Mali, LVIA, una Ong contro la guerra

Testo di Marco Bello, foto di Archivio dell’Ong LVIA |


Nel paese, in conflitto dal 2012, è crisi umanitaria. Centinaia di migliaia di sfollati, mancanza di acqua, cibo e assistenza medica. Gli attacchi sono quotidiani e le violazioni dei diritti una costante. Spuntano anche le fosse comuni di civili. In mezzo a tutto questo una Ong piemontese, la Lvia, propone la sua via per la pace. Abbiamo incontrato il suo rappresentante.

Parigi, 26 maggio 2018. Mamoudou Gassama, è un immigrato clandestino di 22 anni. Nel diciottesimo arrondissement salva un bimbo appeso a un balcone, arrampicandosi a mani nude, con l’agilità di un gatto, fino al quarto piano di un palazzo. Ricevuto all’Eliseo dal presidente francese Emmanuel Macron, gli viene immediatamente concessa la nazionalità francese e gli è proposto un lavoro come vigile del fuoco.

San Calogero (Vibo Valentia, Calabria), 2 giugno. Tre immigrati vengono presi a fucilate da un italiano. Stavano cercando vecchie lamiere in una fabbrica abbandonata per costruire baracche. Sacko Soumayla, 29 anni, regolare e sindacalista, cade a terra morto. Il giorno prima al Quirinale ha giurato il governo Lega – Movimento 5 stelle, detto «del cambiamento».

Mamoudou e Sacko, entrambi migranti, entrambi maliani. Due storie simili, due destini diversi.

Anche Ousmane ag Hamatou, 37 anni, è del Mali. Lui lavora a Bamako, la capitale, per una Ong italiana, l’Lvia di Cuneo, della quale è il responsabile nel paese africano. Ousmane non ha nessuna intenzione di migrare. È in Italia, su invito della sua Ong, per formazione e una serie di incontri, poi tornerà in patria dalla sua famiglia e al suo lavoro.

Lo incontriamo, per farci spiegare cosa sta succedendo in Mali, e per provare a capire perché, ragazzi come Mamadou e Sacko sono scappati dal paese e molti altri continuano a farlo.

Perché si scappa dal Mali

Ma facciamo un passo indietro. Il Mali, paese cerniera tra l’Africa subsahariana e il Sahara, nel 2012 precipita in una crisi profonda, dopo un ventennio di relativa stabilità (cfr. MC giugno 2017). Il Nord del paese, l’Azawad, ha visto, negli anni precedenti, l’infiltrazione di gruppi estremisti islamici (jihadisti) dall’estero, in particolare dall’Algeria, che si sono inizialmente alleati con le milizie locali indipendentiste di etnia tuareg. Insieme conquistano il territorio del Nord, occupando le città e imponendo la loro legge. I soldati regolari fuggono a Sud. Ma l’alleanza si rompe e i jihadisti hanno la meglio sui Tuareg. A gennaio 2013 puntano addirittura sulla capitale Bamako. È per questo che intervengono prontamente i militari francesi, in protezione dell’ex colonia (e dei propri interessi). L’operazione francese Sérval respinge i miliziani e riconquista le città del Nord. Islamisti e indipendentisti si rifugiano nello sconfinato territorio desertico. Quando l’operazione Barkhane sostituisce Sérval, intervengono i caschi blu, con la Minusma: missione composta da soldati africani dei paesi vicini, ma anche da un grosso contingente tedesco. Gli eserciti stranieri affiancano quello maliano, le Forze armate del Mali (Fama), che sono allo sbando.

«La situazione oggi è complessa e molto volatile – commenta Ousmane -, perché dopo la firma degli accordi di pace tra il governo e i gruppi armati nel giugno 2015 (solo alcuni dei gruppi, quelli indipendentisti tuareg non radicalizzati, ndr), c’è stata una mancanza di volontà, in primo luogo dello stato, di mettere in pratica le condizioni sancite dagli accordi stessi (L’accordo prevede, tra l’altro, la smobilitazione dei combattenti; la creazione di pattuglie miste governo – ex ribelli; l’installazione di autorità ad interim nelle città del Nord con la partecipazione degli ex ribelli, e la Conferenza d’intesa nazionale, per una definizione politica dell’Azawad).E c’è anche una certa reticenza da parte dei gruppi armati per quanto riguarda il processo di disarmo, perché le armi sono l’unica garanzia che hanno per poter fare un’eventuale negoziazione». La non applicazione degli accordi crea una situazione di vuoto istituzionale, che ha ripercussioni importanti. «Lo stato non è presente in certe zone e i gruppi armati “firmatari” non si incaricano della sicurezza territoriale. Questo fa sì che sul terreno ci sia un’avanzata delle forze islamiste, che approfittano della situazione di abbandono del territorio. Assistiamo inoltre, per lo stesso motivo, a una disgregazione dei gruppi armati in tanti gruppuscoli più piccoli, con tendenza a diventare formazioni a carattere comunitario, ovvero a base etnica. Ogni comunità si organizza e si dissocia dai gruppi principali che sono i firmatari degli accordi. Esse temono, infatti, che se un giorno ci saranno i dividendi degli accordi, non tutte le comunità rimaste nei grossi gruppi saranno soddisfatte».

Ousmane (© Marco Bello)

Molti attori sul terreno

Oltre alla Minusma e all’esercito maliano – tornato nel Nord, dove controlla oggi le città, grazie all’intervento militare francese nel 2013 – la realtà degli attori sul terreno è complessa e variabile. Racconta Ousmane: «C’è il Coordinamento dei movimenti dell’Azawad (Cma), il quale costituisce l’insieme dei grossi movimenti armati indipendentisti che hanno proclamato l’indipendenza dell’Azawad, poi ci sono diversi gruppi islamisti radicali, alcuni gestiti da maliani, altri da stranieri (in particolare algerini, ndr). Oltre a questi ci sono tante piccole milizie locali, comunitarie, che son state create e contribuiscono a rendere il clima pesante. Sono anche presenti bande di malviventi che operano e ostacolano il lavoro delle Ong, rubando le loro auto e compiendo assalti. Un insieme di attori armati che rende la situazione piuttosto complessa».

La popolazione è la principale vittima di questa situazione di insicurezza e instabilità, nella quale gli assalti si susseguono quotidianamente. Continua Ousmane: «La popolazione del Nord Mali cerca di capire cosa stia succedendo, perché ci sono stati troppi cambiamenti in questi ultimi tempi. Siamo partiti nel 2012 con uno stato maliano centrale relativamente forte, per arrivare a una situazione in cui il Nord è caduto nelle mani di diversi gruppi armati, uno stato autoproclamato dell’Azawad, per poi passare a uno stato islamista, perché gli jihadisti hanno cacciato gli indipendentisti. Siamo quindi ritornati a uno stato maliano diverso da quello del 2012, appoggiato da forze straniere e delle Nazioni Unite».

Oltre alla sicurezza sono i servizi a mancare: «La violenza è a tutti i livelli, anche nei piccoli villaggi, in zone dove lo stato non esiste più e i servizi sociali di base, come l’acqua, l’educazione, la salute, non sono garantiti. Per questo motivo c’è un grande numero di sfollati, sia verso paesi confinanti sia all’interno del Mali in direzione del centro e Sud del paese». I dati delle Nazioni Unite di aprile 2018 parlano di circa 60.000 persone sfollate all’interno e 137.000 rifugiate in Burkina Faso, Niger e Mauritania.

Anche nel centro del Mali la situazione è divenuta complessa. «Le condizioni nella zona centrale non sono diverse, è la stessa crisi del Nord che avanza nel centro, con gli stessi attori. Dato che non si trova soluzione alla base, la crisi si estende anche verso il Sud e ora tocca paesi limitrofi come il Sahel burkinabè (il Nord del Burkina Faso, ndr), che è stato contagiato dalla crisi, e la frontiera con il Niger (Nord Est, ndr). È tutta un’area geografica che vede la crisi estendersi».

In particolare il centro del paese è diventato teatro di scontri tra diverse etnie (cfr. MC giugno ‘17). «La Lvia interviene a Mopti, insieme all’Ong Cisv e con finanziamenti di emergenza del ministero per gli Affari esteri italiano, appoggiando i centri di salute. La particolarità di questa zona sono gli scontri intercomunitari tra la popolazione Peulh, allevatori, che si organizza in milizie, e quella Dogon, agricoltori, che inizia a prendere le armi».

Costretti all’emergenza

Lvia lavora in Mali da 30 anni, ed essendo una Ong che si occupa di sviluppo, ha sempre lavorato su programmi di lunga durata. Ousmane ci spiega cosa è cambiato con la crisi: «Non siamo una Ong di emergenza, ovvero non andiamo di proposito in quei paesi dove c’è la guerra per intervenire, ma in Mali siamo in un contesto che conosciamo bene, abbiamo molti contatti, siamo riconosciuti dalle comunità, dagli enti locali e anche dal governo. Abbiamo fatto tesoro di questo riconoscimento e della nostra conoscenza del terreno per realizzare progetti di emergenza umanitaria. Sono programmi su temi che abbiamo sviluppato anche in contesto non di crisi, come le infrastrutture idrauliche (pozzi artesiani, ndr), per dare acqua potabile alla gente. Per noi il fatto importante che cambia, è che oggi, con la crisi, ci sono bisogni primari da soddisfare, in modo anche urgente. Ad esempio, nell’ambito della nutrizione, perché gli indicatori di malnutrizione nel Nord del paese sono piuttosto alti. Sosteniamo alcuni centri di salute, quelli ancora funzionanti, per accogliere i bambini denutriti e seguirli. Facciamo anche molta sensibilizzazione e accompagnamento delle comunità, nell’ambito della valorizzazione dei prodotti agricoli locali e la loro integrazione nell’alimentazione di base».

Non sparate sulle Ong

In un contesto di crisi, oltre alle normali difficoltà c’è anche un altro problema per le Ong, quello della sicurezza dei propri operatori. «È una grande sfida, perché occorre abituarsi a lavorare in un contesto di sicurezza imprevedibile, dove anche se le nostre organizzazioni non sono prese particolarmente di mira, operiamo in un clima nel quale tutto può succedere. Abbiamo avuto incidenti come furti di auto o assalti a mano armata. È un contesto non controllabile, per cui occorre adattare la nostra missione, i nostri interventi, ogni giorno, informandoci in modo continuo e seguendo alla lettera le raccomandazioni di sicurezza».

Politica: evoluzione?

Il Mali sta vivendo anche un periodo di transizione politica, perché il 29 luglio si terranno le elezioni presidenziali (leggerete queste righe ad elezioni avvenute; pubblicheremo un resoconto delle stesse su www.rivistamissioniconsolata.it), che però non dovrebbero portare particolari sorprese. Oltre al presidente uscente Ibrahim Boubacar Keita (detto Ibk), eletto nel 2013, favorito, sono una ventina gli altri candidati. A inizio giugno una manifestazione di una coalizione di opposizione è stata repressa sul nascere mediante l’uso di gas lacrimogeni. I manifestanti chiedevano più trasparenza e più equità sui media nazionali per la copertura della campagna elettorale.

Chiediamo a Ousmane cosa ne pensa. «Visto il clima d’insicurezza che regna nel paese, con continui attacchi, penso che il contesto non sia propizio alla tenuta di elezioni libere, trasparenti e soprattutto credibili. C’è piuttosto un’urgenza nel mettere in sicurezza il paese e migliorare le condizioni di vita della popolazione più che organizzare delle elezioni.

L’impressione è quella che chi è al potere, ma anche chi vive nel Sud del Mali, dove c’è un piccolo spazio in sicurezza e normalità, non sia molto cosciente di cosa succede nel resto del paese. Il Nord non è mai stato una priorità per le autorità centrali e lo è ancora meno adesso. Colpisce anche il fatto che si organizzino elezioni quando molta gente è fuori dal paese o dalla sua zona di residenza abituale. Non è logico organizzare delle elezioni quando la popolazione non può votare». Occorre considerare che il paese, la cui superficie è di oltre 1,2 milioni di km2 (quasi quattro volte l’Italia) ha una vasta fetta di deserto del Sahara, l’Azawad appunto, che occupa una superficie di 822.000 km2. La capitale dello stato, Bamako, si trova invece nell’estremo Sud del paese.

«Bisogna riconoscere che il presidente attuale ha assunto la carica in un momento piuttosto particolare. È arrivato nel 2013 quando il paese attraversava una crisi molto grave, difficile da gestire. Gli si può però contestare che certi impegni presi nell’ambito dell’accordo di pace non sono stati applicati. Questo è un punto importante sul quale il governo ha fallito». Il Mali è una repubblica presidenziale, per cui il presidente della Repubblica è anche il capo dell’esecutivo. Un cambio del presidente prevede anche un nuovo governo.

«L’opinione pubblica a Bamako è molto divisa su Ibk. C’è chi pensa che questo governo, in un secondo mandato non possa fare meglio di quanto ha già fatto, altri che pensano occorra un vero cambiamento. Io personalmente, tra i candidati, non vedo nulla di nuovo, sono le stesse figure che hanno contribuito, negli anni, a portare questo paese a terra. Resta la stessa generazione di politici maliani che, ormai da decenni, non riesce a far uscire il paese da questa situazione».

Il pantano degli scontri etnici

La novità degli ultimi due anni sono gli scontri a base etnica nelle due regioni centrali di Mopti e Ségou, che nulla hanno a che vedere con l’Azawad e i Tuareg, ma dove si sono inaspriti conflitti atavici tra gli allevatori peulh e gli agricoltori dogon, con la compiacenza dei Bambara del Sud. Sovente i cacciatori bozo di etnia bambara fanno il lavoro sporco coperti dai militari.

È del giugno scorso la scoperta di almeno tre fosse comuni di civili uccisi, sembra giustiziati, anche per rappresaglie, dall’esercito maliano. Il 19 giugno, in seguito a un’operazione militare, erano scomparse 18 persone dalla località di Gassel (dipartimento di Douentza, regione di Mopti), tutte di etnia peulh. Il 20 è stata scoperta una fossa con almeno 7 corpi. Pochi giorni prima, il 15 giugno a Nantaka e Kobaka, nel comune di Sokoura, i corpi di 25 persone erano stati scoperti in tre fosse comuni. Anche loro, con tutta probabilità, peulh. Le responsabilità sarebbero dell’esercito regolare, fatto questa volta confermato da un comunicato del ministero della Difesa.

Scontri nei quali si sono insinuati gli islamisti radicalizzati, come Amadou Koufa, fondatore del Fronte di liberazione di Macina, legato al capo tuareg radicale Iyad ag Ghali (lui di Kidal, nel Nord). Fronte che ha avuto come filiazione il primo gruppo di combattenti jihadisti del Burkina Faso, Ansarul Islam (cfr. MC giugno ‘17), nato nella confinante provincia del Sahel burkinabè.

Crisi senza soluzione?

In una situazione così ingarbugliata è difficile vedere una via d’uscita. Chiediamo a Ousmane, uomo del Nord, che vive in capitale e che ha una visione d’insieme, di dirci quale sarebbe, secondo lui, una pista per la soluzione. «Secondo me è difficile prevedere. L’insicurezza ha gravi ripercussioni sulla situazione umanitaria e su quella politica. Tutto è molto complesso.

La prima cosa da fare è applicare l’accordo di pace di Algeri, per cominciare a trovare una soluzione politica alla ribellione tuareg nel Nord del Mali. In questo modo si farebbe un grande passo in avanti e ci si potrebbe occupare degli altri problemi, che sono nell’insieme una conseguenza di questa  guerra.

Il presidente che arriverà dovrà prendere di petto l’applicazione di questi accordi, per farci andare avanti nella via della prosperità e della pace».

Ma i jihadisti, in particolare quelli stranieri, non hanno partecipato agli accordi. Con loro non si può negoziare? «I jihadisti non hanno nulla da negoziare. Lo hanno detto quando hanno conquistato il Nord, che non erano venuti per negoziare uno stato o una soluzione politica, erano venuti per instaurare uno stato islamico in Mali. Per cui occorre che il governo maliano trovi una soluzione politica alla situazione dei Tuareg nel Nord del Mali e a questo punto, tutti noi maliani, ci possiamo mettere insieme per combattere gli islamisti. Io penso che non resisterebbero a un Mali unito, ma nelle condizioni attuali sono loro che approfittano e creano ogni giorno il caos sulla nostra terra».

Ci sono islamisti stranieri ma anche maliani che si sono radicalizzati. In particolare il capo più importante del momento è il tuareg Iyad ag Ghali. Già leader delle grandi ribellioni tuareg dal 1991 in avanti, si è poi islamizzato, ha fondato il gruppo Ansar Dine, tra i fondatori di Al Qaeda nel Maghreb islamico (Aqmi), e nel 2017 ha riunito in un fronte comune diverse formazioni nel Gruppo di sostegno all’Islam e ai musulmani (Jnim).

«Io penso che rispetto agli islamisti maliani si possa trovare una soluzione. Secondo me, la maggior parte di loro si sono radicalizzati perché hanno visto questo passaggio come un modo per continuare la lotta politica per l’indipendenza del Nord. Se invece sentissero che c’è una reale volontà per una soluzione politica con i gruppi armati tuareg o di altre comunità del Nord, sarebbe possibile negoziare con loro. Per gli altri islamisti che non sono maliani, l’unica soluzione è combatterli. Con o senza l’appoggio delle forze straniere. Non abbiamo necessariamente bisogno di eserciti stranieri, ma è invece obbligatorio ritrovare quello che ci unisce come maliani, come nazione, e a quel punto possiamo vincere la guerra contro gli islamisti, contro il sottosviluppo, e ben altre sfide».

Marco Bello




Popoli indigeni e alfabetizzazione


In agosto e settembre cadono due ricorrenze che riportano l’attenzione su due temi mai come oggi attuali: la giornata internazionale dei popoli indigeni del mondo (9 agosto) e la giornata internazionale dell’alfabetizzazione (8 settembre).

Era il 1994 quando le Nazioni Unite hanno fissato nel 9 agosto la giornata internazionale dei popoli indigeni. È stato scelto questo giorno perché in esso cade l’anniversario della prima riunione del Gruppo di lavoro delle Nazioni Unite sui Popoli indigeni, che aveva avuto luogo nel 1982.

Di fatto, l’ingresso delle popolazioni indigene fra i temi all’attenzione dell’Onu è storicamente avvenuto attraverso la porta dell’Organizzazione internazionale del Lavoro (Ilo) che si occupa dei popoli indigeni sin dagli anni Venti, quando l’organizzazione «madre» non era ancora l’Onu, bensì la Lega delle Nazioni.

Il motivo per cui l’Ilo, a suo tempo, ha portato alla ribalta il tema indigeno è che una serie di studi sui lavoratori rurali avevano mostrato come gli indigeni rappresentassero, all’interno di questa categoria, un gruppo piuttosto significativo e altrettanto discriminato.

Uno dei primi aspetti che le organizzazioni internazionali hanno tentato di affrontare è stato quello della definizione di popoli indigeni. Un primo contributo sostanziale è stato la Dichiarazione dei diritti dei popoli indigeni adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite durante la sua 62ª sessione in New York il 13 settembre 2007@.

Poi, in un rapporto del 22 novembre 2017, Decent Work for Indigenous and Tribal Peoples in the Rural Economy@, l’Ilo ricorda che: «Non esiste una definizione universale di popoli indigeni e tribali, ma la Convenzione Ilo sui Popoli Indigeni e Tribali del 1989, N. 169, fornisce un insieme di criteri soggettivi e oggettivi che vengono applicati congiuntamente per identificare chi sono questi popoli in un determinato paese».

Il criterio soggettivo sia per i popoli indigeni che per quelli tribali è il sentimento di appartenenza, cioè il sentirsi parte di un gruppo. I criteri oggettivi sono poi, nel caso dei popoli indigeni, il fatto di discendere da popoli che abitavano in quella zona all’epoca della colonizzazione, della conquista o della definizione degli attuali confini dello stato. A questo si aggiunge un secondo criterio oggettivo, cioè il fatto di conservare in tutto o in parte le proprie istituzioni sociali, economiche, culturali e politiche, a prescindere da quale sia il loro status giuridico.

Baragoi, Kenya

Chi è indigeno?

I criteri oggettivi riguardanti i popoli tribali, invece, sono il fatto di avere condizioni sociali, culturali ed economiche che li distinguono dalle altre componenti della comunità nazionale e l’avere uno status regolato in tutto o in parte dalle loro consuetudini e tradizioni o da leggi o regolamenti speciali.

Il rapporto del 2017 precisa, inoltre, che «data la diversità dei popoli che cerca di proteggere, la Convenzione usa la terminologia inclusiva di popoli “indigeni” e “tribali” e attribuisce a entrambi lo stesso insieme di diritti. Ad esempio, in alcuni paesi latino-americani il termine “tribale” è stato applicato ad alcune comunità afro discendenti».

La Convenzione, si legge sul sito di Survival, una delle organizzazioni più attive nel sostenere i diritti dei popoli indigeni, è importante perché «riconosce i diritti di proprietà della terra dei popoli tribali e stabilisce che essi debbano essere consultati ogniqualvolta vengono varati leggi o progetti di sviluppo che possono avere un impatto sulle loro vite. […] riconosce, inoltre, le pratiche culturali e sociali dei popoli tribali, garantisce il rispetto delle loro tradizioni e chiede che le loro risorse naturali vengano protette». A oggi è stata ratificata da 22 stati prevalentemente latinoamericani e, fra gli europei, solo da Danimarca, Olanda, Norvegia e Spagna.@

Per fare alcuni esempi, e limitandosi ad alcuni dei popoli con i quali i missionari della Consolata lavorano, sono identificati come popoli indigeni: i Pigmei in Rd Congo, i Turkana, i Samburu, i Masaai in Kenya, gli Yanomami, i Makuxì in Brasile, i Guarani-Kaiowá, i Toba, i Tupi-Guarani in Argentina.

South Horr, Kenya

Un quadro complesso e variegato, dunque, come lo è la realtà dei popoli indigeni ai quali ad oggi appartengono circa 370 milioni di persone che vivono in 90 stati e parlano una larga maggioranza delle lingue del mondo, le quali, secondo le Nazioni Unite, sono tra 6.000 e 7.000.

Ma ci sono anche alcuni elementi che accomunano la condizione delle popolazioni indigene: il rapporto Ilo indica che queste costituiscono il 5% della popolazione del pianeta ma al tempo stesso rappresentano il 15% dei poveri del mondo e la loro aspettativa di vita, riporta il Programma Onu (Undp) per lo sviluppo, è di 20 anni più bassa rispetto ai non indigeni@. Sono loro che si prendono cura di circa un quinto della superficie terrestre e proteggono quasi l’80% della biodiversità rimanente sulla Terra.

Quest’anno, la giornata del 9 agosto fa da preludio a una serie di iniziative che si terranno nei mesi successivi. Infatti, il 2019 è stato dichiarato Anno internazionale delle lingue indigene@.

«Nonostante il loro valore immenso», si legge nel Piano d’azione per l’organizzazione dell’anno internazionale, «le lingue di tutto il mondo continuano a scomparire a tassi allarmanti. […] Secondo il Forum permanente sulle questioni indigene, non meno del 40% delle circa 6/7.000 lingue parlate nel 2016 rischiavano di scomparire. Il fatto che molte di queste sono le lingue indigene mette a rischio le culture e i sistemi di conoscenza a cui appartengono quelle lingue».

Altro evento che vedrà come protagonisti i popoli indigeni sarà nell’ottobre 2019 il Sinodo sull’Amazzonia. Nella presentazione del documento di preparazione all’Assemblea speciale per la Regione Panamazzonia si insiste molto sulla «urgenza dell’ascolto», sulla imprescindibilità dell’ascoltare i popoli che abitano l’Amazzonia e i popoli indigeni in particolare@ (cfr. MC luglio 2018).

Bayenga, Congo RD

Alfabetizzazione, va meglio ma non basta

L’8 settembre si celebra la giornata internazionale dell’alfabetizzazione. Nel 2017 Unesco, l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’educazione, la scienza e la cultura, aveva diffuso alcuni dati statistici aggiornati@: il tasso di alfabetizzazione globale fra le persone da 15 anni in su aveva raggiunto l’86%, dato che aumentava al 91% se si considerava solo la fascia d’età fra i 15 e i 24 anni. Tuttavia, sottolineava Unesco, 750 milioni di persone nel mondo erano analfabete e due terzi di queste erano donne, mentre i giovani fra 15 e i 24 anni non in grado di leggere e scrivere erano 102 milioni.

I tassi più bassi di alfabetizzazione si registrano nell’Africa sub-sahariana e nell’Asia meridionale e sono inferiori al 50% in venti paesi: Afghanistan e Iraq in Asia; Benin, Burkina Faso, Repubblica Centrafricana, Ciad, Comore, Costa d’Avorio, Etiopia, Gambia, Guinea, Guinea-Bissau, Liberia, Mali, Mauritania, Niger, Senegal, Sierra Leone e Sud Sudan, in Africa, e Haiti in America Latina.

Quanto ai bambini in età da scuola primaria e secondaria fino a 14 anni, secondo i dati 2016 non sono a scuola 63 milioni fra i 6 e gli 11 anni e 61 milioni fra i 12 e i 14 anni. Non solo: fra quelli in classe il problema è la qualità dell’insegnamento. Secondo un rapporto Unesco del 2014 i cui dati sono tuttora citati@, dei 650 milioni di bambini delle scuole primarie 250 milioni non stanno imparando in modo sufficiente le basi della lettura e della matematica. Di questi, quasi 120 milioni non sono arrivati alla quarta classe, mentre i restanti 130 milioni sono a scuola ma non hanno raggiunto gli standard minimi di istruzione. Questi bambini, precisa il rapporto, spesso faticano a capire una frase elementare e non hanno una preparazione adeguata per il passaggio alla scuola secondaria.

Anche nell’ambito dell’alfabetizzazione e dell’istruzione i popoli indigeni sono spesso penalizzati rispetto agli altri membri della comunità nazionale in cui vivono. Le principali cause sono la carenza di adeguate strutture e di personale qualificato nelle aree indigene e anche il mancato rispetto delle specificità delle culture nei programmi scolastici e nei metodi di insegnamento. Tutto questo fa sì che l’istruzione per i popoli indigeni sia non solo difficilmente accessibile ma anche espressione di una cultura imposta e lontana da loro.

Dianrà, Costa d’Avorio

I progetti dei missionari della Consolata

L’etno educazione è un ambito nel quale alfabetizzazione e cultura indigena trovano un terreno comune. Padre Corrado Dalmonego, che dal 2010 segue diverse attività di etno educazione con gli Yanomami del Catrimani (Roraima, Brasile), riporta che gli obiettivi dell’etno educazione sono quelli di «costruire con le comunità un processo specifico, differenziato, interculturale e bilingue, a partire dalle conoscenze e da una pedagogia propri. L’etno educazione non si riduce solo alla scuola, e neppure solamente all’alfabetizzazione; nasce dal modo di essere Yanomami e si espande attraverso tutte le relazioni interetniche».@

Iniziative che vanno in questa direzione sono in corso anche nella terra indigena di Raposa Serra do Sol, sempre in Brasile, ad esempio a Linha Seca, dove padre Joseph Musito ha seguito la realizzazione delle aule per la scuola Indio Luiz. «Questa scuola», scrive padre Joseph, «non ha solo il ruolo di trasmettere agli alunni le conoscenze sulla società moderna, ma anche la storia e i valori tradizionali attraverso i racconti orali, i canti, le danze, il disegno, le consuetudini e la lingua indigena».

Quanto alle iniziative con i popoli indigeni dell’Africa, ricordiamo la scuola itinerante che padre Andrés García Fernández sta portando avanti a Bayenga, nel Congo Rd, con i pigmei Bambuti@. Si tratta di un percorso prescolare rivolto ai bambini di 33 insediamenti nella foresta, realizzato «con metodi il più vicino possibile al modo in cui i bambini pigmei sono abituati ad imparare, cioè per osservazione ed emulazione degli adulti» (cfr. MC giugno ‘17).

Al di là dell’ambito dell’istruzione, poi, il lavoro dei missionari della Consolata con i popoli indigeni consiste anche nell’accompagnare le comunità nel loro sforzo di mettersi in relazione con la cultura dominante senza esserne travolte. È il caso, ad esempio, dei progetti di promozione dell’artigianato Warao o delle attività generatrici di reddito legate alla sartoria nella zona di Tucupita, in Venezuela (vedi MC luglio 2018).

Altra iniziativa che ha come principale obiettivo quello della promozione, valorizzazione e difesa della cultura indigena è il Centro di documentazione Indigena dei missionari della Consolata a Boa Vista, Brasile. Fratel Carlo Zacquini, veterano della missione in Roraima, vi ha riunito le testimonianze e i materiali che, insieme a diversi suoi confratelli, ha raccolto in 53 anni di lavoro con gli Yanomami.

Infine, vale la pena di citare un’iniziativa di alfabetizzazione non legata a popoli indigeni ma attiva in uno dei paesi con tassi di analfabetismo intorno al 50%. A Dianrà, in Costa d’Avorio, i missionari della Consolata organizzano corsi rivolti a circa 220 persone fra adulti e bambini in abbandono scolastico. Si svolgono presso i locali della missione della Consolata e nell’apatam (paillote) costruito a questo scopo in un villaggio vicino. Anche Marandallah, la missione a 80 chilometri da Dianra, ha realizzato progetti dedicati a chi non ha potuto ricevere un’istruzione scolastica o ha dovuto interromperla: fra il 2013 e il 2015 grazie al sostegno dell’Opera di Promozione dell’Alfabetizzazione nel Mondo (Opam) è stato possibile costruire degli apatam e dotarli di impianto fotovoltaico.

Chiara Giovetti

Tucupita, Venezuela

 




Il Gomni in Tanzania: Il Vangelo «pratico» del servizio

Testo di Marco Bello e foto Archivio Gomni |


(Il Gomni) Nasce un po’ per caso. Come le grandi storie. Poi diventa l’impresa di una vita. Un gruppo missionario molto «operativo». Lo è ancora oggi, dopo più di 30 anni. Principi saldi e perseveranza. Ispirato a suor Irene Stefani e nessun margine al compromesso. E, sempre: fare il bene senza farsi pubblicità. Ne parliamo con Giuseppe Lupo, uno dei fondatori.

«Quando mia figlia ha compiuto cinque anni, ha iniziato ad andare all’asilo delle suore della Consolata in corso Allamano (a Torino, ndr.). Grazie a questo, io e mia moglie Maria abbiamo fatto amicizia con suor Idelma, la sua insegnante. Ma un giorno, senza preavviso, ci ha detto che sarebbe partita per la Tanzania». Chi racconta è Giuseppe Lupo, universalmente conosciuto come Pino, e parla di un «inizio», di qualcosa che gli sta molto a cuore. Pino e Maria avevano creato un’azienda nel settore delle forniture idrauliche, dove erano impegnati entrambi tutta la giornata.

All’inizio fu un viaggio

Corre l’anno 1986, Pino continua: «Suor Idelma cominciò a scriverci delle lettere con le sue prime esperienze di missione e noi le rispondevamo. Così iniziai a incuriosirmi di questo paese e dell’Africa in generale, continente di cui sapevo poco o nulla. Di fatto io non avevo mai viaggiato». Poi Pino prende il coraggio a due mani e decide di andare a trovare suor Idelma. Soprattutto vuole andare a vedere l’Africa. Un viaggio che dura – ricorda con precisione – «34 giorni», e che cambia qualcosa in lui. Qualcosa che a 32 anni di distanza ancora non sa spiegare. «Ero tornato da poco e durante una festa di battesimo, un tizio mai visto mi avvicinò: “Sei tu quello che è stato in Africa?”, chiese. Così cominciammo a parlare. Voleva sapere tutto. Alla fine della festa mi disse che se fossi partito di nuovo, sarebbe venuto. E così fu». Così si crea un gruppo di persone interessate alla missione.

Il Vangelo come servizio

Pino è disorientato. Insieme agli amici sente che deve fare qualcosa per «condividere» con le sorelle e i fratelli africani incontrati in Tanzania. Anni dopo scriverà: «Ogni attività nasce da un incontro con persone, luoghi, situazioni complesse e gravi che possono essere comprese nell’umiltà del cercare di calarsi dentro», e anche: «Occorrono iniziative idonee a modificare le cause di povertà creando sviluppo», e «Si crea così la possibilità di un cammino comune e di uno scambio profondo di esperienze».

Con Maria si rivolgono ancora una volta alle suore della Consolata e incontrano suor Gianpaola Mina. È lei che parla loro della beata Irene Stefani: «Siamo rimasti immediatamente ispirati dalla vita di suor Irene», commenta Pino. Così, insieme agli amici, Pino e Maria creano il «Gruppo operativo missionario Nyaatha Irene», Gomni in sigla, dove Nyaatha, ovvero madre misericordiosa, è l’appellativo che gli africani davano a suor Irene.

Racconta Pino: «Suor Mina ha aiutato il gruppo a nascere e a formare lo statuto. Ci disse: “Non potete chiamarvi Gruppo Irene, perché voi non sarete mai un gruppo esclusivamente di preghiera, voi porterete il Vangelo dando servizio, lavorando con la carità. Sarete un gruppo operativo missionario”. E in effetti ci aveva azzeccato».

Gruppo «di carità»

Un altro principio fondamentale deciso fin da subito è che «non saremo mai né onlus né Ong – ricorda Pino -, ma un gruppo di carità». Questo per «non scendere a compromessi», perché l’associazione vuole «vivere di carità, dando carità». Rifiuta dunque di entrare nel «business» o, più benevolmente, nel settore, della cooperazione internazionale. E il Gomni riesce a mantenere la promessa per tutta la sua storia, nonostante non sia facile, perché qualcuno che ha tentato la virata c’è stato, ma poi ha prevalso lo spirito iniziale.

Una scelta, quella del nome, che chiarisce le intenzioni della neonata associazione. I suoi fondatori si sentono ispirati anche dal beato Giuseppe Allamano. E in particolare fanno loro il motto «Far bene il bene, senza far rumore», senza spazio al compromesso. Non si fanno pubblicità, non mettono bandierine (come invece fanno molte associazioni). E chi prova a farlo viene riportato sulla retta via. «Anche se noi non ci facciamo conoscere, sono in molti che ci conoscono», ricorda Pino.

Subito operativi

Il Gruppo operativo parte, e fa onore al suo nome. Inizia una collaborazione con alcuni missionari della Consolata in Tanzania. I primi progetti sono del 1988 a Kibao e Iringa. Viene realizzato un intero acquedotto che alimenta un ospedale, un dispensario e diverse case, e un impianto elettrico per le stesse strutture. Poi si continua lavorando con la diocesi di Njombe. «Ci basiamo sempre su strutture locali, su persone che si dimostrino strumenti di promozione umana e comunitaria, in modo da coinvolgere la popolazione sempre da protagonista e non solo come beneficiaria».

Il Gomni ha alcuni principi molto chiari, come il fatto che con le sue attività non vuole «creare un circolo vizioso di dipendenza da assistenza, ma piuttosto intraprendere iniziative e attività concrete per uno sviluppo autogestito in loco». Ovvero, aiuto sì, ma condivisione e protagonismo attivo della gente coinvolta, che sia comunità, affinché «con il tempo assuma pieno coordinamento dei progetti, nella promozione del bene comune». Concetti molto avanzati per la fine degli anni ‘80.

Importanti, nella fase iniziale, sono i consigli di padre Franco Cellana. «Lo conobbi in Tanzania nel 1989, poi lo ritrovai a Torino nel ‘91». Nei primi anni ’90 padre Franco è responsabile dell’animazione missionaria in Casa Madre. La grande esperienza di Africa, come missionario, aiuta il gruppo nei primi fondamentali orientamenti. «Ci confrontammo sul fatto che lavorare con i missionari va bene, ma quando il missionario parte, la missione tende a decadere. Fondamentale è dunque far crescere la gente, che è anche la cosa più difficile che ci sia».

Puntare sempre allo sviluppo della persona, attraverso la formazione, e poi il lavoro, quindi la conoscenza di un mestiere: «Orientare ogni attività verso la crescita in dignità della persona, nella convinzione che ciascuno può realizzarsi pienamente».

È padre Franco a presentare al gruppo l’allora vescovo di Njombe, monsignor Raymond Mwanyka, incontro fondamentale.

I progetti diventano delle vere e proprie collaborazioni sul lungo periodo, relazione, amicizia, scambio. Numerose sono le attività con la diocesi di Njombe, Sud Ovest del paese, a partire dal 1992. Una collaborazione che continua ancora oggi. Diventano decine i viaggi di Pino e degli altri soci per portare avanti lo scambio, creare fratellanza, ma anche realizzare progetti concreti: ospedali, impianti fotovoltaici, acquedotti, dighe e impianti idraulici, centri di formazione, falegnamerie, ma anche formazione di giovani promettenti ai mestieri, ecc.

Un altro degli approcci del Gomni è infatti quello di formare, per creare lavoro, micro impresa si dice oggi nel gergo della cooperazione, in modo da permettere alle persone di avere un reddito e poter vivere con dignità nella propria terra. Una visione all’avanguardia, se si pensa che il sistema della cooperazione internazionale allo sviluppo arriverà a questi concetti solo diversi anni dopo.

Un riferimento solido

Pino è fiero di aver portato sua figlia, la prima volta all’età di 7 anni, in Tanzania, e poi di averla riportata tante volte, così che lei «è cresciuta un po’ in Africa, e riesce a trasmettere certi valori ai suoi figli, ora che è diventata mamma».

Oggi il gruppo Gomni ha circa 80 aderenti di cui 7 o 8 pienamente operativi. Tutti volontari che si pagano ogni viaggio e ogni attività. Oltre alla base di Torino hanno delle «antenne» a Milano, Roma, Treviso.

Il gruppo è cresciuto intorno all’Istituto Missioni Consolata. A Torino le guide spirituali del gruppo sono state missionarie e missionari della Consolata e l’Istituto è sempre stato un riferimento centrale. Da suor Mina a suor Leottavia, da padre Franco a padre Francesco Bernardi e padre Giacomo Mazzotti. In filo rosso che ha guidato il Gomni nelle sue tre decadi di esistenza.

Anche se non vuole diventare Ong, il Gruppo Irene (come viene definito famigliarmente) collabora con enti, onlus e Ong. Talvolta riceve finanziamenti, altre volte, al contrario, si impegna a cercare materiali e fondi necessari per un progetto, finanziando attività di un altro ente. Ma sempre «senza far rumore». In questo modo, con aiuti puntuali, Gomni è intervenuto anche in Kenya, Romania, Brasile ed Haiti.

Un centro per suor Irene

Nel 2016 nasce un progetto integrato con la parrocchia di Mkiu, 80 km a Sud Ovest di Njombe. Il progetto prevede una prima fase, quella attuale, nei settori agricoltura e artigianato. Si tratta di creare le condizioni affinché i giovani possano formarsi in diversi ambiti: agricoltura, allevamento, falegnameria, carpenteria, taglio e cucito, informatica. Ovvero realizzare infrastrutture, iniziare attività che generino reddito e fare formazione.

Pino ci ricorda che: «Noi pensiamo che le persone debbano saper lavorare, ma anche saper gestire il lavoro, in modo che dia loro reddito. E poi saper gestire questo reddito». Concetti molto concreti, ma non facili da realizzare. In ogni caso molto pertinenti per la situazione che vivono i giovani nella diocesi di Njombe.

E così in questo villaggio di 4.000 persone più altrettante nei villaggi del circondario facenti parte della parrocchia, nello splendido scenario dei monti Livingston, immerso in una natura mozzafiato, il Gruppo Irene ha iniziato una serie di attività: un allevamento di vacche, maiali, polli, bacini di piscicoltura, apicoltura, riforestazione, laboratorio di falegnameria e costruzioni metalliche.

Il progetto a Mkiu è centrato attualmente sulla figura di padre Innocente Ngaillo, detto padre Inox, diocesano. Padre Inox ha passato alcuni mesi in Italia nel 2016 per motivi di salute, ed è nata questa idea con il Gomni, subito chiamata: «Centro agricolo – artigianale Irene Stefani».

«Abbiamo parlato con il vescovo, mons. Alfred Leonhard Maluma e ci ha garantito che padre Inox potrà restare a Mkiu per il tempo necessario a formare alcune persone locali alla gestione di quest’opera. Non ha senso realizzare grandi opere se poi non c’è nessuno che possa gestirle. Il nostro obiettivo è proprio far crescere le persone».

Ma come si finanzia un gruppo che fa carità? «Di carità, ovvero di donazioni di amici, persone, aziende, associazioni che vengono a conoscere i nostri progetti con il passaparola. È sempre stato così. Abbiamo dei tempi lunghi ma portiamo a compimento i nostri programmi. E non abbiamo vincoli ne obblighi, se non con il nostro statuto, i nostri principi e la nostra coscienza».

Nell’arco di questi 32 anni molte sono state le persone che hanno condiviso un percorso, anche lungo, con il Gomni. Poi magari hanno lasciato, o sono andati a creare altre realtà.

Dietro al front man Pino Lupo c’è sempre stata sua moglie Maria, «organizzava dietro le quinte, ma è pure stata spirito e motore propulsivo del gruppo». Maria è tornata alla casa del Padre nel 2006, ma Pino ha continuato a sentirla al suo fianco e a lottare insieme a lei per questo sogno: una condivisione e uno scambio, che deve essere alla pari, con l’Africa e gli africani. «Quelle lettere mensili di suor Idelma, che ci portavano i suoi problemi di missione in casa, sono diventate la nostra vita».

Marco Bello

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Le due Gambo: l’ospedale in Etiopia e la borgata nelle Langhe

Testodi Ugo Pozzoli su l’incontro tra Gambo in Etiopia e Gambo nelle Langhe |


Incontro Enza Fruttero per la prima volta nel suo laboratorio, nel più grande ospedale di Torino. Ha un sorrisone stampato sulla faccia, proprio di chi sta per andare in pensione e di chi ti sta parlando di una delle grandi passioni della sua vita. Interessante – mi viene da pensare. È sempre coinvolgente ascoltare persone che ti raccontano la missione in prima persona e lo fanno con la luce negli occhi, come se non avessero trovato senso a fare null’altro nella vita.

«Ma tu sei mai andato a Gambo?», mi chiede, quasi per capire se vale la pena di parlare con chi si trova davanti. In effetti, sono stato a Gambo non molto tempo fa. Ricordo bene la missione, l’ospedale, fratel Francisco Reyes, medico e missionario della Consolata allora incaricato della struttura, le suore, la fattoria, le scuole… e la grandissima sensazione di vuoto provata in quell’occasione.

Un giorno intero, passato a vagolare nell’ospedale deserto insieme a Francisco, mio cicerone, che mi dicenva: «Immagina questo reparto stracolmo di gente, queste sale operatorie in continua attività… in questo cortile la gente si accampa… tantissime persone». Quel giorno l’ospedale di Gambo era tutto vuoto. Pochi malati facevano la fila al pronto soccorso, alcuni degenti nei reparti, i lebbrosi visitati a casa loro. Era la festa del compleanno del Profeta e questo spiegava la vacanza dalle scuole, il personale quasi tutto a casa, l’ospedale deserto. Del resto Gambo si trova in Oromia, una vasta regione dell’Etiopia a maggioranza musulmana.

Ciò che non ho potuto vedere quel giorno mi è successivamente diventato familiare grazie ai racconti di Enza Fruttero, biologa, le ferie degli ultimi vent’anni «consumate» in Africa a organizzare un laboratorio ben diverso dal suo di Torino, quello di un piccolo dispensario sperduto nella foresta, al servizio dei lebbrosi, diventato poi un ospedale, punto di riferimento e segno di speranza per gran parte della popolazione circostante.

Lì, il giorno del compleanno di Maometto del 2013, è iniziata la mia storia con Gambo, un luogo divenutomi poi familiare pur non avendoci più rimesso piede.

I tanti amici e volontari, medici e tecnici specializzati che dedicano tempo, energia e sapere allo sviluppo dell’ospedale, mi hanno reso un servizio prezioso, raccontandomene ciascuno un pezzetto, narrando motivazioni, esperienze, successi e sovente non poche difficoltà. Gambo è soprattutto la loro storia, così come è la storia di tante persone che da varie parti del mondo hanno contribuito finanziariamente e spiritualmente per costruire, pezzo dopo pezzo, una struttura di eccellenza al servizio dei più poveri.

Dell’Ospedale di Gambo si è molto parlato anche su questa rivista. Dal 1974, infatti, i missionari della Consolata ne hanno la gestione, continuando a offrire ininterrottamente un servizio di promozione umana che completa in modo perfetto l’azione di annuncio e accompagnamento pastorale della missione. Nel corso di questi anni, si sono portate avanti molteplici attività per finanziare e appoggiare gli operatori locali con il servizio di una cinquantina di medici e specialisti provenienti da Spagna, Italia e Olanda che si danno il turno durante l’anno e quello di tecnici e manutentori in grado di consentire l’operatività della struttura in un ambiente complesso come quello in cui sorge.

Da Gambo a Gambo

«Ma tu sei mai andato a Gambo?». Questa volta a chiedermelo è la dottoressa Paola Palesa. È stata Enza a presentarmela. Si sono conosciute a un master di bioetica e l’entusiasmo di Enza ci ha messo poco a far breccia anche nel cuore di Paola. Racconto nuovamente la piccola, quasi insignificante, storia del mio rapporto diretto con Gambo, ma anche le tante occasioni di contatto indiretto che sono maturate in questi anni.

Enza e Paola mi parlano di un’iniziativa che potrebbe prendere piede se decidiamo di unire le forze e provare a coinvolgere qualcun altro. Gambo ne ha bisogno. A Enza preme trovare i soldi per ristrutturare il villaggio dei lebbrosi che vivono intorno all’ospedale. Sono stati loro la prima vera attenzione dei missionari, il primo vero obiettivo dell’allora piccolo dispensario. Costretti a lasciare le loro famiglie e le loro comunità a causa della malattia e dello stigma che essa comporta, centinaia e centinaia di persone si sono radunate a Gambo per avere cura, ma anche protezione e autentica consolazione.

Per anni le missionarie della Consolata si sono prodigate nell’assistenza di queste persone. Adesso le case del villaggio che li ospita hanno bisogno di una seria manutenzione.

Paola vive a Torino, ma è originaria di La Morra d’Alba, terra di vino, comune con una vista mozzafiato sulle Langhe in cui viene prodotto il Barolo D.o.c. Il belvedere de La Morra è patrimonio dell’umanità, decretato dall’Unesco, roba mica da ridere. Più in basso, all’entrata del paese, a circa tre chilometri dalla signorile piazza del Castello c’è una frazione che curiosamente si chiama «Gambo». Il collegamento è presto fatto, veloce scatta l’idea: perché non proviamo a fare una sorta di gemellaggio?

Il progetto «Colline sorelle: da Gambo a Gambo. Volti e storie di Langa e di Etiopia» è nato così, dal tentativo di mettere a dialogare mondi differenti accomunati semplicemente da un nome e dall’ambiente collinare. Del resto, in questo mondo fluido in cui il «qui da noi» e il «là da loro» si perdono grazie a una maggiore facilità negli spostamenti e, soprattutto, al continuo migrare dei popoli, è bello poter pensare a un progetto in cui l’aiuto sia vicendevole, in cui ciascuno offra all’altro parte di quello che ha, ma anche di quello che è, condividendo cultura, storia, tradizioni, pensiero.

La risposta di La Morra nell’organizzazione dell’evento è stata entusiasta, amministrazione comunale e parrocchia in testa. Gli abitanti di frazione Gambo hanno acconsentito a ospitare una mostra fotografica e un concerto per celebrare i due luoghi omonimi. Sono molti coloro che hanno accettato di mettersi in gioco per aprire una finestra sul mondo.

Da domenica 1° luglio a giovedì 12, infatti, il belvedere cittadino offrirà un panorama ancora più esaltante. Lo sguardo non arriverà soltanto ai paesi dell’alta Langa, ma si spingerà fino alle «verdi colline d’Africa» che ci trasmetteranno suoni, voci, persino i sapori. Sarà divertente e, penso, interessante vedere la cucina dell’Etiopia fare capolino in uno dei centri emergenti del turismo etnogastronomico a livello europeo.

Non si ama se non ciò che si conosce: lo scopo di questi giorni e far entrare la Gambo etiope nella casa della Gambo delle Langhe, sperando che un giorno qualcuno dei tanti, che passeranno a La Morra a inizio luglio, trovi la strada per restituire la visita.

«Ma tu ci sei stato a Gambo?». Questa volta, dopo luglio, la mia risposta sarà differente: «In quale delle due?».

Ugo Pozzoli


Gambo Hospital

Comincia con un villaggio di capanne in paglia e fango, rifugio per alcune centinaia di lebbrosi. Nel 1965 diventa un lebbrosario in muratura, completato nel 1969. Dal 1972 sono presenti i missionari della Consolata. Nel 1980, su richiesta del governo, parte del lebbrosario è trasformata in ospedale generale. Il numero dei posti letto passa da poche decine a novanta con tre sezioni: lebbrosario, medicina generale, Tbc (particolare attenzione è data ai malati di tubercolosi, molto numerosi nella regione). Oggigiorno l’ospedale ha centocinquanta letti e i seguenti reparti: Tbc, lebbrosario, pediatria, medicina, maternità, chirurgia, sala operatoria, ambulatorio e servizi di laboratorio analisi, ecografia, radiologia, per la cura di circa duecentocinquanta persone al giorno. Il bacino di utenza ufficiale è di centomila persone, ma la zona di provenienza dei pazienti è molto più ampia. Oltre alle cure mediche, ai malati che accedono all’ospedale vengono offerti servizi di medicina preventiva prenatale e di terapia per i bambini malnutriti e denutriti su un territorio composto da 23 villaggi.

da www.missioniconsolataonlus.it

Fotogalleria del’Ospedale da Gambo dall’Archivio Fotografico MC

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Colline sorelle: da Gambo a Gambo

Volti e storie di Langa e di Etiopia
Iniziativa in favore dell’Ospedale/lebbrosario di Gambo Etiopia

Comune di La Morra d’Alba (CN)

Domenica 1 luglio

Ore 11 – Santa Messa presieduta da S.E. Mons. Marco Brunetti, Vescovo di Alba.
Ore 12 – Inaugurazione dell’esposizione di prodotti artigianali e dipinti tipici dell’Etiopia (Chiesa di San Rocco).
Orario esposizione: 10.30/12 – 14.30/18 tutti i giorni.

Ore 15 – Presentazione dell’evento: obiettivi, finalità, progetti e testimonianze (Chiesa di San Sebastiano).
Partecipa p. Marco Marini, Superiore Regionale dei Missionari della Consolata in Etiopia.

Ore 17 –  Concerto del Coro “Il Bell’Humore”.
Repertorio: spirituals, classico piemontese e corali sacre di Bach (Chiesa di San Martino).

Mercoledì 4 luglio
Pomeriggio: Animazione Estate Ragazzi.

Giovedì 5 luglio
Ore 16 – Animazione con diapositive e presentazione dell’iniziativa alla Casa di riposo.

Domenica 8 luglio
Ore 11 – Santa Messa. Concelebrata da don Massimo Scotto, parroco di La Morra, e p. Ugo Pozzoli, missionario della Consolata.

Ore 12 – Pranzo etiope presso l’enoteca “Vigne Bio”.

Ore 17 – Frazione Gambo: Cerimonia dell’Amicizia, con caffè etiope e baci di La Morra.
Presenti le “Lamorresine” e costumi tipici etiopi. Concerto di fisarmoniche locali.
Esibizione di tamburi e gong con Marina Gallo e Paola Simonelli (operatrici del suono).
Durante tutto il giorno: Mostra fotografica a cielo aperto:
“Le due Gambo”.

Per dettagli sulle eventuali altre iniziative
e sulla manifestazione di chiusura prevista per giovedì 12 luglio:
Ufficio turistico di La Morra 0173 500344
www.lamorraturismo.it.

Fotogalleria della giornata dell’8 luglio a Gambo, La Morra

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Giovani, speranze da non tradire

Testo su Giovani e Giornata della Gioventù di Chiara Giovetti | Foto AfMC |


Il 12 agosto è la Giornata internazionale della gioventù, data fissata dalle Nazioni Unite nel 1999 per promuovere e valorizzare il ruolo dei 15-24enni. Nel 2017 il tema è stato «Giovani che costruiscono la pace», mentre quest’anno sarà «Spazi sicuri per i giovani». Al di là delle celebrazioni, qual è la situazione di questa fascia cruciale della popolazione mondiale?

I giovani sono, nella definizione delle Nazioni Unite, le persone di età compresa fra i 15 e i 24 anni. Sono un miliardo e duecento milioni, circa il 16% della popolazione mondiale. Il World Youth Report@, una pubblicazione delle Nazioni Unite che esce con cadenza biennale, aiuta a farsi un’idea complessiva della loro situazione. Il rapporto più recente (2016, su dati 2015) apre con un’analisi della situazione dei giovani che sottolinea il problema della disoccupazione, «un motivo di preoccupazione quasi ovunque e che interessava, nel 2014, 73 milioni di persone». I giovani che entrano nel mercato del lavoro oggi, si legge nel rapporto, hanno meno probabilità di assicurarsi un lavoro dignitoso rispetto a chi vi ha fatto il proprio ingresso nel 1995.

Se in alcuni paesi sviluppati i tassi di disoccupazione giovanile hanno avuto punte del 50%, in quelli in via di sviluppo – dove vivono quasi nove su dieci dei giovani del pianeta – il problema principale è che i giovani sono sotto impiegati, lavorano nel settore informale, spesso combinando più lavori part time o temporanei, in condizioni lavorative precarie e per un salario basso.

Le statistiche 2013 stimavano che 169 milioni di giovani occupati vivevano con meno di due dollari al giorno, numero che aumentava a 286 milioni per la soglia di 4 dollari al giorno. Le ragazze sono le più esposte ai rischi della precarietà e dello sfruttamento e hanno, fra l’altro, meno probabilità di diventare imprenditrici rispetto ai loro coetanei maschi.

Citando uno studio 2015 dell’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo)@, il World Youth Report avverte che sarebbe necessario creare 600 milioni di posti di lavoro nelle prossime due decadi per assorbire l’attuale numero di giovani disoccupati e gli ulteriori 40 milioni di nuovi lavoratori che entrano annualmente nel mercato del lavoro.

Ovviamente il dato globale maschera differenze anche molto pronunciate nelle tendenze regionali. Il rapporto sottolinea come fra il 2012 e il 2014 il tasso di disoccupazione risultava aumentato ad esempio in Medio Oriente (dal 27,6 al 28,2%) e Nordafrica (dal 29,7 al 30,5%) mentre era diminuito in Africa subsahariana (dal 12,1 all’11,6%) e rimasto quasi uguale in America Latina e Caraibi (dal 13.5 al 13.4%).

Il rapporto menziona anche la condizione dei Neet (acronimo dell’inglese Not in employment, education or training), cioè i giovani che non sono occupati né stanno seguendo un percorso di formazione e istruzione. Il fenomeno interessa a livello globale circa un giovane su cinque e anche in questo caso le donne sono le più esposte. I maschi Neet sono più numerosi nei paesi sviluppati (11,3%); seguono i paesi emergenti (9,6%) e i paesi in via di sviluppo (8%), dove in assenza di meccanismi di protezione sociale i giovani non possono permettersi di non lavorare e sono costretti ad accettare impieghi precari e sottopagati.

Rispetto ai Neet della Ue, un documento del parlamento europeo@ riporta che nel 2015 nell’Unione a essere in questa condizione era il 12% dei giovani di età compresa tra i 15 e i 24 anni (6,6 milioni di persone), cifra che aumenta a 14 milioni (14,8%) includendo le persone fino a 29 anni. Si tratta di un gruppo sociale molto diversificato, che comprende disoccupati a breve e lungo termine, ragazzi in transizione dalla scuola al lavoro, giovani con responsabilità familiari, persone con disabilità o problemi di salute. La probabilità di essere Neet è inoltre maggiore se si ha un livello di istruzione basso e varia notevolmente da uno stato membro all’altro. Gli ultimi dati della Commissione europea – riferiti però alla fascia di età 24-30 – segnalano Italia e Grecia in cima alla classifica con, rispettivamente, il 30,7% e il 30,5% e Lussemburgo, Svezia e Paesi bassi con i tassi più bassi, intorno al 10%.

Altro dato indicativo è quello sulla partecipazione dei giovani alle consultazioni elettorali: secondo uno studio effettuato in 33 paesi dalla rete World Values Survey, che riunisce studiosi di scienze sociali di tutto il mondo, se il 60% dei cittadini nel loro complesso dichiara di votare a ogni elezione, il dato si contrae al 44% considerando solo le persone fra i 18 e i 29 anni.

Quanto ai dati sull’istruzione, l’aggiornamento più recente sugli Obiettivi di sviluppo sostenibile@ segnala che nel 2014 circa 263 milioni di bambini, adolescenti e giovani in età scolare non erano a scuola. Di questi, 61 milioni erano bambini della scuola primaria, 60 milioni adolescenti della scuola secondaria inferiore e 142 milioni erano giovani della secondaria superiore. Il 70% di questi bambini e ragazzi viveva in Africa subsahariana e Asia meridionale.

Infine, un dato sul rapporto fra giovani e migrazione: nel 2013 (ultimo dato disponibile) sui 232 milioni di migranti a livello globale circa 28 milioni, cioè un po’ più di uno su dieci, erano giovani fra i 15 e i 24 anni e, nello specifico, 11 milioni fra i 15 e i 19 anni e 17 milioni fra i 20 e i 24@.

I progetti di Mco per i giovani

Nel 2018, il lavoro di Mco si concentra proprio sulla promozione e valorizzazione dei giovani, specialmente dal punto di vista della loro condizione lavorativa. I microprogetti che quest’anno i nostri missionari stanno realizzando riguardano l’avvio di attività generatrici di reddito, l’inserimento lavorativo e la formazione professionale.

Uno dei progetti si svolge in Venezuela, paese ancora oppresso da una pesante crisi economica e da un tasso di inflazione che, riportava Reuters lo scorso maggio citando fonti dell’Assemblea nazionale venezuelana, era arrivato a poco meno del 14mila per cento. Il presidente Nicholas Maduro è stato rieletto lo scorso maggio col 67,7% dei voti, ma l’affluenza è stata moto bassa, intorno al 46%, e numerose sono state le contestazioni della regolarità del voto. Oltre un milione di venezuelani ha lasciato il paese negli ultimi due anni, migrando principalmente in Colombia e in Brasile.

«Il salario minimo», scrive padre Zachariah Kariuki, missionario della Consolata che opera in Venezuela, «è salito fino a un milione e trecentomila bolívar, ma non è sufficiente nemmeno a comprare cibo per una settimana» (cfr. MC giugno 2018, p. 27).

Pescatori e artigiani

I missionari della Consolata hanno una presenza a Tucupita, nello stato di Delta Amacuro, dove lavorano con la comunità indigena Warao. Il progetto che padre Zachariah e i suoi confratelli stanno realizzando mira a sostenere cinquanta giovani pescatori fornendo loro strumenti per la pesca – reti e altri accessori – e contribuendo alla fabbricazione di canoe. Questo supporto dovrebbe permettere ai giovani di fare della pesca non solo uno strumento di sussistenza ma anche un mezzo per generare un piccolo reddito che consenta loro di far fronte alle spese della famiglia, ad esempio quelle sanitarie o quelle collegate alla scolarizzazione dei bambini. I casi di abbandono scolastico, infatti, sono ora molto numerosi perché le famiglie non hanno le risorse per acquistare libri, uniformi e per pagare i costi dei mezzi di trasporto necessari ai figli per raggiungere la scuola.

Un altro intervento sarà coordinato da padre Juan Carlos Greco e coinvolgerà altri 90 giovani, sempre di Tucupita, nella produzione di manufatti artigianali. Il popolo Warao ha un artigianato tradizionale di alta qualità specializzato nella produzione di oggetti come cesti, amache, borse in fibra di moriche (palma) che vengono venduti o scambiati sul mercato locale. Questo progetto prevede anche una contestuale formazione alle modalità di estrazione sostenibile delle risorse naturali, la promozione di forme di aggregazione cooperativa fra i giovani e il rafforzamento delle relazioni e degli accordi con i commercianti locali per permettere ai manufatti di raggiungere in modo più sistematico un mercato più ampio.

Costa d’Avorio, crescita con scosse

A giudicare dai dati della Banca mondiale, la crescita economica in Costa d’Avorio nell’ultimo quinquennio è stata una delle più solide del continente. Tuttavia ha conosciuto un rallentamento (dal 10% del 2012 al 7,6% dell’anno scorso) dovuto soprattutto al crollo del prezzo del cacao, uno dei prodotti su cui si basa l’economia ivoriana, a cui si sono aggiunti l’ammutinamento dell’esercito e a una serie di scioperi nel settore pubblico che hanno creato nel 2017 una situazione temporanea di insicurezza e di stallo.

Se nell’inverno fra i 2016 e il 2017 400mila tonnellate di cacao erano bloccate nei porti ivoriani a causa della caduta dei prezzi, due mesi fa è stato l’anacardio a creare non pochi grattacapi agli operatori economici del paese. Il prezzo al chilo stabilito a febbraio dal Consiglio cotone-anacardio, organo che regola la filiera, variava dai 500 franchi Cfa a bordo campo ai 584 di prezzo al porto (cioè fra i 76 e gli 89 centesimi di euro). Ma, riportava a maggio il segretario della Federazione nazionale compratori e cooperative dell’anacardio, Abdoulaye Sanogo, «a causa del crollo del prezzo, oggi si negozia entro una forbice che va dai 250 ai 400 franchi». Risultato: oltre 300 camion bloccati con il loro carico nei principali porti ivoriani perché gli esportatori rifiutavano di comprare a un prezzo che giudicavano troppo alto@.

Eventi come questo a livello di chi trasforma le statistiche in grafici sono rappresentati come nulla più che un breve segmento in discesa e possono, nel corso dell’anno, ritornare a valori positivi. Ma, al livello delle economie dei piccoli produttori, creano effetti devastanti in grado di mettere in ginocchio intere famiglie, le quali di solito ricevono per il raccolto venduto solo un acconto e aspettano per mesi un saldo che può anche non arrivare mai.

Un negozio per i giovani

Grand Zattry è un villaggio della Costa d’Avorio sudoccidentale nella regione del Basso Sassandra, di cui la città portuale di San Pedro è il capoluogo. Qui padre James Gichane sta realizzando un progetto che si rivolge ai giovani disoccupati di venticinque villaggi che fanno riferimento alla parrocchia.

Come in gran parte delle zone rurali della Costa d’Avorio, molti ragazzi terminano a fatica la scuola primaria e non proseguono il percorso scolastico. I genitori, infatti, non li sostengono negli studi, in parte perché le famiglie non riescono a coprire i costi per la scuola e in parte perché preferiscono impiegare il prima possibile i ragazzi nelle piccole piantagioni familiari. «Ma in questo modo», spiega padre James, «i giovani si trovano a dipendere totalmente dalla famiglia e a dover condividere il magro reddito che viene dal raccolto invece di acquisire le competenze necessarie a migliorare e ampliare l’attività agricola familiare o ad avviare un’attività propria». In tanti lasciano il villaggio per i centri urbani medi e grandi, finendo per ingrossare le fila dei lavoratori non qualificati, precari e mal pagati.

Il progetto che padre James sta portando avanti prevede l’avvio di un negozio di pagnes (il telo che in gran parte dell’Africa le donne usano come gonna, come porte-enfant, come copertura per i banchetti al mercato e per numerosi altri usi), magliette e polo. Il negozio, che con il progetto si provvederà a costruire ed equipaggiare, permetterà ai giovani coinvolti di avere un reddito e, a poco a poco, dei risparmi con i quali cominciare a loro volta un’attività. Alcuni giovani hanno proposto di utilizzare i guadagni per avviare dei vivai di alberi della gomma e di piante di cacao, le due specie maggiormente coltivate nella zona.

Spagna, da minori stranieri a lavoratori

Un altro progetto che i nostri missionari intendono realizzare è quello del supporto a dieci ragazzi migranti, fra i 18 e i 25 anni, arrivati in Spagna quando non avevano ancora raggiunto la maggiore età. Questi giovani, che escono dal Sistema di protezione dei minori, si trovano ora ad affrontare l’entrata nel mercato del lavoro spagnolo e, in particolare, quello della città di Malaga.

Il progetto prevede di formare i ragazzi come aiuto cuochi e seguirli nel percorso di inserimento lavorativo. Completeranno la formazione anche laboratori grazie ai quali i giovani acquisiranno conoscenze sul settore delle imprese ricettive a Malaga e sulle tecniche per affrontare un colloquio, compilare un curriculum e promuovere la propria candidatura a fronte di un’offerta di lavoro.

Chiara Giovetti




Protezione dell’ambiente: urgenza, non lusso

Presentazione di microprogetti MCO sull’ambiente di Chiara Giovetti |


Alcuni microprogetti del 2017 di Missioni Consolata Onlus hanno avuto come tema la protezione e la salvaguardia dell’ambiente. Ve ne raccontiamo due: uno nella Colombia che faticosamente cerca di liberarsi dal conflitto, e uno in Costa d’Avorio che, come molti paesi africani, ha dichiarato guerra ai sacchetti di plastica.

Buenaventura, un porto fatto città

Buenaventura è una città di 390mila abitanti sulla costa occidentale della Colombia. Il suo porto, uno dei principali del paese, genera un terzo delle tasse doganali complessive, cioè oltre 2 miliardi di dollari su un totale di 6,7@ e ha visto nel 2017 un milione di container movimentati.

Ma la ricchezza che il porto genera per le casse nazionali non torna a Buenaventura sotto forma di servizi per i cittadini e la città è una delle più povere del paese. Nel 2014 Bbc Mundo l’ha descritta come la «nuova capitale colombiana dell’orrore». L’allora vescovo di Buenaventura, monsignor Hernán Epalza, ha raccontato all’emittente britannica: «È come se tutta la cattiveria della Colombia si fosse concentrata qui». L’articolo della Bbc descriveva una realtà in balia di gruppi armati paramilitari che si contendevano il controllo del narcotraffico e del contrabbando in un conflitto caratterizzato da episodi di violenza particolarmente efferata.

Nelle parole di Jaime Alves, ricercatore presso l’Universidad Ices de Cali e assistente di antropologia alla City University di New York, «in questo regime macabro la popolazione nera diventa materia prima non solo per il narcotraffico – che considera Buenaventura una rotta internazionale strategica e i giovani afro come manodopera usa-e-getta -, ma anche per la “guerra al sottosviluppo” del governo, per il quale la presenza nera in aree strategiche è un ostacolo da rimuovere»@. Nel maggio dell’anno scorso la società civile estenuata, stremata dal conflitto e dall’indifferenza che il governo mostrava nei confronti della situazione di Buenaventura, ha deciso di prendere posizione con il paro civico (sciopero civico)@.

Dopo ventuno giorni di proteste (e di blocco delle attività portuali, con i conseguenti danni economici), i leader del paro civico e il governo arrivarono a un accordo che prevedeva investimenti per realizzare opere prioritarie fra cui acquedotti, reti fognarie, unità di terapia intensiva della Ciudadela hospitalaria (cittadella ospedaliera).

A oggi, la situazione (circa l’ambiente) non si può dire significativamente migliorata. Come riferisce il presidente della Camera di commercio locale, Alexánder Micolta, al quotidiano El Tiempo, l’acqua è disponibile mediamente sette ore al giorno. La sicurezza «è migliorata, ma ci sono ancora bande criminali che continuano a far sparire le persone, anche se non si sente più parlare di casas de pique, le case dove le vittime del conflitto venivano letteralmente fatte a pezzi per farle sparire, e gli omicidi sono diminuiti»@.

È poi dello scorso febbraio la notizia dell’uccisione di Temístocles Machado Rentería, uno dei leader del paro civico, mentre gli altri leader ricevono continue minacce di morte@.

Il lavoro dei missionari per l’ambiente a Buenaventura

A Buenaventura i missionari della Consolata sono presenti dal 2016, in quella che nel 2017 è diventata la parrocchia di san Martín de Porres. Padre Lawrence Ssimbwa, ugandese, classe 1982, è il missionario responsabile delle attività. Riportando dati citati dal Cric – Consiglio Regionale Indigeno del Cauca -, padre Lawrence l’anno scorso scriveva: «La realtà di Buenaventura richiede un intervento immediato da parte dello stato. L’indice di disoccupazione è del 62% e il lavoro informale arriva al 90,3%, quello della povertà al 91% nelle zone rurali e al 64% in quelle urbane. (…) Di 407.539 abitanti, 162.512 sono vittime del conflitto armato».

Il corso di sensibilizzazione alla protezione dell’ambiente e le attività di pulizia del quartiere rientrano in una più ampia iniziativa di mobilitazione comunitaria che padre Lawrence sta portando avanti in parrocchia e che comprende anche, tra gli altri, corsi di formazione su diritti umani, identità culturale, arti e mestieri.

«Nei laboratori che abbiamo organizzato», scrive padre Lawrence, «abbiamo sensibilizzato circa 40 adulti, 60 bambini e una ventina di giovani, che hanno approfondito e discusso i problemi che si creano a causa dell’immondizia depositata nelle fognature e nei fiumi e dei roghi di pneumatici, fenomeni purtroppo frequenti nel quartiere».

Si sono poi realizzate quattro giornate di pulizia del quartiere e il risultato di questa attività è stato che alcuni membri della comunità si sono impegnati a organizzare mensilmente giornate di questo tipo (in favore dell’ambiente) per mantenere pulite le strade e le case in cui vivono.

Costa d’Avorio, la guerra contro la plastica

Dal 2013 in Costa d’Avorio (per proteggere l’ambiente, ndr) è vietato produrre, importare, commercializzare, detenere o utilizzare sacchetti di plastica che non siano biodegradabili. Il provvedimento, però, ha faticato e fatica parecchio a essere applicato. Una semplice visita al mercato di Abidjan, riportava Radio France International nel luglio 2017, mostrava chiaramente che la legge sulle buste di plastica era rimasta lettera morta, o quasi. «Sono i clienti che ci chiedono i sacchetti, vanno via come il pane!», spiegava una commerciante intervistata dall’emittente radiofonica francese. Riponendo la merce dentro buste biodegradabili, la signora commentava: «Sono i sacchetti di prima, salvo che sopra c’è scritto “biodegradabile”. Non c’è nulla per rimpiazzarli, eppure vogliono che smettiamo di usarli»@.

Nel marzo dell’anno scorso il governo è passato alle maniere forti, con il ministro della Salubrità, dell’Ambiente e dello Sviluppo sostenibile, signora Anne Désirée Ouloto, che ha accompagnato le forze dell’ordine nei controlli a sorpresa presso le aziende che ancora producono le buste incriminate. Durante le perquisizioni, riporta il sito abidjan.net, il ministro e il suo seguito hanno trovato due fabbriche clandestine di sacchetti di acqua (usati invece delle bottiglie), una con allacciamento abusivo alla rete idrica pubblica e l’altra dissimulata dall’insegna «Livia Couture» per far pensare a una sartoria@.

Quello dei sacchetti di plastica è solo uno dei problemi ambientali che la Costa d’Avorio deve affrontare. Il rapporto dell’agenzia delle Nazioni Unite per l’ambiente del 2015, Côte d’Ivoire – Évaluation environnementale post-conflit, ha individuato alcuni ambiti ai quali occorre prestare particolare attenzione, e cioè le foreste, il cui livello di degradazione è definito «grave», la laguna di Ébrié, vicino alla capitale economica Abidjan, i rischi legati all’espansione urbana non pianificata, l’impatto ambientale dello sfruttamento minerario industriale e artigianale e il rischio di sversamento di idrocarburi sul litorale ivoriano@.

«Una delle attività che svolgiamo con i giovani e i bambini durante la semaine de la jeunesse (settimana dei giovani) qui a San Pedro», racconta padre Ramón Lázaro Esnaola, superiore dei missionari della Consolata in Costa d’Avorio, «è proprio quella della pulizia delle strade». Nel popoloso quartiere nel quale i missionari lavorano – abitato soprattutto da operai del porto, piccoli commercianti e contadini – le vie a lato della strada principale asfaltata sono sterrate e sabbiose e mancano delle canalette di drenaggio che permettono all’acqua piovana di defluire. E quando ci sono, i sacchetti, le bottiglie e altra immondizia, prevalentemente di plastica, non di rado finiscono per intasarle del tutto.

Proteggere l’ambiente a Dianrà

Il progetto di sensibilizzazione alla protezione dell’ambiente del 2017 però non si è svolto a San Pedro, bensì a Dianra, nel Nord del paese, dove la comunità Imc gestisce, fra l’altro, un centro di salute, un programma di alfabetizzazione degli adulti e un progetto di apicoltura. «Da qualche anno», scrivono i padri Raphael Ndirangu e Matteo Pettinari, «la nostra missione dispone di un terreno sul quale intendevamo creare uno spazio verde accogliente e ricco di vegetazione all’interno del villaggio. Fino ad oggi non abbiamo potuto concretizzare l’idea perché lo spazio non era protetto e ogni tentativo di piantare alberi è andato perduto a causa della libera circolazione di capre, buoi e anche persone. Queste ultime, non vedendo una valorizzazione effettiva del terreno, se ne sono a più riprese “appropriate” per le loro più diverse esigenze. Di fatto, a volte il nostro spazio è diventato anche una discarica a cielo aperto, invaso in particolar modo da rifiuti di plastica».

Con la prima fase del progetto «Proteggiamo il nostro spazio verde» è stato possibile ripulire, livellare e recintare il terreno. I passi successivi saranno quelli della piantumazione di alberi da frutto e piante ornamentali, della predisposizione di un campo da calcio, della installazione di panchine, altalene, scivoli e altri giochi.

«La nostra», aggiunge padre Matteo, «è una zona di frontiera fra il deserto che avanza e la foresta che scompare. Quest’anno ad aprile la gente si trovava in difficoltà già da un mese per mancanza di acqua: pozzi che erano stati sinora una riserva d’acqua abbastanza sicura, ora sono secchi, la stagione delle piogge si riduce e i raccolti ne risultano danneggiati». Ecco allora, conclude il missionario, che il Nord della Costa d’Avorio può essere una zona strategica per sensibilizzare e possibilmente reagire a questi cambiamenti. Un progetto come quello di Dianra, per quanto piccolo, può accompagnare la comunità nel prendere coscienza e nel cercare soluzioni.

Non si tratta del primo tentativo di creare uno spazio di questo tipo nelle missioni Imc in Costa d’Avorio: a fare da apripista è stato il Jardin de l’Amitié (Giardino dell’Amicizia). Situato poco fuori dal villaggio di Marandallah – un paio d’ore di pista a Sud Est di Dianra – il giardino è stato a poco a poco creato grazie al lavoro di padre João Nascimento con la comunità. È diventato non solo un’occasione di sensibilizzazione alla protezione dell’ambiente ma anche uno spazio ricco di angoli quieti in mezzo al verde per la riflessione, la preghiera e il riposo. Molte manifestazioni comunitarie si sono svolte presso il Giardino dell’Amicizia, che si è rivelato un utile strumento per quel dialogo interreligioso che è elemento caratterizzante del lavoro dei missionari in questa zona del paese, dove il 72% della popolazione è musulmano, il 25% pratica le religioni tradizionali, mentre le diverse denominazioni cristiane si dividono il restante tre per cento.

Chiara Giovetti

Clôture di Dianrà per parco giochi e riforrestazione




Trump e Brexit, effetti sulla cooperazione

testo di Chiara Giovetti |


A un anno e mezzo dall’insediamento di Donald Trump come 45° presidente degli Stati Uniti, la comunità internazionale guarda con preoccupazione alle dichiarazioni della Casa Bianca circa le intenzioni di tagliare la spesa per l’aiuto allo sviluppo. E tiene d’occhio i possibili effetti della Brexit.

«Ci sono nazioni che prendono da noi miliardi di dollari e poi ci votano contro. Lasciate che facciano, risparmieremo un sacco di soldi. Non ci importa»@. Così il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha commentato lo scorso dicembre il voto in Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che dichiarava nulla e priva di effetto la decisione della Casa Bianca di spostare la propria ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme.

Le dichiarazioni del presidente hanno fatto seguito a quelle di Nikki Haley, ambasciatrice degli Stati Uniti alle Nazioni Unite che, dopo aver posto il veto – lei sola su quindici votanti – all’adozione della risoluzione contro Trump in Consiglio di sicurezza, non aveva esitato a commentare: «Ciò a cui abbiamo assistito qui oggi è un insulto. Non lo dimenticheremo»@.

E aveva poi affidato a Twitter una ulteriore precisazione: «Ci segneremo i nomi dei paesi che prima ricevono il nostro aiuto e poi votano contro di noi»@.

Queste frasi di Trump e della Haley illustrano una delle linee che l’aiuto allo sviluppo statunitense pare voler seguire, quella di aiutare gli amici. In un documento riservato visionato dalla rivista Foreign policy, lo staff di Haley cita tre progetti finanziati dagli Stati Uniti che «sarebbe il caso di rivedere alla luce dello scarso supporto alle posizioni statunitensi in sede Onu» da parte dei paesi beneficiari. Si tratta di un progetto di formazione professionale in Zimbabwe da 3,1 milioni di dollari, di un programma di lotta al cambiamento climatico in Vietnam (6,6 milioni) e della costruzione di una scuola in Ghana (4,9 milioni). I tre stati, che nel 2016 dagli Usa hanno ricevuto complessivamente 580 milioni di dollari, hanno appoggiato Washington rispettivamente nel 54, 38 e 19 per cento dei casi. Troppo poco per essere considerati veri amici.

C’è poi una seconda linea che l’amministrazione statunitense sembra voler imporre alla propria cooperazione allo sviluppo, sia bilaterale che multilaterale: quella di tagliare drasticamente i fondi. Trump aveva già portato un affondo lo scorso settembre nel suo primo discorso alle Nazioni Unite: «Questa organizzazione», aveva affermato, «si è troppo spesso concentrata non sui risultati ma sulla burocrazia e sulle procedure». E, continuava, «in politica estera noi ribadiamo il principio fondante della sovranità. Il primo dovere del nostro governo è verso il nostro popolo, i nostri cittadini – per soddisfarne i bisogni, garantirne la sicurezza, preservarne i diritti e difenderne i valori»@.

A dicembre, ci ha pensato ancora una volta Nikki Haley a dare sostanza alle parole del presidente: «Le inefficienze e le spese eccessive delle Nazioni Unite sono note», ha affermato in un comunicato stampa, aggiungendo: «Non permetteremo più che si approfitti della generosità del popolo americano» o che il suo contributo venga usato in modo incontrollato. Per questo, annuncia Haley, gli Usa hanno negoziato una diminuzione del proprio contributo all’Onu di oltre 285 milioni di dollari, riducendo inoltre «le attività di gestione e di supporto gonfiate» e «instillando disciplina e responsabilità in tutto il sistema delle Nazioni Unite».

Ad alleggerire il clima non ha certo contribuito l’uscita di Trump  – mai confermata ma nemmeno smentita – in cui il presidente ha chiamato Haiti, El Salvador e alcuni Paesi africani «postacci» (o meglio, shitholes, la cui traduzione letterale è decisamente meno elegante di quella usata qui). Ma la pietra tombale sull’aiuto allo sviluppo è la decisione di tagliare quasi del 30% le risorse per Dipartimento di stato e Agenzia per lo sviluppo internazionale (Usaid), che sono appunto i principali enti dell’amministrazione statunitense attivi nella cooperazione.

Distribuzione di aiuti Usaid ad Haiti – AFP PHOTO / JEWEL SAMAD

Le richieste di Trump e la reazione del Congresso

Gli Stati Uniti sono il più grande donatore mondiale di aiuto pubblico allo sviluppo in termini assoluti, con quasi 34 miliardi di dollari su 143 del totale dei Paesi membri dell’Ocse (dati 2016). Come percentuale sul reddito nazionale lordo, tuttavia, l’aiuto statunitense è pari allo 0,18%, meno dell’Italia (0,26%) e molto meno del paese più virtuoso, la Norvegia, che investe in aiuto pubblico allo sviluppo l’1,11%, cioè anche più di quello 0,7% che sarebbe la soglia fissata nel 1970 dalle Nazioni Unite come obiettivo al quale tutti gli stati donatori dovrebbero tendere@.

Sugli oltre 4 mila miliardi del bilancio federale, spiega George Ingram del centro di ricerca Brookings, la quota riservata all’aiuto estero è pari all’1%@. In media, gli americani erroneamente pensano che quella quota arrivi addirittura al 25% anche se, puntualizza sempre la Brookings, la ragione dell’equivoco è in gran parte da ricercarsi nel fatto che per «aiuto estero» molti intendono anche la spesa militare@.

I primi cinque paesi toccati dall’aiuto estero statunitense (foreign aid, una categoria che non coincide esattamente con l’aiuto pubblico allo sviluppo monitorato dall’Ocse) sono Israele (3,1 miliardi), Egitto (1,39 miliardi), Giordania (1 miliardo), Afghanistan (783 milioni) e Kenya (639 milioni)@.

Nel 2017 il budget proposto da Trump per il 2018 prevedeva 25,6 miliardi di dollari per finanziare il Dipartimento di stato e Usaid, cioè una riduzione dei fondi ai due enti pari al 28%. Ma, osserva la rivista on line Quartz, confrontando la richiesta del presidente con quanto effettivamente approvato dal Congresso, il taglio di fondi risulta essere stato solo di mezzo punto percentuale, una cifra lontanissima dalla proposta dello Studio ovale. Ecco perché, continua Quartz, è prevedibile che la stessa cosa si verifichi anche quest’anno, nonostante lo scorso febbraio la Casa Bianca abbia chiesto di nuovo una riduzione simile (30%) dei fondi destinati a Usaid e Dipartimento di stato.

«Una forte coalizione bipartisan», ha dichiarato alla rivista Politico il repubblicano Ed Royce, che presiede il Comitato affari esteri della Camera dei rappresentanti, «ha già bloccato una volta questo tipo di tagli che avrebbero messo a rischio la nostra sicurezza nazionale. Quest’anno ci attiveremo di nuovo». La «draconiana» proposta di Trump, gli fa eco il collega democratico Eliot Engel, sarà «già morta al suo arrivo alla Camera»@.

La nave Liberty Grace noleggiata dal World Food Program (WFP) nel porto di Pot Sudan carica di cibo donato da Usaid –  AFP PHOTO / ASHRAF SHAZLY

Tagli effettivi

Pur non avendo raggiunto l’ampiezza auspicata da Trump, una serie di tagli ci sono effettivamente stati. L’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi nel Vicino Oriente (Unrwa), ad esempio, riceverà quest’anno dagli Stati Uniti solo 60 milioni di dollari invece dei 364 dello scorso anno. Il commissario generale di Unrwa, lo svizzero Pierre Krähenbühl, ha dichiarato all’agenzia Reuters che 525 mila bambine e bambini in 700 scuole gestite dall’agenzia potrebbero essere colpiti dal taglio dei fondi e che anche l’accesso dei palestinesi all’assistenza sanitaria di base è ora a rischio@. Inoltre, il provvedimento rischia di avere un impatto negativo anche sulla sicurezza della regione. «Se volete chiederci come facciamo a evitare che i giovani palestinesi si radicalizzino, la risposta non è tagliare 300 milioni di dollari dei nostri fondi», ha detto Krähenbühl al The Guardian@.

A sottolineare lo stesso rischio di instabilità e conflitto era stata nel febbraio del 2017 una lettera@ firmata da 120 generali e ammiragli statunitensi a riposo e diffusa attraverso la Us Global Leadership Coalition, una organizzazione no-profit con sede a Washington composta da aziende e Ong. «Il nostro servizio in uniforme ci ha insegnato che molte delle crisi che la nostra nazione affronta non hanno solo una soluzione politica», si legge nella lettera, che sottolinea anche quanto, in un mondo con 65 milioni di sfollati e grandi flussi di rifugiati, le agenzie per lo sviluppo siano «fondamentali nel prevenire il conflitto e nel limitare la necessità di mettere a rischio le vite dei nostri uomini e donne in uniforme». Gli alti ufficiali citano il generale James Mattis, l’attuale segretario della Difesa di Trump, che durante un’audizione al Senato nel 2013 disse@: «Se voi non finanziate pienamente il Dipartimento di stato, io alla fine sarò costretto a comprare più munizioni». Le forze armate, conclude la lettera, guideranno la lotta al terrorismo sul campo di battaglia, ma avranno bisogno di partner civili forti nella battaglia contro gli elementi che favoriscono l’estremismo: la mancanza di opportunità, l’insicurezza, l’ingiustizia e la disperazione».

Sulla stessa lunghezza d’onda sembra trovarsi Marcela Escobari, studiosa che collabora con Brookings, che cerca di controbattere all’affermazione con cui il Direttore dell’ufficio Gestione e Budget dell’amministrazione Trump, Mick Mulvaney, ha giustificato i tagli: «Per finanziare l’aiuto dovrei spiegare perché questa spesa ha un senso per una famiglia che vive a Grand Rapids, Michigan».

«Ecco che cosa direi a quella famiglia», risponde Escobari, che ha lavorato per vent’anni nello sviluppo ed è esperta in particolare di America Centrale: «quando i cartelli della droga sono in grado di controllare i governi locali, il 95 per cento dei crimini in quei paesi rimangono impuniti e i criminali possono trasportare droga negli Usa più facilmente. L’instabilità nella regione, inoltre, genera flussi migratori verso gli Stati Uniti e questi flussi sono composti specialmente da minori non accompagnati». Viceversa, una regione stabile e sicura continuerà a importare prodotti statunitensi. «Un calcolo approssimativo», continua Escobari, «mostra che gli Usa spendono fra i 29 mila e i 52 mila dollari per ogni migrante detenuto alla frontiera. Con quella cifra sarebbe possibile finanziare in America Centrale istituzioni che forniscano formazione professionale e uno spazio per il dopo scuola in grado di proteggere centinaia di adolescenti in quartieri dove la criminalità è più diffusa».

Popa d’acqua allestita in Sud Sudan dall’Usaid –  AFP PHOTO / ASHRAF SHAZLY

L’aiuto allo sviluppo dopo la Brexit

Altro aspetto che la comunità internazionale sta osservando e cercando di prevedere è quello degli effetti della Brexit sull’aiuto pubblico allo sviluppo (Aps). Mentre l’Unione Europea dovrà fare i conti con la dipartita di un membro che nel 2016 ha speso 13,4 miliardi di sterline in Aiuto per lo sviluppo (Aps) – cioè circa un quinto del totale Ue e il secondo maggior contributo a livello globale dopo gli Usa – l’effettiva uscita dall’Unione rimetterà a disposizione di Londra circa un miliardo e mezzo di sterline che sinora ha versato al Fondo europeo per lo sviluppo (Edf).

Bond, una rete di circa 450 organizzazioni della società civile britannica, in un articolo dello scorso agosto ha individuato tre tendenze che la Brexit potrebbe accelerare.

  • La prima è lo spostamento delle risorse dal DfID (il dipartimento per lo sviluppo internazionale) ad altri dipartimenti, con particolare attenzione a quelli che promuovono un ruolo più attivo del settore privato nella cooperazione.
  • La seconda è un possibile aumento del volume di Aps dedicato agli investimenti, cioè a progetti di aiuto al commercio, come infrastrutture e rafforzamento delle capacità dal lato dell’offerta di cui i paesi in via di sviluppo hanno bisogno per connettersi ai mercati regionali e globali.
  • La terza tendenza, infine, potrebbe essere uno spostamento verso il basso dei temi dello sviluppo nell’agenda politica@.

Resta solido l’impegno del Regno Unito a mantenere l’aiuto pubblico allo sviluppo allo 0,7%, anche se il primo ministro britannico Theresa May, nel confermare questo, ha anche precisato che «il Governo dovrà guardare a come il denaro verrà speso e assicurarsi che saremo in grado di spenderlo nel modo più efficace possibile».

Resta da vedere se e quanto questo 0,7% varierà in valore assoluto. All’indomani del referendum che vide la vittoria di Leave e un immediato crollo della sterlina, il direttore dell’Overseas Development Institute, Kevin Watkins, aveva commentato al The Guardian: «Se il Regno Unito perde un punto percentuale all’anno in crescita, il che è più o meno in linea con la maggior parte delle previsioni, ci saranno implicazioni per il valore dello 0,7%, il che a sua volta avrà ripercussione sui finanziamenti per gli Obiettivi di sviluppo sostenibile».

Chiara Giovetti

 




Cooperazione: Da volontari a manager del bene

Testi di Antonio Benci |


Tutto nasce nei primi anni ’60. Un movimento, nei paesi del Nord, che vuole porre fine a fame e sottosviluppo. Il momento storico è propizio. Sembra possibile rendere il mondo migliore. La motivazione di chi parte è alta e, di seguito, arriva la formazione. Poi le prime leggi e le Ong. Ma i cooperanti «professionisti» di oggi sono i discendenti dei primi volontari?

In ogni dizionario che si rispetti la figura del cooperante è definita come quella di «chi nei paesi in via di sviluppo si occupa di un programma di cooperazione». A inquadrare meglio questa figura singolare ci aiuta Diego Battistessa, cooperante e coordinatore accademico presso l’Istituto di studi internazionali ed europei «Francisco de Vitoria» dell’università Carlos III di Madrid, che in un’intervista del 2014 risponde alla domanda su cosa ci si aspetti da un cooperante, quale sia il suo profilo ideale. Al riguardo Diego non ha dubbi: «Alta professionalizzazione». Poi ci spiega meglio: «Il nuovo mondo della cooperazione è un contesto che si sta specializzando e sta diventando sempre più competitivo. Una volta era difficile trovare qualcuno che volesse partire e quindi spesso chi decideva di fare il cooperante acquisiva la maggior parte delle competenze più tecniche in loco, ora non è più possibile. Anzitutto, ci troviamo in un contesto in cui non ci si può più semplicemente arrangiare. A partire dalle lingue, la cui conoscenza professionale è oggi data per scontata, per finire con specifiche competenze tecniche, come ad esempio il Pcm (Project cycle management, gestione del «ciclo del progetto»). Un buon esempio sono anche le Ict (Information and communication technologies), le tecnologie della comunicazione e dell’informazione applicate allo sviluppo, ormai fondamentali, di cui si richiede una conoscenza professionale e trasversale».

Haiti (© Marco Bello)

Manager del bene?

È la chiara definizione di un manager in cui la competenza fa premio sullo spirito volontaristico.

In questo articolo vorrei approfondire il legame, se esiste, tra il primo volontario internazionale provvisto spesso di fede, ottimismo e buona volontà e l’ultimo cooperante, professionista formato e, non di rado, con precise e legittime ambizioni di carriera.

L’impressione è che questa figura, chiamata a cimentarsi con la dimensione progettuale di un programma di cooperazione (un tempo si sarebbe definito di aiuto allo sviluppo), è molto debitrice alla svolta attuata in Italia alla fine degli anni ’60 che ha trasformato i gruppi di appoggio alle missioni in organismi di volontariato.

In questo senso, si può tracciare una linea che unisce la figura di cooperante con quella dei primi volontari internazionali? C’è qualcosa in comune tra chi si occupa di Project cycle management e chi negli anni ’60 andava a «costruire la scuoletta» in qualche sperduta missione africana? O invece è qualcosa di completamente diverso tale da segnare una discontinuità o cesura determinata da altri fattori, non ultimo la globalizzazione che ha forzatamente delimitato la cooperazione a livello intellettuale?

Per provare a fronteggiare queste domande e temi, credo sia utile partire proprio da loro, i volontari.

(© Marco Bello)

Contro l’ingiustizia

Siamo nel momento, negli anni ‘60, in cui nasce in molti la richiesta ed esigenza di «fare qualcosa» per contrastare la fame nel mondo, permettere standard di vita decenti, assicurare i bisogni di base a una umanità sofferente e lontana eppure così vicina. Parlo della nascita di quel movimento all’interno dei paesi del Nord del mondo che si sente partecipe e responsabile dello sviluppo del Sud. Un’introduzione a questo immaginario la offre uno dei più noti volontari (non cooperante) del panorama italiano di quegli anni, Gino Filippini, in un’intervista a Famiglia Cristiana del 1969: «L’esperienza di Kiremba ha cambiato la mia vita. Per un europeo andare laggiù significa trovarsi faccia a faccia con problemi insospettati: miseria, fame, dolore. Ci si accorge, allora, di quanto ognuno di noi si sia chiuso nel suo guscio, nel proprio angusto cerchio di egoismo, tutti presi come siamo dal desiderio di guadagnare, di primeggiare, di avere sempre più soldi, più cose materiali. A Kiremba ho imparato ad amare davvero il mio prossimo, a dimenticarmi di me stesso. Ho avuto la soddisfazione di vedere gli indigeni migliorare le loro condizioni di vita grazie anche ai miei modesti insegnamenti. E anche loro mi hanno insegnato tante cose: il senso della dignità umana, per esempio, e la vera, disinteressata amicizia. Se tu scendi dal tuo piedistallo di bianco, se ti mescoli a loro, elimini tutte le barriere, tutti i pregiudizi che per tanto tempo ci hanno diviso, trovi in loro dei veri, fedelissimi e leali amici, capaci di fare chilometri a piedi, capaci di sacrificarsi per darti una mano».

Filippini è in un certo senso una figura estrema. Un suo vecchio amico, Aldo Ungari, lo definisce come un uomo delle due culture. Una caratterizzazione che si percepisce dalla sua testimonianzanella quale narra la sua «iniziazione» all’esperienza di volontario nell’ospedale burundese di Kiremba costruito dalla diocesi di Brescia in omaggio al Papa bresciano Montini e che vide l’attiva partecipazione dei fedeli in termini di sensibilizzazione e mobilitazione. La gente partecipò non solo alla raccolta fondi ma anche alla progettazione e realizzazione in loco, tramite tecnici e volontari chiamati a supplire alle deficienze organizzative e di conoscenza dei «locali». Al teorema accettato quasi aprioristicamente della cosiddetta «assistenza tecnica», ben presto si ribelleranno i volontari di lungo corso alla Filippini, per l’appunto in nome di una visione meno paternalistica e assistenziale. Da loro, dal dibattito internazionale, dai limiti dell’aiuto allo sviluppo kennediano dei primi anni ’60 nasce l’impostazione più attenta alle dimensioni antropologiche, all’incontro con l’altro e a una cooperazione alla pari.

(© Tommaso Degli angeli)

Un momento propizio

Non si sarebbe potuta manifestare in nessun altro periodo storico se non in quello. La decolonizzazione, l’apparire del «Terzo Mondo», l’immaginario della nuova frontiera, il Concilio e tutte quelle suggestioni di allora che con il carburante dato da figure di grande carisma e livello culturale (Helder Camara, Raoul Follereau, l’Abbé Pierre, Josué De Castro, Léopold Senghor, Julius Nyerere) hanno fatto percepire come possibile e vicino l’approdo a un mondo migliore senza l’incubo della fame e del sottosviluppo.

In quel contesto socioculturale irripetibile nasce il movimento – perché di movimento si tratta – del volontariato internazionale, vero e proprio incunabolo di formazione per il mondo della solidarietà internazionale. Un humus che, con il supporto dei volontari e le sollecitazioni esterne date dal dibattito in materia, permette di avviare quel percorso che agevola una impostazione progettuale per mezzo dell’intermediazione occidentale impersonata dal volontario, sia essa in ambito educativa, agricola o sanitaria.

(Isiro – © Tommaso Degli Angeli)

Sviluppo come Pace

Inizia, con il passare del tempo, a farsi largo un’accezione diversa: non più organizzazione e pianificazione in toto qui in Italia, ma, con l’indispensabile intermediazione dei laici, studio e realizzazione del progetto lì, cercando di renderlo indipendente dalla presenza europea. Con ciò si rafforza un’impostazione più rispettosa – sulla carta – che cerca un minore impatto sulla cultura del luogo.

Una data cardine di questa evoluzione è il 1967. In un’Italia che, l’anno prima, ha visto una sorta di corsa alla solidarietà verso un paese in preda a una carestia, l’India, con una gigantesca e partecipata colletta diffusa, ha grandissima risonanza e impatto l’enciclica Populorum Progressio. In essa Paolo VI porta all’attenzione dei gruppi allora più attivi – quelli cattolici – lo «sviluppo» nella sua declinazione di «altro nome della pace» e come forma più lontana dall’idea di crescita e più vicina a quella di emancipazione sociale e di cambiamento. Il tutto con la richiesta dell’impegno di tutti, laici compresi.

Una chiamata alle armi dell’intervento individuale in favore dello sviluppo «integrale» dell’uomo e per l’uomo.

Non è un caso che la stragrande maggioranza di questi gruppi, quelli perlomeno più strutturati, passano, in quetli anni, oltre la fase spontanea della sensibilizzazione e mobilitazione per approdare a quella più professionale di formazione dei volontari e costituzione di reti, coordinamenti e federazioni allo scopo di irrobustire la loro capacità di produzione di una cultura della solidarietà internazionale. In quegli anni, proprio per tutelare quella massa di «gente che andava e veniva dal Terzo Mondo», nascono le prime forme di interscambio con la politica la quale capisce, perlomeno nei gruppi più accorti, che quello che sta germogliando non è qualcosa che riguarda un «fuori», ma interessa e coinvolge un mondo ampio, strutturato, esigente e molto attivo di cittadini.

( © Marco Bello)

La prima legge

Chi agevola questo cammino di interscambio reciproco è una «avanguardia» o, comunque, un gruppo della sinistra democristiana, che vede in Franco Salvi, Giovanni Bersani e Mario Pedini i propri cardini. Sono loro, insieme ad altri (Rampa, Pieraccini, Storchi), a ideare la legge 1222/71 (conosciuta come legge Pedini), entrata in vigore 10 giorni prima di Natale, che porta al riconoscimento del volontariato per il tramite della cooperazione tecnica.

Il nome della legge «Cooperazione tecnica con i paesi in via di sviluppo» fa intravedere un’impostazione piuttosto ambigua già dal termine impiegato. Infatti da un lato l’idea di cooperazione è un deciso superamento dell’impostazione di aiuto. Mentre dall’altro il tornare (sottolineandolo) all’aspetto tecnico riduce l’ambito di intervento e marca ancora una volta la distanza tra «noi progrediti» e «loro arretrati». È comunque già molto, ove si consideri che si passa dal concetto di assistenza, utilizzato correntemente fin quasi alla fine del decennio, a quello di cooperazione tecnica. Un deciso arretramento rispetto al dibattito internazionale – oltre che delle organizzazioni e realtà italiane più impegnate ed evolute – che ruota, come si è visto, attorno all’idea di una partnership collaborativa finalizzata allo sviluppo come suggerito dalla commissione Pearson incaricata dalla Banca mondiale di redigere un testo «Partners in Development» che rimane una guida indispensabile per comprendere l’evoluzione del concetto di aiuto verso quello di supporto allo sviluppo endogeno per mezzo di un’azione di effettiva cooperazione.

Niger (© Marco Bello)

Origine delle Ong

La lettura comune della legge del 1971 la considera un provvedimento confuso di raccordo tra «impulsi solidaristici e pressioni commerciali», per di più limitato alla tutela dei volontari cattolici che non rappresentano l’Italia ma solo se stessi e la propria carica ideale. Ma questa considerazione va temperata con alcune considerazioni: innanzitutto, si ha finalmente una legge organica, pur con tutti i suoi limiti, dopo anni di leggi semiclandestine di qualche riga. Legge che porta alcune novità a livello di organizzazione dello stato sia dal punto di vista del riassetto burocratico sia nella disponibilità di fondi per la cooperazione. Non va poi sottaciuto il fatto che la 1222/71 è il precedente e lo spiraglio per l’approvazione della legge sull’obiezione di coscienza approvata esattamente un anno dopo. La grande discontinuità sta nel riconoscimento degli organismi di volontariato, le proto organizzazioni non governative (Ong). Da questa legge essi infatti, vedono riconosciuto quel decennale lavoro di informazione, sensibilizzazione fatto da parrocchie, oratori e scantinati. Ed è proprio nel pieno riconoscimento di questi organismi che l’Italia si presenta come un paese al passo degli altri, strutturando il volontariato civile in appoggio prevalentemente alle missioni cattoliche.

Giovanni Bersani annotava come nel 1969 fossero oltre 600 le persone in servizio nei paesi del Terzo Mondo e molti di loro senza paracadute legislativi. E come nella loro formazione, avessero concorso realtà che creavano la prima ossatura delle future Ong e che s’incaricavano di essere le capofila nella formazione di volontari, non più «ragazzi che vanno a dare una mano», in partenza.

Chi forma i volontari?

In questo senso non è possibile fare una cronaca dettagliata di tutti gli organismi di volontariato, poiché ognuno esprime delle dinamiche e delle filosofie d’intervento imperniate su due «territori»: quello d’appartenenza e quello di missione. In quegl’anni le realtà che formano i volontari sono poche e alcune finiscono per fare da capofila. Troviamo il Cuamm di Padova, il Mlal di Verona, la Lvia di Cuneo e le milanesi Cooperazione Internazionale e Tvc (Tecnici volontari cristiani). Sono questi i principali – dati alla mano – fornitori e formatori di volontari nel «Terzo Mondo» fino a tutti gli anni ’70. Persone che iniziano da qui il lungo e contraddittorio processo di professionalizzazione che trasformerà non pochi di loro in «cooperanti».

Possiamo dire che dalla legge Pedini nasce la lunga marcia che porta alla professionalizzazione della figura del volontario? La mia impressione è che lo possiamo sostenere. Del resto lo stesso Salvi già durante la conferenza stampa di presentazione della Pedini, parlò di una possibile professionalizzazione della figura del volontario chiamato non più e non solo a «dare una mano» ma essere lo strumento operativo di un «piano» di sviluppo o cooperazione.

Da quel 1971 il tema della solidarietà internazionale per mezzo della figura del volontario/cooperante è stato attraversato da un dibattito continuo e da un dilemma che ha oggettivamente portato a moltissime riflessioni, non ultima la terzietà del volontario/cooperante rispetto all’essere parte di programmi e progetti governativi. In questo senso anche in Focsiv (Federazione degli organismi cristiani servizio internazionale volontario) ci fu un dibattito molto forte: accettare i «soldi dello stato» per progetti di cooperazione? Per alcuni (non pochi) equivaleva a vendere le proprie motivazioni ideali. Cosa che fa sorridere del resto i moderni «manager della solidarietà». Questi ultimi ripropongono il nostro essere lì in chiave certamente più efficiente rispetto a prima ma senza probabilmente il corredo ideale dei pionieri. Il che, a guardare bene, è piuttosto ricorrente nella storia dell’uomo.

Antonio Benci

(© Marco Bello)


I media e lo scandalo Oxfam

Tutti giù per terra

Stiamo per pubblicare l’articolo di Antonio Benci quando scoppia il caso dei cooperanti di Oxfam ad Haiti. Operatori dell’Ong, anche di alto livello, che frequentavano alcune case di prostituzione a Port-au-Prince, all’indomani del terribile terremoto del 12 gennaio 2010. La notizia «buca» tutti gli schermi.

Un fatto sicuramente ignobile, ancorché aggravato dal particolare contesto nel quale si è verificato. Detto questo l’effetto dello scandalo porterà probabilmente a un discredito globale del mondo del volontariato internazionale e delle Ong. Il grande circo mediatico funziona così: non si ferma a capire o a discernere. Fatta l’etichetta, tutti quelli a cui si può appiccicare subiscono le conseguenze del comportamento di pochi.

In tutta franchezza posso testimoniare come sul campo operino decine di cooperanti onesti e integri, che compiono un lavoro eccellente. Compresi quelli di Oxfam, la più grande Ong del mondo. Sarebbe un peccato se tutta la categoria fosse messa all’indice a causa di un comportamento che, sì, esiste (non solo ad Haiti), ma che è una devianza, non la normalità. Talvolta è più facile nascondere comportamenti moralmente inaccettabili, proteggendosi dietro al logo di un organismo umanitario. Almeno fino a ieri.

Marco Bello 




Cooperazione e investimenti,

tout se tient?

Testo di Chiara Giovetti | Foto di Chiara Giovetti e Gigi Anataloni |


Il 2018 è iniziato con due appuntamenti importanti per la cooperazione, entrambi a Roma: il convegno «Il nuovo piano europeo per gli investimenti esteri. L’iniziativa imprenditoriale in Africa e nel Mediterraneo», il 16 gennaio, e la «Conferenza nazionale della cooperazione allo sviluppo», il 24 e 25 gennaio. Vediamo come ciò che è emerso traccia un ritratto della cooperazione nei cui lineamenti il settore privato e gli investimenti hanno un ruolo sempre più ampio.

La cooperazione ha smesso di essere «qualcosa di gente dal cuore buono» che va «in ordine sparso nel mondo». Non è più un «lusso che l’Italia non può permettersi». Andrea Riccardi, fondatore della comunità di Sant’Egidio, ha sottolineato con decisione questi passaggi alla Conferenza nazionale della cooperazione allo sviluppo del 24 e 25 gennaio scorsi a Roma. Sono passaggi che riflettono un cambiamento di percorso che non è certo iniziato ieri. Tanto Riccardi, che da ministro della Cooperazione internazionale e dell’integrazione del governo Monti nel 2012 era stato fra i promotori del Forum di Milano, che Elisabetta Belloni, segretaria generale del ministero Affari esteri e della Cooperazione internazionale, non si sono fatti sfuggire l’opportunità di ribadirlo alla platea dell’auditorium Parco della musica a Roma.

La prima Conferenza nazionale della cooperazione allo sviluppo, però non è la prima: pochi giorni prima della conferenza, sul blog info-cooperazione, Nino Sergi della rete di ong Link2007 aveva scritto: «Ritengo che sia un errore chiamarla “la prima conferenza”, come se la storia della cooperazione italiana iniziasse ogni volta da capo». Ed elencava cinque conferenze fra il 1981 e il 1991 che hanno fatto da antecedente sia a quella milanese del 2012 che a quella romana di quest’anno.

Perché insistere su questa continuità? Per dare valore e peso a un bagaglio di esperienze e conoscenze che è andato componendosi, con tutti i suoi successi ed errori, nel corso di almeno quarant’anni. Il passaggio evocato da Riccardi ovviamente non è solo negazione – ciò che la cooperazione ha smesso di essere – ma anche affermazione. E ciò che la cooperazione oggi è, o sta diventando, è il prodotto di fenomeni storici senza precedenti, come la globalizzazione e le sue derive di insostenibilità ed esclusione, e di dinamiche, come le migrazioni, che accompagnano l’umanità da sempre, ma che oggi hanno carattere e dimensioni inedite.

L’eradicazione della povertà, la sostenibilità economica e ambientale, l’eliminazione delle diseguaglianze – dicono con sempre maggior convinzione esponenti di governo e comparti economici – non sono solo imperativi morali bensì impegni non più rimandabili perché, nelle parole del ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda, «ne va della sicurezza e della tenuta in primo luogo dello stesso continente europeo e dell’Unione europea». Verissimo, rispondono gli operatori della cooperazione nella società civile o nelle istituzioni, noi lo sosteniamo da decenni, ora rispondiamo a queste sfide con strumenti nuovi. Forgiati, però, in quello definito da Riccardi il «grande laboratorio della cooperazione», che «permette di mettere insieme qualcosa che è stato troppo separato: l’interesse a far crescere il paese e la solidarietà».

2012 e 2018: da Milano a Roma

Se è vero che la genesi e il programma di un evento dicono molto dell’evento stesso, si può partire da questi per misurare la distanza fra il 2012 e il 2018.

Il Forum di Milano@ fu fortemente voluto da Riccardi stesso e accolto con un misto di speranza e incertezza dalla società civile – Ong in testa – impegnata da anni nel richiedere con insistenza la finalmente avviata riforma della legge 49/1987 che disciplinava la cooperazione, ma anche non completamente soddisfatta del processo di riforma in corso e contrariata dal taglio dei fondi gestiti dal ministero degli Esteri, taglio che fra il 2008 e il 2012 era stato dell’88%@.

Il Forum fu preceduto da un lavoro preparatorio di riflessione su dieci temi e da diverse polemiche sulla presenza dell’allora presidente del Burkina Faso, Blaise Compaoré, e dell’amministratore delegato dell’Eni, Paolo Scaroni. La riforma della 49/1987 ipotizzava per la prima volta di riconoscere gli enti profit come attori della cooperazione, e le perplessità su quanto fosse opportuno farlo, e in che termini, erano uno dei principali nodi del dibattito. I partecipanti al Forum, inizialmente stimati fra cinquecento e mille, furono alla fine intorno ai duemila. Fra i temi affrontati i giovani e la migrazione erano trasversali ai diversi tavoli, mentre il rapporto cooperazione – settore privato aveva un suo tavolo di lavoro dedicato.

La Conferenza di Roma, invece, è avvenuta dopo l’approvazione della nuova legge sulla cooperazione, la 125/2014, in applicazione dell’articolo 16 comma 3 della legge stessa, che prevede appunto la convocazione ogni tre anni da parte del ministro degli Esteri di una «Conferenza pubblica nazionale per favorire la partecipazione dei cittadini nella definizione delle politiche di cooperazione allo sviluppo». I partecipanti sono stati circa tremila.

Un’attenzione e uno spazio maggiori rispetto a Milano hanno avuto i giovani e, in particolare, i numerosi studenti delle scuole superiori o delle università che hanno partecipato alla Conferenza, i giovani della diaspora, le seconde e terze generazioni. Coinvolgere questi ragazzi nella cooperazione, si legge nel manifesto conclusivo della Conferenza, «farà nascere nella società un ritrovato consenso attorno ai valori della solidarietà, della reciprocità, dei principi umanitari e un nuovo modo di appartenere ad un mondo globale».

Quanto al dibattito sul settore privato, è stato certamente uno dei punti nodali della due giorni romana come lo era stato a Milano, ma con modalità completamente differenti.

Per il cane a sei zampe, a Roma non c’era più l’amministratore delegato dell’azienda a fare da rappresentanza istituzionale, ma Alberto Piatti, vice presidente esecutivo del settore aziendale che si occupa di Impresa responsabile e sostenibile (ed ex presidente della Ong Fondazione Avsi – Associazione Volontari Servizio Internazionale), a raccontare l’impegno già in corso dell’Eni nello sviluppo.

Piatti ha animato la tavola rotonda sul settore privato assieme a Maria Cristina Papetti di Enel, Letizia Moratti di Fondazione E4Impact, Licia Mattioli di Confindustria e Caterina Bortolussi di Kinabuti, una casa di moda basata su principi etici, con sede in Nigeria. E la tavola rotonda sul settore privato è stata la prima a calcare il palco dell’Auditorium.

Se nel 2012 il riconoscimento del settore privato come attore della cooperazione era uno dei punti di una legge che sarebbe stata approvata solo due anni dopo, oggi è un dato assodato.

A confermarlo, oltre allo spazio che la Conferenza gli ha dedicato, è stato anche e soprattutto il bando@  dell’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo (Aics) del luglio 2017, il primo rivolto agli enti profit, che ha messo a disposizione 4 milioni e ottocentomila euro suddivisi in tre lotti, per un contributo massimo a progetto fra i 50 mila e i 200 mila euro.

Gli investimenti esteri dell’Ue

Il viceministro degli esteri Mario Giro al convegno Il nuovo piano europeo per gli investimenti esteri svoltosi presso la Farnesina poco prima della Conferenza, ha  riportatocche al bando Aics hanno partecipato venticinque aziende fra start-up e imprese di prima internazionalizzazione intenzionate a investire in Africa.

«L’Africa deve poter produrre», ha affermato Giro, e si è detto convinto che, come l’Asia è entrata nella globalizzazione attraverso la manifattura industriale, l’Africa potrebbe entrarci a pieno titolo con l’agribusiness. Ciò che si sta facendo, ha sintetizzato il viceministro, è provare a indurre lo sviluppo a partire dalla sua unità fondamentale: l’impresa. Per far questo, l’Italia chiede alle proprie aziende di lavorare con le Ong e con le diaspore per usare gli strumenti che la Commissione europea e la cooperazione italiana mettono a disposizione. Tout se tient, tutto si lega, conclude il viceministro citando De Saussure (Ferdinand 1857-1913).

Lo strumento che la Commissione mette a disposizione è appunto il Piano europeo per gli investimenti esteri (Pie). A spiegarne la logica è stato Stefano Manservisi, direttore generale della Cooperazione e sviluppo della Commissione Europea. Il punto di partenza è «l’analisi di una globalizzazione che non è inclusiva e non è sostenibile» e che toglie efficacia ai trasferimenti di risorse, che erano lo strumento principale della cooperazione allo sviluppo. La Commissione, dunque, intende coinvolgere il settore privato in un piano di investimenti che metta insieme il profitto con la necessità di affrontare ed eliminare l’insostenibilità e l’esclusione. In questo modo, sottolinea Manservisi, si fa anche «più Europa nel mondo», perché si estende ai paesi dell’Africa e del Mediterraneo quell’insieme di principi di solidarietà su cui si è costruita l’Europa nel secondo dopoguerra.

Piantagione di tè nel Meru. Il tè è uno dei prodotti pregiati di esportazione dall’Africa e fa gola alle multinazionali. (foto Gigi Anataloni)

I tre pilastri del Pie e gli aspetti da chiarire

Il Pie ha tre pilastri, ha spiegato Roberto Ridolfi, direttore generale nella Commissione europea per la Crescita sostenibile e lo sviluppo ora distaccato alla Fao proprio per fare da raccordo fra le politiche europee e il settore che, a detta di Ridolfi, ha il maggior potenziale di creare posti di lavoro in Africa, cioè l’agribusiness.

Il primo dei tre pilastri del Pie è lo strumento finanziario, cioè 4,1 miliardi di euro messi a disposizione dalla Commissione per le imprese – attraverso le banche di sviluppo dei paesi membri e, in Italia, attraverso la Cassa depositi e prestiti – come garanzia per la riduzione del rischio negli investimenti. Il fatto che la Commissione si accolli una parte del rischio, in sostanza, dovrebbe incoraggiare le imprese europee a investire dove da sole non andrebbero proprio a causa del rischio troppo elevato. Il secondo pilastro è l’assistenza tecnica messa a disposizione di enti, piccole e medie imprese e cooperative locali per formulare progetti sostenibili; il terzo pilastro, infine, è il dialogo con i paesi partner destinatari degli interventi per rimuovere gli impedimenti – di tipo burocratico legislativo, le regole d’origine, eccetera – che ostacolano gli investimenti nel paese.

Sulla base di precedenti esperienze di blending – cioè di interventi che combinano sovvenzioni e prestiti – la Commissione ha quantificato in 44 miliardi entro il 2020 l’ammontare degli investimenti che potrebbero generarsi grazie al Pie, decuplicando così l’investimento iniziale. Se, poi, i paesi membri «rilanciassero», raddoppiando con fondi propri i 4,1 miliardi della Commissione, l’effetto di leva finanziaria raddoppierebbe a sua volta, generando investimenti per un valore di 88 miliardi.

Accanto a speranze e aspettative, il Pie sta suscitando anche alcune perplessità. Una l’ha manifestata il ministro Calenda dal palco dell’Auditorium, sottolineando che per l’accordo sui migranti con la Turchia l’Ue ha speso quasi la stessa cifra che ora si destina a un continente intero.

Inoltre, non è chiaro a quali imprese in Europa, e quindi in Italia, è rivolto il Piano e quanto spazio questo garantisca per promuovere gli investimenti delle piccole e medie imprese (Pmi). Il responsabile di Assoafrica e Mediterraneo di Confindustria, Pier Luigi d’Agata, ha affermato che se il Piano vuole rappresentare un’occasione di investimento per le Pmi italiane sarebbe opportuno che si orientasse a sostenere anche investimenti nell’ordine dei centomila euro, importo più vicino alle possibilità di questo tipo di imprese, e non soltanto interventi da milioni di euro. Il coinvolgimento delle Pmi, ha continuato d’Agata, permetterebbe di valorizzare quello che anche Calenda aveva identificato alla Conferenza come uno dei principali punti di forza del modello imprenditoriale italiano, cioè il settore manifatturiero. Rispetto a questo punto Manservisi ha risposto che non crede che il Pie sarà in grado di garantire progetti da centomila euro, mentre sarà possibile creare un sistema di fondi di garanzia che permetta l’accesso a prestiti anche inferiori a quella cifra «per avviare attività economiche e produttive legate a un sistema disegnato dalle nostre imprese».

Infine, a dimostrazione che le vecchie barriere ideologiche fra Ong e imprese sono state abbattute e che le regole da applicare nel nuovo campo da gioco comune sono in fase di definizione, Giampaolo Silvestri della Fondazione Avsi ha sottolineato che le Ong e la società civile non possono essere relegati al semplice ruolo di cani da guardia, ma devono essere coinvolte in ogni fase del processo anche nel caso della messa in opera del Pie.

Il valore aggiunto che una Ong può dare, ha detto Silvestri, deriva dal suo essere radicata in un contesto, dove ha una trama di relazioni con il territorio e con le autorità locali e conosce i beneficiari. Un «patrimonio di fiducia fondamentale» per una piccola o media impresa che vuole investire in Africa, perché permette di accelerare processi che altrimenti sarebbero molto più lunghi.

Chiara Giovetti


Diretta video

Vedi la diretta della Conferenza Nazionale della Cooperazione allo Sviluppo

Vedi la diretta del Convegno Il nuovo piano europeo per gli investimenti esteri. L’iniziativa imprenditoriale in Africa e nel Mediterraneo

Zucche e viti in un campo sperimentale a Liliaba nel Meru, Kenya. (foto Gigi Anataloni)




Carbone vegetale,

risorsa o piaga?

Testo di Chiara Giovetti |


Un terzo della popolazione mondiale usa legna e carbone per cucinare e a volte anche per fornire energia alle proprie piccole e medie imprese. In Africa si tratta di un settore in forte espansione e i potenziali danni per ambiente, finanze pubbliche e lotta al terrorismo non sono da sottovalutare.

Una donna seduta su uno sgabello a bordo strada e, accanto, qualche sacco chiaro alto più di un metro, con le scritte sbiadite di questa o quella industria locale, di questa o quella agenzia umanitaria. Dentro, tanti cubi neri trattenuti da una rete di cordicelle o di foglie di palma annodate ai bordi del sacco. Oppure un uomo che spinge una bicicletta con almeno un paio di questi sacchi posati uno sopra l’altro e assicurati al portapacchi con un legaccio di camere d’aria annodate fra loro. Succede spesso di imbattersi in scene come queste lungo le strade africane, in città come nelle zone rurali. I cubi neri sono pezzi di carbone vegetale e il loro impiego più frequente è quello di fare fuoco per cucinare.

A vederli così, questi venditori improvvisati, si direbbe che quello del carbone è uno dei tanti piccoli commerci con cui molte famiglie africane si guadagnano di che sopravvivere. Ma sarebbe un’impressione errata. Aggregando tutte le donne sedute a bordo strada e gli uomini che spingono una bici nel continente, il giro d’affari del carbone vegetale appare nella sua reale dimensione: colossale. E ingenti sono i danni che rischia di infliggere all’ambiente, alle finanze pubbliche e persino alla lotta al terrorismo perché, nonostante abbia un ruolo di primo piano nelle economie del continente, il settore del carbone e della legna da ardere rimane per la maggior parte informale.

Vendita di carbone nello slum di Kibera a Nairobi (© The Seed / Pamela Adinda)

Legna e carbone vegetale in numeri

Secondo i dati del rapporto The Charcoal Transition della Fao, nel 2016 il mondo ha estratto circa 3,7 miliardi di metri cubi di legno dalle foreste del pianeta. Di questi, circa la metà sono stati usati come combustibile e sono diventati per l’83% legna da ardere e per il 17% carbone vegetale. Quest’ultimo è dunque è quantificabile 351 milioni di metri cubi, pari a in 52 milioni di tonnellate, di cui 32 milioni prodotti nella sola Africa@.

Per farsi un’idea delle proporzioni può essere utile un confronto con i volumi italiani: nel 2016 una nota del Crea (Consiglio per la ricerca nell’agricoltura e l’analisi dell’economia agraria) riportava che i boschi italiani contengono «oltre 1,2 miliardi di metri cubi di legno, con un aumento annuale di massa legnosa di oltre 36 milioni di metri cubi. Di questi ogni anno vengono tagliati oltre 10 milioni di metri cubi»@.

Sempre i dati Fao indicano che ancora oggi quasi due miliardi e mezzo di persone sul pianeta ricorrono a legna e carbone per cucinare: un terzo della popolazione mondiale. In Africa subsahariana, il dato sale di parecchio: a contare su queste fonti di energia è il 90% della popolazione. Sostengono il trend, in crescita, della produzione e del consumo principalmente due fattori: l’aumento demografico e la rapida urbanizzazione.

Trasporto di carbonea Bagamoyo, Tanzania (© AfMC / Jaime Patias)

In Tanzania, ad esempio, l’85% della popolazione urbana utilizza carbone sia per cucinare che per la fornitura di energia a piccole e medie imprese: secondo uno studio del 2007 citato nel rapporto Fao, alla fine del secolo scorso la sola città di Dar es Salaam, il centro urbano più grande del paese, era responsabile del consumo di metà del carbone a livello nazionale.

Quanto al volume economico dell’industria del carbone vegetale in Africa subsahariana, nel 2011 le proiezioni di Afrea – il programma della Banca mondiale finanziato dai Paesi Bassi che si occupa di studiare le energie rinnovabili in Africa – indicavano in 8 miliardi di dollari il valore del settore per il 2007 e ipotizzavano per il 2030 lo sfondamento della soglia dei 12 miliardi, con un totale di 12 milioni di persone impiegate nella produzione, vendita e distribuzione del carbone.

Unep, l’agenzia Onu per l’Ambiente, propone invece altri dati, partendo dal valore ufficiale della produzione di carbone (dati 2012) e usando prezzi variabili da 200 dollari per tonnellata sul mercato locale (cioè 5 dollari per un sacco da 25 chili) a 800 dollari per tonnellata sul mercato internazionale. Con queste premesse Unep arriva ad assegnare al settore un valore economico compreso fra i 9,2 e i 24,5 miliardi di dollari.

Per fornire il polso della situazione a livello dei singoli paesi, il rapporto Fao riporta ad esempio che in Tanzania il settore del carbone vegetale contribuisce all’economia nazionale per circa 650 milioni di dollari (pari a circa il 2,2% del Pil) mentre in Kenya il valore più che raddoppia toccando 1,6 miliardi (1,2% del Pil).

Si cucina col carbone nello slum di Korogocho a Nairobi (© The Seed / Purity Mwendwa)

Carbone e vita quotidiana

Guardando al quotidiano delle vite delle persone, la popolarità del carbone è facile da spiegare. Dal lato di chi lo compra, è la fonte di energia più conveniente: brucia più a lungo e produce più calore della legna, è più leggero e per questo più facile da trasportare e può essere conservato più a lungo, senza rischiare di marcire o di essere danneggiato dagli insetti.

Dal lato di chi lo produce e vende, data l’abbondante domanda, è una fonte di reddito piuttosto sicura. Standard Digital, uno dei principali quotidiani keniani, racconta la storia di Sipporah Kemunto, che vende carbone a Kisii, nel Kenya occidentale. Sipporah ha iniziato vent’anni fa con 200 scellini (circa 2 euro al cambio di oggi) prestati da un’amica, con i quali ha comprato il suo primo sacco di carbone. «Con quell’unico sacco sono riuscita a vendere dieci barattoli di carbone il primo giorno: molto al di sopra delle mie aspettative». Oggi la signora Kemunto vende un sacco a 1.100 scellini, per un guadagno fra i 500 e i 550 scellini, in un paese dove la paga giornaliera per un addetto alle pulizie, ad esempio, è di 622 scellini a Nairobi e 349 scellini in aree non urbane. Il suo lavoro l’ha costretta a molti sacrifici, come quello di svegliarsi prestissimo la mattina per fare il giro dei ristoranti suoi clienti e fornire loro il carbone, o quello di lavorare in condizioni non molto salubri. Ma grazie al carbone è riuscita a comprare due acri di terra fuori Kisii e a far studiare due figli all’università mentre il terzo sta finendo le superiori@.

Taglio della foresta nel Congo RD ( AfMC / Ennio Massignan)

Impatti del carbone

Il primo impatto connesso alla produzione di carbone vegetale riguarda il degrado delle risorse forestali – definito come riduzione della biomassa, declino della composizione e della struttura della vegetazione – se non addirittura la deforestazione. È difficile, avverte il rapporto Fao, indicare con chiarezza quanto la produzione di carbone vegetale da sola determini degrado o deforestazione. Un tentativo di fornire una stima del fenomeno è uno studio del 2013 che quantifica gli ettari di foresta persi in Africa a causa del carbone in quasi tre milioni, pari all’80% della deforestazione complessiva nelle aree tropicali. La Tanzania distrugge così ben un terzo delle sue risorse forestali, mentre lo Zimbabwe si ferma allo 0,33 per cento.

Vi è poi la questione delle emissioni di gas serra (anidride carbonica, ma anche metano e carbonio) durante tutte le fasi della filiera. Anche in questo caso si tratta di un dato stimato e si collocherebbe fra 1 e 2,4 miliardi di tonnellate di gas serra, cioè fra il 2 e il 7 per cento delle emissioni globali imputabili all’attività umana.

Altro impatto è quello sulle casse dello Stato: la Fao stima che le perdite per tasse non pagate si collochino, a livello continentale, fra il miliardo e mezzo e i 3,9 miliardi di dollari. Anche in questo caso è la Tanzania il paese dove il danno è maggiore: 100 milioni di dollari di tasse non riscosse. Un ruolo non secondario in questo meccanismo di evasione è quello della consolidata prassi della tangente, che ha anche l’effetto di aumentare il prezzo del carbone per il consumatore finale. L’incidenza delle mazzette – di solito richieste da militari e polizia durante il trasporto – sarebbe pari al 12% in Malawi e fino al 30% in Kenya.

Infine, l’ampia informalità del settore genera un sommerso che apre ampie zone di manovra per gruppi criminali e terroristici. Il rapporto di Unep e Interpol, The Environmental Crime Crisis@, stima che milizie e gruppi terroristici nei paesi africani dove sono in corso conflitti – fra cui Mali, Repubblica Centrafricana, RD Congo, Sudan e Somalia – possono guadagnare fra i 111 e i 289 milioni di dollari all’anno fra mazzette e partecipazione attiva al commercio illegale. In un posto di blocco nel distretto di Badhadhe, Somalia, i terroristi di Al Shabaab sono riusciti a raccogliere fra gli 8 e i 18 milioni di dollari in un anno, più altri 38-56 fra commercio in proprio e tangenti nei porti.

Quanto al contrabbando internazionale le osservazioni sul campo degli estensori del rapporto hanno permesso di documentare, fra Uganda, RD Congo e Tanzania, movimenti di camion che di notte portavano sacchi di carbone in punti di raccolta nei pressi di aree protette o addirittura attraverso i confini. Nel complesso, il giro d’affari del carbone illegale crea profitti fra i 2,4 e i 9 miliardi di dollari nella sola Africa orientale, centrale e occidentale.

Fornello ad uso domestico di bassa resa e grande spreco di calore (© AfMC / Ennio Massignan)

Ultimo aspetto è poi quello della salute umana: alcuni studi indicano che nei contesti domestici in cui si usano fornelli a carbone la concentrazione di Pm10 (polveri sottili) è di un sesto rispetto alle case in cui si usa legna da ardere. La transizione da legna a carbone potrebbe ridurre del 65% le infezioni respiratorie. Tuttavia, i bracieri tradizionali attualmente in uso, e sono la stragrande maggioranza, rappresentano una minaccia alla salute perché sprigionano più monossido di carbonio.

Le possibili soluzioni

Secondo il rapporto Fao, una riduzione pari all’86% nelle emissioni generate da produzione e consumo di carbone vegetale potrebbe ottenersi attraverso una serie di interventi. Fra questi vi sono l’introduzione di pratiche sostenibili nella gestione delle foreste, l’uso di biomasse alternative provenienti ad esempio dagli scarti della lavorazione del legno, l’introduzione di prodotti agglomerati (briquettes) che riutilizzino la polvere di carbone combinata con scarti della produzione agricola o con terreno e l’introduzione di fornelli migliorati, in grado di consumare meno carbone.

La riduzione più significativa tuttavia verrebbe, secondo la Fao, dal miglioramento dei sistemi tradizionali di carbonizzazione, che di solito avviene dentro fornaci con un’efficienza di conversione molto bassa. Secondo uno studio del 2016, migliorare tale efficienza dal 15 al 25% permetterebbe di ridurre del 40% la legna necessaria per produrre la stessa quantità di carbone.

Lavoro comunitario per ripiantare alberi nelle colline attorno a Morogoro, le Mukunganya Hills, durante la stagione delle piogge.  (© AfMC)

Il lavoro dei missionari della Consolata

In Tanzania, dove il problema del degrado delle risorse forestali e, a volte, addirittura della deforestazione è particolarmente serio i missionari della Consolata hanno iniziato in due località altrettanti progetti per sensibilizzare la popolazione e coinvolgerla in un’opera di rimboschimento.

  • Il primo microprogetto si svolge nel villaggio di Makota, a Ihemi, circa 50 chilometri da Iringa. La popolazione locale vive di agricoltura di sussistenza, alla quale affianca altre attività occasionali per aumentare il proprio reddito. Fra queste vi è proprio il taglio degli alberi per ottenere legname e carbone. Le attività relative al legname vengono svolte in modo incontrollato, senza pianificazione né reintegro delle piante tagliate con nuovi alberi. Per questo l’erosione del suolo e la deforestazione stanno diventando fenomeni evidenti. Il progetto in corso prevede tre seminari di formazione per la popolazione locale tenuti dai leader locali e dai funzionari dell’agenzia tanzaniana per i servizi forestali. Le persone formate parteciperanno poi alla posa di alcune piante pr ogni famiglia e se ne prenderanno cura.
  • Alle Makunganya Hills, vicino a Morogoro, vi è poi in corso da fine 2016 un progetto simile. In questa zona, le colline sono ora spoglie, sia a causa dei frequenti incendi che del taglio degli alberi per ottenere legname per costruzioni e legna da ardere. A detta del responsabile sul campo, il microclima locale è cambiato e le risorse idriche della zona si sono notevolmente ridotte. Anche qui il progetto prevede la posa di migliaia di piante e tre seminari di approfondimento per la popolazione locale sui problemi e sui rischi connessi alla deforestazione. Parteciperanno circa 500 persone e, oltre al rimboschimento, si lavorerà con la comunità locale per avviare un progetto parallelo di apicoltura.

Chiara Giovetti