Niger. Uno strano golpe


In Niger un colpo di stato ha rovesciato il presidente eletto. La giunta militare non è stata riconosciuta a livello internazionale e le sanzioni economiche stanno colpendo la popolazione. Le prossime mosse del nuovo potere sono imprevedibili e il Paese vive una grande incertezza. Ma si inizia a capire chi c’è dientro.

È l’alba del 19 ottobre, quando i nigerini iniziano a interrogarsi su quanto stia succedendo nella capitale, mentre sui social media impazzano le storie più diverse. Un commando avrebbe tentato di far fuggire il presidente Mohamed Bazoum, deposto il 26 luglio scorso da un colpo di stato militare e, da allora, agli arresti nella residenza presidenziale. Ma sarebbero stati scoperti, grazie a elementi fedeli al generale golpista, Abderramane Tchiani (o Tiani), e la fuga sventata. Il risultato concreto sarà l’isolamento totale dell’ex presidente, al quale viene confiscato il telefono (pare strano che non lo abbiano fatto prima), e che viene condotto, sempre in detenzione, ma in un luogo sconosciuto. Allo stesso tempo, c’è un gran movimento di mezzi blindati nel quartiere Tchangareye, dove una villa è circondata e alcune persone arrestate. Sarebbe il covo dei militari secessionisti.

Militari poco uniti

Al di là della cronaca, poco chiara, questo episodio è il primo tentativo di destabilizzazione della giunta dopo il colpo di stato, e ci dice che all’interno delle forze armate nigerine, ci siano delle divisioni.

Un’altra lettura che si fa in questi giorni a Niamey è quella della messa in scena, ovvero del falso rapimento, con il solo scopo di aumentare l’isolamento del presidente. Chi conosce il palazzo presidenziale ci dice che per arrivare alla residenza occorre passare tre livelli di sicurezza, per cui è improbabile che un commando riesca nell’impresa di entrare e uscire con il prigioniero da liberare. Altrettanto difficile è che un elicottero possa entrare nel paese indisturbato per portare via il presidente.

I fatti

Facciamo un passo indietro.

Il 26 luglio scorso, la guardia presidenziale del Niger ha deposto il presidente Moahmed Bazoum. Il generale Abderramane Tchiani, a capo del sedicente Consiglio nazionale per la salvaguardia della patria (Cnsp), si è auto proclamato capo di stato (cfr. sito MC, MC notizie, 2 agosto).

Le prime manifestazioni contro il putsch sono state represse, mentre le successive, favorevoli, ampiamente organizzate e promosse dal nuovo potere di Niamey. I manifestanti inneggianti ai golpisti chiedevano a gran voce il ritiro delle truppe francesi presenti nel Paese per la lotta antiterrorista, mentre comparivano le – oramai frequenti nel Sahel – bandiere della Russia.

A livello internazionale, la Cedeao (Comunità economica degli stati dell’Africa dell’Ovest), la cui presidenza di turno è assicurata dalla Nigeria, ha condannato il golpe, attivato pesanti sanzioni economiche e minacciato pure un intervento militare per ripristinare l’ordine costituzionale. Ma la stessa Cedeao era divisa al suo interno.

La Francia, ex potenza coloniale, non ha riconosciuto i golpisti, e si è innescato un braccio di ferro diplomatico, che ha infine portato il presidente Emmanuel Macron ad annunciare, il 24 settembre scorso, il ritiro del contingente militare francese (1.500 effettivi).

Restano i militari statunitensi (anch’essi circa 1.500), che si sono tutti trasferiti nella base di Agadez a nord, gli italiani (che da 300 unità sono stati ridotti) e i tedeschi. Gli Usa hanno riconosciuto che c’è stato un golpe solo a ottobre, dopo di che hanno interrotto alcuni finanziamenti.

Nel frattempo, le giunte militari golpiste di Mali e Burkina Faso (cfr. MC maggio 2022) si sono alleate con quella nigerina, fino a firmare, il 16 settembre la «Carta del Liptako-Gourma per una nuova alleanza degli stati del Sahel», un patto di mutuo aiuto militare (cfr. MC notizie, 25 settembre).

E l’Assemblea nazionale (il parlamento) del Burkina ha dato il via libera per l’invio di un contingente militare in Niger, come se i burkinabè non avessero già abbastanza da fare contro i gruppi armati sul loro territorio.

L’impasse

Nel momento in cui scriviamo, a inizio novembre, il Paese vive un’impasse politica e una profonda crisi economica.

«L’opzione di un intervento militare [della Cedeao] si è allontanata – ci dice un nostro interlocutore a Niamey -, ma le sanzioni restano».

Così i beni di prima necessità hanno visto aumentare notevolmente il loro prezzo (un chilo di zucchero è passato da 600 a 900 franchi). «Il Cnsp ha ridotto i dazi doganali su dieci prodotti di base, per tentare di calmierare i prezzi. Di fatto la frontiera con il Benin è chiusa, e Cotonou sarebbe il porto più vicino a Niamey. Così adesso la capitale si rifornisce attraverso il porto di Lomé, in Togo, che ha accettato il corridoio umanitario, ma i camion devono passare anche in Burkina Faso, prima di arrivare nel Paese. Sono convogli scortati da militari».

Il bilancio dello stato, inoltre, si è contratto del 40% a causa del congelamento di aiuti di paesi esteri. A livello generale, l’aumento dei prezzi e l’estrema incertezza per il futuro, hanno prodotto un drastico rallentamento dell’economia. Ancora il nostro interlocutore: «La gente ha meno mezzi, c’è una contrazione delle spese. I consumi si riducono. Anche la situazione incerta induce le persone a risparmiare. Per cui l’economia ristagna. La preoccupazione principale è trovare cosa da mangiare giorno per giorno. Alcune spese non si fanno più. Si punta all’essenziale.

Così gli affari dei commercianti si riducono, mentre alcuni settori, come l’edilizia, sono in crisi, con i cantieri fermi».

Una conseguenza è la precarietà del lavoro: succede che i datori lascino a casa da un giorno all’altro gli impiegati, perché hanno meno introiti. Un circolo vizioso dunque. Questa è la situazione nelle città, mentre nelle campagne, nei villaggi, la gente continua la propria vita, influenzata piuttosto dai capricci della pioggia e della siccità che influiscono sui raccolti. Quest’anno la stagione è stata buona, i granai sono pieni e vacche e greggi sono in carne.

Anticolonialisti o reazionari?

I golpisti, per mobilitare le folle, soprattutto di giovani, hanno fatto leva sul sentimento antifrancese, oramai dilagante in tutta l’area saheliana.

La Francia ha infatti mantenuto una grande influenza geopolitica ed economica in Africa dell’Ovest come in Africa centrale fino dagli anni delle indipendenze (primi anni Sessanta).

Oggi le cose stanno evolvendo, tuttavia chi vede il golpe in Niger solo come espressione del sentimento popolare antifrancese, per liberarsi dell’influenza neocoloniale, ha una visione miope e superficiale.

Il colpo di stato in Niger è strettamente legato alla politica nazionale, come in ogni altro paese, anche se la tendenza è di vedere come causa un generale movimento anticolonialista.

Il sistema messo in piedi dal precedente presidente, Issoufou Mahamadou, durante dieci anni (2011-2021) era oramai arrivato al termine. Non potendosi ricandidare, Issoufou ha mandato avanti il suo leale compagno di partito Mohamed Bazoum (del Pnds-Tarreya, Partito nigerino per la democrazia e il socialismo). L’idea di Issoufou era quella di continuare a controllare dietro le quinte. Per questo motivo ha imposto a Bazoum di mantenere ai loro posti i due generali da lui nominati: Salifou Modi a capo delle forze armate, e Abderramane Tchiani alla guardia presidenziale.

Era inoltre previsto, ci dicono da Niamey, che il figlio di Issoufou, Sani Issoufou Mahamadou, ministro del petrolio fino al golpe, diventasse presidente dopo Bazoum.

Ma Bazoum aveva le sue idee e il suo concetto d’integrità e, ci dicono, «è stato un presidente moderno». Stava cercando di cambiare il sistema di governance, facendola finita con quello clientelare costruito da Issoufou. In carica dall’aprile 2021, ad aprile di quest’anno aveva rimosso il generale Modi e stava per cambiare anche Tchiani. C’erano inoltre stati dissapori con il figlio di Issoufou, che voleva imporre un suo uomo non gradito a Bazoum, alla testa dell’impresa che controllerà l’oleodotto verso il Benin, costruito dai cinesi.

Sperare nel cambiamento

Scrive l’analista Abdoulahi Attayoub, consulente indipendente a Lione: «I nigerini, nella loro maggioranza, potevano sperare in un cambiamento della governance, dato che il sistema messo in piedi da Issoufou Mahamodou aveva raggiunto i suoi limiti e gli eccessi avevano finito per discreditare i membri più integri del Pnds. Issoufou Mahamadou, avendo concentrato l’essenzialità del potere e avendo neutralizzato le opposizioni, non pareva avere limiti nella volontà di installare una vera impresa famigliare chiamata a perennizzarsi al comando del paese. In dieci anni, Issoufou ha accumulato abbastanza risorse per imporre il suo progetto e zittire gli oppositori. Mohamed Bazoum ha tentato una laboriosa rettificazione di questa governance, ostacolato dal clan Issoufou, i calcoli del quale sarebbero all’origine della crisi di oggi».

Il consulente continua affermando che le attuali autorità rischiano di perdere credibilità nei confronti di chi voleva il cambiamento. Focalizzare la crisi politica sulla questione dei rapporti con la Francia è strumentale alla giunta, perché le serve a nascondere le proprie debolezze e difficoltà a uscire dall’impasse. Al punto che «l’attitudine della giunta verso quest’ultimo [Issoufou], sconcerta molti nigerini che si chiedono se davvero ci sia stato un colpo di stato». Ovvero, se prima Issoufou ha tentato di tirare i fili dietro a Bazoum, adesso li vorrebbe tirare dietro a Tchiani e compagnia. Un nostro interlocutore commenta: «Se è possibile che Issoufou sia dentro al golpe, pare adesso che la situazione gli sia scappata di mano».

La transizione in atto è opaca. Sempre secondo Ayoub: «Il Cnsp non avrà alcuna credibilità fintanto che apparirà come l’alleato dell’ala mafiosa del sistema che dichiarano di volere cambiare […]. Il presidente deposto, Bazoum è stato vittima della sua ingenuità e della lealtà verso Issofou».

Da notare che il Pnds, partito storico, al potere dal 2011, è oggi spaccato in due, se non definitivamente defunto, tanto che le due fazioni arrivano a produrre comunicati ufficiali opposti tra loro. Vecchi e nuovi attori internazionalipotranno acquistare margini di collaborazione. La Cina è presente in Niger da tempo e in modo massiccio, mentre Russia, Turchia, India stanno ora facendo capolino. Sono i Brics che in tutto il continente si stanno sostituendo agli antichi paesi coloniali.

Intanto la gente in Niger vive giorno per giorno in una crisi economica sempre più acuta e tra grandi incertezze per il futuro prossimo.

Marco Bello

Uno sguardo dal punto di vista economico

Uranio e petrolio, ma non basta

Il Niger è uno dei paesi più poveri del mondo. Ma è anche tra i primi produttori di uranio. E da qualche anno ha aumentato la produzione di petrolio. Tutti ingredienti della complessa crisi in atto.

Formalmente la Francia ha lasciato l’Africa occidentale e subsahariana nel 1960, ma un totale sganciamento in realtà non c’è mai stato, a cominciare dal fatto che la moneta utilizzata in questi paesi è frutto di un accordo di cooperazione monetaria che, nonostante gli elementi di novità introdotti nel 2019, permette ancora alla Francia di sedere nei consigli di amministrazione delle Banche centrali dei paesi firmatari, di custodire le riserve monetarie di tali paesi, di stampare le loro divise. Ma nelle sue ex colonie, la Francia ha anche conservato il controllo delle attività economiche che considerava strategiche. Prendiamo il Niger come esempio. Analizzando le sue esportazioni si scopre che nel 2021 quattro prodotti hanno determinato l’82% dei ricavi ottenuti dal Niger dalle vendite verso l’estero. Al primo posto ci sono gli idrocarburi (33%), al secondo posto c’è l’uranio (26%), al terzo posto ci sono le cipolle (13%), al quarto posto l’oro (10%). Dei quattro prodotti quello che alla Francia interessa di più è l’uranio, che assorbe in larga parte. Non a caso la Francia figura come primo partner commerciale del Niger tramite l’acquisizione del 21% delle sue esportazioni, quota costituita per la quasi totalità da uranio.

Per Parigi il combustibile atomico è un prodotto fondamentale perché il 70% della sua energia elettrica proviene da 56 centrali nucleari dislocate in tutto il paese. E pur rifornendosi di uranio da una varietà di paesi, fra cui Canada, Kazakhistan e Uzbékistan, il rapporto con il Niger continua a giocare un ruolo determinante.

La società che garantisce la materia prima a Parigi si chiama Orano (ex Areva), ed è posseduta al 90% dallo stato francese. Con un giro d’affari di 4,3 miliardi di euro, Orano è una multinazionale con 17mila dipendenti dislocati in 14 paesi. Anche in Niger è il principale protagonista dell’estrazione di uranio tramite le filiali Somair e Cominak che gestiscono una miniera ciascuno. Ma mentre la prima continuerà le proprie attività fino al 2040, la seconda è in fase di bonifica perché nel 2021 è stata dichiarata esausta. Intanto sono iniziati i lavori per un’enorme miniera nei pressi di Imouraren, la cui apertura è stata però sospesa dalla Francia già nel 2014. Sarebbe una delle più grandi miniere di uranio del mondo.

Purtroppo non esistono informazioni sulle regole fiscali imposte a Orano, né sul rigore con il quale i funzionari pubblici effettuano i propri controlli, per cui è impossibile stabilire se lo stato del Niger ottenga qualche beneficio economico dall’estrazione di uranio o se sia intascato interamente da Orano. Considerato che, secondo una ricerca condotta dal Fondo monetario internazionale, i paesi africani perdono ogni anno dai 470 ai 730 milioni di dollari a causa dell’evasione fiscale attuata da parte delle multinazionali minerarie, non c’è da stare troppo tranquilli. In ogni caso è certo che le miniere del prezioso combustibile creano gravi problemi ambientali sia per quanto riguarda l’accumulo di detriti radioattivi che per quanto riguarda il consumo e la contaminazione dell’acqua.

Dal 2011 nella regione di Diffa si è cominciato a estrarre petrolio (che viene anche raffinato nei pressi di Zinder, ndr) e se inizialmente sembrava una produzione marginale, nel tempo è cresciuta, fino a superare in valore le esportazioni di uranio.

La società estrattrice la China national petroleum corporation (Cnpc), un’azienda di stato, ha anche avviato la costruzione di un oleodotto per fare arrivare il petrolio nigerino al mare attraversando il Benin.

Il tempo ci dirà se l’unico obiettivo dei militari è la conquista del potere lasciando tutto com’è, o se c’è anche la volontà di sganciarsi da potenze consolidate come Usa, Francia, Europa, per spostarsi verso nuove potenze emergenti. La sola cosa che si può dire, senza rischi di essere smentiti, è che al centro della loro attenzione non ci sono i 10 milioni di poveri che in Niger rappresentano il 48% della popolazione. Non è stato così fino ad ora, in un paese che spende il 20% delle entrate pubbliche per l’esercito, e non lo sarà in futuro. I poveri purtroppo non interessano a nessuno, meno che mai a chi è abituato a ragionare solo secondo logiche di potere.

Francesco Gesualdi




Niger. Colpo di stato: i militari padroni del Sahel


Niger. In seguito al golpe dello scorso 26 luglio da parte dei militari della guardia presidenziale, l’organizzazione economica regionale, Cedeao (Comunità economica degli stati dell’Africa dell’Ovest), ha imposto pesanti sanzioni economiche e dato un ultimatum di una settimana per il ritorno all’ordine costituzionale. In caso contrario, anche l’opzione militare è sul tavolo.

Mali e Burkina Faso, altri due paesi del Sahel attualmente governati da giunte militari, che hanno preso il potere con la forza (nel 2021 e 2022), si sono detti alleati dei golpisti del Niger, e pronti a sostenerli in caso di azione di forza della Cedeao (di cui, tra l’altro, fanno parte). La Guinea Conakry, anch’essa retta da una giunta golpista, è pure contraria alle sanzioni.

Si tratta di dichiarazioni, ma è solo un gioco delle parti. Questi eserciti non sono in grado neppure di difendere il proprio territorio dai gruppi armati jihadisti. La lotta al terrorismo è stata la loro scusa per prendere il potere, (anche se avevano già molta libertà su questo fronte), ma il risultato è stato un aggravamento della situazione nei loro paesi.

Dal Niger, arrivano immagini di folla inneggiante al nuovo potere (un sedicente Consiglio nazionale per la salvaguardia della patria, Cnsp). In realtà la maggior parte della popolazione e la società civile, non appoggia né i golpisti né tanto meno la Russia, come la propaganda vuole farci credere.

«Ci sono state alcune manifestazioni anti golpe a Niamey, ma sono state represse», ci dice una fonte nigerina sul posto. Mentre si è dato largo spazio a quelle in favore, con i cartelli contro la Francia e bandiere russe, distribuite da qualcuno ad hoc.

Il sentimento antifrancese è certo diffuso, in tutta la regione, ma il pretesto anti imperialista, di allearsi con la Russia non regge. Il gruppo Wagner, nei paesi in cui interviene, fa razzia delle risorse minerarie.

«Penso che una parte della popolazione di Niamey sostenga i golpisti. Inoltre, ci sono diverse dichiarazioni di opportunisti in loro favore, ma sono persone sconosciute sia a livello della società civile che dei partiti politici», ci racconta un’altra fonte dalla capitale del Niger. In generale: «Sono contenti del golpe gli oppositori del presidente Mohamed Bazoum, mentre il nigerino comune e i lavoratori non lo sono affatto».

Nei villaggi, invece, questo è il periodo dell’anno di massimo lavoro nei campi, perché siamo nel pieno dell’unica stagione delle piogge (giugno-settembre), quindi «la preoccupazione principale della gente in questo momento è la raccolta, per avere da mangiare nel resto dell’anno».

«Poi c’è il grosso problema delle sanzioni, che rischiano di strangolare la popolazione. È già iniziata a mancare l’elettricità, che arriva dalla Nigeria. Mentre il sistema bancario rischia è bloccato e rischia di andare in tilt», continua la nostra fonte.

Uno degli elementi in questi paesi del Sahel è la crisi dell’istituzione «esercito repubblicano», e le divisioni in seno alla stessa. La realtà ha evidenziato che non esistono dei veri eserciti repubblicani, pronti a difendere il popolo, ma siamo ancora a livello di fazioni militari, pronte a prendere il potere quando l’occasione si presenti.

Il primo agosto, sono stati evacuati alcuni stranieri, tra i quali gli italiani (una trentina), tramite aerei militari (consentita dai golpisti). Mentre un contingente di militari italiani, ci circa 200 unità resta dispiegato nel paese, così come 1.500 francesi, oltre a soldati statunitensi e tedeschi.

Attualmente il Cnsp sta nominando i governatori di regione e alcuni membri del suo governo de facto, mettendo i propri uomini nei posti chiave.

Il due agosto è giunta a Niamey una delegazione della Cedeao per tentare una mediazione. È  condotta dall’ex presidente nigeriano Abdulsalami Abubakar, e ne fa parte l’influente sultano di Sokoto (Nigeria), capo tradizionale molto apprezzato nella regione.

Marco Bello




Africa dell’Ovest. Salvatori della patria?


La crisi sociale si fa sentire in Africa dell’Ovest. E il malcontento della popolazione verso chi governa aumenta. Così i militari tornano in auge, prendono il potere con la forza. E la gente, per ora, applaude. Sarà il declino della democrazia nell’area?

L’Africa Occidentale non fa molto notizia in questi tempi. Eppure, nei suoi 5,12 milioni di km2 (17 volte l’Italia) abitano circa 400 milioni di persone. Dell’area fanno parte i paesi del Sahel (Senegal, Gambia, Mali, Burkina Faso, Niger), zona climatica semi arida, cerniera tra il Sahara e la fascia più umida, e i paesi della costa (Guinea-Bissau, Guinea, Sierra Leone, Liberia, Costa d’Avorio, Ghana, Togo, Benin, Nigeria).

Tutti insieme fanno parte della Comunità economica degli stati dell’Africa dell’Ovest (acronimo Cedeao in francese o Ecowas, inglese), che è un accordo economico regionale. Ha pure una parte di cooperazione sulla sicurezza, l’Ecomog (Economic community of West african states monitoring group). L’Ecomog prevede, tra l’altro, in casi specifici, l’invio di forze militari di interposizione nell’area.

Tra la metà del 2020 e il gennaio 2022 si sono verificati quattro colpi di stato in tre paesi della regione. Le giunte militari che hanno preso il potere e avviato transizioni in regime speciale, hanno tutte dichiarato di voler riportare i paesi a elezioni democratiche. Gli stati interessati sono: Mali, Guinea e, per ultimo, Burkina Faso. Tutti e tre sono stati sospesi dalla Cedeao e il primo è stato sottoposto a embargo e sanzioni.

Vista la concomitanza di questi eventi, ci sembra importante fare il punto sui fatti accaduti e sulle loro conseguenze, senza la pretesa di essere esaustivi. Gettiamo uno sguardo sull’area per fare emergere le tendenze comuni dei singoli colpi di stato, e gli elementi di originalità di ciascuno.

Mali

È il 18 agosto 2020 quando un gruppo di militari, comandati dal colonnello Assimi Goïta, mette bruscamente fine alla presidenza di Ibrahim Boubakar Keita, detto Ibk. Anche in Mali il gruppo di potere è stato fortemente contestato e accusato di corruzione, in particolare dopo le legislative di aprile (ne abbiamo parlato in MC novembre 2020). Le manifestazioni di piazza sono state represse dalle forze di sicurezza, che hanno lasciato sul campo morti e feriti. È stato in particolare il Movimento 5 giugno – Raggruppamento delle forze patriottiche (M5-Rfp), a guidare il dissenso: una convergenza di elementi della società civile e partiti di opposizione.

I militari hanno approfittato di questo slancio popolare per realizzare il colpo, battezzandosi Comitato nazionale di salute del popolo (Cnsp).

È bene ricordare che il Mali, dal 2012, vive una guerra interna contro i movimenti indipendentisti e jihadisti nati nel Nord del paese, anche a causa di influenze straniere dell’islam radicale, e propagatisi nel centro prendendo una rischiosa piega di tipo etnico. Conflitto che vede l’intervento esterno francese nel gennaio 2013, poi affiancato dalla presenza di un contingente di caschi blu dell’Onu (Minsuma), una delle missioni con maggiori perdite tra gli effettivi (cfr MC giugno 2017). Nel 2015 sono stati firmati degli accordi di pace tra il governo e una parte dei gruppi in conflitto.

La giunta, che prende il potere nell’agosto 2020, sotto pressioni della Cedeao e in negoziazione con M5-Rfp, insedia un presidente civile Bah N’Daw (ex militare ed ex ministro in pensione) e un primo ministro civile, Moctar Ouane, per il governo di transizione. Goïta, che rimane l’uomo forte, mantiene la carica di vicepresidente.

(Photo by Issouf SANOGO / AFP)

Golpe su golpe

Qualcosa si incrina quando, nel maggio 2021, il primo ministro pensa di cambiare i due responsabili dei dicasteri chiave di difesa e sicurezza. La giunta reagisce il 24 maggio, facendo arrestare presidente e primo ministro di transizione e imponendo altri due militari come ministri. Si parla di secondo colpo di stato, questa volta contro le istituzioni di transizione, quindi non democratiche. Di fatto è un ribadire, chi comanda effettivamente nel paese, già in stato di emergenza.

«Sembra che la Francia avesse fatto pressioni sul governo per cambiare questi due ministri e metterne due più favorevoli alla propria politica. I due licenziati avevano studiato in Russia e stavano interagendo per creare una relazione con quel paese. È stata un’operazione un po’ maldestra», ci dice un cooperante che da anni vive nel paese saheliano.

Già da un po’ di tempo Goïta stava percorrendo la pista russa, nell’ottica di avere militari (o miliziani) in grado di realizzare anche lavori «sporchi». La tendenza è quella di sostituire l’appoggio militare dell’ex colonizzatore francese, in un certo senso fallimentare, con quello russo.

Allo stesso tempo già dal 2019, la Francia, per ragioni anche interne, aveva optato per un disimpegno sul terreno (ritiro graduale della missione Barkhane con 5mila uomini e mezzi), promuovendo la creazione della Task force Takuba (estate 2020), una forza a base di militari della Unione europea (tra cui da marzo 2021 un contingente italiano di circa 200 uomini con elicotteri), con compiti di consulenza e assistenza.

Colonello Assimi Goita in conferenza stampa, Mali, 19 agosto 2020. (Photo by MALIK KONATE / AFP)

Via i colonialisti

Nel paese il sentimento antifrancese, che sempre cova sotto le ceneri, era cresciuto già nel periodo della presidenza Ibk, accusato di essere troppo sottoposto agli interessi transalpini. Il potere golpista ha poi iniziato un’operazione di propaganda, puntando sull’identità maliana, per spingere questa dinamica di intervento dei russi.

Secondo fonti di Radio France internationale (Rfi), nel gennaio di quest’anno, uomini del gruppo Wagner avrebbero già preso possesso della base militare di Tombuctu, lasciata dai militari francesi, anche se il governo maliano continua a negare. Wagner è una milizia di mercenari russi, vicina al Cremlino, della quale si è parlato per la prima volta a livello internazionale nel 2014, per il suo appoggio ai separatisti del Donbass, in Ucraina. Il gruppo Wagner, in Africa, è già presente in Repubblica Centrafricana (cfr Mc maggio 2021), Nord del Mozambico, Libia e, pare, in Sudan (torneremo prossimamente su Wagner con un approfondimento).

La tensione tra le autorità di Bamako e quelle di Parigi aumenta. Il 31 gennaio di quest’anno l’ambasciatore di Francia viene espulso dal paese. Stessa sorte era toccata al contingente danese della Takuba.

Il ritiro di Barkhane e della Takuba viene deciso. Parte dei militari vengono ricollocati in Niger, lungo la frontiera con il Mali, dopo l’accordo con il presidente nigerino Mohamed Bazoum, avvenuto a metà febbraio di quest’anno.

«Sono stati visti militari bianchi, con la divisa russa. Ufficialmente non ci sarebbero, ma qualcuno di loro, ferito, è già stato curato in ospedale. Non è chiaro il loro dislocamento. Quello che si sa per certo, è che da gennaio è ripresa un’offensiva importante contro i jihadisti, e ci sono state più vittime civili in quel mese che in tutto il 2021», dice la nostra fonte.

A metà marzo Human rights watch e Rfi riportano esecuzioni sommarie di civili a opera dei militari della Fama (Forze armate maliane). Anche Michelle Bachelet, alto commissario per i diritti umani dell’Onu, fa una dichiarazione di denuncia l’8 marzo.

La reazione del governo di transizione è durissima: le trasmissioni in Mali di Rfi e della televisione France24 (entrambe dello stato francese) vengono sospese. In un comunicato ufficiale del governo, Rfi viene paragonata alla famigerata Radio mille colline, che nel Rwanda del 1994 incitava al genocidio.

«In questo momento, in generale, la popolazione maliana sembra favorevole ai golpisti. Forse perché occorreva dare un taglio alla dipendenza dalla Francia.

Una parte della popolazione non condivide il golpe, ma solo perché getta discredito sul paese a livello internazionale. Ma se aumentano gli attacchi militari e quindi le vittime civili, bisogna vedere se questo consenso terrà», ci dice ancora il nostro interlocutore da Bamako.

Intanto la giunta, il 21 febbraio, fa approvare la Carta di transizione, che prevede una durata del regime fino al 2027.

Mali. (Photo by Michele Cattani / AFP)

Repubblica di Guinea

Alpha Condé, oppositore storico, vince finalmente le elezioni nel 2010 e diventa presidente della Repubblica. Si ripete cinque anni più tardi, confermandosi per un secondo mandato. La Costituzione non ne prevede di ulteriori, ma lui indice un referendum costituzionale nel maggio 2020, che la modifica per potersi ricandidare. I partiti di opposizione, e in generale, la società civile, non sono contenti di questa forzatura (peraltro comune a diversi capi di stato africani), e il malcontento sfocia in manifestazioni di piazza che vengono violentemente represse. Condé si fa così eleggere per un terzo mandato, nell’ottobre 2020.

I problemi crescono con l’aumento dei prezzi dei beni essenziali. La goccia è l’aumento del carburante, il 3 agosto del 2021, da 9mila a 11mila franchi guineani al litro. La gente scende in piazza.

«La popolazione soffriva perché i prezzi stavano aumentando, ma allo stesso tempo i ministri e politici al governo si costruivano dei “castelli” (delle grandi case, ndr) in modo molto evidente», ci racconta Djéneba, una sociologa guineana che lavora per una Ong internazionale.

Il 5 settembre 2021 un gruppo di militari, guidati dal tenente colonnello Mamadi Doumbouya, arresta il presidente Condé e prende il potere. La giunta si fa chiamare Comitato nazionale per la riconciliazione e lo sviluppo (Cnrd, sigla in francese). Il primo ottobre Doumbouya si autoproclama presidente. La gestione è opaca e a tutt’oggi non è chiaro chi siano esattamente i componenti del Cnrd.

«La gente diceva: “I ladri sono partiti”. La giunta al potere ha subito abbassato il prezzo del carburante, portandolo a 10mila franchi. La popolazione comprende solo la questione dei prezzi dei beni di prima necessità. Il presidente ha poi incontrato i grandi operatori economici per cercare di tenere a freno l’aumento dei prezzi. Ma è complicato, perché dipendono anche dall’estero», continua la nostra interlocutrice, raggiunta telefonicamente. Così a inizio marzo i prezzi riprendono a salire, mentre la giunta cerca di calmierare almeno quelli dei prodotti nazionali.

Viene nominato un governo di transizione, un parlamento di transizione, e redatta una Carta di transizione, che dovrebbe regolamentare questi organi, le relazioni tra gli stessi e la durata.

Quest’ultima in particolare, dettaglio molto delicato, dovrebbe essere determinata da una concertazione tra il Cnrd e le «forze vive della nazione». Una coalizione di 58 partiti politici denuncia, invece, una «visione unilaterale del Cnrd», e il tentativo di tenere la politica lontana dalla transizione.

Guinea, Colonello Mamady Doumbouya. (Photo by Cellou BINANI / AFP)

Una speranza

La gente comune, invece, ha ancora una certa speranza: «Sì, perché vediamo trasparenza e la maturità con le quali stanno gestendo il paese».

Anche i responsabili religiosi appoggiano la transizione. L’arcivescovo di Conakry, Vincent Koulibaly, durante la messa dello scorso Natale, ha detto: «Per servire il nostro paese, occorre amare la verità. Se noi amiamo la Guinea, niente ci impedirà di attaccare su tutti i fronti i mali che frenano il suo sviluppo. È in questo senso che gli sforzi del Cnrd e del suo governo sono orientati in questo momento. Meritano di essere sostenuti da tutti i guineani, non solo nei discorsi, ma anche nelle azioni» (africaguinee.com).

Intanto il Cnrd organizza gli incontri delle Assises nationales, per dare corpo al cosiddetto «dialogo nazionale». A oggi si attende di sapere ufficialmente quanto durerà la transizione, mentre voci parlano di 36 mesi.

Burkina Faso

Il «paese degli uomini integri» aveva vissuto un’insurrezione popolare terminata con la cacciata del presidente Blaise Compaoré, al potere da 27 anni, nell’ottobre 2014. Si era poi rivoltato contro un tentativo di colpo di stato del suo fidato generale Gilbert Dienderé un anno dopo, il 15 settembre.

Ma dopo le elezioni e l’arrivo al potere di Roch Marc Christian Kaboré (cfr MC dicembre 2018 e gennaio 2019) il Burkina Faso aveva visto un peggioramento della situazione di sicurezza interna con l’arrivo sul suo territorio di gruppi islamisti radicali e la nascita di altri gruppi autoctoni, che oggi controllano porzioni del territorio. Così quando il 24 gennaio di quest’anno, un commando militare depone il presidente, al suo secondo mandato iniziato a gennaio 2021, e prende il potere, la popolazione non insorge, anzi scende in strada a gridare il suo sostegno.

Vengono rapidamente convocate delle assise nazionali, delle quali fanno parte diversi settori della società burkinabè (partiti, sindacati, società civile, giovani), inclusi i rappresentanti degli sfollati interni, per approvare gli organi di transizione e la durata.

Presto fatto, il presidente di transizione è il capo della giunta (Movimento patriottico per la salvaguardia e la restaurazione), il tenente colonnello Paul-Henri Sandaogo Damiba. Viene poi designato un primo ministro di transizione, Albert Ouderaogo, che formerà il suo governo il 6 marzo, e un’assemblea legislativa di transizione di 75 membri. La transizione è prevista di una durata di 36 mesi. Gli obiettivi principali dell’esecutivo sono la lotta al terrorismo per riportare la sicurezza nel paese, e il rinforzo della governance tramite la lotta alla corruzione.

Il tenente collonello Paul-Henri Sandaogo Damiba, Presidente del Burkina Faso. (Photo by OLYMPIA DE MAISMONT / AFP)

Il sociologo ex ministro

Chiediamo il parere sulla situazione ad Antoine Raogo Sawadogo, sociologo, già ministro dell’Amministrazione territoriale e sicurezza, padre del decentramento amministrativo in Burkina, e fondatore del Laboratoire Citoyenneté (laboratorio di cittadinanza attiva), che raggiungiamo telefonicamente.

«Viviamo oggi una grave crisi della sicurezza, che sottende diverse altre crisi. La crisi alimentare, perché i contadini cacciati dai loro territori a causa degli attacchi jihadisti, non hanno potuto coltivare. Inoltre la stagione delle piogge è stata scarsa, per cui abbiamo un grosso deficit alimentare. Una crisi della casa, in quanto gli sfollati, che sono oggi circa 1,5 milioni (su una popolazione di 21 milioni, nda), sono andati a ingrossare le città, che non erano preparate ad assorbirli. Una crisi sanitaria, perché le stesse città non hanno servizi di base sufficienti per tutte queste persone, per cui osserviamo una recrudescenza delle malattie veicolate dall’acqua o causate dalla malnutrizione. Poi c’è la crisi scolastica perché abbiamo circa 4mila scuole chiuse o distrutte a causa degli attacchi terroristici, e i bambini sono lasciati all’abbandono.

Tutto questo fa sì che la situazione in Burkina sia deleteria. E purtroppo la crisi della sicurezza continua o, addirittura, è peggiorata, dopo il colpo di stato che avrebbe dovuto fermarla».

E continua, con voce grave: «Il golpe non è che la conclusione di una serie di malfunzionamenti, quelli riguardanti la sicurezza, ma anche la governance del paese. La popolazione aveva l’impressione che nessun organo dello stato fosse in piedi per servirla, ma piuttosto, che quelli che erano responsabili di dirigere il paese fossero lì per servire se stessi».

L’ex ministro cita il caso delle miniere d’oro, metallo del quale il paese è diventato grande produttore nell’ultimo decennio. Sembra infatti che la metà dell’oro estratto sparisca a causa dell’opacità delle aziende di estrazione. «Se lo stato non spiega ai cittadini cosa succede, l’opinione pubblica vive di voci. C’era un grande problema di dialogo tra i cittadini e coloro che devono rappresentarli. Inoltre, l’Assemblea nazionale (il parlamento) non svolgeva il suo ruolo di controllo sui governanti tramite le interpellanze sulle questioni fondamentali».

E conferma: «Quindi il colpo di stato è venuto a dare un punto finale, a fermare tutto questo, e ha dato speranza alla popolazione».

Ma oggi la delusione e la disperazione sono già palpabili, perché la situazione, invece di migliorare, è ancora peggiorata.

Chiediamo a Raogo cosa pensa la gente di una transizione – annunciata da parte dei golpisti – di 36 mesi. «Penso che la durata della transizione non sia una preoccupazione della popolazione. La preoccupazione sono le crisi che abbiamo elencato. Alla gente oggi non importa di essere governati da un regime democratico o da un regime di emergenza, non è questo il problema. D’altronde non sono stati serviti bene durante il lungo periodo democratico. La democrazia all’occidentale è un problema di secondo ordine, adesso la questione è la sopravvivenza».

Ovviamente ci sono settori che non sono contenti: «I partiti politici non sono d’accordo, ma cosa hanno ancora da dire? Non hanno portato il benessere della popolazione. Così come certe associazioni, penso a Le Balai citoyens, che hanno cavalcato l’insurrezione del 2014, e i cui membri hanno poi preso soldi dall’estero. Alcuni sono entrati in politica ma sono allo stesso livello degli altri. Tutti loro sono inascoltabili oggi».

La Cedeao, dopo aver sospeso Mali e Guinea a causa dei rispettivi colpi di stato, ha sospeso a fine gennaio anche il Burkina Faso: «La Cedeao non ha più credito agli occhi di nessuno. Da quando siamo in crisi non ha spedito un solo sacco di viveri, né medicine. Solo parole. Nessuno ha più orecchie per ascoltarli».

Dimostranti in Ouagadougou in Burkina Faso. (Photo by Olympia DE MAISMONT / AFP)

Democrazia a rischio?

«La dinamica in generale dei colpi di stato nell’area è inquietante. Iniziano a esserci situazioni stabili di regimi non democratici», ci ha detto il cooperante italiano a Bamako.

Abbiamo chiesto a Enrico Casale, giornalista esperto di Africa e collaboratore di MC, cosa hanno in comune questi eventi. «Da un lato vediamo una grande fragilità delle istituzioni di questi paesi, che faticano a intraprendere la strada per la democrazia. Dall’altro ci sono delle minacce esterne, come l’integralismo islamico che porta a tensioni fortissime dal punto di vista militare (specie per Mali e Burkina), e poi la malavita. Questa ha un peso dalla Guinea fino al Nord Africa per traffici di droga, sigarette, migranti. Va notato che entrambi questi fenomeni si alimentano con il malcontento stesso.

Quest’area sta poi vivendo un forte cambiamento climatico che causa tensioni tra pastori e agricoltori».

E quindi: «Tutto ciò porta a instabilità, in paesi con istituzioni fragili la reazione sono spesso colpi di stato che forniscono soluzioni solo temporanee perché non risolvono nulla o molto poco».

E continua: «Poi c’è un altro elemento, che è l’insofferenza nei confronti della Francia, ex paese colonialista. Questi paesi ne stanno prendendo le distanze, e si buttano tra le braccia di altri attori, come Russia e Cina. E la Francia stessa si sta ritirando».

Abbiamo visto come, nei tre casi esaminati, la popolazione abbia acclamato i colpi di stato.

«Questo perché la fragilità istituzionale si è tradotta in mancanza di sicurezza e incapacità di dare soluzioni ai problemi epocali di questi paesi. Di fronte a una democrazia fragile, la gente preferisce un governo forte. Ma questo è molto rischioso per la tenuta democratica di tutta l’area. Anche a causa delle nuove alleanze, perché Cina e Russia, che hanno i loro interessi, non hanno nessuna attenzione per la democrazia in questi paesi. Quindi queste giunte militari rischiano di durare a lungo».

Casale allarga il discorso al continente: «Più in generale, in Africa, fino a tutti gli anni 2000 eravamo abituati a uno schema semplice, in cui si manteneva una struttura di influenza postcoloniale. Adesso ci sono tanti nuovi protagonisti, quelli citati, ma anche India, Turchia, Vietnam e la struttura delle influenze si è notevolmente complicata».

Marco Bello


Processo Sankara

Il 6 aprile scorso, nell’ambito del processo per l’assassinio di Thomas Sankara e 12 suoi collaboratori (15 ottobre 1987), sono stati condannati all’ergastolo l’ex presidente Blaise Compaoré, il suo addetto alla sicurezza Hyacinthe Kafando (entrambi in contumacia) e il generale Gilbert Diendéré.

Conakry, Guinea, 18 settembre 2021. (Photo by JOHN WESSELS / AFP)

 




Le tante febbri di Conakry


Un paese poco conosciuto in Europa, ricco di risorse naturali e minerarie, ma anche culturali e umane. Inserite in un contesto sociale e politico fragile, troppo spesso sfruttate da imprese multinazionali. Vi portiamo nelle sue contraddizioni.

Lontana dai riflettori dei grandi media, la Guinea sta vivendo un momento storico difficile sia sul piano sanitario che politico.

Con il colpo di stato avvenuto il 5 settembre scorso a opera del leader golpista Mamandy Doumbouya ai danni del presidente Alpha Condé, gli assetti politici del paese sono cambiati.

Sito in Africa occidentale, la Guinea ha 13 milioni di abitanti, ed è 178ª nella classifica Onu dello sviluppo umano (su 189). La situazione è ancora molto delicata, anche se non ci sono stati più grandi scontri o rivolte da parte della popolazione. In un primo momento, nel mese di settembre, la capitale Conakry era un via vai di polizia e militari. Piccoli gruppi hanno cercato di ribellarsi ai soldati, ma senza grandi risultati. Il tenente colonnello Mamandy Doumbouya ha giustificato l’operazione con la situazione economica del paese in caduta libera e il grave aumento della povertà.

Chi troppo vuole…

Il presidente Alpha Condé, eletto per la prima volta nel 2010 e rieletto nel 2015, aveva fatto in modo di cambiare la Costituzione che limitava i mandati a due, tramite un referendum il 22 marzo 2020. Si era quindi fatto rieleggere per un terzo mandato nell’ottobre dello stesso anno, provocando la contestazione di un vasto movimento composto dai partiti di opposizione e da gran parte della società civile. Le proteste di piazza, duramente represse, avevano causato decine di morti.

La popolazione è ancora oggi nettamente divisa in due, c’è chi sostiene Mamandy Doumbouya, autoproclamato presidente ad interim il primo ottobre, e chi ancora appoggia Alpha Condé, attualmente agli arresti.

I due, anche se non appartengono direttamente alla stessa famiglia d’origine, hanno legami, e questo è uno dei motivi che ha arginato le lotte a sfondo tribale nel paese.

Il concetto di famiglia in Guinea è molto esteso: la famiglia coincide con un gruppo tribale che mantiene un cognome e un’identità storica e culturale. Queste appartenenze sono estremamente importanti e significative.

La popolazione guineana si considera da sempre come una grande famiglia. I nuclei più forti a livello sociale e politico sono i Keita, i Touré e i Condé. Fortunatamente le varie famiglie si considerano come cugine tra di loro, e questo, negli anni, ha frenato molte rivolte e proteste. Il popo-lo guineano è d’indole pacifica e ha sempre cercato di rispettare gli accordi presi tra le varie fami-glie, molti secoli fa.

Dopo il colpo di stato, la Cedeao (Comunità economica degli stati dell’Africa occidentale) ha iso-lato la Guinea sul piano economico, chiedendo elezioni libere nell’arco di sei mesi e il ritorno del potere ai civili. Ma il nuovo uomo forte, Doumbouya, non sembra preoccuparsene, negando che ci sia una crisi nel paese.

Un governo costituito da militari spaventa gran parte dei guineani, ma anche i presidenti di molti stati limitrofi.

Risorse minerarie

La Guinea è uno dei paesi più poveri dell’Africa dell’Ovest, anche se il suo territorio è ricco di risorse minerarie. Pure l’agricoltura è una componente essenziale dell’economia del paese, in particolare le coltivazioni di riso.

L’oro e altri minerali preziosi, come la bauxite, dalla quale si trae l’alluminio, sono sfruttati dalle grandi compagnie minerarie europee o americane.

La febbre dell’oro è un fenomeno che si è accentuato durante i primi anni 2000: con l’abbandono delle vecchie miniere di pietre preziose a causa dei cambiamenti del mercato globale, gran parte della popolazione e delle grandi compagnie minerarie si è indirizzata sulla spasmodica ricerca del metallo giallo.

Oltre alle grandi miniere gestite dalle multinazionali, l’estrazione dell’oro avviene in maniera artigianale. Queste piccole miniere sono un rifugio per molte persone che vivono situazioni di grande difficoltà economica e cercano nell’oro una speranza di riscatto, che il più delle volte non si realizza.

Questo sogno raramente ha un finale a lieto fine, ma al contrario porta disagio, fatica e malattie.

L’estrazione aurifera è sviluppata prevalentemente nell’alta Guinea, in particolare nella prefettura di Kouroussa. È proprio in queste terre rosse che ogni giorno centinaia di uomini e donne entrano nelle viscere della terra per cercare fortuna.

Il più delle volte l’oro è polverizzato e mischiato al terreno. Abilmente i minatori tradizionali riescono a dividere le particelle d’oro da quelle del terreno per poi fonderle insieme. Tutto avviene grazie all’utilizzo del mercurio. Purtroppo questa attività è svolta molto spesso vicino ai fiumi, soprattutto al Niger, e il risciacquo dell’oro con il mercurio sta gravemente danneggiando le risorse idriche e non solo.

Anche le miniere tradizionali hanno le loro cooperative che cercano di difendere gli interessi dei minatori. Molto spesso però le grandi compagnie sono interessate ai terreni nei quali lavorano i minatori artigianali e questo genera conflitti. Il più delle volte questi ultimi hanno la peggio. Lo stato quasi sempre appoggia le compagnie per un ritorno economico che però non va mai a sostegno della popolazione locale.

Oro e salute

Il processo di estrazione dell’oro causa molti danni, oltre che all’ambiente, anche alla salute. Svolgendosi vicino a delle risorse idriche, la malaria è una delle malattie più comuni tra i minatori. Per non parlare degli incidenti legati a tali attività. Molti uomini prima di entrare negli stretti cunicoli alla ricerca del prezioso metallo usano psicofarmaci e alcol per farsi coraggio, e questo non fa altro che aumentare la frequenza di comportamenti inadeguati che possono destabilizzare la vita sociale e la salute dei minatori.

In Guinea esiste una popolazione viandante (nomade), che si sposta continuamente alla ricerca di nuovi filoni. Questo crea villaggi temporanei e fatiscenti dove le condizioni igieniche e sanitarie sono disarmanti.

Negli ultimi anni molti burkinabè si sono uniti a questi gruppi, il che ha creato problemi a livello d’integrazione ed episodi di razzismo e intolleranza.

Le donne che appartengono a queste comunità sono solite lasciare i loro figli soli al villaggio mentre vanno nelle miniere vicine. Molto spesso, se queste donne non trovano nulla, la sera si prostituiscono con gli uomini che lavorano alle miniere. La promiscuità fa aumentare fortemente i casi di infezioni da Hiv nella popolazione.

In questi villaggi fatti di materiali di recupero, i bambini si trovano loro malgrado a vivere una vita difficile e piena di pericoli. La mancanza di acqua è una delle cause maggiori di malattie come la disidratazione o la dissenteria e i bambini più piccoli molto spesso non sopravvivono. Sono molti i bambini che non possono frequentare le scuole, lontani da ogni confort e con la responsabilità di curare la casa e i fratelli più piccoli.

Una sanità che fa acqua

La situazione del paese, a livello sanitario, è molto complessa e non riguarda solamente le popolazioni che lavorano in miniera.

L’età media della popolazione è di diciassette anni e la mortalità infantile è ancora molto alta.

La fascia più vulnerabile è quella dei bambini dai zero a cinque anni. Mentre il governo e le istituzioni sanitarie non riescono a garantire una salute pubblica efficiente. Tutte le cure sono a pagamento e la forte corruzione degli organi amministrativi e sanitari fa peggiorare la situazione.

Il 2021 è stato un anno molto complesso a livello sanitario. Già durante i primi mesi ci sono stati dei casi, fortunatamente isolati, di ebola, e un caso di febbre emorragica Marburg. Entrambi questi episodi sono nati nella prefettura di Nzérékoré, nella Guinea Forestiére, ai confini con la Costa d’Avorio, zona con scarsissime risorse economiche.

La regione della Guinea Forestiére è molto diversa dal resto del paese, sia a livello culturale che religioso. Mentre la maggioranza nel resto del paese è musulmana, nella prefettura di Nzérékore prevalgono i cattolici. Anche se non ci sono forti contrasti tra i credenti delle due fedi, a livello culturale chi appartiene al mondo cattolico viene considerato più soggetto ai vizi. Il fatto che proprio in questa zona nascano molte delle epidemie è sintomo di grande povertà e permeabilità dei confini. Il controllo sanitario di chi entra nel paese, infatti, è pressoché inesistente.

Inoltre, intorno all’epidemia di ebola sfortunatamente è nato un grosso business ed è difficile delle volte avere dati sicuri su cui lavorare. Questo complica ulteriormente la situazione e molti speculatori cercano di intercettare i soldi destinati alla cura e alla prevenzione di questa malattia.

Malaria & co

Come se non bastasse, ogni anno la Guinea deve affrontare le conseguenze della malaria che uccide periodicamente centinaia di bambini. L’alta letalità di questa malattia è legata al costo eccessivo delle cure, inoltre molti villaggi del paese sono completamente isolati e, soprattutto durante la stagione delle piogge, è impossibile muoversi per recarsi nei grandi centri dove ci sono gli ospedali migliori. Per questo motivo la medicina tradizionale è ancora importante sia a livello culturale che sanitario, ma purtroppo non è sufficiente a curare i casi gravi.

Un altro virus che spaventa molto è quello del morbillo. Numerosi focolai vicino alla capitale Conakry sono stati isolati grazie all’aiuto di associazioni non governative, e la diffusione è stata arginata.

I vaccini non sono sufficienti e sono costosi, e questo implica che anche per malattie infantili, debellate nei paesi ricchi, in Guinea si continui a morire.

Il Covid è arrivato

Negli ultimi anni, a questi problemi sanitari, si è aggiunta la paura del Covid-19.

L’espandersi della variante Delta sembra aver colpito maggiormente il paese, a differenza delle altre varianti. Anche se il tasso di mortalità non è elevato, la preoccupazione esiste sopratutto nelle aeree metropolitane.

L’Africa è stata colpita meno duramente rispetto al resto del mondo. Questo può avere numerose spiegazioni, tutte teoriche. L’età media della popolazione è molto bassa, mentre il virus uccide di più gli anziani, e alcuni virologi sostengono che nel genoma di alcune popolazioni africane c’è una resistenza maggiore a questo virus. Avere un quadro complessivo dell’andamento del Covid in Guinea non è semplice. La mancanza di tamponi e controlli adeguati ci offre dati imprecisi e parziali.

La campagna vaccinale anti Covid è iniziata a metà 2021, ma non ha avuto molto successo, sopratutto nei piccoli villaggi. La popolazione non è ben informata sulle reali conseguenze del virus e ha paura di farsi fare la vaccinazione. In un primo momento il siero più utilizzato è stato quello cinese, Sinovax, mentre ora sul mercato è possibile trovare anche Astra Zeneca.

Nella capitale Conakry, invece, gran parte della popolazione vuole vaccinarsi, poiché i casi e i decessi sono stati più numerosi. Il problema è che non ci sono sufficienti vaccini per coprire tutte le esigenze, e il ministero della Salute non ha attuato un piano idoneo per salvaguardare la popolazione più fragile. Misure di contenimento sono state attuate dal governo, e – mentre scriviamo – vige un coprifuoco che parte dalle 22 fino alle 5 del mattino.

Queste sono le febbri della Guinea, paese meraviglioso dove la natura ti accoglie calorosamente e dove gli ospiti, soprattutto occidentali, vengo trattati con enorme rispetto e riverenza.

Gianluca Uda




Mali: «Per terminare il lavoro»

Testo di Marco Bello |


Il paese è sprofondato in una crisi socio politica acuta. La società civile e l’opposizione hanno formato un fronte unico contro il regime di Keita. Ecco che i militari ne approfittano e fanno saltare il banco. E il popolo sembra apprezzare. Ma si apre la difficile stagione della transizione.

È la mattina del 18 agosto, a Bamako. Si odono spari provenienti da Kati, poco fuori città, sede della più grande caserma del paese. Un gruppo di militari si impossessa della radio televisione e altri arrestano il presidente Ibrahim Boubakar Keita. Questi sarà costretto ad annunciare le sue dimissioni in diretta Tv.

Keita è stato eletto nel 2013 dopo la transizione seguita a un altro colpo di stato militare, quello ai danni di Amadou Toumani Touré, nel 2012, guidato dal tenente colonnello Amadou Sanogo (cfr. MC giugno 2017). Ha poi instaurato un «sistema» di governo che si è perpetrato con la rielezione del 2018, avvenuta in modo risicato e seguita da contestazioni per brogli.

Ma quest’ultimo golpe, ennesimo nella storia del paese, prende forma in un contesto particolare. È preceduto da mesi di manifestazioni di piazza e dalla nascita di un vero e proprio movimento anti governativo. Si tratta del M5-Rfp (movimento 5 giugno – raggruppamento delle forze patriottiche) e contesta la corruzione e la gestione del potere del gruppo di Ibk (come è chiamato il presidente dalla gente, dalle iniziali del nome).

«È un fronte molto ampio, dove troviamo tutta la classe politica di opposizione ma anche molte organizzazioni della società civile. È sicuramente uno dei movimenti più organizzati che ha avuto il Mali negli ultimi tempi. Il gruppo al potere ha cercato in tutti i modi di dividerlo, con diverse strategie e tentativi di corruzione, ma loro sono rimasti uniti». Chi parla è il quadro maliano di una Ong, profondo conoscitore delle dinamiche nel suo paese. «Una delle particolarità di questo movimento è che ha come mentore l’imam moderato Mahmoud Dicko».

Dicko è un intellettuale, capo religioso, equilibrato, e molto noto e rispettato, anche perché è stato presidente dell’Alto consiglio islamico del Mali per diversi anni. Conosce inoltre la vita politica del paese e i suoi attori. Non ha un ruolo ufficiale nel movimento, in quanto non fa neppure parte del Comitato strategico, ma di fatto ne è leader e riferimento morale. «Anche per questo motivo, tutti i tentativi del regime di sgonfiare il movimento e dividere l’organizzazione sono andati a vuoto».

La corruzione è grande

Ma cerchiamo di capire perché una contestazione così forte. Ancora il nostro uomo: «Il regime di Ibk era arrivato a una fase nella quale non rispondeva più alle attese dei maliani. La corruzione era molto cresciuta, e la situazione della sicurezza peggiorava ogni giorno (a causa degli attacchi jihadisti, ndr)». E continua: «Ibk di fatto non gestiva più il paese, era piuttosto la sua famiglia, ovvero la moglie e i figli, che controllava le leve del potere. Si è scoperto che addirittura imitavano la firma del presidente, che è malato, per documenti sensibili del paese».

La goccia che ha fatto traboccare il vaso sono state le ultime elezioni legislative, tra marzo e aprile 2020, nelle quali il regime ha praticamente imposto alcuni deputati: «Non abbiamo partecipato a un’elezione ma piuttosto alla nomina di deputati. Diversi candidati parlamentari, eletti anche in zone sensibili, sono stati confermati dal ministero dell’Amministrazione territoriale, ma al passaggio alla Corte costituzionale per la validazione finale, sono state trovate delle scuse, per dire che c’erano state delle frodi, e sono stati eliminati. Così la Corte costituzionale ha messo da parte deputati eletti e ha fatto salire deputati favorevoli al regime».

(Photo by MICHELE CATTANI / AFP)

I militari ne approfittano

In questo clima si inseriscono i militari, per «terminare il lavoro iniziato dalla piazza», dicono. «Dopo tutte queste manifestazioni, che sono durate dei mesi, il regime era a terra. Il Mali non aveva governo, ma neppure l’Assemblea nazionale (il parlamento, ndr) perché era contestata. Tutto questo ha fatto sì che il potere si sia molto indebolito. Molti responsabili hanno cominciato a ritirarsi dai posti chiave. Il mattino del 18 agosto un gruppo di giovani ufficiali si sono radunati nel Comitato nazionale di salute del popolo (Cnsp), hanno preso il potere, e hanno cominciato a negoziare con M5 per mettere in piedi delle nuove istituzioni».

L’esercito approfitta della situazione e forza il cambiamento, come è già avvenuto varie volte nella storia del paese saheliano, che lo scorso 22 settembre ha festeggiato i primi sessanta anni d’indipendenza. Le istituzioni internazionali condannano l’accaduto: la Francia (ex potenza coloniale con ancora molti interessi nel paese, e un contingente di 5mila uomini per la lotta al terrorismo), l’Unione europea, ma soprattutto gli organismi sovranazionali africani, Unione africana e Comunità economica degli stati dell’Africa dell’Ovest (Cedeao). Quest’ultima impone sanzioni economiche e la chiusura delle frontiere, condizioni che in un paese senza sbocchi sul mare equivale a un lento soffocamento.

I militari vorrebbero instaurare una transizione di tre anni, per arrivare poi a nuove elezioni, ma gli organismi internazionali impongono che sia di 18 mesi e, soprattutto, che sia a guida civile e non militare.

La giunta militare – così viene chiamato il Cnsp -, il cui capo è il colonnello Assimi Goïta, deve però negoziare con l’altra forza presente nel paese, il M5-Frp, che, come detto, ha un largo seguito popolare, e vuole dunque partecipare alla transizione. Questa sarà retta da una «Carta di transizione» che ha ancora molti punti contestati dai vari settori del paese e attori internazionali.

I militari creano un Collegio per la designazione degli organi di transizione. Ne fanno formalmente parte, oltre al Cnsp, i sindacati principali, alcuni rappresentanti della società civile, il M5-Frp e la Cma (Coordinamento dei movimenti dell’Azawad, la parte dei gruppi armati che, nel 2015, ha firmato la pace di Algeri con il governo). «La giunta ha invitato anche la chiesa cattolica a partecipare, ma la conferenza episcopale, di concerto con i protestanti, con i quali collabora molto, ha deciso che non era il suo ruolo parteciparvi», ci spiega l’abbé Timothée Diallo, già responsabile dei media cattolici e oggi parroco di Sainte Monique. «La Chiesa cattolica, con i Protestanti e l’Alto consiglio islamico, hanno partecipato alle Concertazioni nazionali, durante i mesi agitati che hanno preceduto il golpe. Gli obiettivi erano la riconciliazione e l’uscita dalla crisi». Da notare che, dopo il golpe, gli uomini della giunta hanno fatto due visite all’arcivescovo di Bamako, «alla prima ho partecipato anche io – ci confida l’abbé Diallo -, e sono venuti per presentarsi e parlare dei motivi del loro atto».

(Photo by MALIK KONATE / AFP)

Un presidente di transizione

A un giorno dalla scadenza data dalla Cedeao, il 21 settembre, la giunta nomina presidente di transizione Bah N’Daw, e vicepresidente lo stesso Assimi Goïta. L’M5 contesta le modalità della nomina, che di fatto non avviene tramite il Collegio. Secondo il nostro quadro: «Il Cnsp non voleva coinvolgere altri nella scelta di presidente e vicepresidente di transizione. Ha fatto un protocollo che ha condiviso, ma in fondo sapeva già chi designare. Su questi due punti, non voleva discutere con M5 o altri».

Bah N’Daw, 70 anni, è un ufficiale in pensione, che è stato poi ministro della Difesa con Ibk, ma si è dimesso per critiche alla gestione. Ha pure collaborato con Moussa Traoré (il presidente-dittatore, 1968-91, recentemente scomparso il 15 settembre), anche in quel caso si era dimesso. «Nessun politico, nessun partito contesta la sua figura, solo il M5 protesta per non essere stato coinvolto nella scelta – ci dice il giornalista Moussa Balla Coulibaly, contattato telefonicamente -. Il vicepresidente Goïta, anche lui è abbastanza conosciuto, per il suo impegno come militare nella lotta al terrorismo».

Cruciale e delicata sarà la definizione dei poteri tra presidente e vicepresidente nella carta di transizione. Su questo anche la Cedeao è molto attenta.

Il quadro della Ong ci confida: «Penso che il gioco di questi militari sia molto opaco, non riusciamo a leggere qual è il loro intento, spesso danno impressione di volere tenere il potere, altre volte, sotto pressione della Cedeao, accettano di condividerlo. Ma con questa nomina è chiaro che non sono venuti per cedere facilmente il potere alla classe politica.

C’è però un consenso sulla persona che è stata scelta come presidente. La sua onestà e conoscenza delle regole di governance in Mali sono un dato di fatto. Ma resta comunque un militare, anche se in pensione». Un militare travestito da civile, si potrebbe dire, che però non ha trovato ostacoli nella Cedeao, la quale apprezza anche il primo ministro (nominato dal presidente il 28 settembre) Moctar Ouane, un politico con carriera internazionale. I negoziati Cnsp – M5, portano alla creazione del governo il 5 ottobre. I militari ottengono quattro ministeri chiave (Difesa, Sicurezza, Amministrazione territoriale e Riconciliazione). Non ci sono grossi nomi della politica e M5 ottiene tre ministeri (Comunicazione, Impiego e Rifondazione). Agli ex gruppi ribelli ne vanno tre, mentre in tutto le donne sono quattro.

«Personalmente ho molta speranza che la transizione vada a buon fine – ci racconta l’abbé Diallo – questo perché il presidente scelto è un uomo integro, sincero, ho molta fiducia in lui. È un uomo che ha sempre rifiutato la corruzione, per cui è la persona giusta per lottare contro questa piaga che è uno dei principali problemi del governo appena rovesciato».

BAMAKO, MALI – Stringer / Anadolu Agency

Embargo e crisi economica

Le sanzioni, imposte dalla Cedeao, già dopo il primo mese, creano problemi economici: «Sentiamo già, a livello delle entrate del fisco e delle dogane, un deficit a causa dell’embargo. Ma anche nel carrello della spesa delle famiglie, si vedono tanti prodotti che sono aumentati improvvisamente di prezzo, in particolare quelli che arrivano dall’estero. La giunta sta cercando di non trovarsi tra il martello della Cedeao e l’incudine della popolazione, spingendo per ottenere l’annullamento o almeno l’allentamento delle sanzioni, affinché il clima sociale maliano non si degradi ulteriormente con l’acuirsi della crisi economica». Nei giorni della nomina del presidente, si stava realizzando nel paese la visita del mediatore della Cedeao, Goodluck Jonathan, già presidente della Nigeria. Jonathan è rimasto anche durante l’investitura, avvenuta con una breve cerimonia, del presidente di transizione Bah N’Daw. E questo è stato letto come un segnale positivo.

Il 6 ottobre, vista anche la pubblicazione della Carta di transizione che impedisce al vice presidente di prendere il posto del presidente, la Cedeao annuncia la fine dell’embargo.

Altre forze vive della nazione vogliono dire la loro sulla transizione. È il caso della Cma.

«All’inizio, la Cma ha visto con favore l’arrivo della giunta, perché questi gruppi sono frustrati dalla mancata applicazione degli accordi di Algeri del 2015 (cfr. MC giugno 2017), totalmente disattesi e boicottati dal regime di Ibk. Questi non aveva né voglia né i mezzi per applicare gli accordi. La Cma resta tuttavia molto prudente per vedere se la giunta si smarcherà da questo sistema e quale sarà l’avvenire degli accordi del 2015», ci dice il quadro dell’Ong.

In effetti la Cma sta negoziando affinché l’applicazione degli accordi sia inserita nella Carta di transizione. «Sì, perché si sentono discorsi sulla modifica degli accordi di Algeri, che, secondo alcuni, non sarebbero realizzabili. Ma la Cma vuole che gli accordi siano applicati così, come sono stati firmati. Attualmente, non essendoci stata applicazione, la situazione si degrada sul terreno ogni giorno e nessuno vuole prendersi le sue responsabilità».

Ma la gente comune, cosa ne pensa di questo nuovo, brusco, cambiamento di regime? Continua l’intellettuale: «Abbiamo delle speranze, perché pensiamo che non possiamo vivere peggio di quanto abbiamo già vissuto con Ibk e il suo governo. Quindi pensiamo che stiamo rialzandoci, anche se magari ci vorrà del tempo. Occorre fare tornare una certa fiducia, tra governanti e governati, affinché i maliani si parlino tra loro, e si costruisca la nazione, perché le prospettive erano davvero catastrofiche».

Secondo un’analisi del giornalista Balla sui social media «circa l’80% delle persone attive posta testi e video in cui si chiede che la si faccia finita con la corruzione, si sostiene la giunta e il regime di transizione che deve ancora venire, per un’uscita dalla crisi e un vero cambiamento».

Transition Mali President Bah Ndaw  (Photo by MICHELE CATTANI / AFP)

Gli jihadisti non si fermano

Il Mali dal 2013 è teatro di una guerra tra gruppi radicali islamisti (cfr. MC giugno 17) e Forze armate maliane (Fama), appoggiate dal contingente francese dell’operazione Brarkhane (circa 5mila uomini), dalla Missione delle Nazioni unite (Minusma, circa 10mila la missione che ha inflitto più perdite ai caschi blu nella storia), da contingenti europei, tra cui tedeschi e italiani (nella task force Takuba, creata nel luglio di quest’anno) e dalla forza G5-Sahel.

Il capo della giunta Assimi Goïta, nel discorso del sessantesimo dell’indipendenza, ha fatto appello all’«unione sacra» dei maliani nella lotta al terrorismo, chiedendo alla popolazione di sostenere le Fama, ma anche i partner stranieri. Si erano infatti verificate manifestazioni di contestazione antifrancese e anti straniera nei giorni precedenti.

Chiediamo ai nostri interlocutori cosa può succedere con il cambio di regime.

«Non penso che il cambiamento avrà un impatto su questi gruppi, perché le loro rivendicazioni sono chiare e non cambiano in funzione del regime: vogliono l’instaurazione della legge islamica. Quello che speriamo oggi è che, con l’arrivo della giunta al potere, l’esercito maliano sia meglio organizzato e abbia più mezzi, per combattere i gruppi terroristi. Perché avevamo l’impressione che i nostri militari non avessero abbastanza mezzi e i responsabili non avessero le mani libere per fare tutto il possibile nella lotta anti terrorista», ci dice il quadro.

Ancora, secondo Balla: «Da quando è caduto Ibk, abbiamo visto una maggiore copertura aerea dei nostri militari sul terreno, che ha portato a una maggior efficacia dell’esercito nella lotta al terrorismo».

Bisogna dire che il Mali resta un paese di fatto tagliato in due. Il grande Nord, due terzi del territorio, poco abitato perché diventa Sahara, è quasi un paese a parte. Il nostro interlocutore viaggia spesso a Gao: «Nel Nord il cambiamento di regime lo sentiamo alla televisione e alla radio, ma non ha nessun impatto sulla vita. Sarà anche perché l’apporto dello stato non è sentito dalla popolazione, che sia positivo o negativo. Così anche se il regime cambia, non lo sentiremo molto a Gao, perché lo stato è qualcosa di molto lontano e non ne beneficiamo direttamente».

Marco Bello

Musulmani in preghiera a Bamako (Photo by MICHELE CATTANI / AFP)




Cercando la democrazia

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I burkinabè hanno eletto un nuovo presidente dopo 27 anni di potere di Blaise Compaoré. Ma è stato necessario fare un’insurrezione e sventare un colpo di stato. Riuscirà il nuovo regime, figlio del vecchio, a portare il cambiamento chiesto dalla popolazione?

Roch Marc Christian Kabore waves to supporters at party headquarter in Ouagadougou on December 1, 2015 after winning Burkina Faso's presidential election, official results showed, after a year of turmoil that saw the west African country's former leader deposed and the military try to seize power in a coup. AFP PHOTO / ISSOUF SANOGO / AFP / ISSOUF SANOGO

«Era il 29 ottobre [2014], verso le otto di sera. Decidemmo di dormire nei pressi della rotonda delle Nazioni unite, per essere i primi ad andare, il giorno dopo, all’Assemblea nazionale (Parlamento, nda)». Chi racconta è Daoda Soma, giovane ingegnere informatico burkinabè, ma soprattutto militante di Le Balai Citoyen (la scopa cittadina) tra le associazioni più agguerrite nell’insurrezione popolare del 2014. Il 30 ottobre era previsto che i deputati votassero la modifica costituzionale dell’articolo 37, che avrebbe permesso a Blaise Compaoré, al potere dal 1987, di ricandidarsi alle presidenziali. (cfr. Mc gen-feb 2015). «La polizia è arrivata e ci ha aggrediti con i gas lacrimogeni. Siamo dovuti partire. Ma molto presto, il mattino dopo, siamo tornati. C’era una folla enorme: fare un minuto di ritardo significava restare indietro di un chilometro. C’era di tutto: bambini, adolescenti, giovani e vecchi. Penso sia intervenuta la mano di Dio, perché i militari che erano appostati intorno al palazzo non hanno sparato sulla folla».

Quel giorno, la pacifica gente di Ouagadougou prese d’assalto la sede dell’Assemblea nazionale, il parlamento, mettendola a ferro e fuoco, per impedire ai deputati di votare. Daoda continua il suo racconto: «La maggioranza della gente non voleva questa modifica. Anche se i media e i comunicati ufficiali dicevano l’esatto contrario. Sarebbe stato come subire un colpo di stato. Per questo ci mobilitammo per evitare che succedesse. Voci dicevano che molti deputati erano stati “comprati” dal potere e che la modifica sarebbe passata. Una volta votata la legge, i politici avrebbero potuto fare quello che volevano». Così quel giorno non si votò perché i deputati non poterono riunirsi. Il 31 ottobre Blaise Compaoré fuggì, grazie alla Francia, in Costa d’Avorio, e si aprì una nuova stagione politica per il paese, dopo 27 anni di «regno» incontrastato.

Fu definito dalle forze della nazione un periodo di transizione di 12 mesi, con un governo, un presidente della Repubblica e il Consiglio nazionale di transizione (parlamento). Gli organi della transizione avevano il compito di portare il paese alle elezioni dello scorso 29 novembre.

Elezioni che si sono tenute nella calma, con un grande afflusso. Non le prime elezioni democratiche, come qualcuno ha scritto, ma certo le prime senza lo strapotere di un partito, il Cdp (Congresso per la democrazia e il progresso) di Compaoré, in grado di controllare tutto e tutti e assicurarsi la vittoria, anche in parlamento, con percentuali altissime.

L’esito è stata la vittoria del favorito Roch Marc Christian Kaboré, uno dei pilastri del regime Compaoré fin dalle origini, che si era staccato dal Cdp nel gennaio 2014 fondando il suo movimento, l’Mpp (Movimento del popolo per il progresso). Ma vediamo cosa ha portato a questo cambiamento epocale.

L’insurrezione burkinabè

Scrutineers are at work during the counting of Burkina Faso's presidential election votes at a polling station in Ouagadougou on November 29, 2015. After Voters in Burkina Faso cast ballots on November 29 for a new president and parliament, hoping to tu the page on a year of turmoil during which the west African nation's people ousted a veteran ruler and repelled a military coup. AFP / ISSOUF SANOGO / AFP / ISSOUF SANOGO

«L’insurrezione è un concorso di circostanze tra un processo storico e avvenimenti interni ed estei. La società civile non è la sola depositaria dell’insurrezione. Ha giocato un ruolo importante, significativo, ma non sufficiente. Occorrevano altre forze». Ci racconta Antornine Raogo Sawadogo, sociologo, presidente dell’istituto di ricerca Laboratornire Citoyennetés, ed ex ministro dell’Amministrazione territoriale e del decentramento.

«La grande manifestazione che ha cacciato Blaise si è svolta a Ouagadougou, ma c’erano anche i partiti politici, i sindacati, e il cittadino della strada non organizzato. Era una domanda collettiva. Le rivendicazioni dei diversi gruppi che hanno cacciato Compaoré riguardavano un maggiore stato di diritto, la richiesta di uno stato democratico capace di fare una redistribuzione di ricchezze, dei frutti della crescita e di praticare una giustizia uguale per tutti. È questo che ha motivato tutta la comunità nazionale».

«La maggior parte degli attori dell’ottobre 2014 non hanno conosciuto che Blaise Compaoré da quando sono nati. Avevano voglia di cambiare presidente». Ci dice Germain Nama, direttore del giornale burkinabè L’Événement. «Occorre fare un passo indietro. Storicamente i movimenti di contestazione in Burkina si organizzavano dietro ai sindacati. I partiti politici li utilizzavano per portare le loro rivendicazioni.

Ma, in questo modo, i sindacati facevano molta ombra ai partiti politici. E ultimamente si rifiutavano di fare questa parte. I partiti stessi hanno capito che occorreva prendere il proprio destino in mano. Sono così entrati in gioco. Negli anni 2012-13-14 si è vista la crescita dei partiti politici che hanno cominciato a organizzarsi intorno al capo fila dell’opposizione. Sono stati anni di profondo cambiamento e di presa di potere da parte loro. Le imponenti manifestazioni di piazza del 2014 sono state organizzate da loro.

Il 4 gennaio 2014, c’era stata la rottura in seno al partito di Compaoré, il Cdp che aveva portato alla crazione del nuovo partito Mpp».

Continua Nama: «Il 28 ottobre si è tenuta la più grande manifestazione che il Burkina abbia mai visto. Quel giorno, se Blaise Compaoré fosse stato furbo, avrebbe chiamato i partiti politici che lo contestavano per cercare un terreno d’intesa. Avrebbe dovuto capire che il limite era stato passato».

La fuga del dinosauro

«Ero nella piazza della Rivoluzione ricolma di gente, avevo la maglia nera di Le Balai Citoyen – ricorda Daoda -. Sono arrivati dei militari, tra loro Isaac Zida (membro della guardia presidenziale, ha preso il potere alla fuga di Blaise per poi renderlo ai civili. È stato quindi nominato primo ministro di transizione, ndr). Non lo conoscevo. Un militare mi tocca la schiena e mi chiede: “Come fate per far passare la gente?”. Rispondo: “Qui non c’è violenza. Dove volete andare?”. “Il capo deve passare”. E io: “Ok, seguitemi”. Ero davanti e, con il linguaggio del ghetto, della strada, ho detto: “il capo arriva e ci porta buone notizie”. La folla si è allora aperta e Zida, arrivato al centro della piazza, ha iniziato a parlare con il microfono. Quando ha annunciato che Blaise aveva dato le dimissioni l’euforia della gente è stata grande».

Continua Nama: «I partiti politici hanno acquistato molta importanza in questa occasione. Sfortunatamente per loro, però, non avevano previsto la partenza di Compaoré che li ha presi completamente alla sprovvista. Non avevano soluzioni pronte. Ancora una volta i militari si sono precipitati sul potere. L’esercito è sembrata la sola forza con una certa coesione».

Un anno dopo: il fulmine

Soldiers of Burkina Faso's loyalist troops stand guard near the Naba Koom II barracks, the base of the Presidential Security Regiment (RSP) in Ouagadougou on September 30, 2015, within the visit of interim leader Michel Kafando. General Gilbert Diendere, the leader of a failed coup by RSP in Burkina Faso, was in talks on September 30 on handing himself in to the govement that his elite force tried to unseat, after troops stormed the putschists' barracks. AFP PHOTO / SIA KAMBOU / AFP / SIA KAMBOU

Il 16 settembre 2015 i militari del Reggimento di sicurezza presidenziale (Rsp), durante una riunione del Consiglio dei ministri, prendono in ostaggio il presidente di transizione Michel Kafando e alcuni ministri. È golpe. Il generale Gilbert Diéndéré, fedelissimo di Compaoré, già coinvolto in numerosi crimini del regime, si proclama capo di stato. Parte una caccia all’uomo nei confronti dei responsabili dei movimenti che hanno guidato l’insurrezione di ottobre. Gli effettivi del Rsp, circa 1.300 uomini scelti e ben armati, si sparpagliano per la città allo scopo di bloccare ogni possibile reazione. Il pretesto del putsch è che le elezioni, previste l’11 ottobre, non sarebbero inclusive, perché escludono alcuni personaggi troppo vicini a Compaoré. Di fatto da mesi c’erano attriti tra il primo ministro Isaac Zida, lui stesso ex Rsp, e il reggimento. Ed era sul tavolo la dissoluzione stessa del corpo.

I burkinabè sono attoniti, si vedono scippare il cambiamento per cui hanno tanto lottato e alcuni di loro sono morti. «Sì, la notizia ci è arrivata addosso. Ci siamo subito detti: la lotta deve continuare. Era qualcosa davvero di inimmaginabile, anche se qualche preoccupazione in realtà io l’avevo avuta», ricorda Daoda.

«Siamo andati alla rotonda della Patte d’Oie e abbiamo deciso di marciare verso Kosyam (il palazzo presidenziale dove presidente e primo ministro erano agli arresti, ndr) la sera stessa. Andando avanti, abbiamo incontrato uomini del Rsp che hanno cominciato a sparare. Siamo tutti fuggiti allo sbando».

«Abbiamo girato per Ouagadougou per riprendere la mobilitazione. La gente era irritata. I militari entravano nei quartieri e sparavano pallottole reali, facevano togliere le barricate. Ma appena se ne andavano, gli abitanti le rifacevano. I militari del Rsp non erano troppo umani in quel momento. Se li guardavi in faccia, sentivi l’alcornol, la droga, vedevi occhi di gente che non aveva più niente da perdere».

Durante una settimana la capitale del Burkina Faso rimane bloccata. I sindacati proclamano uno sciopero generale su tutto il territorio nazionale che ottiene la massima adesione. Nelle altre città si riescono a fare delle manifestazioni contro i golpisti. La repressione dell’Rsp causa almeno 17 morti e 108 feriti. Molte vittime sono colpite alla schiena.

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Mediazione insufficiente

Intanto si attiva una mediazione della Cedeao (Comunità economica degli stati dell’Africa dell’Ovest), che coinvolge mons. Paul Ouedraogo, vescovo di Bobo-Dioulasso, l’ex presidente Jean-Baptiste Ouedraogo e il capo di stato maggiore dell’esercito Pingrenoma Zagré. Il mediatore principale è il presidente del Senegal, Macky Sall, aiutato dall’omologo del Benin, Boni Yayi. La proposta di accordo che elaborano non piace però ai burkinabè che la respingono. È troppo filo putschisti: prevede l’amnistia per loro e la reintegrazione dei politici pro Compaoré alle elezioni.

La mossa decisiva arriva dall’esercito repubblicano. All’alba del 22 settembre colonne di blindati lasciano le città di Bobo, Kaya, Fada N’Gourma, Koudougou, Ouahigouya acclamati dalla folla lungo le strade. Gli ufficiali a capo di diversi corpi si sono cornordinati e hanno deciso di muovere verso la capitale. Sono momenti di grande tensione perché si teme uno scontro fratricida tra le due fazioni dell’esercito. Viene invece intavolato un negoziato. Molti ufficiali delle due parti si conoscono per aver frequentato i corsi insieme. È presente anche il Mogho Naaba, re dei Mossì, come autorità morale riconosciuta da tutti. L’accordo, prevede il rientro nella caserma del Rsp e l’allontanamento a 50 km dalla capitale delle truppe dell’esercito repubblicano.

Ma circa 300 irriducibili si asserragliano nel campo militare Naaba Koom a ridosso del palazzo presidenziale. L’esercito circonda la caserma, e il 29 mattina si odono colpi di obice. Naaba Koom viene bombardato e gli Rsp finalmente si arrendono. Il generale Diendéré era già fuggito e, rifiutato dalle ambasciate di Francia e Usa, si era rifugiato alla nunziatura, per poi consegnarsi alle autorità.

Nei foitissimi depositi del Naaba Koom si trovano anche armi provenienti dalla Costa d’Avorio e dal Togo.

Nei giorni successivi sono rese note intercettazioni telefoniche tra Guillaume Soro, presidente dell’Assemblea nazionale della Costa d’Avorio, e Djibril Bassolé, generale, già ministro della difesa di Compaoré. La casa di Soro a Ouagadougou viene perquisita mentre Bassolé è arrestato per essere giudicato come complice del golpe. Risulta chiaro un fatto gravissimo: la Costa d’Avorio, dove Compaoré è in esilio, ha appoggiato i golpisti.

Michel Kafando viene rimesso alla testa della transizione, è il governo ripristinato. Nel primo Consiglio dei ministri viene formalizzata la dissoluzione del Rsp. Successivamente è rivista la Costituzione e l’articolo 37 che limita i mandati presidenziali è reso non modificabile.

MC 1-16 Burkina 8Niente più come prima

«C’è una frase su tutte le labbra: “Nulla sarà più come prima”». Ricorda Antornine Sawadogo. «Sono d’accordo con questo, ma può essere in meglio o in peggio. Abbiamo appena evitato il peggio con il colpo di stato del 16 settembre. Se il presidente che è stato eletto non terrà conto di tutto quello che è successo, il paese sarà ingovernabile, perché la gente è abituata a sollevarsi spontaneamente, appena c’è una indelicatezza commessa da un’autorità.

Io penso che il nuovo regime deve dotarsi di una dimensione democratica, giocare il gioco della democrazia, dello stato di diritto. Quando la gente si renderà conto che il figlio del povero ha gli stessi diritti di quello del ricco, quando gli operatori economici vedranno che gli appalti pubblici non vanno sempre agli stessi personaggi, o quando si vedrà che studiare in periferia nelle cittadine offre le stesse opportunità che studiare in Europa, la gente sarà un po’ più tollerante».

Non sembra un’utopia? «Tutto questo non è irreale, perché i burkinabè sanno fare la differenza tra quello che lo stato può fare o no. Il problema in Burkina è l’esclusione massiccia di gran parte della popolazione. Politicamente è necessario trasformare il cittadino insorto in cittadino atto a fare il controllo di cittadinanza, a chiedere conto a chi governa, e organizzarsi per fare una censura quando gli eletti stanno deviando e o esagerando, poter dire “fermatevi”. L’insurrezione non può andare al di là dell’espressione cittadina, ovvero saccheggiare, bruciare l’asfalto, distruggere palazzi istituzionali.

Penso che il nuovo regime debba negoziare un periodo di transizione, di grazia, per fare le riforme essenziali, per arrivare a uno stato di diritto: giustizia, educazione, sanità, esercito».

L’avanguardia

«I responsabili dei partiti politici sono burkinabè, capiscono i problemi della gente. Hanno visto come Blaise è scappato. Penso che abbiano imparato la lezione», ci dice Germain Nama. «Nonostante questo, noi non possiamo incrociare le braccia, bisognerà organizzarsi, come contropotere, per pesare nella bilancia e ottenere i cambiamenti qualitativi necessari. La società civile deve restare vigilante, le organizzazioni del popolo, i partiti politici di opposizione, devono avere un ruolo di risveglio di coscienze».

Per questo i media sono particolarmente importanti: «I media burkinabè sono molto critici. Ci differenziamo dai media africani in generale. Come in Costa d’Avorio, Mali, dove c’è molta corruzione nei media. Un po’ anche in Burkina, ma ci sono dei limiti che non sono stati superati. In maggioranza la stampa burkinabè resta una stampa di qualità, impegnata, cosciente, responsabile, ed è questo che ha contribuito a un livello elevato al cambiamento politico che abbiamo avuto. L’insurrezione di ottobre è stata preceduta da un’insurrezione mediatica. Non abbiamo mai fatto regali a Compaoré. Siamo l’avanguardia della lotta per un cambiamento qualitativo in Burkina. La stampa ha giocato il suo ruolo e continua a farlo».

Marco Bello