perché stanno comparendo nuove monete che non hanno né forma, né colore. Monete invisibili create dai computer e circolanti solo via internet sotto forma di codici. Monete difficili da capire concettualmente e ancora più difficili da capire nel loro funzionamento perché figlie di una tecnologia conosciuta nei dettagli solo dagli esperti.

Detto questo, poiché sono entrate nel sistema, dobbiamo fare uno sforzo per capire di cosa si tratti: vantaggi, limiti, rischi.

Le monete alternative

Il computer come mezzo di pagamento non è una novità dell’ultima ora. Gli acquisti online si fanno da anni. Il 20% di tutti gli acquisti al dettaglio effettuati nel mondo avvengono via computer. Una valanga di ordini che richiedono pagamenti per via informatica. Ma quando facciamo un pagamento online, usiamo la stessa moneta di  quando entriamo in un qualsiasi negozio. Nel nostro caso, l’euro. Paghiamo in euro anche se usiamo una carta di credito. Semplicemente autorizziamo che una certa somma sia prelevata da un nostro conto bancario e sia trasferita sul conto di altri. La tecnologia utilizzata non è eccessiva ed è finalizzata soprattutto alla sicurezza. Ma il trasferimento non potrebbe avvenire senza l’intermediazione di uno o più soggetti finanziari. Ed è proprio questa particolarità che ha spinto alla creazione della moneta elettronica.

Convinti che la moneta non possa essere considerata una merce su cui lucrare, ma un bene comune da mettere al servizio di tutti secondo una logica di gestione democratica, alcuni informatici hanno cominciato a ragionare sulla creazione di una moneta informatica sottratta al controllo delle banche e di qualsiasi altro potere finanziario. Una moneta creata dal basso, liberamente circolante fra chi compra e chi vende, senza bisogno di alcun tipo di intermediario, né obbligo di pagare commissioni a chi che sia.

Argomentazioni non nuove: su queste stesse motivazioni in varie parti del mondo sono state lanciate delle monete complementari. Monete, cioè, create per iniziativa popolare e circolanti all’interno di piccoli territori con lo scopo di rafforzare i piccoli produttori e favorire gli scambi locali senza bisogno di ottenere denaro prestato dalle banche. In fondo, il compito della moneta è permettere gli scambi e allora perché non crearsela da soli senza doverla chiedere a chi è disposto a darla solo come prestito e solo in cambio di un prezzo? Di monete complementari ne esistono in vari paesi europei come testimonia il Wir in Svizzera, il Brixton Pound in Inghilterra, il Chiemgauer in Germania. Anche in Italia abbiamo esperienze di strumenti di scambio creati dal basso, ma per le loro caratteristiche assomigliano più a buoni sconto, a facilitatori di scambi di servizi interpersonali, a forme di prefinanziamento, piuttosto che a vere monete.

Al di là delle diversità, le monete complementari hanno in comune di essere concrete e di dimensione locale. Le monete elettroniche, invece, sono globali, non si materializzano mai sotto forma di carta e hanno bisogno di una tecnologia complessa per fare avvenire il cambio di mano in maniera sicura.

La (misteriosa) nascita del bitcoin

Il primo a proporre la creazione di una moneta elettronica per sottrarre i pagamenti online dall’egemonia delle banche fu un tale Satoshi Nakamoto, che però nessuno ha mai identificato, lasciandoci credere che si tratti dello pseudonimo di un esperto di reti informatiche allergico alle concentrazioni di potere. Non a caso la sua proposta venne formulata nel 2008, quando l’intero sistema finanziario e bancario occidentale stava mostrando il peggio di sé. Il fallimento della Lehman Brothers aveva fatto venire a galla tutto il marcio esistente nel sistema finanziario, facendoci capire quanto sia opaco, truffaldino, rapace, disposto a mettere a rischio la sicurezza dei risparmiatori, la tenuta finanziaria dei governi, addirittura la stabilità dell’economia mondiale, pur di poter arraffare nell’immediato qualche profitto in più. Per cui la proposta di moneta elettronica formulata da Satoshi suonò come una chiamata alle armi, una sorta di ristabilimento della democrazia economica, di cui solo la rete poteva essere capace.

Satoshi chiamò la sua moneta bitcoin, dove «bit» rappresenta l’unità di misura elettronica e «coin» sta per moneta in lingua inglese. Ma il nome era il problema minore. Il problema vero era come farla funzionare sapendo che l’ingrediente base di ogni moneta è la fiducia. In fondo, è la consapevolezza che tutti l’accettano come mezzo di scambio a farcela usare. Se questa certezza viene meno non la vogliamo più. Satoshi sapeva che, per guadagnarsi fiducia, il bitcoin aveva bisogno di due condizioni: essere a prova di truffa ed essere protetto dal rischio di emissione incontrollata. L’abilità di Satoshi fu di individuare una tecnologia che con un colpo solo risolveva ambedue i problemi, pur in assenza di una qualsiasi autorità di controllo.

Da un punto di vista della sicurezza, i due rischi principali che si possono correre quando si usa la moneta elettronica è di essere derubati dei propri bitcoin e di essere pagati con bitcoin fasulli, con monete, cioè, già state utilizzate per altri pagamenti. Per evitare i due rischi, Satoshi propose due strade. Da una parte un meccanismo di possesso che lega i bitcoin ai loro proprietari tramite sistemi cifrati, così detti di criptografia, da cui il termine monete criptate o criptovalute.

Dall’altra propose un sistema di validazione delle transazioni, noto come blockchain, basato sull’assegnazione di particolari numeri identificativi sottoposti al controllo di tutta la rete. Le transazioni vengono sigillate solo dopo aver verificato che nessun punto della rete segnala l’esistenza di doppioni o altri tipi di anomalie. In altre parole, Satoshi propose di sostituire l’attività di garanzia offerta dagli intermediari finanziari con un sistema di controllo collettivo.

I costi energetici dei «minatori»

Le operazioni di validazione e chiusura sono molto laboriose e, oltre a richiedere macchine potenti e programmi sofisticati, assorbono anche molta energia. Condizioni gravose che avrebbero potuto creare il rischio di non trovare nessun candidato disposto ad accollarsi questo tipo di compito. Per aggirare l’ostacolo Satoschi propose che le chiusure delle transazioni dessero luogo all’emissione di nuovi bitcoin incassati da chi aveva svolto il lavoro. In conclusione, escogitò una chiusura del cerchio che concentra negli stessi soggetti la funzione di garanzia rispetto al corretto funzionamento del sistema e la funzione di emissione di bitcoin. Beninteso non in quantità illimitata, ma entro limiti prestabiliti da appositi modelli matematici. La previsione è che, fino al 2040, i bitcoin in circolazione non possano eccedere i 21 milioni di unità. Si stima che l’80% di essi siano già stati emessi.

A Satoshi, gli attori informatici che lavorano in rete con lo scopo di procurarsi bitcoin, apparvero come dei cercatori d’oro e li chiamò minatori. Si stima che, a livello mondiale, i minatori di bitcoin siano attorno al milione, sparsi un po’ ovunque. Alcuni di dimensione artigianale, attrezzati solo di pochi computer amatoriali, altri di dimensione industriale dotati di apparecchiature imponenti. E poiché si tratta di un’attività altamente energivora, chi decide di svolgerla in maniera industriale cerca di collocare le proprie macchine in paesi con bassi costi energetici.

«Minatori» dal Kazakistan al Trentino

Per un certo periodo molti avevano prediletto la Cina, ma poi sono stati cacciati dal governo di Pechino perché assorbivano una tale quantità di energia elettrica, da creare scompensi. C’è stato, quindi, un esodo in massa verso il Kazakistan il cui governo si era dichiarato disposto ad accoglierli a braccia aperte. Ma anche qui si è assistito ad una tale crescita dei consumi energetici da fare salire i loro prezzi alle stelle, tanto da fare imbestialire gli abitanti del paese che, nel gennaio 2022, hanno organizzato varie sommosse. Di minatori di bitcoin ce ne sono anche in Italia ed è curioso che, tra essi, compaia anche il comune di un paesino della trentina Val di Non, Borgo d’Anaunia*, che ha deciso di utilizzare parte dell’energia prodotta dalla propria centrale idroelettrica per alimentare un centro di calcolo dedicato alla creazione di bitcoin. Quale vantaggio riuscirà a procurare alle casse comunali è tutto da scoprire, mentre è certo che servirà un esborso di 130mila euro per acquistare i computer di calcolo.

Si narra che i primi bitcoin siano stati minati da Satoshi nel 2009 quando sigillò il primo block chain passato alla storia come block genesis. E il primo acquisto in bitcoin di cui si ha notizia risale al 22 maggio 2010 allorché vennero pagati 10mila bitcoin per due pizze che costavano 41 dollari. Nei dieci anni successivi il valore del bitcoin è cresciuto milioni di volte, per cui è diventato più attraente come prodotto d’investimento che come mezzo di pagamento. Non così per chi opera nell’illegalità a cui fa molto comodo poter trasferire denaro rimanendo nell’ombra. Per trafficanti d’armi, di droga, d’organi di esseri umani, ma anche per evasori fiscali interessati a trasferire i propri capitali nei paradisi fiscali, la possibilità di pagare in bitcoin o altre criptovalute è una vera benedizione perché garantisce l’anonimato. Secondo la società informatica Chainalysis, nel 2021 il volume di pagamenti effettuati in criptomonete, da parte dell’economia criminale, è stata pari a 14 miliardi di dollari. Un ammontare che però rappresenta appena lo 0,6% del volume complessivo di transazioni in criptovalute stimato in 15mila miliardi di dollari, molti dei quali scambiati solo per fini speculativi.

Andamento dei mercati. Foto Sergei Tokmakov – Pixabay.

La speculazione non muore mai

È proprio la speculazione la degenerazione più beffarda inflitta ai bitcoin: uno strumento pensato per contrastare l’invadenza della finanza ha finito per rafforzarla.

Speculare significa cercare di guadagnare sulle variazioni di prezzo. Un’operazione che riesce particolarmente bene quando sussistono due condizioni: scarsità del bene trattato e alta richiesta. Due caratteristiche possedute dai bitcoin che, essendo a emissione limitata, sono particolarmente ricercati come lo sono i francobolli rari o i pezzi d’arte di un grande artista. Fatto sta che, mentre nel 2009 un bitcoin valeva qualche millesimo di dollaro, a inizio 2022 era pagato 50mila dollari, nel novembre 2021 addirittura 67.500 dollari. Per la gioia di minatori, di broker e vari altri intermediari finanziari.

Quando un bene o un titolo sale di prezzo fa drizzare le orecchie non solo agli speculatori, ma anche ai normali risparmiatori alla ricerca di investimenti capaci di assicurare stabilità di valore nel tempo, meglio ancora una sua crescita. Così i bitcoin hanno finito per essere anche una forma di tesaurizzazione, un bene rifugio in cui investire per mettere il proprio denaro al riparo da svalutazioni. Lo stesso intento perseguito quando si compra dell’oro, delle opere d’arte o altri preziosi. Il che ha stimolato l’industria della finanza a emettere nuovi prodotti finanziari che, pur essendo annoverati fra le criptovalute, sono concepiti più come proposte di investimento che come monete di scambio. Alcuni esempi sono Etherum, Bne, Tether, Solana, beni non fungibili (in inglese, Non fungible tokens – Nft) che consentono a chi li emette di venderli in cambio di denaro di tipo tradizionale (dollari, euro, yen) e a chi li acquista di aggiudicarsi prodotti che il mercato dovrebbe far crescere di valore. Ma il mercato è bizzarro e, con la stessa facilità con cui può spingere i prezzi alle stelle, può riportarli alle stalle. Prova ne sia che, a inizio maggio, le monete elettroniche avevano perso metà del loro valore rispetto al novembre precedente. Il che dimostra quanto sia labile la linea di confine tra investimento e scommessa.

Accade in Salvador

In ogni caso, va aggiunto che ora anche gli stati stanno guardando con interesse alle criptomonete. Valga come esempio il Salvador che, nel settembre 2021, ha dato riconoscimento ufficiale ai bitcoin, mentre le banche centrali di molti paesi stanno pensando di creare la propria moneta elettronica. Segnali di come le criptomonete siano destinate a fare ancora parlare di sé e a imporsi sempre di più nelle nostre vite future.

Francesco Gesualdi

(*) Sempre nel piccolo Trentino, si possono trovare società di criptovalute: alpsblockchain.com (Trento), comproeuro.it (Rovereto).