È nato un bambino. Aiutiamolo a crescere


Quest’anno a Natale vi proponiamo di iniziare a seguire insieme a noi un bambino durante i suoi primi anni di vita. E di aiutarci a farlo nascere e crescere garantendogli sanità e istruzione.

Mi chiamo Emmanuel, sono nato il 25 dicembre del 2009. Abito in una casa sotto un grande albero di mango. Ma se volete venire a trovarmi questo non vi sarà di grande aiuto per farvi arrivare a casa mia: ci sono almeno dieci case, nel mio villaggio, che stanno sotto un grande albero di mango. Dovete chiedere di Emmanuel il figlio di Marie, quella che fa la cuoca nell’asilo dei missionari.

Dice mamma che quando sono nato l’asilo era chiuso per le vacanze e lei era ad aiutare papà nel campo di manioca. Ha sentito che stavo arrivando, allora papà l’ha fatta sedere sul portapacchi della bici e ha pedalato fino al posto dove nascono i bambini. È una casetta di mattoni, più grande della nostra e si chiama dispensario. Dentro ci sono due persone vestite di bianco: una è un infermiere, poi c’è una signora che aiuta le mamme a far nascere i bambini.

Queste cose non le so perché me le ricordo, ero troppo piccolo. Le so perché adesso mamma aspetta la mia sorellina e ogni tanto io e mio fratello piccolo la accompagniamo al dispensario. Dice mamma che deve andarci per fare la visita: vuol dire che quelle persone vestite di bianco le guardano la pancia, ascoltano il suo cuore e il suo respiro. Una volta lei aveva la febbre: le hanno punto un dito con un ago e le hanno preso una goccia di sangue. Le hanno detto che aveva la malaria, poi le hanno dato delle medicine e una zanzariera nuova: la nostra aveva troppi buchi e la mamma si era ammalata per quello.

Per mia sorella che sta per nascere siamo stati al dispensario già tre volte, ma dice mamma che quando aspettava mia sorella maggiore non ci andava mai: il dispensario non c’era ancora e mamma ha fatto tutto da sola. Beh, non proprio da sola: c’era una signora del villaggio che aiutava le mamme. C’è ancora, abita nella casa vicino alla strada grande, adesso è un po’ vecchia ma aiuta ancora i bambini a nascere. Però non tutti, dice mamma, più o meno uno sì e uno no@.

Poi i missionari, quelli dell’asilo dove lavora mamma, hanno aperto il dispensario. Ora molte mamme vanno a fare la visita, ma non sempre. Ad esempio, fra le nostre vicine di casa quattro aspettano un bambino. Una viene sempre con noi alla visita, due sono andate una volta sola. La quarta, invece, non ci va mai@.

Mamma ha provato a convincerla, ma lei niente: dice che suo marito non vuole, che ha bisogno nei campi, e poi lui non si fida di quelle persone vestite di bianco. Secondo me fa male a non fidarsi di loro: sono gentili, spesso ascoltano anche il mio cuore e il mio respiro. Poi mettono mio fratello dentro una specie di scatola di legno e gli avvolgono un braccialetto intorno a un braccio, scrivono dei numeri su un quaderno e a volte danno a mamma un sacchetto con dentro delle cose per lui.

Un giorno ho visto un bambino piccolissimo, con i capelli strani, un po’ gialli. Era con sua sorella più grande, non so dove fosse la sua mamma. Hanno messo pure lui nella scatola di legno, gli hanno avvolto il braccialetto intorno al braccio e lo hanno anche infilato con le gambe penzoloni in una specie di sacco bucato: era per pesarlo, ha detto l’infermiere. A sua sorella hanno dato un sacchetto molto più grande di quello che hanno dato a noi e l’infermiere ha parlato con lei per tanto tempo. Dice mamma che adesso quel bambino devono curarlo bene e che deve mangiare delle cose per non essere più così piccolo e per non avere più i capelli gialli.

Di bambini così all’asilo dove lavora mamma non ce ne sono: secondo me è perché lei è la cuoca più brava di tutte. Le cose che prepara fanno diventare grandi i bambini e non fanno venire i capelli gialli. Lo so, perché all’asilo sono andato anche io e ora ci va mio fratello. Adesso ha lui la mia tazza rossa, quella che usavo per bere, e ha anche il mio piatto verde, dove le maestre mi mettevano la pappetta e le altre cose da mangiare. È giusto così, la pappetta è per i bimbi piccoli, io ormai sono grande e non posso più andare all’asilo. Anche se mi piacevano le cose che facevo lì, specialmente disegnare e cantare insieme agli altri.

All’asilo ho anche imparato a contare, ma non so ancora contare tutto: una volta ho provato a contare quanti passi ci sono per andare alla mia scuola, ma sono molti più di venti! Mia sorella grande andava nella mia stessa scuola che sta in un villaggio più grosso. Lei dice che doveva camminare mezz’ora, ma io non so quanti passi sono mezz’ora.

Alla mattina io cammino fino alla scuola con due bambine e altri due bambini del mio villaggio. È bello perché mentre camminiamo ci facciamo degli scherzi e un po’ ci fermiamo a giocare. Per un po’ di tempo Irene, una delle due bambine, non è più venuta a scuola con noi. Dicono gli altri che la sua mamma è stata male di nuovo e che lei ha dovuto stare a casa per aiutarla a guardare i fratelli più piccoli. Il loro papà non c’è mai, guida un camion ed è sempre in viaggio@  e la mamma deve fare tutto da sola. Anche l’anno scorso sua mamma si era ammalata e ci è mancato poco che la mia amica perdesse l’anno.

Ora è tornata e io sono contento, perché è quella che mi sta più simpatica e anche perché è la più brava della classe. Dice mamma che tutti i bambini devono andare a scuola ma che per le bambine è tutto molto più difficile. Però da quest’anno lei ha un amico nuovo, un bambino che abita in un paese lontano, il paese – dice papà – da cui arriva quel missionario che viene spesso a trovarci in classe e si ferma a parlare con le maestre. Questo bambino e i suoi genitori ora regaleranno a Irene, e a tutti i bambini come lei, i quaderni, i libri, le matite, il grembiule e tante altre cose che servono per la scuola. Così la sua mamma potrà riposarsi un po’ di più e non si ammalerà tutti gli anni e Irene non dovrà più smettere di venire a scuola per aiutarla.

Una volta Irene mi ha detto che lei da grande vuole essere come la signora del dispensario che fa nascere i bambini e che io potrei diventare come l’infermiere. Mi sembra una buona idea, così potremo continuare a farci gli scherzi e fermarci a giocare, la mattina, mentre camminiamo insieme per andare al dispensario.

Emmanuel

Emmanuel è un bambino come tanti, anzi, è tanti bambini in uno. La sua storia è ispirata alle migliaia di storie che abbiamo ascoltato nei dispensari, nelle maternità, nei centri nutrizionali, negli asili e nelle scuole primarie che i nostri missionari gestiscono nel mondo. Abbiamo collocato il nostro piccolo narratore in un villaggio rurale africano, ma molte delle situazioni che vive sono condivise dai suoi coetanei nelle immense periferie delle grandi città o nelle terre di popoli indigeni o nelle zone aride dell’America Latina, e simili anche a quelle di altri popoli che vivono di pastorizia, come in Mongolia.

Quello che Emmanuel non ci ha raccontato – perché nessun bambino dovrebbe poter raccontare una cosa del genere – è che nei paesi meno sviluppati su mille bambini nati vivi quattro donne muoiono ancora per cause legate alla gravidanza (nell’area euro ne muoiono sei ogni centomila)@, mentre sessantotto bambini su mille non arrivano a compiere cinque anni. Settantotto, considerando la sola Africa subsahariana. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, tredici su cento di queste morti sono causate dalla polmonite, nove dalla diarrea, sei da ferite varie e cinque dalla malaria.

Secondo i dati Unicef@ «tra il 1990 e il 2015, la malnutrizione cronica è calata da 255 milioni a 156 milioni di bambini, è però aumentata in Africa Occidentale e Centrale, passando da 19,9 milioni a 28,3 milioni.

Nel 2015, oltre 50 milioni di bambini sotto i 5 anni sono risultati affetti da malnutrizione acuta, di cui 17 milioni da malnutrizione acuta grave: la metà dei bambini vivevano in Asia meridionale ed un quarto in Africa subsahariana». Nello stesso anno «circa 92 milioni di bambini sotto i 5 anni risultavano sottopeso».

Nei paesi meno sviluppati solo un bambino su cinque va all’asilo. Eppure, sempre più studi confermano che i bambini che hanno ricevuto un’istruzione preprimaria ottengono migliori risultati negli studi successivi e sono più al riparo dal rischio di essere malnutriti grazie al sostegno nutrizionale che ricevono alla scuola materna. Dei bambini in età da scuola primaria, uno su cinque non è in classe@: si tratta di oltre sessanta milioni di bambini, di cui più della metà in Africa.

Chiara Giovetti




Come sta la sanità in Costa d’Avorio


Fra riforme che si concretizzano solo molto lentamente, cronica mancanza di risorse e diffusione di farmaci contraffatti, la Costa d’Avorio sta faticosamente cercando di darsi un sistema sanitario adeguato.

Dal 2014 in Costa d’Avorio la copertura sanitaria universale è legge. Il provvedimento, in francese Couverture maladie universelle (Cmu), è stato fortemente voluto dal presidente Alassane Dramane Ouattara, che ne ha fatto uno dei suoi cavalli di battaglia nella campagna presidenziale del 2015, in seguito alla quale si è visto confermare dagli elettori il mandato per altri cinque anni. La Cmu mira ad estendere a tutta la popolazione la copertura sanitaria sulla base di due regimi: il primo, quello contributivo, si finanzia attraverso un contributo a carico dei cittadini, che è pari a mille franchi Cfa (circa un euro e 52 centesimi) al mese. Il secondo, non contributivo, riguarda le persone in stato di indigenza, per le quali sarà lo stato a coprire i costi quantificati, secondo il sito ivoriano di notizie abidjan.net, in 49 miliardi di franchi, pari a circa 75 milioni di euro.

I servizi a cui questa sorta di assicurazione medica pubblica permette di avere accesso comprendono le consultazioni prestate dal personale sanitario – infermieri, ostetriche, medici generalisti e specialisti – le analisi di laboratorio, gli interventi chirurgici, le ospedalizzazioni, i farmaci e riguardano le 170 patologie che maggiormente toccano la popolazione ivoriana.

Un piano sanitario indubbiamente ambizioso in un paese dove ad oggi solo il 5% della popolazione dispone di un qualche tipo di previdenza sociale. La messa in opera è cominciata nel 2015, mentre l’effettiva erogazione dei primi servizi dovrebbe iniziare ad aprile 2018. Ma le difficoltà di attuazione sono già emerse nella fase preliminare, quella della registrazione dei beneficiari. A luglio scorso, le persone che avevano completato il processo di registrazione erano 785mila mentre un milione e quattrocentomila erano quelle preregistrate, a fronte di una popolazione totale di oltre ventidue milioni.

Considerando che alla registrazione dovrebbe seguire l’effettiva immatricolazione – con consegna di una carta personale biometrica a ciascun cittadino – e che solo dopo dovrebbe cominciare la raccolta dei contributi mensili e l’erogazione dei servizi, ci sono gli elementi per dire che il processo procede a rilento. Fra le cause di questo ritardo ci sono l’isolamento delle zone rurali, dove un’ampia parte della popolazione ha a malapena ricevuto notizia di questa iniziativa, e le difficoltà di registrazione di quell’ampia parte di ivoriani che vive nell’informalità, lavorativa e abitativa. Non è un caso, infatti, che la fase cosiddetta sperimentale della Cmu sia cominciata dai lavoratori del settore formale, pubblico e privato, dagli studenti e dai pensionati.

Ma mentre realizza questa riforma per garantire a tutti l’accesso ai servizi sanitari, la Costa d’Avorio deve anche concentrarsi sul miglioramento dei servizi stessi. Secondo i dati della Banca mondiale e dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), il rapporto medici pazienti è pari a uno ogni settemila abitanti, a fronte di una media regionale dell’Africa subsahariana di uno ogni 3.300. Non va meglio con infermieri e ostetriche: uno ogni duemila ivoriani, contro uno ogni mille per gli altri africani. Partendo da questi dati sul personale sanitario di base, il fatto che la forza lavoro con competenze di chirurgia sia il doppio rispetto alla media africana – tre chirurghi ogni mille abitanti contro 1,7 nel continente – non migliora di molto il quadro. Secondo l’Atlante 2016 delle statistiche sulla sanità in Africa dell’Oms, la Costa d’Avorio era al sesto posto nel continente per tasso di mortalità degli adulti – un dato vicino a 400 persone ogni mille sia per i maschi che per le femmine – e all’undicesimo per mortalità materna con 645 decessi di madri ogni centomila nati vivi. Dei dieci sotto obiettivi di sviluppo del millennio in materia di sanità, la Costa d’Avorio ne ha raggiunti solo due: riduzione dell’incidenza dell’Hiv e del tasso di mortalità per tubercolosi. Per gli altri otto – fra i quali vi sono la riduzione della mortalità materna e dei bambini sotto i cinque anni, la copertura vaccinale contro il morbillo e i parti avvenuti in presenza di personale sanitario qualificato – le caselle ivoriane sono una sequela di not achieved, «non raggiunto». L’investimento in sanità da parte del governo è passato dall’1,6% del Pil del 1990 all’1,9 del 2013: il Ruanda, ad esempio, partiva dallo stesso dato iniziale per passare poi a un investimento del 6,5%.

Il giorno per giorno negli ospedali

Come si manifesta tutto questo sul campo? Un articolo apparso su Jeune Afrique lo scorso luglio permette di farsi un’idea della situazione. Nel centro ospedaliero universitario di Cocody, quartiere fra i più agiati della capitale economica Abidjan, i parenti dei pazienti si trovano spesso ad attendere seduti per terra nella hall. Il direttore dell’ospedale li invita ad andare a sedersi almeno sulle panchine dell’accettazione, ma è consapevole della mancanza di spazi adeguati per accogliere i familiari delle persone ospedalizzate. Le quali non di rado rimangono più di ventiquattr’ore ricoverati al pronto soccorso per mancanza di stanze ben equipaggiate nei reparti.

La morte, nel 2014, di una famosa modella ivoriana al pronto soccorso di Cocody e la denuncia da parte dei familiari delle gravi negligenze che, a loro dire ne aveva provocato il decesso, aveva acceso i riflettori sull’ospedale. Sull’onda dello scandalo, il presidente della Repubblica in persona aveva ordinato la messa a nuovo dell’ospedale, che è considerato uno degli ospedali-vetrina del paese e che vede sfilare annualmente 40mila pazienti solo al pronto soccorso. Nuovi materiali e strumenti sono in effetti arrivati – ecografia, radiologia, laboratorio per le analisi, ristrutturazione dei locali – ma il tasso di decessi è ancora al 20%. «Queste morti si spiegano con la gravità dei casi, i ritardi nella diagnosi per malattie come il cancro, i tempi di trasporto molto lunghi e a volte anche per il ritardo nella presa in carico del paziente», ammette il direttore dell’ospedale.

Al centro ospedaliero universitario di Yopougon, popoloso quartiere periferico, la situazione è ancora più difficile: su 495 letti teoricamente disponibili, solo 350 sono davvero utilizzabili. «Sono quattro anni che sento parlare di progetti di riabilitazione delle strutture, non so più se crederci», dice il professore Dick Rufin, presidente della commissione medica dell’ospedale, che confessa: «Se io o qualcuno dei miei familiari avessimo un problema di salute, andrei in una clinica privata».

Le cause principali alla base di questa situazione sono la mancanza di mezzi finanziari e l’incuria derivata da dieci anni di conflitto e crisi politiche ricorrenti. Gli investimenti governativi, a onor del vero, non sono mancati. Fra questi, lo sblocco degli stipendi dei medici, l’assunzione di oltre diecimila operatori sanitari, la costruzione di un centinaio di centri di sanità di base e l’istituzione di esenzioni dal pagamento dei farmaci. Ma gli effetti di questi interventi non sono ancora chiaramente percepibili. Nonostante le esenzioni, ad esempio, molti si trovano a doversi comunque pagare le medicine perché gli stock riservati ai pazienti esenti esauriscono troppo rapidamente.

C’è poi da lavorare sulla conduzione degli ospedali: secondo numerose testimonianze raccolte da Jeune Afrique, la pratica di chiedere ai malati una tangente per accelerare la loro presa in carico è ancora diffusa.

Salute: Zone rurali e farmaci contraffatti

Nelle aree rurali come quelle di Marandallah e Dianra, dove sono attivi i missionari della Consolata, le condizioni sono ancora più dure. Una delle difficoltà più grandi è legata alla scarsa informazione delle comunità che causa una quasi totale assenza di prevenzione e un costante ritardo nel recarsi presso le strutture sanitarie. «È fondamentale che il nostro personale possa continuare, e possibilmente intensificare, l’attività mobile, quella della visita ai villaggi», spiegava lo scorso gennaio il responsabile del centro di salute di Marandallah padre Alexander Mukolwe. «Senza un monitoraggio costante nei villaggi e la formazione comunitaria che gli operatori affiancano, durante le loro visite, alle sessioni di vaccinazione, alla diagnosi delle malattie e alla distribuzione di farmaci, continueremo a vedere persone arrivare al centro di salute in condizioni disperate e morire per patologie che si potevano curare in un paio di giorni». Basta pensare che in Costa d’Avorio su cento bambini sotto i cinque anni sei muoiono a causa della diarrea; solo il 17% dei piccoli affetti da questa malattia riceve un trattamento adeguato di reidratazione orale.

La necessità di rendere capillare e diffusa l’assistenza sanitaria è ancora più importante alla luce del fenomeno dei farmaci contraffatti e dei centri sanitari fai-da-te.

«Ne abbiamo avuto notizia anche noi», conferma padre Matteo Pettinari, responsabile del centro di salute di Dianra, a ottanta chilometri da Marandallah. «Individui con una formazione sanitaria limitata, o nulla, che avviano centri clandestini dove si fanno pagare per consultazioni improvvisate e farmaci contraffatti o scaduti oppure medicinali veri ma rubati nei dispensari ufficiali nei quali questi impostori hanno prestato servizio. È una cosa gravissima, specialmente in un contesto dove c’è così poca consapevolezza in materia di salute e le persone non hanno gli strumenti per difendersi da una truffa che può costare loro anche la vita». E non esagera, padre Matteo, se lo scorso settembre Radio France International (Rfi) si faceva megafono dell’allarme lanciato dai farmacisti ivoriani sulle medicine contraffatte. «I farmaci di strada sono la morte in strada», recita lo slogan con cui i farmacisti cercano di mettere in guardia i cittadini dai pericoli di un traffico che interessa il 30% dei farmaci venduti nel paese, con perdite di introiti per le farmacie legali stimato in circa 50 miliardi di franchi (76 milioni di euro). Un mercato che si avvia a superare quello della droga, sottolinea Rfi, che rileva come al mercato di Roxy d’Adjame, ad Abidjan, si trovino sui teli stesi a terra falsi vaccini, antimalarici, antibiotici, antiretrovirali, sacche di sangue fasullo e cosmetici contraffatti.

A facilitare l’ignobile commercio sono il prezzo più basso rispetto ai farmaci legali e le pene meno severe rispetto a quelle previste per i trafficanti di droga. I medicinali illeciti disponibili in Costa d’Avorio provengono in prevalenza dall’Asia o dai vicini Ghana e Nigeria.

Chiara Giovetti


Salute in movimento

MOSTRA DI SOLIDARIETÀ AMC / Torino

Quest’anno gli Amici Missioni Consolata hanno deciso di aiutare il progetto La salute in movimento, che si concentra sul sostegno ai centri di salute di Marandallah e Dianra nel Nord della Costa d’Avorio e, in particolare, all’attività di assistenza sanitaria mobile dei due centri.

Le équipe sanitarie – composte da infermieri e ausiliari – effettuano infatti visite regolari ai villaggi che costituiscono il bacino d’utenza dei due centri di salute. Queste visite si rendono particolarmente necessarie in zone come quelle di Marandallah e Dianra, che hanno un’estensione territoriale notevole e mancano quasi totalmente di strade asfaltate, rendendo molto più difficile per gli abitanti dei villaggi più remoti raggiungere i centri di salute. Spesso, per mancanza sia di risorse finanziarie che di informazioni adeguate su igiene e prevenzione, i pazienti rimandano il ricorso all’assistenza sanitaria fino a quando le loro condizioni non si sono aggravate al punto da rendere molto difficile, a volte impossibile, intervenire efficacemente per guarirli.

Il lavoro di assistenza mobile consiste nel monitoraggio dei casi di malnutrizione fra i bambini, delle condizioni di salute delle donne incinte, delle neo mamme e dei neonati, nelle campagne di vaccinazione, nel trattamento delle ferite legate all’attività agricola e nella diffusione di informazioni su igiene e sanità. Quest’ultima attività ha un ruolo cruciale nel permettere alle persone di prevenire o individuare in tempo le malattie più comuni, come quelle gastroenteriche, legate ad esempio all’utilizzo di acqua non adatta al consumo umano, o quelle delle vie respiratorie, ma soprattutto la malaria, principale causa di morte in Costa d’Avorio. Per la prevenzione e cura della stessa sono fondamentali le zanzariere impregnate di insetticida e la tempestiva diagnosi e successiva assunzione di farmaci antimalarici. Eppure, secondo i dati più recenti, dei bambini sotto i cinque anni solo uno su tre dorme sotto una zanzariera e solo uno su cinque con la febbre riceve un trattamento antimalaria.

I nostri missionari responsabili dei due centri di salute ci hanno indicato l’attrezzatura e l’equipaggiamento che permette loro di continuare con la stessa efficacia e costanza questo importante servizio alle comunità.

L’iniziativa degli Amici intende contribuire a coprire questi costi:




Cooperazione:

speranze e contraddizioni


Da un’analisi della situazione della cooperazione allo sviluppo in Italia a un anno e mezzo dalla nascita dell’Aics (l’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo), al punto sulla riforma del Terzo settore. Da uno sguardo sull’Europa e sulle sue strategie per lo sviluppo a uno sull’effetto Trump nell’aiuto allo sviluppo statunitense.

«La battaglia è stata vinta». Così la direttrice dell’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo, Aics, Laura Frigenti, scriveva alla fine del 2016 nella relazione annuale, dodici mesi dopo la creazione dell’ente che dirige. L’Agenzia è una delle principali novità introdotte dalla legge 125/14, nota come «riforma della cooperazione allo sviluppo». Obiettivo di questo ente è quello di gestire in maniera più snella, efficace e trasparente interventi e fondi della cooperazione sul modello di paesi come gli Stati Uniti, la Germania, la Francia e il Regno Unito che un’agenzia dedicata alla cooperazione l’hanno già da tempo.

La battaglia cui la direttrice Frigenti si riferisce è quella per il raggiungimento degli obiettivi che l’Agenzia si era data per il suo primo anno di vita. Fra questi: raccogliere l’eredità della struttura che l’aveva preceduta – la Direzione generale per la cooperazione allo sviluppo, o Dgcs, del ministero degli Esteri – a cominciare dagli oltre mille progetti in corso, riscrivere le procedure, gestire il passaggio fra due sistemi di contabilità differenti, attivare le sedi estere, erogare almeno la metà dei fondi messi a disposizione della cooperazione che ammontavano a poco meno di mezzo miliardo di euro.

In effetti, molti obiettivi sono stati raggiunti e in alcuni casi superati – sempre secondo la relazione annuale, i fondi erogati, ad esempio, sono stati più della metà, e cioè oltre il 60 per cento – ma su altri resta molto da fare.

Segnali contraddittori

La sensazione complessiva è che, pur rappresentando l’Agenzia – così come tutta la riforma della cooperazione – un passo in avanti significativo ed epocale, il sistema Italia digerisca solo molto lentamente il nuovo e maggiore peso che, sulla carta, si è deciso di dedicare alla cooperazione allo sviluppo. Gli esempi di queste opposte spinte sarebbero numerosi ma alcuni, forse, rendono l’idea più concretamente di altri.

Il primo riguarda il personale dell’Agenzia, che ha un’importanza fondamentale per raggiungere la piena operatività. E questo personale a marzo 2017 non era ancora al completo. Dei duecento funzionari previsti per le sedi in Italia (Roma e Firenze), sessanta non erano ancora stati reclutati. Solo a novembre 2016 un emendamento alla legge di bilancio ha aumentato il Fondo per il pubblico impiego in modo da permettere all’Agenzia di bandire il concorso per l’assunzione dei sessanta tecnici. Di questi, spiegava il responsabile delle relazioni istituzionali, internazionali e della comunicazione dell’Agenzia Emilio Ciarlo su Vita.it la scorsa estate, «20 dovrebbero provenire dall’amministrazione pubblica e i 40 restanti dal di fuori, con una formazione universitaria nel settore della cooperazione allo sviluppo e con quattro o cinque anni di esperienza professionale in un’Ong o un organismo internazionale». Un’iniezione di giovani competenti e motivati, insomma, che dovrebbe dare una spinta decisiva all’Agenzia.

Ma, un anno dopo la sua nascita – il 4 gennaio 2016 – l’Agenzia mancava pure di buona parte dei suoi dirigenti. Lo ha ricordato su Onuitalia.com il consigliere politico della rete di Ong Link 2007, Nino Sergi: oltre ai sessanta funzionari di cui sopra, mancavano all’appello ancora buona parte dei livelli dirigenziali. I dirigenti, infatti, dovrebbero essere diciotto mentre a febbraio 2017 erano solo otto. «Si tratta, in fondo, di poche persone», sottolinea Sergi, «ma indispensabili al funzionamento dell’Agenzia che, così limitata, continua a vivere in un comatoso limbo che solo le buone volontà stanno tenendo in vita».

Il secondo elemento è lo «scomparso» illustre dell’organigramma della cooperazione, come sottolinea ancora Sergi: il Cics (Comitato interministeriale per la cooperazione allo sviluppo), organo di cui fanno parte il presidente del Consiglio e la stragrande maggioranza dei ministri. Si è riunito una volta sola, nel 2015 e, secondo un tweet di Mario Giro, viceministro degli esteri, anche una seconda volta il 23 marzo 2017: «Approvato il doc. triennale: +attori +azione comune». Due volte in venti mesi non sono molte per un organo cui la legge 125/2014 attribuisce un compito fondamentale, quello di coordinare tutte le attività di cooperazione allo sviluppo e assicurare che le politiche nazionali siano coerenti con i suoi fini.

Perché il Cics è importante? Per dirla in maniera estremamente semplificata: perché, se funzionasse come dovrebbe, impedirebbe alle politiche pubbliche di disfare quello che la cooperazione fa.

La cooperazione italiana viene da lunghi anni di subalternità e di risorse limitate; un coordinamento costante con gli altri centri decisionali del governo e un organico dell’Agenzia completo nei livelli dirigenziali, giovane e preparato nei comparti tecnici, sono elementi indispensabili perché gli interventi siano efficaci. Per questo ogni rallentamento su questi aspetti rischia di svuotare nei fatti la legge e il tipo di cooperazione che essa intende realizzare.

Il colpo di mano dell’8×1000

Sempre in tema di segnali contrastanti, è del marzo scorso la notizia dell’approvazione del cosiddetto emendamento Realacci in Commissione Ambiente, Territorio e Lavori Pubblici della Camera. L’emendamento stabilisce che per i prossimi dieci anni la quota di otto per mille che i contribuenti assegneranno allo Stato andrà tutta per il recupero dei beni culturali danneggiati dal terremoto in centro Italia.

«Finisce con questo colpo di mano», commenta un post sul blog info-cooperazione, «la possibilità di impiegare una parte del fondo 8×1000 alla “fame nel mondo”, una quota che a singhiozzo negli anni aveva co-finanziato progetti di cooperazione allo sviluppo delle Ong italiane soprattutto in Africa. L’ultima approvazione di progetti risale al 2014, anno in cui con circa 6 milioni di euro furono cofinanziati 40 progetti. Non è chiaro se il decreto appena approvato andrà a intaccare anche la quota dell’otto per mille assegnata all’Agenzia per la Cooperazione allo sviluppo. A decorrere dall’anno 2015 infatti, una quota pari al 20% del fondo 8×1000 a gestione statale è stata destinata a finanziare le attività dell’Aics».

La riforma del Terzo Settore

Un anno fa la riforma del Terzo Settore (o settore di chi si impegna nel sociale senza scopi di lucro – no profit) è diventata legge, la 106/2016, e il primo dei provvedimenti attuativi è stato approvato a febbraio scorso: si tratta del decreto legislativo che istituisce il servizio civile universale, ora aperto a cittadini italiani, europei e stranieri regolarmente soggiornanti in Italia di età compresa fra i 18 e i 28 anni. Nelle parole del direttore di Vita.it, Riccardo Bonacina, nel giugno 2016, la riforma poteva essere più coraggiosa nell’innovare, ma è «la miglior legge possibile» date le circostanze e permette quantomeno di realizzare tre sogni: in primis quello di un «pavimento civilistico» che oltre a definire che cosa sia il Terzo Settore «rende possibile una legislazione unitaria, un Codice unico del Terzo settore e un Registro unico, un Organismo di rappresentanza istituzionale. Basta con i 300 registri (nazionali, regionali, provinciali), il Terzo settore ha bisogno di semplificazione e i cittadini di trasparenza».

La riforma comunque ha ricevuto anche diverse critiche. A cominciare da quelle mosse alla Fondazione Italia Sociale, organismo che la legge 106 istituisce «con lo scopo di sostenere […] la realizzazione e lo sviluppo di interventi innovativi da parte di enti del Terzo settore, caratterizzati dalla produzione di beni e servizi con un elevato impatto sociale e occupazionale e rivolti, in particolare, ai territori e ai soggetti maggiormente svantaggiati».

Presidente della Fondazione è Vincenzo Manes, imprenditore, finanziere, filantropo e consigliere dell’ex premier Matteo Renzi. Manes stesso l’aveva definita «Iri del sociale», rievocando la spinta modernizzatrice che l’Istituto per la ricostruzione industriale ebbe negli anni ‘50 e ‘60 del Novecento; ma c’è chi vede la Fondazione come un ente di cui si poteva fare a meno e chi lo liquida come un favore a un amico dell’ex primo ministro.

Ma Italia Sociale non è il solo aspetto a suscitare perplessità. Il Comitato piemontese Volontariato 4.0 in un documento del febbraio scorso attribuiva alla legge 106 lo stravolgimento dei Centri di Servizio per il Volontariato che, avendo a disposizione le stesse risorse del passato, dovranno ora assistere molti più fruitori, cioè «tutti i soggetti del no profit, associazioni di promozione sociale, cooperative, holding della solidarietà». Il Comitato punta il dito anche contro lo sdoganamento di un «volontariato liquido e ibrido, senza identità, senza appartenenza, senza forza rappresentativa, temporaneo ed occasionale» che arriva a «istituzionalizzare lo status di volontario singolo», non legato cioè a una realtà associativa.

Gli altri decreti attuativi, dopo quello sul servizio civile, dovrebbero essere inviati alle Camere entro il 15 di questo mese, almeno stando a quanto dichiarato a marzo da Luigi Bobba, sottosegretario al ministero del Lavoro. Seguiranno poi i commenti delle commissioni parlamentari e la possibilità di fare decreti correttivi entro un anno.

L’Europa fra cooperazione e migrazioni

Di altro tipo di volontariato parla invece Silvia Costa, eurodeputata del Pd, presidente della Commissione cultura e istruzione al Parlamento europeo e firmataria di una risoluzione sul Servizio volontario europeo (Sve), il programma di volontariato internazionale finanziato dalla Commissione europea e rivolto a giovani fra i 17 e i 30 anni. A questi ragazzi lo Sve offre l’occasione di prestare servizio in progetti in ambito umanitario, educativo, sociosanitario, culturale, sportivo per un periodo che va dalle tre settimane ai dodici mesi. In vent’anni ha visto la partecipazione di centomila giovani: dei cinquemila ragazzi che partono ogni anno, uno su cinque è italiano.

«Chiediamo alla Commissione europea», ha detto Costa dopo l’approvazione della risoluzione, «di definire finalmente un quadro giuridico europeo che definisca le attività e lo status di volontario per agevolare la mobilità europea e internazionale, nonché il riconoscimento delle competenze, sia nello Youth passaport che nell’Europass (strumenti per armonizzare la descrizione delle competenze dei cittadini all’interno dell’Unione, ndr)».

Quanto alle strategie per lo sviluppo, ne «Lo stato dell’Unione 2016» la commissione ha annunciato un nuovo il Piano europeo per gli investimenti esterni (Pie). «Lo strumento», si leggeva nel comunicato stampa del settembre scorso, «consentirà di stimolare gli investimenti in Africa e nei paesi del vicinato dell’Ue, in particolare per sostenere le infrastrutture economiche e sociali e le Pmi (Piccole e medie imprese, ndr), mediante la rimozione degli ostacoli agli investimenti privati». Il contributo previsto è di 3,35 miliardi di euro, che andranno a sostenere «le garanzie innovative e strumenti analoghi a copertura degli investimenti privati». Secondo la Commissione, questi 3,35 miliardi dovrebbero riuscire a mobilitare fino a 44 miliardi di euro d’investimenti e l’importo potrebbe raddoppiare se gli stati membri e gli altri partner contribuiranno con un finanziamento equivalente.

L’iniziativa è certamente in linea con la Comunicazione 263 del 2014, in cui la commissione ricordava che il settore privato fornisce il novanta per cento dei posti di lavoro nei paesi in via di sviluppo e che questo lo rende un partner essenziale nella lotta alla povertà. Altrimenti detto: se non si coinvolge il settore profit nello sviluppo non si va da nessuna parte.

Concord, la rete europea delle ong, ha tuttavia avanzato alcuni dubbi circa il Pie: «Il piano – si legge fra le raccomandazioni inviate alla Commissione – deve essere sganciato dalle politiche di controllo delle migrazioni e dagli obiettivi di breve termine della politica estera europea e non può dare per scontato che la crescita economica – in termini di punti di Pil – implichi automaticamente la creazione di posti di lavoro, e meno ancora di lavoro dignitoso e sostenibile».

L’effetto Trump sullo sviluppo

Con i loro 31 miliardi di dollari all’anno (nel 2016), gli Stati Uniti sono il secondo donatore al mondo dopo l’Unione europea per quanto riguarda l’aiuto allo sviluppo, il primo se si considerano gli Stati europei singolarmente. Ovvio che la proposta di budget dell’amministrazione guidata da Donald Trump fosse attesa con una certa apprensione nel mondo della cooperazione. E lo scorso 16 marzo le proposte presidenziali sono state rese pubbliche: Trump ha proposto per il Dipartimento di Stato e l’agenzia Usaid, gli enti governativi che gestiscono il grosso dell’aiuto, un budget di 25,6 miliardi di dollari, con un taglio pari al 28 per cento.

Altri tagli proposti sono al contributo alle Nazioni Unite – attualmente gli Usa ne sono il principale donatore, coprendo oltre un quinto dei 5,4 miliardi di dollari del budget Onu e quasi un terzo dei 7,9 miliardi per le operazioni di peacekeeping – e agli enti finanziari multilaterali di sviluppo come la Banca mondiale.

Il presidente statunitense ha inoltre intenzione di staccare la spina a tutto ciò che riguarda la lotta al cambiamento climatico – eliminando la U.S. Global Climate Change Initiative e bloccando i pagamenti ai programmi delle Nazioni Unite in questo ambito – e di riorganizzare Dipartimento di Stato e Usaid, forse accorpando la seconda al primo, ipotizza qualcuno. Sopravvive invece la dotazione di risorse per il Fondo presidenziale di emergenza per la lotta all’Aids (Pepfar) e per il Fondo globale per la lotta a HIV/Aids, tubercolosi e malaria.

Rimane da vedere quante di queste proposte il Congresso effettivamente accoglierà; ma l’opinione pubblica mondiale ha già potuto farsi un’idea di come si traduce lo slogan «America first» in termini di fondi per lo sviluppo.

Chiara Giovetti

 




Cooperazione: I muri che uniscono


Oltre 20 anni fa un professore universitario capisce l’importanza del diritto alla casa. Da quel giorno mette le sue energie e la sua intelligenza al servizio dei baraccati. Inventa una tecnica costruttiva semplice ed efficace. Riproducibile da chiunque. Oggi, dopo la sua scomparsa, la sua famiglia e i suoi allievi continuano la sua opera. Perché tanto resta ancora da fare.

Gourcy, Nord del Burkina Faso. Dopo una giornata di lavoro e incontri arriviamo all’Auberge Cites. Una piccola oasi di buganville rosse, fucsia e arancioni nel secco e giallo panorama saheliano. Pur essendo fine novembre, quest’anno le temperature sono ancora elevate. Sarà a causa del cambiamento climatico, dicono i Burkinabè. Siamo sudati e coperti di polvere, situazione piuttosto tipica da queste parti. Scesi dall’auto vediamo subito due «nassara» («bianchi» in lingua moore), in maglietta e pantaloncini, piuttosto accaldati, seduti a un tavolino a sorseggiare una bevanda. Ci presentiamo. Sono la professoressa Gloria Pasero Mattone e suo figlio, Massimiliano Mattone. Vengono da Torino, sono a Gourcy per una missione nell’ambito della loro associazione, «Mattone su Mattone onlus». Sebbene avessimo già sentito parlare di loro, è la prima volta che li incontriamo. Subito la conversazione si fa interessante.

«L’attività che stiamo svolgendo qui rappresenta, in un certo senso, l’attività che mio marito Roberto Mattone, docente al Politecnico di Torino, scomparso sette anni fa, aveva iniziato proprio in Burkina Faso, a Nanorò, con la costruzione di un mercato coperto». Dopo una breve pausa, che tradisce una certa emozione nel parlare del compagno di una vita, la professoressa, ormai in pensione, prosegue: «Dopo la scomparsa del professore, questo sistema costruttivo che lui aveva messo a punto, facile, innovativo, sostenibile per quanto concerne l’uso dei materiali, facilmente appropriabile da chi non è muratore, è stato diffuso in altri paesi dell’Africa e dell’America Latina». Continua: «Recentemente è nata una proposta del comune di Grugliasco (To) per collaborare a questo progetto e con grande entusiasmo l’associazione ha aderito alla richiesta». Gloria Pasero, anch’essa alla facoltà di Architettura del Politecnico di Torino, oltre ad essere docente e moglie, è stata l’assistente del professor Roberto Mattone per molti anni.

Così, dopo il tramonto, nella penombra, con il placarsi del caldo torrido e il sopraggiungere delle zanzare, tra un blackout elettrico e l’altro, Gloria e Massimiliano ci raccontano l’incredibile storia del «blocco Mattone».

L’idea di Mattone

Il professor Roberto Mattone, architetto, da sempre è attratto dalle tecnologie per costruzione cosiddette «povere», che utilizzano i materiali locali. Ha lavorato, tra l’altro, con il gesso, le fibre di sisal, il ferrocemento. Negli anni ’80 a Torino c’era la scuola del professor Giorgio Ceragioli che aveva creato una grande sensibilità sull’habitat adattato ai paesi in via di sviluppo. «L’attività di Roberto era autonoma, ma certo si è inserita in questa corrente di pensiero e di lavoro» ricorda la professoressa. Roberto Mattone inizia a occuparsi di costruzioni in «terra cruda» all’inizio degli anni ’90. Si reca in Brasile e le condizioni di vita nelle favelas lo colpiscono particolarmente. Il professore ha ottenuto un finanziamento dal Cnr (Consiglio Nazionale della Ricerca) per una ricerca dal titolo: «Abitazioni a basso costo nei paesi in via di sviluppo». Lo studio si svolge in partenariato con il professor Normando Perazzo Barbosa dell’Universidade Federal da Paraíba a João Pessoa. «Una realtà, quella delle favelas – ricorda la professoressa – che dopo 25 anni in alcuni casi non è cambiata di molto, come ho potuto constatare personalmente».

Il primo passo è quello di individuare il materiale da utilizzare: «Il più diffuso era la terra. Gli abitanti erano però molto scettici, perché terra significa povertà. Loro volevano i blocchi di cemento». In Brasile, soprattutto nel Nord Est si utilizza terra e fango su intelaiature di bastoni per fare delle casupole molto precarie e malsane, tipiche degli strati sociali più poveri. Sistema costruttivo chiamato «Taipa».

Innovazione «povera»

Il professore, con la sua ricerca, inizia a produrre mattoni in terra cruda stabilizzati con l’aggiunta di cemento e compattati con presse manuali. Ma non basta. Modifica la forma del blocco parallelepipedo convenzionale, facendone una specie di grande Lego, il gioco di costruzioni. «Il blocco fu dotato di risalti e riscontri che servono a facilitare la posa dei mattoni per fare i muri solidi senza bisogno di particolari strumenti o competenze», spiega Massimiliano. I favelados della zona in cui Roberto Mattone lavora, sono tagliatori di canna da zucchero e nulla sanno di costruzioni: impossibile trasformarli in muratori, occorre un sistema costruttivo particolarmente semplice. «Il blocco opportunamente modificato si posa facilmente per erigere muri, senza l’uso della cazzuola o del filo a piombo. Inoltre c’è bisogno di pochissimo legante tra un blocco e l’altro (circa 3 mm), mentre per i blocchi di cemento ne vengono usati 2,5 centimetri. E questo, oltre a semplificare, riduce notevolmente i costi».

Roberto Mattone adotta una pressa manuale, che modifica opportunamente in laboratorio e convince la casa costruttrice, la Altech francese, a farne una produzione. Recentemente i professori del Politecnico di Torino Giuseppe Quaglia, Walter Franco e Carlo Ferraresi, in collaborazione con l’ingegner Matteo Asteggiano, hanno realizzato una nuova pressa, che è quella attualmente usata nei progetti dell’associazione.

I materiali, il tipo di terra e stabilizzazione, le forme dei blocchi sono testati e migliorati da Roberto Mattone in un laboratorio allestito in facoltà, che diventa un luogo di formazione di generazioni di studenti, alcuni dei quali seguiranno le orme del professore e sono oggi membri dell’associazione. «Roberto – continua Gloria Pasero – era riuscito a raggiungere un obiettivo ottimale: quello di coniugare la ricerca scientifica con la solidarietà». Nasce così il «blocco Mattone – Politecnico di Torino».

La casa auto costruita

Costruire la propria casa, sulla propria terra, con la terra stessa diventa un mezzo di riscatto e di dignità per i più poveri ed emarginati. Il primo luogo in cui viene sperimentato il blocco è la favela Cuba da Baixo a Sapé, nello stato di Paraiba, in Brasile. È il 1995. Per Roberto Mattone «non bastava mandare l’attrezzatura e un manuale d’istruzioni». Si tratta di gente demotivata, rassegnata. Avranno voglia, riusciranno? È il dubbio che lo assale.

«Allora insisteva sul fatto che bisogna andare sul posto, condividere il lavoro con loro, cogliere i loro dubbi, lavorare con loro. Dimostrare che le cose che si propongono sono valide e alla loro portata, lasciarlo verificare dalla gente, in una dinamica di “appropriazione” della tecnica da parte degli abitanti-costruttori stessi. Fu così che i poveri di Cuba da Baixo videro che i mattoni non si scioglievano in acqua e che i muri eretti erano resistenti come quelli in cemento».

Lavoro sul campo

Massimiliano e sua madre sono in Burkina Faso per questo. Ci invitano il giorno successivo a visitare il cantiere dove stanno insegnando a un gruppo di giovani burkinabè a fabbricare il blocco Mattone. Una decina di giovani sono ormai abili nella produzione di mattoni stabilizzati. Dopo aver preparato con cura l’impasto di terra ricavata non lontano, con    5-10% di cemento, la miscela viene messa nella pressa. Con un semplice movimento di una persona sulla leva il blocco in terra cruda è prodotto. Subito viene testato con una pressione manuale e se ha difetti costruttivi o di solidità viene scartato. In caso contrario è riposto con cura in fila su dei teli di plastica stesi a terra, a «maturare». Qui i blocchi sono innaffiati periodicamente e devono passare almeno quattro settimane prima che siano pronti all’uso. I ragazzi sono molto contenti e sfornano un mattone dopo l’altro. Moussa Konkobo è uno dei giovani coinvolti: «Sono muratore e durante questa formazione posso dire che abbiamo imparato a fabbricare questo tipo di blocco. Abbiamo mischiato terra e sabbia con cemento e poi ci hanno insegnato a utilizzare la pressa. Costruiremo una piccola casa di prova con questi blocchi».

Anche la scelta della terra è stata fatta in modo scientifico. «Abbiamo chiesto a increduli cooperanti e missionari in viaggio tra Burkina e Italia di mettere in valigia campioni di terra, in modo da poterli verificare prima di affrontare noi il viaggio». Racconta Massimiliano. «Abbiamo così potuto fare diversi test in laboratorio in Italia, per misurare se la terra era adatta. Solo dopo questa certezza si può andare avanti con il progetto formativo». È una procedura che l’associazione adotta sempre: in queste settimane sono sotto test a Torino alcuni campioni di terra di Capo Verde.

Solidarietà senza confini

«L’interesse nel migliorare le condizioni di vita della gente era dentro di lui da sempre. Il mattone è poi stato ideato grazie alla ricerca in Brasile». Ricorda ancora Gloria Pasero parlando del marito. «Portare avanti questa scelta ha voluto dire penalizzare la carriera. Questa si faceva puntando su temi high tech. Lui era motivato da altre considerazioni: la solidarietà, la spinta umanitaria».

Questa esperienza di auto costruzione di case a basso costo per migliorare le condizioni di vita dei più poveri ha una potenzialità dirompente nel mondo di oggi, proprio a causa della vastità dei bisogni in termini di habitat.

Dopo la prima esperienza in Brasile il professore non si ferma. Entra nel giro degli accademici che si occupano di terra cruda, in Brasile e non solo. Il blocco Mattone viene «esportato» in altri paesi e continenti. «Mio marito impostò un analogo progetto con l’Università Tecnologica Nazionale Argentina, a Santa Fé».

I coniugi Mattone sono proprio in Argentina per predisporre le attività, quando, nel 2008, il professore muore improvvisamente. È un fulmine a ciel sereno. Un dramma. Gloria Mattone capisce che il suo compito è quello di continuare la missione del marito. Si fa forza, esce dalle retrovie e diventa la protagonista. Sempre con molta umiltà. Il 23 marzo 2009, a sei mesi esatti dalla scomparsa di Roberto Mattone, nasce l’associazione «Mattone su Mattone onlus», creata da famigliari, amici e colleghi dell’architetto.

«Al Politecnico non c’era nessuno che aveva seguito queste cose», ci racconta la professoressa. «Il rettore di allora mi invitava ad andare avanti per continuare l’attività di Roberto».

Il blocco Mattone, grazie all’associazione, approda così in Senegal, Tanzania, Etiopia, Costa d’Avorio e poi in Burkina Faso. Oggi sono arrivate richieste da Messico e Repubblica Democratica del Congo, mentre Capo Verde è già in fase di studio.

Puntare all’autonomia

«L’obiettivo quando si inizia in un paese è la riproducibilità dell’esperienza – spiega Massimiliano – una volta fatta la formazione pratica e acquisita la pressa, un’associazione locale, una cornoperativa o una piccola impresa, può diventare produttrice di bocchi stabilizzati in totale autonomia e diffonderne le tecniche costruttrici».

È anche una possibilità di creazione di impiego per giovani in Africa. Proprio per questo, recentemente, la formazione e la pressa sono stati inseriti in un progetto della Regione Piemonte finanziato dal ministero dell’Interno italiano in Senegal.

Il progetto che visitiamo oggi in Burkina Faso fa parte di un altro programma di cooperazione più vasto che coinvolge oltre al comune di Gourcy, il comune di Grugliasco (To), il Coordinamento dei comuni per la pace della provincia di Torino (Cocopa) e l’Ong Cisv. In alternativa a progetti più strutturati l’associazione cerca i fondi per i propri interventi con i sistemi classici: il 5×1000, la promozione o la vendita di manufatti da parte di soci volontari. Se non ci sono finanziamenti esterni l’associazione prende in carico tutte le spese vive, e i volontari non hanno mai alcun compenso, ma offrono il loro lavoro gratuitamente.

Sono molte le sollecitazioni che arrivano, anche grazie all’uso di internet e dei social. «Ci contattano, chiedono, interagiscono. E talvolta stabiliamo così nuove collaborazioni», racconta Massimiliano. «C’è molto interesse». Lui, che di professione fa il restauratore, dedica molto del suo tempo all’associazione come volontario, con l’idea che, in qualche modo «sia un dovere ereditario». Anche le sorelle Manuela e Monica sono coinvolte così come altri membri dell’associazione.

Mentre scriviamo la professoressa Pasero e suo figlio Massimiliano sono tornati in Burkina, per insegnare ai giovani la posa del blocco Mattone per la costruzione di un’abitazione.

Averli incontrati ci ha ricordato che la solidarietà autentica è ancora possibile, e prende svariate forme, come quella di trasmettere una conoscenza per promuovere diritti e dignità.

Marco Bello




Cooperando: 3 realtà, 1 obiettivo: istruzione contro povertà


Quest’anno concentriamo la campagna di Natale su Venezuela, RD Congo e Tanzania. Sono tre realtà molto diverse fra loro che hanno però almeno due aspetti in comune: una situazione socio-economica difficile e contraddittoria, della quale fanno le spese le fasce più deboli della popolazione, e una carente e spesso fuorviante informazione internazionale su di essi.

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1. Venezuela, fra crisi e propaganda

Che il crollo del prezzo del petrolio abbia messo in ginocchio l’economia venezuelana sembra essere l’unico dato certo: su un paese che basa la propria economia su questa risorsa, la diminuzione del costo al barile dai 100 dollari del 2014 ai 50 attuali non poteva non avere ripercussioni pesanti. Ma su questo dato di fatto si contrappongono, sia all’interno del Venezuela che nel dibattito internazionale, visioni sideralmente lontane circa le responsabilità e le possibili soluzioni.

Tutta colpa della rivoluzione bolivariana di Hugo Chavez, dicono i critici dell’ex presidente venezuelano – morto nel 2013 e sostituito dall’attuale capo di stato Nicolás Maduro -, e delle sue politiche socialiste, nazionalizzazione dell’industria petrolifera in testa. «Il Venezuela è una dittatura conclamata», scriveva lo scorso ottobre sul Washington Post Francisco Toro, che in un precedente articolo su The Atlantic indicava come «vero colpevole della crisi il chavismo, con la sua propensione alla cattiva gestione, agli investimenti folli, allo smantellamento delle istituzioni, alle politiche di controllo dei prezzi e del cambio e al ladrocinio puro e semplice». È vero che già all’inizio del 2014, cioè prima della caduta del prezzo del petrolio, l’economia venezuelana era entrata in recessione, risponde dalle pagine di Le Monde Diplomatique Marc Weisbrot, ed è vero che una profonda opera di riforma è necessaria, a cominciare da un riordino del mercato valutario: a oggi, ci sono tre tassi di cambio a cui si aggiunge quello applicato sul mercato nero, e vanno dai 10 bolivar (la valuta locale) contro un dollaro del cambio ufficiale ai 1.000 del mercato nero (un euro è quasi 700 bolivar con Weste Union dall’Italia).

Ma non bisogna dimenticare le ingerenze estee: il governo degli Stati Uniti promuove da quindici anni un «cambio di regime» a Caracas, ricorda ancora Weisbrot, e sta cercando di destabilizzae ulteriormente l’economia. Il Fondo Monetario è spesso particolarmente pessimista nelle stime sugli indicatori economici venezuelani e i media inteazionali fanno a gara a usare i termini più catastrofisti dimenticando di riportare anche i risultati ottenuti ad esempio dalle misiones, programmi governativi di lotta alla povertà lanciati nel 2003 da Chavez a sostegno dell’accesso alla salute, all’istruzione, al credito per la casa (vedi anche Le due piazze di Caracas di Paolo Moiola, MC 12/2015).

È degli ultimi giorni di ottobre la notizia della visita di Maduro a papa Francesco e dell’intenso lavoro della diplomazia vaticana per promuovere il dialogo tra le forze politiche ed evitare scontri e violenze.

La nostra proposta per il Venezuela

Al di là di queste diatribe, la situazione che i nostri missionari ci raccontano è davvero difficile: mai come quest’anno si sono resi necessari interventi per permettere alle persone di procurarsi cibo e farmaci. Nelle zone come Tucupita gli effetti della congiuntura attuale si accavallano a una situazione di povertà e marginalizzazione che da anni affligge la popolazione locale, appartenente per la maggioranza al gruppo indigeno warao.

La proposta dei nostri missionari è quella di impegnarsi in un progetto di contrasto all’abbandono scolastico dei bambini e adolescenti. Dal momento che il principale problema è l’acquisto del materiale scolastico, il cui prezzo è troppo alto per la maggior parte delle famiglie, il progetto prevede l’acquisto di penne, matite, quadei e altro materiale. Inoltre, coinvolge le famiglie a contribuire producendo esse stesse borse, astucci e piccolo mobilio per le classi come leggii e tavoli per lo studio, approfittando anche delle competenze acquisite dalla comunità warao grazie a iniziative realizzate in precedenza dai nostri missionari in ambito artigianale.


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2. Tanzania, fra Pil e ujamaa

La Tanzania cresce, eccome: le esportazioni fra il luglio 2015 e lo stesso mese del 2016 sono aumentate del 7,5% e lo scorso ottobre il paese ha firmato con il Marocco venti accordi di cooperazione bilaterale per poco meno di due miliardi di dollari nei settori energetico, minerario, tecnologico, agricolo, turistico, finanziario, sanitario e dei trasporti. Ma, come per altri paesi africani che stanno sperimentando simili espansioni, il rischio concreto è che larghe fasce della popolazione tanzaniana restino escluse dagli effetti della crescita. A differenza del turbolento vicino di casa congolese, in Tanzania – modellata dal mwalimu (maestro) Julius Nyerere, primo presidente e padre fondatore, sul principio dell’ujamaa (comunità-famiglia-fratellanza) – la pacifica convivenza fra gruppi etnici non è mai stata a rischio, ma le diseguaglianze sociali e le sacche di povertà sono tangibili, specialmente nelle aree rurali. Nel maggio di quest’anno, il Programma alimentare mondiale (Pam) ha pubblicato alcuni dati sul paese: nonostante la crescita economica, tre tanzaniani su dieci vivono nella povertà e uno su tre è analfabeta. L’ottanta per cento della popolazione vive di agricoltura di sussistenza e un terzo dei bambini sotto i cinque anni soffre di malnutrizione cronica.

La nostra proposta per la Tanzania

In Tanzania il nostro programma di sostegno a distanza è attivo a Mgongo, Mafinga, Iringa, Morogoro, Ikonda e Tosamaganga. Inoltre, contribuiremo al Day Care Centre di Morogoro, un centro che fornisce a 252 bambini istruzione prescolare. Secondo numerosi studi, infatti, i bambini che hanno fatto un percorso educativo fra i tre e i sette anni ottengono poi migliori risultati nel prosieguo dei loro studi e hanno maggiori probabilità di terminare il ciclo primario. Inoltre, frequentare un centro come questo permette ai bambini di avere una nutrizione più adeguata in anni fondamentali per lo sviluppo psico-fisico.

In particolare, acquisteremo materiale ludico e didattico, cattedre, banchi e sedie, adegueremo il corpo docente alla sempre maggiore richiesta di iscrizioni e doteremo il centro di kit per il pronto soccorso.


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3. RD Congo, la difficile via verso le elezioni

Quarantadue anni dopo il celebre incontro fra Muhammad Alì e George Foreman, il grido in lingua lingala che si alza dallo stadio di Kinshasa non è più «Alì, bomaye!», «Alì, uccidilo», ma «Kabila oyebela, mandat esili!», «Kabila, sappilo, il mandato è finito».

Il 19 dicembre termina infatti il secondo mandato di Joseph Kabila, il quarantacinquenne presidente congolese succeduto al padre Laurent Desiré nel 2001 e riconfermato alla presidenza nelle elezioni del 2006 e del 2011, una consultazione elettorale quest’ultima, molto discussa e giudicata irregolare da diversi osservatori fra cui l’Unione europea. Le elezioni erano previste per quest’anno, ma a ottobre un accordo tra il governo e una piccola parte dell’opposizione (nel dialogo intercongolese) ha acconsentito di rimandare il voto al più tardi ad aprile 2018. Si creerà un governo di unità nazionale affiancato da un comitato di accompagnamento, mentre Kabila potrà restare in carica per la transizione. Ma il grosso dell’opposizione politica e i movimenti sociali non sono d’accordo, così come i vescovi, che hanno abbandonato il «dialogo» a settembre. E, se il conflitto politico a Kinshasa non sempre si limita al confronto dialettico – lo scorso settembre almeno 47 persone sono morte negli scontri fra polizia e manifestanti anti Kabila -, l’Est del paese non ha conosciuto un minuto di vera pace dalla fine della guerra del 1997-2003. Lo scorso agosto i miliziani del gruppo islamista di origine ugandese Adf – uno dei circa settanta gruppi ribelli attivi in Congo – hanno decapitato o bruciato vive trentasei persone a Beni, Nord Kivu.

La nostra proposta per il Congo

I nostri missionari in Rd Congo lavorano da sempre per ampliare quanto più possibile l’accesso all’istruzione e per contrastare l’abbandono scolastico: secondo gli ultimi dati Unicef, i bambini che non vanno a scuola sono 13 su cento, dato che sale a 16 nelle aree rurali. Degli scolarizzati, inoltre, un quarto non arriva alla conclusione del ciclo primario. Le aree su cui ci concentriamo questo Natale sono Kinshasa e Bayenga. Nella capitale, è attivo un programma di sostegno a distanza per i 360 bambini che frequentano la scuola primaria san Giuseppe d’Arimatea, nel quartiere Sans Fils. Attraverso questo sostegno, la probabilità di abbandono scolastico si riduce drasticamente perché risolve a monte il principale problema delle famiglie, quello di coprire i costi per la retta, i libri, il materiale scolastico.

A Bayenga, villaggio in piena foresta pluviale nella provincia Orientale, i nostri missionari lavorano con la comunità dei pigmei Bambuti: qui l’iniziativa è quella di creare e rafforzare una scuola itinerante, che possa spostarsi da un campement (insediamento) all’altro e permettere agli oltre mille bambini non scolarizzati di avere un’istruzione che rispetti e valorizzi anche le specificità culturali del loro gruppo etnico, tuttora considerato, dalla maggioranza bantu, composto da cittadini di seconda categoria.

Chiara Giovetti

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Grazie perché

Ecco alcune delle iniziative (e non sono tutte!) per le quali ci avete aiutati in questo 2016.

Istruzione e sanità

Abbiamo scavato un pozzo a Guilamba, Mozambico, comprato le bici per gli insegnanti a Neisu, RD Congo, dotato di microscopio, centrifughe e altro materiale il laboratorio del dispensario di Mgongo, Tanzania, e messo nuovi banchi, sedie e pc portatili nel centro di formazione per bambini adolescenti e giovani di Tucupita, Venezuela.

Stiamo poi mettendo il fotovoltaico nella Secondary School Mary Mother of Grace di Rumuruti, Kenya, migliorando la cucina della scuola elementare di Blessoua, Costa d’Avorio, lavorando alla scuola di formazione in agricoltura e all’impianto di irrigazione a Maturuca, Brasile, continuando la formazione alla pace per i bambini e le loro famiglie a Cartagena de Chairá, Colombia, e sostenendo doposcuola e Day Care Centre a Arvaiheer, Mongolia.

Per questi nove progetti e altri 33 ringraziamo la famiglia della signora Piera Guaaschelli, che ha sostenuto i missionari della Consolata per lunghi anni.

Abbiamo attrezzato l’ospedale di Wamba, Kenya, per il servizio di dialisi, rinnovato il laboratorio, introdotto un sistema di gestione informatizzato, riattivato il servizio di cliniche mobili per i villaggi intorno all’ospedale, intensificato il programma nutrizionale e lanciato una campagna di iscrizione per i pazienti al fondo di assicurazione sanitaria keniano Nhif, che permette la copertura delle spese mediche sostenute. Per questo progetto, che ha concluso il primo anno e continuerà per altri due, ringraziamo la Conferenza Episcopale Italiana, che ci ha concesso un finanziamento totale di 232.233 euro.

Sostegno a distanza

Anche quest’anno abbiamo sostenuto a distanza circa duemiladuecento bambini, a cui abbiamo fornito istruzione, cibo, cure mediche. Il programma SaD è stato attivato o potenziato anche in Venezuela, Mozambico, Sudafrica, Kenya ed Etiopia.

Attività generatrici di reddito e formazione professionale

Continuiamo a sostenere il panificio a Kinshasa che, grazie alla generosità di donatori privati e di gruppi missionari, cammina sempre di più sulle sue gambe. Anzi, su quelle delle donne di Kin che vanno a vendere il pane prodotto dal panificio.

A Malindi, Kenya, abbiamo concluso il progetto agricolo per le donne e a Kinshasa, RD Congo, abbiamo completato l’ammodeamento del laboratorio di elettronica del Centro di formazione professionale per ragazzi non scolarizzati. Grazie a Caritas Italiana per questi e per gli altri microprogetti che ci hanno permesso di realizzare.

Acqua

Ringraziamo tutti quanti hanno dato il loro contributo per garantire un sempre più ampio accesso all’acqua per le persone di Mukululu, Kenya, dove si trova il Tuuru Water Scheme, un sistema idrico che serve 250 mila persone e 150 mila capi di bestiame.

Popoli indigeni

Ringraziamo i nostri donatori – organizzazioni e privati cittadini – per la loro sensibilità alla condizione dei popoli indigeni di
Roraima, da Catrimani a Raposa Serra do Sol, e il prezioso sostegno alla difesa dei loro diritti.

3.366 grazie

Vorremmo nominarvi e ringraziarvi tutti 3.366 – singoli privati, organizzazioni, associazioni, gruppi missionari, parrocchie, congregazioni, aziende, scuole – perché ci avete affidato il vostro denaro, magari togliendolo al budget per la spesa e passando i fine settimana a organizzare eventi per le missioni, ma, anche usando tutte le pagine di questa rivista, non ci sarebbe abbastanza spazio per descrivere che cosa ciascuno di voi ci ha permesso di realizzare.

Noi, però, conosciamo i vostri nomi uno per uno, e una per una rispettiamo le intenzioni che accompagnano la vostra donazione: quello che ci avete affidato è diventato quadei, pompe idriche, cibo, farmaci, microscopi, sementi, salari dei maestri, attrezzi agricoli, letti per il parto, avvocati che hanno difeso minoranze ingiustamente espropriate, cacciate, aggredite.

Grazie a voi, anche nel 2016 abbiamo scritto una bella storia: siamo pronti a scrivere insieme il prossimo capitolo.


Diamo i numeri

  • Con 6 euro regali 10 set scolastici (penna, matita, gomma, quaderno) agli alunni di Tucupita.
  • Con 40 euro doni un kit per il pronto soccorso al centro prescolare di Morogoro.
  • Con 120 euro copri per tre mesi i costi di spostamento della scuola itinerante a Bayenga.
  • Con 300 euro sostieni a distanza un bambino in Congo o Tanzania.

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Kharkhorin e Torino: un patto per il dialogo


Il giorno 9 novembre, presso la Sala del Consiglio del Comune di Torino, comunemente conosciuta come “Sala Rossa”, è stato firmato il Patto di Collaborazione fra il capoluogo piemontese e la città di Kharkhorin (Mongolia). Con questo atto pubblico, La Sindaca di Torino, Chiara Appendino, e il Sindaco della cittadina mongola, Enkhbat Lamzav, si sono impegnati, a nome delle due cittadinanze, a permettere un interscambio maggiore fra i due paesi, soprattutto nei campi della cultura e del turismo.

Negli antichi scranni in cui, in pieno Risorgimento, si sedette Cavour, è stata ospitata una piccola delegazione di amici, parenti e invitati vari, tra cui anche i Missionari e le Missionarie della Consolata.

Entrambi gli Istituti sono presenti in Mongolia dal 2003, nella capitale Ulaanbaatar e nella cittadina di Arvaikheer, capitale della Provincia di Uvurkhangai, ubicata nel centro del paese, a poche decine di chilometri dall’inizio dell’immenso deserto del Gobi.

Della stessa provincia fa parte anche Kharkhorin, l’antica Karakorum, prima capitale dell’impero mongolo per volere dello stesso Genghis Kahn. La città conserva oggi un’impareggiabile importanza culturale, religiosa (e di conseguenza, turistica) per chi vuole capire la storia di questo paese e, più in generale, dell’Asia centrale. Un interessante museo storico-archeologico guida il visitatore alla riscoperta di questo luogo che varie squadre di archeologi stanno cercando di riportare alla luce, con difficoltà, ma anche con interessanti risultati. Una delle principali fonti di riferimento è il diario scritto da un frate francescano italiano, Giovanni di Pian del Carpine che visitò la zona come legato papale in missione presso la corte del Khan mongolo. Il racconto dettagliato di questa impresa, che risale al XIII secolo, parla della compresenza pacifica e tollerante in Kharkhorin di un grande tempio buddhista, di una moschea islamica e di una chiesa cristiana nestoriana. Questo mirabile esempio del passato ha molto da dire anche al tempo presente, in cui le religioni sono usate sovente per dividere anziché unire i popoli nella ricerca della pace.

Sin dall’inizio della loro presenza in Asia, i Missionari e le Missionarie della Consolata hanno ritenuto che il dialogo, alimentato dalla conoscenza delle tradizioni religiose presenti sul territorio, sia fondamentale per l’evangelizzazione, ma anche per una vera collaborazione nel quotidiano, in vista del bene comune. A questo scopo, studio e ricerca a tavolino sono molto importanti; ciò che tuttavia conta maggiormente sono le relazioni fratee di rispetto e amicizia, che nascono da una frequentazione reciproca protratta nel tempo. In Mongolia è quanto essi cercano di fare, sia con gli amici buddhisti (monaci e semplici fedeli) sia con chi segue altre forme religiose, come lo Sciamanesimo (che appartiene all’identità’ più ancestrale della Mongolia) e l’Islam (praticato soprattutto nell’ovest del Paese), sia con chi non aderisce a nessun credo religioso.

Il tentativo di assecondare il profondo desiderio di armonia e dialogo ha spinto Missionari e Missionarie a rivolgere verso Kharkhorin il loro sguardo, muovendo i primi passi verso la costituzione di un centro di dialogo interreligioso e di ricerca storico-culturale.

La Firma del Patto di Collaborazione è frutto dei contatti capillari che Padre Giorgio Marengo, Missionario della Consolata torinese, ha mantenuto vivi su entrambi i fronti, mongolo e piemontese. L’incontro del 9 novembre, infatti, porta a compimento i propositi messi sul tavolo soltanto l’anno scorso, durante una visita a Torino del Sindaco della Città di Kharkhorin, accompagnato dall’allora Vice Goveatore della provincia di Uvurkhangai, in occasione del Forum mondiale dello sviluppo economico locale.

Se l’aspetto turistico e commerciale di questo accordo è certamente molto importante, occorre sottolineare la forte componente culturale che sottostà a questa firma, come la stessa Sindaca di Torino ha sottolineato nel suo discorso di benvenuto. Non è un caso che, oltre al Sindaco di Kharkhorin, per la delegazione mongola erano presenti l’Ambasciatore della Repubblica di Mongolia a Roma, dott. Tserendorj Jambaldorj, il direttore del Museo di Erdene Zuu, Naigal Tumurbaatar e la direttrice del Museo di Kharkhorin, Narangerel Giina.

I due studiosi hanno avuto modo di parlare del patrimonio culturale che gestiscono durante l’inaugurazione della mostra fotografica “Un tesoro nella steppa. Il monastero di Erdene Zuu in Mongolia”, in esibizione al MAO, il Museo di Arte Orientale di Torino, fino a domenica 11 dicembre 2016. La splendida coice del MAO ha esaltato i colori delle immagini che raccontano la storia centenaria del più importante ed antico centro di spiritualità buddhista del paese.

La mostra, realizzata grazie alle fotografie messe a disposizione dall’archivio della Regione di Uvurkhangai, presenta l’importante monastero buddhista costruito nel 1586 da Avtai Khan, principe dei Khalkha, l’odiea Repubblica di Mongolia. Delimitata da una cinta muraria di 400 metri per lato, scandita da 108 stupa, l’area sacra di Erdene Zuu era caratterizzata da numerosi edifici religiosi, costruiti nell’arco di tre secoli con differenti stili architettonici. Oggi, grazie anche ai Missionari della Consolata, questo tesoro viene condiviso in Occidente.

Firma del patto di collaborazione tra la città di Torino rappresentata dalal sindaca Chiara Appendino e la città di Kharkhorin in Mongolia rappresentata dal sindaco l. Enkhbat.
Firma del patto di collaborazione tra la città di Torino rappresentata dalla sindaca Chiara Appendino e la città di Kharkhorin in Mongolia rappresentata dal sindaco Lamzav  Enkhbat. Padre Giorgio Marengo, imc, che ha il dialogo non solo come traduttore. (foto Marco Bello)

Firma del patto di collaborazione tra la città di Torino rappresentata dalal sindaca Chiara Appendino e la città di Kharkhorin in Mongolia rappresentata dal sindaco l. Enkhbat.

Firma del patto di collaborazione tra la città di Torino rappresentata dalal sindaca Chiara Appendino e la città di Kharkhorin in Mongolia rappresentata dal sindaco l. Enkhbat.

Firma del patto di collaborazione tra la città di Torino rappresentata dalal sindaca Chiara Appendino e la città di Kharkhorin in Mongolia rappresentata dal sindaco l. Enkhbat.

Firma del patto di collaborazione tra la città di Torino rappresentata dalal sindaca Chiara Appendino e la città di Kharkhorin in Mongolia rappresentata dal sindaco l. Enkhbat.

Firma del patto di collaborazione tra la città di Torino rappresentata dalal sindaca Chiara Appendino e la città di Kharkhorin in Mongolia rappresentata dal sindaco l. Enkhbat.


Inaugurazione al Mao di Torino della mostra fotografica sugli scaviu archeologici a Kharkhoin alla presenza di Giorgio Marengo, imc, e il sindaco di Kharkhorin, Enkhbat Lamzav. Per la delegazione mongola erano presenti l’Ambasciatore della Repubblica di Mongolia a Roma, dott. Tserendorj Jambaldorj, il direttore del Museo di Erdene Zuu, Naigal Tumurbaatar e la direttrice del Museo di Kharkhorin, Narangerel Giina
Inaugurazione al Mao di Torino della mostra fotografica sugli scavi archeologici a Kharkhoin alla presenza di Giorgio Marengo, imc, e il sindaco di Kharkhorin, Enkhbat Lamzav. Per la delegazione mongola erano presenti l’Ambasciatore della Repubblica di Mongolia a Roma, dott. Tserendorj Jambaldorj, il direttore del Museo di Erdene Zuu, Naigal Tumurbaatar e la direttrice del Museo di Kharkhorin, Narangerel Giina (foto Paolo Moiola)

Inaugurazione al Mao di Torino della mostra fotografica sugli scaviu archeologici a Kharkhoin alla presenza di Giorgio Marengo, imc, e il sindaco di Kharkhorin, Enkhbat Lamzav. Per la delegazione mongola erano presenti l’Ambasciatore della Repubblica di Mongolia a Roma, dott. Tserendorj Jambaldorj, il direttore del Museo di Erdene Zuu, Naigal Tumurbaatar e la direttrice del Museo di Kharkhorin, Narangerel Giina

Inaugurazione al Mao di Torino della mostra fotografica sugli scaviu archeologici a Kharkhoin alla presenza di Giorgio Marengo, imc, e il sindaco di Kharkhorin, Enkhbat Lamzav. Per la delegazione mongola erano presenti l’Ambasciatore della Repubblica di Mongolia a Roma, dott. Tserendorj Jambaldorj, il direttore del Museo di Erdene Zuu, Naigal Tumurbaatar e la direttrice del Museo di Kharkhorin, Narangerel Giina

Inaugurazione al Mao di Torino della mostra fotografica sugli scaviu archeologici a Kharkhoin alla presenza di Giorgio Marengo, imc, e il sindaco di Kharkhorin, Enkhbat Lamzav. Per la delegazione mongola erano presenti l’Ambasciatore della Repubblica di Mongolia a Roma, dott. Tserendorj Jambaldorj, il direttore del Museo di Erdene Zuu, Naigal Tumurbaatar e la direttrice del Museo di Kharkhorin, Narangerel Giina

Inaugurazione al Mao di Torino della mostra fotografica sugli scaviu archeologici a Kharkhoin alla presenza di Giorgio Marengo, imc, e il sindaco di Kharkhorin, Enkhbat Lamzav. Per la delegazione mongola erano presenti l’Ambasciatore della Repubblica di Mongolia a Roma, dott. Tserendorj Jambaldorj, il direttore del Museo di Erdene Zuu, Naigal Tumurbaatar e la direttrice del Museo di Kharkhorin, Narangerel Giina

Inaugurazione al Mao di Torino della mostra fotografica sugli scaviu archeologici a Kharkhoin alla presenza di Giorgio Marengo, imc, e il sindaco di Kharkhorin, Enkhbat Lamzav. Per la delegazione mongola erano presenti l’Ambasciatore della Repubblica di Mongolia a Roma, dott. Tserendorj Jambaldorj, il direttore del Museo di Erdene Zuu, Naigal Tumurbaatar e la direttrice del Museo di Kharkhorin, Narangerel Giina




Cooperazione progetti micro


Micro progetti per grandi problemi. Cibo, scuola, sanità, acqua, diritti. Sono molti i nostri missionari che si spendono ogni giorno per costruire un mondo più vivibile, non solo annunciando la Parola, ma ponendo quotidianamente piccoli gesti di frateità verso i più piccoli e i più poveri. Ecco alcune attività significative in Africa e America Latina. Tutte, casualmente, sono portate avanti da missionari della Consolata africani.

Costa d’Avorio,
una cucina per la scuola di Blessoua

Durante la stagione delle piogge, nei villaggi della brousse (savana), le fragili costruzioni in terra e paglia faticano a resistere alle forti folate di vento e alle precipitazioni torrenziali. La cucina della scuola elementare di Blessoua, nella Costa d’Avorio meridionale, era una di queste casette precarie e risultava inservibile quando la pioggia si faceva troppo battente. Perciò l’ora del pranzo per i 423 bambini della scuola non poteva più essere mezzogiorno ma, molto più imprevedibilmente, l’ora in cui smetteva di piovere. Le conseguenze sulla didattica sono facili da immaginare, con i quindici maestri sempre a rischio di dover interrompere la lezione e gli alunni sempre meno concentrati e più stanchi per l’attesa del pasto. Per questo padre James Gichane, keniano di Nakuru, in missione a Blessoua, ha chiesto di poter costruire una cucina più solida che permetta al cuoco di lavorare in tranquillità e ad alunni e insegnanti di concentrarsi sulle lezioni. La scuola riunisce figli di ivoriani ma anche di togolesi, burkinabè e beninesi venuti in Costa d’Avorio per lavorare nelle piantagioni di cacao: la socializzazione fra questi bambini è un mattone basilare nelle fondamenta della pace che il paese sta costruendo dopo essere uscito da una guerra civile che si alimentava anche della manipolazione dell’odio fra ivoriani e stranieri.

Kenya,
energia pulita per la «meglio» scuola secondaria della Laikipia

Quasi cinquemila chilometri più a Sud Est, in un’altra scuola – stavolta secondaria – il responsabile padre David Mbgua ha invece potuto installare un sistema fotovoltaico alla Mary Mother of Grace Secondary School di Rumuruti nella contea di Laikipia, Kenya: il risparmio sulla bolletta della luce gli permetterà di liberare risorse da utilizzare per la didattica, di evitare i black out che impedivano ai ragazzi di studiare dopo il tramonto del sole e di alimentare la scuola con energia rinnovabile, tema questo tutt’altro che secondario in un paese che sta dibattendosi fra richiesta energetica sempre in crescita ed esigenza di sostenibilità ambiatele.

La Mary Mother of Grace fu aperta nel 1992 da padre Giuliano Gorini, recentemente scomparso. Ha 216 alunni e si trova in una zona abitata da pastori nomadi in costante movimento per seguire il bestiame, dove i casi di banditismo sono frequenti. Padre Gorini stesso, ricordava nel 2013 un articolo sul quotidiano Daily Nation, si è trovato più di una volta una carabina puntata in faccia mentre, sdraiato a terra, ascoltava i banditi chiedergli soldi. La scuola vanta uno dei migliori insegnati di fisica del Kenya secondo i risultati degli esami di maturità: le sue classi del 2009 e del 2013 hanno ottenuto 11,5 e 11,58 punti sul massimo di dodici del sistema di valutazione keniano. E non solo, la scuola che, come regola, accoglie ragazzi provenienti da famiglei povere, desiderosi di studiare, si piazza ogni anno tra le primissime di tutto il paese.

Tanzania,
a Pawaga contro i danni del clima impazzito

Se le piogge privavano i bambini ivoriani della loro mensa scolastica, in Tanzania non sono state da meno nel rendere dura la vita della gente di Pawaga, villaggio in un’area semi arida a un’ottantina di chilometri dalla città di Iringa, nel centro del paese: a febbraio di quest’anno le piogge, di solito scarse e brevi, sono state così abbondanti da provocare inondazioni e costringere centinaia di persone a sfollare mentre le loro proprietà sono state distrutte. Passate le piogge, l’acqua stagnante ha favorito il moltiplicarsi delle zanzare e i casi di malaria sono aumentati notevolmente rispetto alle medie locali. Per questo padre Vitalis Oyolo, missionario keniano e responsabile dei progetti in Tanzania, ha segnalato la necessità di acquistare e distribuire farmaci antimalarici e zanzariere in modo da contrastare l’espandersi dell’epidemia. A Itundundu, vicino Pawaga, i missionari gestiscono inoltre un dispensario che, grazie al supporto di un donatore statunitense, segue e cura circa 450 bambini malnutriti.

Congo RD,
acqua e salute a Neisu

L’acqua invece non è mai troppa quando si tratta di soddisfare le esigenze di una rete sanitaria come quella dell’ospedale Nôtre Dame de la Consolata di Neisu, nella Provincia Orientale della Repubblica Democratica del Congo, che serve circa settantamila pazienti e conta, oltre alla struttura principale, anche tredici centri e posti di salute, il più lontano dei quali si trova a sessantacinque chilometri dall’ospedale. L’ospedale è costantemente alle prese con situazioni al limite dell’emergenziale: lo scorso aprile David Bambilikpinga-Moke, missionario congolese rientrato in patria dopo anni di lavoro nell’Amazzonia brasiliana e ora responsabile dell’ospedale, scriveva: «In questo momento stiamo registrando una epidemia di malaria in cui la maggior parte dei pazienti sono bambini di meno di dieci anni (attualmente 183). È già la seconda volta in quattro mesi che ci troviamo di fronte a questa situazione».

I centri e posti sanitari hanno un ruolo fondamentale nel raggiungere pazienti che non potrebbero altrimenti affrontare lo spostamento fino all’ospedale. Per il loro corretto funzionamento l’acqua pulita è indispensabile e fra il 2010 e il 2012, grazie ai fondi dell’otto per mille della Tavola Valdese e della Water Right Foundation della Toscana, sei centri hanno potuto avere il loro pozzo, ma ne servono ancora sette per altrettanti centri o posti che ne sono sprovvisti. Due saranno finalmente realizzati entro la fine del 2016.

Brasile,
scuola di diritti a Serrinha

Quasi alla stessa altezza sull’Equatore rispetto a Neisu, ma sull’altra sponda dell’Atlantico, i problemi legati all’acqua e all’istruzione si intrecciano con la resistenza dei popoli indigeni contro chi li vuole, continua a volerli, cittadini di seconda categoria.

La scuola statale Índio Prurumã II si trova nella Terra indigena Raposa Serra do Sol, stato di Roraima, Brasile. È la scuola della comunità indigena Serrinha, conta 85 alunni, nove insegnati e richieste di iscrizione crescenti di anno in anno. Nonostante il riconoscimento pubblico della comunità e della scuola, lo stato non fornisce nessun sostegno concreto alle strutture e alla didattica: un triste espediente, questo, che svuota nei fatti i diritti dei popoli indigeni sanciti per legge. A far pressione sul governo statale in questa direzione sono i grandi latifondisti e gli altri potentati economici del Roraima, peraltro spesso familiari o membri loro stessi della classe politica locale, che vedono nella presenza degli indios semplicemente un fastidioso ostacolo alla possibilità di appropriarsi della terra.

Le scuola aveva solo quattro aule, tutte di fango, lamiera, pali e assi di legno e la comunità non disponeva di fonti d’acqua affidabili e igienicamente sicure. Fra la fine del 2015 e l’inizio del 2016, inoltre, un’ondata di siccità particolarmente forte aveva messo in difficoltà la popolazione locale, costretta a dipendere gioalmente dall’arrivo delle autobotti inviate dal municipio o a utilizzare fonti d’acqua di fortuna. I progetti in corso, seguiti dal missionario congolese Jean Tuluba, permetteranno di migliorare la struttura delle quattro aule e scavare un pozzo artesiano che serva la scuola e la comunità intorno.

Brasile,
a Maturuca agricoltura biologica e sanità

Maturuca è il cuore della lotta indigena a Raposa Serra do Sol: è lì che si trova la grande maloca comunitaria dove possono riunirsi fino a mille persone provenienti da tutta la regione per unire le forze e le idee nelle loro battaglie. È il luogo della promessa con cui nel 1977 i tuxaua (capi delle comunità) cominciarono la lotta all’alcolismo che fiaccava la determinazione delle loro comunità a opporsi a chi voleva spazzarli via; è stata il punto nevralgico della campagna Indios Roraima del 1988-89 e del progetto ad essa legato, «Una mucca per l’indio», che ha permesso a Raposa Serra do Sol di passare da poche vacche a 42 mila capi di bestiame.

Oggi Raposa si trova a dover consolidare e rafforzare questi risultati per lottare contro la tentazione per i più giovani di spostarsi in città, e per puntare a una sempre maggiore autonomia economica di un’area che rimane isolata e, negli ultimi anni, esposta a cambiamenti climatici che hanno ridotto le piogge e reso più difficile l’agricoltura. A questa sfida cerca di rispondere il progetto di padre Philip Njoroge Njuma, missionario keniano in forza a Maturuca. Il progetto, che si chiama Terra Madre, vuole offrire ai giovani una scuola di formazione all’agricoltura biologica per autoconsumo e vendita e creare un efficiente sistema di irrigazione che permetta di coltivare contando sull’acqua. A questo si affianca poi un altro progetto che permetterà di aprire tre centri sanitari: diverse comunità hanno già provveduto in autonomia alla costruzione del proprio centro ma ci sono ancora aree non raggiunte dai necessari servizi di tutela della salute.

Colombia,
il teatro degli oppressi a Cali

Sempre a minoranze e gruppi vulnerabili è rivolto il progetto «Teatro degli oppressi» che si realizza a Cali, grande città della Colombia occidentale. Qui il keniano padre Venanzio Mwangi Munyiri sta lavorando da anni con i giovani discendenti degli schiavi deportati dall’Africa a partire dalla fine del XVI secolo. La popolazione afro-colombiana ha subito da sempre discriminazioni molto simili a quelle patite dalle popolazioni indigene, alle quali si sommano oggi, in città come Cali, i problemi tipici delle periferie urbane coi le loro sacche di marginalizzazione e povertà.

Questo insieme di condizioni, spiega padre Venanzio, ha indotto negli afro-discendenti un senso di impotenza e rassegnazione alla subalteità che li spinge a ripiegare su metodi di sostentamento degradanti e li espone al reclutamento da parte delle organizzazioni criminali.

Il progetto di sei mesi, a cui contribuiscono anche le amministrazioni locali, prevede una fase di sensibilizzazione delle comunità, la formazione degli animatori e un programma didattico che valorizzzando il teatro aiuti i partecipanti a riscoprire e apprezzare la propria identità e cultura e quella degli altri al fine di crescere nell’accettazione e nel rispetto delle diversità culturali.

Harambee, insieme

Per tutti i progetti la comunità locale ha fornito un contributo: manodopera, vitto e alloggio per gli operai, trasporto dei materiali oppure una parte delle risorse. Il contributo è una combinazione della minga colombiana, del mutirão brasiliano, dell’harambee kenyano o di altre forme di partecipazione comunitaria. Sono termini in lingue diverse che condividono un principio di base: è attraverso il fare insieme che la comunità, oltre a risolvere il problema pratico di procurare risorse, promuove la propria autoconservazione.

Chiara Giovetti




Cinque per mille: un po’ meglio ma non basta


Riprendiamo il dibattito sul cinque per mille per vedere a che punto è arrivato il processo di semplificazione e aumento della trasparenza, auspicato dalla Corte dei Conti, dal 2013 a oggi. La più recente deliberazione della Corte, la 9/2015/G dello scorso ottobre, segnala ancora molti punti irrisolti.

Mancano circa due mesi alla prima delle scadenze per la presentazione della dichiarazione dei redditi (quella cioè relativa al modello 730) e per la contestuale scelta da parte dei contribuenti della destinazione del proprio cinque per mille. L’istituto del cinque per mille gode di parecchia popolarità, che emerge in maniera netta a confronto, ad esempio, con la destinazione del due per mille ai partiti politici, opzione introdotta dal 2014. Quest’ultima ha riscosso un ben più misero successo – poco più di un milione di contribuenti, contro gli oltre diciassette milioni che sottoscrivono il cinque per mille – e un ben più magro bottino: 9,6 milioni di euro contro i quasi 390 milioni del cinque per mille. Il primo beneficiario del cinque per mille, l’Associazione italiana per la ricerca sul cancro, incassa da sola quasi sei volte tanto tutti i partiti messi insieme.

La Corte dei Conti, ente di controllo della gestione delle risorse pubbliche, è intervenuta con tre deliberazioni (nel 2013, 2014 e 2015) per analizzare il funzionamento del meccanismo del cinque per mille e per evidenziae diverse storture: ne avevamo parlato nel giugno 2015 (Cinque per mille, la lunga strada verso la chiarezza). Vediamo a oggi che cosa è stato corretto e che cosa invece, a detta dei magistrati contabili, resta ancora da fare.

Stabilizzazione e elenchi dei beneficiari, un passo avanti

Stabilizzazione. Il cinque per mille è stato introdotto con la legge finanziaria del 2006 «a titolo iniziale e sperimentale»; è rimasto un istituto provvisorio fino due anni fa, quando la legge 190 del 23 dicembre 2014 ne ha sancito la stabilizzazione, cioè lo ha reso un contributo certo e non più soggetto a rinnovo di anno in anno mediante introduzione nella legge di stabilità. Inoltre, il tetto di spesa – cioè la somma massima che il governo si impegna a erogare per il totale dei contributi – è aumentato da 400 a 500 milioni di euro.

Elenco enti. Altra spunta all’elenco delle cose da fare è quella relativa alla lista totale degli enti ammessi in una o più categorie di beneficiari fino al 2013, che l’Agenzia delle entrate ha pubblicato sul proprio sito, insieme a un motore di ricerca che rende possibile individuare i soggetti beneficiari cercando per denominazione, codice fiscale o provincia.

Trasparenza. Infine, un parziale miglioramento della trasparenza si è registrato, a partire dal 2015, anche nella casella dei beni culturali e paesaggistici: ora è infatti precisato che il cinque per mille di chi sceglie questa opzione va a organismi privati, mentre la dicitura precedente poteva portare il cittadino a pensare che il suo contributo andasse al ministero per i Beni, le Attività culturali e il Turismo (Mibact) o ad altri enti pubblici.

Quel che ancora non va

Ma la lista dei provvedimenti presi, purtroppo, si ferma qui. Molto più lunga è quella delle storture rilevate già nelle precedenti sentenze e non ancora corrette.

Intermediari. La prima sulla quale insiste la deliberazione è quella delle irregolarità nei comportamenti degli intermediari, di coloro, cioè, che assistono i contribuenti nella compilazione dei modelli. L’Agenzia delle entrate ha avviato, su richiesta della Corte dei Conti, una serie di controlli sui Caf, i centri di assistenza fiscale. I Centri presi in esame sono stati: il Caf Mcl, il Caf Acai, il Caf Servizi di base, il Caf Anmil e il Caf Acli e il risultato degli interventi di vigilanza ha mostrato che nel 3,7 per cento dei casi esaminati «le scelte del contribuente non risultano trasmesse correttamente dal Caf».

Più trasparenza. Secondo la Corte, alla stabilizzazione dell’istituto non si è ancora accompagnata una sua riorganizzazione: c’è ancora molto da fare, ad esempio, riguardo alla trasparenza. Strumenti utili a questo fine, ripetono i magistrati contabili, sarebbero la pubblicazione dei bilanci, una più uniforme e chiara rendicontazione delle somme ottenute, e anche meccanismi «per espellere gli organismi non meritevoli della fiducia accordata dai contribuenti» nel caso di omessa o non adeguata rendicontazione.

Selezione. Serve anche una maggior selezione degli enti. Secondo la Corte, infatti, «benché il proliferare dei beneficiari esprima la frammentazione dei bisogni della società contemporanea», occorre una più rigorosa selezione dei beneficiari per «non disperdere risorse per fini impropri: i fruitori, infatti, superano ormai il numero di 50mila».

La Corte si riferisce in particolare alle tante onlus ed enti di volontariato che ottengono meno di 500 euro e a quelli che non hanno avuto nemmeno una scelta, e ribadisce l’effetto distorsivo per cui le organizzazioni che possono contare sul sostegno di contribuenti facoltosi ottengono importi rilevanti anche con un numero molto basso di firme. La Corte, insomma, non prende di mira la frammentazione in sé, ma quanti tradiscono le intenzioni del legislatore e lo spirito dell’istituto, non producendo un effettivo «valore sociale». Una critica che si estende anche agli enti beneficiati da chi sceglie di supportare la cultura: i «rilevantissimi tagli di bilancio» che il Mibact ha subito negli ultimi anni, recita la deliberazione, dovrebbero indurre a un utilizzo delle risorse del cinque per mille a favore dello Stato e degli altri enti pubblici; invece queste risorse vengono dirottate su enti privati «che sviluppano, peraltro, spesso, progetti non di particolare interesse per i contribuenti».

Lentezza cronica. Pure sulla rapidità nell’accredito delle quote c’è ancora molto da migliorare: nel 2015 la pubblicazione delle quote assegnate (relative all’anno fiscale 2013) è avvenuta a metà maggio, risultando quindi più lenta rispetto agli anni precedenti. Concentrare i pagamenti in capo a un’unica struttura, insiste la magistratura contabile, potrebbe velocizzare i tempi. Oggi, a essere coinvolti sono diversi ministeri e l’Agenzia delle entrate che comunicano fra di loro in modo non abbastanza efficiente.

Anagrafe unica. Resta ancora da realizzare «l’unione in una sola anagrafe degli albi, degli elenchi e dei registri attualmente presenti». In più sarebbe auspicabile un «database pubblico con dati provenienti dall’Agenzia delle entrate, dalle Camere di commercio, dal Coni e dalle altre amministrazioni coinvolte, che consenta di valutare più compiutamente l’operato degli enti con finalità sociali».

Come sempre, spetta al legislatore recepire e applicare le raccomandazioni della Corte. E il legislatore, ricorda la deliberazione, è al lavoro sulla riforma del terzo settore, dell’impresa sociale e del servizio civile universale (e sulla sua successiva attuazione), che «annuncia importanti novità in materia di cinque per mille attraverso una riforma strutturale di questo istituto».

Le polemiche sulle campagne promozionali

Al di là degli aspetti legislativi e contabili, il cinque per mille torna ogni anno al centro del dibattito sull’uso delle immagini e sull’aggressività delle campagne per convincere i contribuenti ad aderire. Nel febbraio 2016, la rivista «Africa» è tornata (duramente) sull’argomento riferendosi in particolare alle organizzazioni che operano nel Sud del mondo: «Si è aperta la caccia al 5 per mille degli italiani. Come ogni primavera, migliaia di onlus e Ong sono impegnate a convincere i contribuenti con campagne che toccano le corde emotive (…). Ripescare il crudele cliché dello scheletrino africano ha sempre una presa forte sul pubblico che, impietosito, allarga i cordoni del borsellino e dona all’associazione». La rivista dei padri bianchi invita «tutti coloro che condividono questa battaglia a scegliere di destinare il proprio 5 per mille solo a chi non fa un uso delle immagini dei bambini lesivo dei loro diritti».

Contro la «pornografia del dolore» anche Mco si è schierata chiaramente da queste pagine sul primo numero di questo 2016. Sembra che il vecchio adagio «il fine giustifica i mezzi» sia davvero duro a morire. Non solo in certe Ong e onlus, ma anche nella testa di certi missionari, di più o meno vecchio stampo, che, eccessivamente preoccupati di far quadrare i conti dei «loro» pur santi progetti, in questa situazione di crisi non vanno troppo per il sottile per fidelizzare i loro benefattori.

Il 5×1000 a Mco

Questo resoconto di storture, ritardi e polemiche, per di più con tanto linguaggio «burocratese», non è esattamente un assist da campioni per chiedervi di destinare a Mco il vostro cinque per mille, lo sappiamo.

Ma la verità è che noi non siamo dei maghi della comunicazione. Perché siamo figli di un Fondatore che ci ha detto di «fare bene il bene» (e fin qui tutto bene), ma anche di «farlo senza rumore».

E allora, sì, metteremo qualche foto, qualche richiamo, qualche pagina sulla rivista, e quel fastidiosissimo pop up che troverete sul sito. Ma nulla di più… rumoroso.

La verità è che non ci piace l’idea che a convincervi sarà, o sarebbe, una bella campagna e qualche bella foto all’ultimo minuto.

Preferiamo pensare di avervi persuasi durante tutto l’anno, con i nostri progetti, i nostri articoli, le nostre adozioni a distanza, l’informazione che condividiamo sui social. O, ancora di più, di avervi convinto in oltre cent’anni di lavoro sul campo, come si dice in gergo, o in missione, come viene più facile dire a noi.

Anche perché, se non vi abbiamo convinti così, non c’è testimonial Vip che tenga.

Quel che più di tutto ci piace pensare è che non solo vi abbiamo persuaso, ma soprattutto vi convinceremo ancora attraverso quello che realizzeremo grazie a voi. E lo diciamo in anticipo: «Grazie. A voi».

Chiara Giovetti




La cooperazione nel carrello della spesa

 

In questo numero proponiamo una riflessione e qualche indicazione per chi vuole fare solidarietà internazionale tutti i giorni. A partire dalla spesa al supermercato. O, meglio ancora, nel piccolo negozio di quartiere e di paese.

Cominciamo con un esempio concreto. Sono le sette di sera e ti trovi al supermercato di quartiere per fare la spesa settimanale. Mentre metti nel carrello i soliti prodotti, tuo figlio, accanto a te, ben esposto a un bel po’ di cartoni animati mescolati a pubblicità, sta facendo di tutto per sottrarti la guida del carrello e condurlo a velocità supersonica lungo le corsie de negozio. All’improvviso si ferma come folgorato davanti al banco frigo: ha visto la sua merendina preferita. Cerchi di convincerlo a provae un’altra, che costa un po’ meno e forse è anche più sana, ma lui pianta una grana epocale che rischia di finire con lacrimoni caldi e grida disperate fra gli sguardi indignati degli altri clienti. Alla fine cedi: dopo una lunga giornata di lavoro e a pochi minuti dalla chiusura del supermercato non hai proprio le energie per gestire una scenata.

Toi a casa e, dopo cena, t’imbatti in un articolo sul giornale: la multinazionale Merendinia, produttrice del dolcetto tanto amato da tuo figlio, è accusata di sfruttare il lavoro minorile in Costa d’Avorio, nelle piantagioni di cacao dalle quali viene uno degli ingredienti della merendina. Ripensi allo scorso Natale, quando hai donato cinquanta euro a un’organizzazione che lavora proprio in Costa d’Avorio, dove i bambini sono spesso costretti a lasciare la scuola per andare a lavorare, in condizioni di semi schiavitù, nelle piantagioni locali. L’obiettivo dell’organizzazione è quello di contrastare il fenomeno sostenendo attraverso il microcredito le famiglie dei bambini e riportando questi ultimi a scuola.

E se fossero gli stessi bambini? Se è così, allora significa che con cinquanta euro dati all’associazione per Natale fai studiare un bambino, mentre con un euro di merendina a settimana per cinquanta settimane all’anno finanzi chi impedisce a quel bambino di andare a scuola.

Sull’onda della scoperta appena fatta ti metti a navigare su internet e poi a esplorare la tua casa: il detersivo per i piatti, nell’etichetta posteriore, reca il logo di un’altra grande multinazionale, anche questa accusata di gravi violazioni dei diritti dei lavoratori, così come il cibo per la gatta, che leggi essere prodotto con pesce pescato da piccoli schiavi birmani in Thailandia. Te ne vai a dormire con un bel mal di testa: sembra che qualsiasi cosa faccia (o compri), sbagli.

behind-the-brandsChe cosa c’è a monte?

È ovvio che questa ricostruzione del quotidiano di una persona è fittizia e si limita a connettere fra di loro alcune informazioni: è difficile risalire con questa accuratezza la catena che porta nelle nostre case cibo e oggetti la cui produzione ha causato un danno a un preciso essere umano in Africa, Asia, America Latina.

E, tanto per complicare ulteriormente la faccenda, c’è anche il panorama visto dal Sud del mondo: i lavoratori delle piantagioni Del Monte in Kenya, infatti, non hanno alcuna intenzione di boicottare la multinazionale. Dicono: «Noi la vogliamo eccome, la Del Monte, perché ci dà lavoro. Vogliamo solo che ci paghi meglio e che non ci faccia perdere la salute». Che dire poi del latte in polvere – spesso Sma milk (prima di proprietà della farmaceutica Pfizer e dal 2012 della Nestlè) o Bebelac (Danone) – che si vede fra le braccia dei bambini nei campi di rifugiati siriani? Ovvio che nell’immediato serve il latte Danone in Siria e serve il lavoro offerto dalla Del Monte in Kenya. Ma che cosa sta a monte della malnutrizione dei bambini siriani o delle lotte dei contadini keniani? Se c’è un campo rifugiati con dei bambini malnutriti è perché c’è un’emergenza umanitaria generata da un conflitto. Se i lavoratori keniani chiedono salari più alti e diritti basilari è perché non li hanno.

Il punto, allora, è come evitare che una soluzione immediata – il latte, il lavoro – ipotechi una soluzione più duratura, stabile ed equa. Come evitare, cioè, che una multinazionale sia così potente da imporre sempre, e non solo nei casi di emergenza, il latte in polvere? O che le grandi piantagioni trasformino i paesi del Sud del mondo in infei ambientali abitati da masse di salariati a basso costo dove non è più possibile alcuna iniziativa autonoma locale e da cui le persone continueranno a emigrare, come e più di oggi?

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Il potere del consumatore

Ma che c’entrano il genitore e la merendina con questi fenomeni così vasti e lontani? C’entrano per il fatto stesso di fare la spesa. Facendo la spesa si compie un gesto apparentemente insignificante: basta mettersi sul cavalcavia di un’autostrada e osservare il gran numero di camion che trasportano i prodotti che consumeremo per sentire noi stessi e la nostra borsa della spesa irrilevanti.

Ma il consumo può essere un’arma molto potente. In un piccolo supermercato di quartiere, in un negozio di paese, la scelta di un solo cliente sposta poco o nulla. Ma quella di dieci consumatori già appare nelle tendenze di vendita che il negoziante esamina a fine mese. E quella di cento consumatori lo costringe a cambiare gli ordini ai fornitori.

Sulle conseguenze economiche e politiche delle scelte consapevoli di consumo è in corso una approfondita riflessione: il «votare con il portafoglio» di cui parla ad esempio l’economista Leonardo Becchetti.

Il mondo del consumo consapevole, però, non è né semplice né lineare. Somiglia, in certe sue sfaccettature, al mondo che ci hanno raccontato le nonne, in cui era impensabile mangiare lasagne di martedì, si lavavano i panni con la cenere e non si buttava niente. Dopo decenni di ipermercati e di consumo compulsivo, quella sobrietà sta – per scelta o per necessità – tornando pian piano ad apparire nel dibattito pubblico. Ma la narrativa delle origini a volte sembra più che altro al servizio del marketing e rimanda alla naturalità di un’età dell’oro forse mai esistita. Non negli ultimi cent’anni, almeno, se è vero che anticrittogamici e concimi chimici erano in uso in Italia già negli anni Venti del secolo scorso e che a partire dagli anni Sessanta diverse varietà di frumento sono state irradiate: uno degli esempi più noti è il grano Creso, ottenuto nel 1974 dopo un processo di irraggiamento del grano Senatore Cappelli.

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Il chilometro zero

Ma veniamo agli aspetti del consumo consapevole legati alle economie (e quindi agli abitanti) del Sud del mondo e limitiamoci per brevità all’ambito alimentare. Uno dei principi molto in voga negli ultimi anni è quello del chilometro zero, cioè, in estrema sintesi, il consumo di prodotti il più vicino possibile alla zona di produzione. Al di là dell’ovvio vantaggio per i produttori locali, il chilometro zero favorirebbe l’ambiente perché trasporti più brevi implicano meno emissioni di CO2. Quelle stesse emissioni di cui tanto s’è parlato al Cop21 – la conferenza sull’ambiente che si è svolta a Parigi alla fine dello scorso anno – e il cui effetto nefasto sul clima colpirebbe specialmente i paesi del Sud del mondo. Ecco dunque che il consumo locale in Europa o Stati Uniti aiuta indirettamente anche i paesi del Sud del mondo attraverso la riduzione delle emissioni. Tutto bene, allora? Quasi. Se il consumo locale viene da serre riscaldate con impianti fotovoltaici forse sì. Ma se, per alzare la temperatura nelle serre, si bruciano tonnellate di gasolio, allora forse no. In questo caso può darsi che trasportare frutta dall’Africa o dall’America Latina produca meno danno all’ambiente del chilometro zero di serra. La stagionalità dei prodotti, dunque, è l’altro elemento da considerare: a gennaio sono sostenibili i cavolfiori, non i pomodori.

Ma non è finita qui: secondo uno studio del britannico Istituto Internazionale per l’ambiente e lo sviluppo (Inteational Institute for Environment and Development), circa un milione e mezzo di coltivatori africani dipendono dal consumo dei loro prodotti nel Regno Unito. Vale la pena, si chiede lo studio, di privare del sostentamento un milione e mezzo di persone per ridurre le emissioni britanniche dello 0,1 per cento eliminando i voli dall’Africa carichi di frutta e verdura? Non sarebbe meglio ridurre invece gli oltre duecento chilometri che in media un inglese percorre in auto annualmente per andare ad acquistare cibo? Le emissioni prodotte da questi spostamenti rappresentano lo 0,38 per cento del totale annuale, quattro volte quelle generate dal trasporto aereo di frutta e verdura dall’Africa.

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Il commercio equo

Altro grande protagonista del consumo consapevole è il commercio equo e solidale, o fair trade di beni provenienti dal Sud del mondo prodotti con criteri non solo orientati al profitto ma anche a garantire un reale beneficio per le comunità locali. Le più recenti critiche al fair trade vengono da una ricerca di un’università inglese, la Scuola di studi Orientali e Africani (Soas), e dallo studio dell’economista senegalese Ndongo Samba Sylla della Rosa Luxemburg Foundation. In breve, le conclusioni raggiunte dallo studio Soas sono che in Etiopia e Uganda – i paesi presi in esame dalla ricerca – le condizioni dei lavoratori appartenenti al circuito del commercio equo sarebbero addirittura peggiori rispetto a quelle dei lavoratori del circuito tradizionale, mentre Sylla insiste specialmente sui limiti del sistema di certificazione per ottenere il «bollino fair trade» che, a detta del ricercatore senegalese, penalizza proprio i paesi più poveri e meno organizzati, in particolare quelli africani. A partire dallo studio di Sylla, l’Economist si è spinto a concludere che il commercio equo è servito più a tranquillizzare le coscienze nei paesi ricchi che a contrastare seriamente la povertà nei paesi in via di sviluppo. Come se l’eticità stessa fosse anch’essa un bene di consumo che si compra insieme alle banane. Secondo i critici del fair trade, insomma, il cibo soddisfa un bisogno fisico, il fatto che il cibo sia «etico» soddisfa un bisogno morale, ma entrambe le cose sono, in definitiva, merce.

La risposta di Agices, l’Assemblea generale italiana del commercio equo e solidale, non si è fatta attendere: il presidente Alessandro Franceschini ha ammesso che, in effetti, su «15 milioni di euro di importazioni da produttori di commercio equo da parte delle organizzazioni nostre socie, solo l’11% arriva dal continente africano». E che «c’è ancora molto da lavorare». Ma ha anche sottolineato che lo studio Soas prende in considerazione solo due paesi foendo perciò una lettura parziale. Quanto alle certificazioni, il sistema rappresentato da Agices si basa sulla relazione tra organizzazioni nel Nord e nel Sud del mondo, «il cui lavoro è reciprocamente garantito», più che sulla certificazione.

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Quasi un secondo lavoro

Si potrebbero fare molti altri esempi, non solo relativi al cibo, di come le nostre scelte di consumo pesano sui luoghi e le persone nel Sud del mondo che hanno prodotto ciò che consumiamo. Come si fa a orientarsi? Difficile sottoscrivere senza riserve affermazioni come: se compri prodotti fair trade, se fai acquisti a chilometro zero, allora sei sicuro di non far danni. E questa forse è una prima indicazione: aderire una volta per tutte, in maniera fideistica, a una linea di consumo critico è… acritico.

Per informarci su quel che consumiamo ci sono strumenti come il sito promosso dalla Ong Oxfam Scopri il Marchio che, per ogni prodotto selezionato, mostra una valutazione della multinazionale produttrice basata sul trattamento dei lavoratori, sul rispetto del diritto alla terra, sull’attenzione per l’ambiente. Altro strumento è il rapporto diretto e fiduciario con chi vende, un rapporto che la Grande distribuzione organizzata (Gdo) ha indebolito ma che ci permetterebbe di ottenere informazioni e chiedere conto della provenienza di quel che acquistiamo.

Inutile illudersi: tutto questo si scontra con i colossi della Gdo e della grande produzione, con le loro efficientissime macchine di marketing che remano nella direzione opposta, e trovare le informazioni per contrastare questi fenomeni richiede tempo, a volte così tanto che sembra quasi un secondo lavoro.

E, naturalmente, il presupposto è che fare questa operazione di conoscenza ci interessi: il genitore che fa la spesa di corsa e probabilmente con un limite di spesa preciso spesso non ha né tempo né voglia di approfondire e compra quel che è più conveniente. Ma il prezzo di questo apparente risparmio di tempo e denaro è piuttosto salato: significa rinunciare in partenza a tentare di scegliere non solo quello che mettiamo nel carrello, ma anche quali salari avremo domani se il mercato mondiale ci impone di renderli competitivi con il quelli bassi del Sud del mondo, o quanti migranti economici e ambientali busseranno ancora alle porte dell’Europa perché i loro paesi sono stati devastati da cambiamento climatico, monocolture su grande scala, estrazione mineraria selvaggia.

Chiara Giovetti




Pornografia del dolore

Qualcuno la chiama «pornografia del dolore», e la definisce uno sfruttamento dei drammi altrui per ottenere denaro. Qualcun altro, invece, pensa che mettere lo spettatore di fronte a immagini forti serva per spingerlo a reagire a un’ingiustizia. Il dibattito va avanti da anni e, nel mondo della cooperazione, con particolare intensità. Lo riprendiamo ora per capire a che punto siamo.

 

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Per parlare delle immagini con cui rappresentiamo i paesi in via di sviluppo bisognerebbe cominciare dal principio. Cioè dalla fonte dell’immagine, colui o colei che ne è il soggetto. A chiunque abbia passato più di qualche giorno in viaggio in Africa è capitato di puntare l’obiettivo della macchina fotografica o della videocamera e di trovare, dall’altra parte della lente, una mano aperta a coprire il volto e la voce di qualcuno che dice pas de fotos, no picture: niente foto (o video). Chiedere perché no? ottiene una serie di possibili risposte. Fra queste: «perché ho vergogna», «perché poi la usi per fare soldi», «perché in Europa fate vedere solo che siamo poveri». Queste frasi non rappresentano, ovviamente, l’unico punto di vista, ma sarebbe fuorviante non tenee conto.

Quando ci si trova in un paese in via di sviluppo perché si è operatori di Ong o organizzazioni inteazionali, però, le persone con cui si hanno contatti sono nella maggioranza dei casi i beneficiari dei progetti di cooperazione. È raro che una mano si frapponga fra volto e obiettivo perché in genere c’è un rapporto di fiducia fra chi raccoglie le immagini (di solito un membro dell’organizzazione oppure un professionista da questa incaricato) e chi viene ritratto, che è informato e consapevole.

Però, anche con queste premesse, che uso è davvero corretto fare di quelle immagini? È giusto mostrare persone in un momento di sofferenza, dolore, difficoltà estrema se lo scopo è coinvolgere attraverso tv e giornali quanta più gente possibile a sostenere iniziative che mirano a eliminare quella sofferenza, difficoltà e dolore? Ed è lecito tentare di allargare l’audience servendosi di personaggi famosi in grado di catturare l’attenzione di quella parte di pubblico che meno s’interessa di questi problemi? Queste sono le domande intorno alle quali ruota il dibattito che, ciclicamente, rimette in discussione i metodi usati dalle organizzazioni per la raccolta fondi.

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Spot contro la fame o fame di spot?

L’episodio che negli ultimi mesi ha riaperto la polemica è uno spot della ong Save The Children, che dal 2013 ha lanciato una campagna di raccolta fondi sostenuta da video. L’ultimo, dell’inizio 2015, mostra «John», un bambino malnutrito, che respira con affanno, con la pancia gonfia, la pelle disidratata e lo sguardo intontito. Dopo di lui, una bambina piange sommessamente e un altro piccolo è appoggiato al fianco della madre, debolissimo e con le ossa visibili sotto la pelle. (La versione inglese del video include anche, alla fine, l’immagine di una borsa con il logo della ong che i donatori riceveranno come ringraziamento per il contributo).

«Immagini strazianti che durano un’eternità», hanno commentato Pier Maria Mazzola e Marco Trovato di Africa, la rivista dei Padri Bianchi, in un editoriale dal titolo Fame di spot. Dopo i bambini degli altri video, rincarano gli autori, «adesso tocca a John impietosire i telespettatori per strappar loro nove euro al mese». Questo «ripescare il crudele cliché dello scheletrino africano», spinge Mazzola e Trovato a chiedersi che ne è stato della Carta di Treviso, il protocollo su informazione e minori approvato nel 1990 da Ordine dei giornalisti italiani e Telefono Azzurro: è un documento che disciplina solo l’informazione giornalistica, «ma la questione riguarda tutti». Al punto 7 la Carta afferma che «nel caso di minori malati, feriti, svantaggiati o in difficoltà occorre porre particolare attenzione e sensibilità nella diffusione delle immagini e delle vicende al fine di evitare che, in nome di un sentimento pietoso, si arrivi a un sensazionalismo che finisce per divenire sfruttamento della persona». «Vale solo per i bambini bianchi?», chiedono gli autori.

Quello della tutela dei minori non è l’unico problema. Ce n’è un altro al quale, ammettono gli editorialisti, anche i missionari in passato hanno contribuito: quello di rafforzare «il già ben radicato immaginario coloniale dell’Occidente sull’Africa». Cioè di continuare a dipingere il continente – e il Sud del mondo in genere – come un luogo bisognoso e indifeso il destino del quale deve essere deciso altrove, sdoganando così un colonialismo «a fin di bene».

Daniele Timarco, direttore dei programmi inteazionali di Save the Children Italia, intervistato da Eleonora Camilli su Redattore Sociale, ha opposto che quelle immagini sono quelle viste ogni giorno dagli operatori impegnati sul campo: «Proprio perché inaccettabili, sono immagini anche giuste da trasmettere con l’obiettivo di sensibilizzare e spingere le persone a reagire con indignazione». «Le immagini sono state realizzate con il consenso dei genitori», ha aggiunto Timarco, «con il coinvolgimento dei bambini e delle bambine e della comunità stessa. Molto spesso sono le famiglie stesse che ci chiedono di raccontare la loro vera storia, di far vedere la drammaticità delle loro situazioni». Quel che interessa Save the Children, ha concluso il suo funzionario, è «toccare la coscienza delle persone al di là del contributo economico».

Di confine fra sensibilizzazione e pornografia del dolore, peraltro, si era già parlato con Mission, il «reality umanitario» che vedeva impegnati diversi personaggi televisivi – Al Bano, Paola Barale, Emanuele Filiberto di Savoia e altri – in viaggi su campo in diversi paesi africani e latinoamericani. In quell’occasione la reazione del mondo delle Ong fu altrettanto polemica e le argomentazioni a favore e contro molto simili (vedi MC 3/2014 p. 74).

La situazione normativa

Il dibattito si è riaperto lo scorso novembre con la proposta di Nino Santomartino, responsabile della comunicazione dell’Associazione delle ong italiane (Aoi), di avviare un tavolo di lavoro con organizzazioni no profit, realtà della comunicazione e dell’informazione, professionisti, consulenti e ricercatori. Obiettivo: arrivare a «un codice di condotta e a un organismo autonomo di autodisciplina». I riferimenti normativi non mancano, vedi il Codice di Autodisciplina della Comunicazione Commerciale emanato dall’Istituto dell’Autodisciplina Pubblicitaria. L’articolo 46 del codice è tutto dedicato alla comunicazione sociale, che deve evitare di «sfruttare indebitamente la miseria umana nuocendo alla dignità della persona, né ricorrere a richiami scioccanti tali da ingenerare ingiustificatamente allarmismi, sentimenti di paura o di grave turbamento».

Vi sono poi diversi testi che possono orientare la riflessione, come le linee guida elaborate dalla soppressa Agenzia per il Terzo settore o la Carta di Trento per una migliore cooperazione, documento la cui redazione ha coinvolto molte realtà no profit italiane. Molto citato è il Codice di condotta adottato dalle Ong irlandesi: i principi cardine richiedono, fra le altre cose, di rappresentare non solo il contesto specifico ma anche quello più ampio, di evitare immagini e messaggi che possano creare uno stereotipo, discriminare persone, situazioni o luoghi o creare sensazionalismo, di non utilizzare immagini, messaggi, e casi di studio senza la piena comprensione, partecipazione e autorizzazione dei soggetti coinvolti, garantendo loro la possibilità di comunicare le loro storie o versione dei fatti e rispettare la loro volontà di essere o meno nominati o identificati.

Ma il problema sta nelle immagini?

In attesa delle evoluzioni normative che il tavolo di lavoro proporrà, vale comunque la pena di chiedersi se questa vicenda non sia il riflesso di un insuccesso che ha radici più lontane.

Save the Children ha fatto sapere che la campagna ha permesso alla ong di «acquisire più di 14.000 nuovi donatori regolari». Il punto, allora, non è solo «il cliché dello scheletrino africano», il punto è che quel cliché funziona. I donatori di Save the Children sono «colonialisti a fin di bene»? Forse. Impegnarsi a contribuire ogni mese non è più il non informarsi per pigrizia e il limitarsi a lavarsi la coscienza per Natale. Però, forse, potrebbero fare un salto di qualità in più, che non riescono ancora a fare perché nessuno ha fornito loro le informazioni che permetterebbero di tenere a bada le emozioni e di ragionare, come ricorda il sociologo Fabrizio Floris, sul fatto che «la fame ha cause legate alla iniqua distribuzione delle terre fertili, alla mancanza d’acqua, al cambiamento climatico, alle guerre, alle dittature che usano gli aiuti in cambio di consenso, alla scarsa produttività agricola e zootecnica: la pancia gonfia è l’effetto».

Chi doveva fornire queste informazioni se non le organizzazioni che lavorano sul campo e perché, dopo trent’anni di cooperazione, ancora questi temi faticano a uscire dal recinto degli addetti ai lavori?

Mettere un limite normativo all’uso d’immagini è un modo per evitare di diffondere un messaggio parziale e fuorviante. Trovare un modo efficace di diffondere un messaggio corretto, però, è un’altra storia. La mani aperte a proteggere i visi dagli obiettivi probabilmente servono anche a dire che è mancato questo.

Chiara Giovetti

 

5 domande a padre Gigi Anataloni

direttore di Missioni Consolata

 

Direttore, la compassione è un tema caro ai cristiani e mai come ora, con il Giubileo sulla misericordia in atto. Come si distingue fra compassione e pietismo?

Compassione è «patire con». Ha compassione non tanto chi versa una lacrima, mette una monetina o stacca un assegno e poi continua come prima, ma chi si sporca le mani, chi fa diventare l’emozione uno stimolo per cambiare il suo stile di vita oltre che per aiutare gli altri a migliorare la propria.

«Poografia del dolore» significa usare il dolore per vendere. Sei d’accordo con questa definizione, usata da chi critica l’uso d’immagini forti per le campagne di raccolta fondi?

L’espressione è provocatoria e fa riflettere. La condivido, certo, e mi chiedo perché proprio quel mondo che ha criticato tanto i missionari del passato accusandoli di patealismo, oggi senta il bisogno di comunicare così. Mi sa tanto di una mossa quasi disperata in risposta all’assuefazione e all’indifferenza, alla crisi economica che attanaglia tutto e tutti, ai tagli degli aiuti pubblici per la cooperazione, al moltiplicarsi di onlus (anche micro) che erodono l’efficacia del 5×1.000 e frammentano la base dei sostenitori, e all’aggravarsi dei problemi di tutti in questa situazione di «terza guerra mondiale» e di emergenza climatica. Il rischio, nell’uso di immagini simili, è quello di peggiorare sia l’assuefazione che l’indifferenza. Ma quando le proposte ragionate non funzionano, che fare?

Lo spot di Save The Children, come a suo tempo il reality Mission, sono solo gli episodi più recenti di un fallimento comunicativo che sembra avere radici più lontane. Che cosa si doveva fare diversamente – anche nel mondo missionario – per comunicare il Sud del mondo senza pietismi e stereotipi?

Più che di fallimento comunicativo direi che si tratta di un cambiamento profondo nel modo di comunicare. Un tempo, e vado indietro anche cent’anni, erano solo le poche riviste missionarie, come MC, che pubblicavano immagini forti. Anzi, posso dire che le edulcoravano perfino per renderle più accettabili al nostro pubblico (per esempio, mettevano i vestiti a chi normalmente non li aveva). Il risultato era comunque garantito, sia nel cercare di presentare con rispetto che nel suscitare sentimenti di partecipazione. Oggi, invece, le immagini forti arrivano a tutti: tante, troppe, insistenti. Il disastro diventa spettacolo e si confonde con la fiction. Di conseguenza, ecco il problema: come far capire che non si tratta di una fiction e come catturare l’attenzione abbastanza a lungo da far sì che l’emozione diventi azione, sia pur breve, puntuale e mirata? Ecco le immagini che toccano prima il cuore, nella speranza che arrivino anche alla ragione. Un nome, una storia, un’immagine penetrano più di un ragionamento. Solo una minoranza – e sono quelli che già si impegnano nella solidarietà a vari livelli – hanno voglia di andare oltre le prime emozioni per approfondire e cambiare il proprio modo di vivere.

Credo che il mondo missionario cerchi da anni di offrire una comunicazione onesta sul Sud del mondo. Il risultato? Forse un frutto sono le centinaia (o migliaia) di Ong (e le persone che in esse si impegnano non solo a dare qualcosa ma anche a camminare con…) che fanno una cooperazione diversa e responsabile. Perché altrimenti ci sarebbe da essere scoraggiati: le riviste missionarie sono drasticamente ridimensionate, i missionari sono una specie in via estinzione, al volontario subentra il volonturista, le disuguaglianze sociali sono aumentate ovunque – primo mondo compreso, c’è la «pornografia del dolore»…

Immagini «pugno nello stomaco», gadget, accessori alla moda in regalo ai donatori: le Ong si sono adeguate a un approccio più tipico del profit. E il profit, dal canto suo, si sta avvicinando, almeno superficialmente, alla cooperazione allo sviluppo (vedi iniziative delle aziende, specialmente quelle più grandi, volte a farle apparire impegnate nel sociale). Come giudichi questa «contaminazione»?

Mi confonde che Ong e onlus, ma anche noti santuari e Istituti di carità, si affidino ad agenzie specializzate nell’e-commerce e fundraising, soprattutto in periodi ad alto impatto emotivo come il Natale. O dovrei consolarmi con «il fine giustifica i mezzi»? Mi domando però cosa possa significare in questo contesto la frase di Gesù «semplici come colombe e scaltri come serpenti». E non ho risposte certe. Conosco la difficoltà oggettiva di chi ha urgenza di fondi e non riesce a convincere i donatori nel modo corretto e nel rispetto dei beneficiati. Allora, anche per i più motivati e responsabili, c’è il rischio di cedere alla tentazione del «lassativo» del diavolo, come diceva un vecchio missionario: «Il denaro è sterco del diavolo, ma se trovassi il lassativo giusto gli farei avere una bella diarrea». Però – e credo fortemente in questo – penso che a lungo temine sia meglio rischiare l’impopolarità della correttezza che cercare il risultato immediato. Anche una sola persona in più che aiuti per le giuste ragioni è più importante di cento che sganciano soldi per togliersi il disturbo o per sentirsi a posto.

Sulla base di quali criteri e principi MC sceglie le immagini che pubblica?

Bellezza, rilevanza, verità. L’immagine deve essere «bella» e presentare bene e con rispetto la persona che vi è rappresentata. Idealmente l’immagine dovrebbe essere quasi un’opera d’arte. Poi deve essere «rilevante» rispetto alla storia raccontata ed essere «veritiera» (rispecchiare quanto più possibile la verità della situazione e dei fatti, senza manipolarla). In quale ordine usare questi tre criteri? Dipende. Certo la bellezza passa a volte in secondo piano, perché molti dei nostri corrispondenti non sono fotografi professionisti e fanno foto esteticamente «povere», nonostante abbiano molta verità da comunicare.

La verità, però, non è sempre piacevole. E se è discutibilissimo che un’Ong debba sfruttare l’immagine dei vari piccoli «John» del mondo, è ancor più discutibile, anzi è vergognoso, che esistano ancora dei bambini che vivano nelle condizioni di quel piccolo. E questo bisogna avere il coraggio di dirlo, con forza.

Chi.Gio.