Castelnuovo Don Bosco


Nella piazza centrale di questo industrioso paese della provincia di Asti, fa bella mostra di sé un’insegna con la scritta: «Benvenuti a Castelnuovo Don Bosco, terra dei santi e del vino». Accostare «santità» e «vino» non appare agli abitanti del paese una dissacrazione. A parte il fatto che Gesù stesso ha fatto uso del vino per darci il più grande regalo che è l’Eucaristia, la coltivazione della vite e l’industria del vino fanno veramente parte della vita della gente e anche dell’infanzia dei loro quattro santi.

Il capostipite dei santi castelnovesi fu san Giuseppe Cafasso che, nel corso del XIX secolo, infuse ad una schiera di sacerdoti della diocesi di Torino la sua spiritualità seria e misericordiosa, favorita da un’attenta relazione con Dio e allo stesso tempo aperta alla carità verso il prossimo, soprattutto ai poveri e agli ultimi. Non per nulla essi vennero chiamati «Santi sociali».
Don Giovanni Bosco fu l’allievo più celebre di san Giuseppe Cafasso, mentre il beato Giuseppe Allamano, nipote di sangue, seppe ereditare in maniera esemplare lo stile di vita e di santità dello zio.

Fin da secoli lontani, l’industria del vino è sempre stata caratteristica di Castelnuovo che, grazie alla sua posizione geografica, si presenta ricca di vigneti che producono principalmente il Malvasia e il Freisa d’Asti. Le sue varie frazioni sorgono infatti su assolate colline, molto favorevoli alla coltivazione di questi vitigni. Introducendo un suo scritto inedito sulla vita del santo zio Giuseppe Cafasso, Giuseppe Allamano così amava descrivere in maniera un po’ poetica il paese nativo: «A dieci miglia circa da Torino, per quella parte che volge a oriente, posa sull’estremo declivio di lunga collina a destra ed a sinistra circondata da ridenti colli ricchi di vigneti che gli fanno nobile corona, con davanti verdeggiante e deliziosa pianura, Castelnuovo d’Asti, paese assai considerevole pel numero dei suoi abitanti e piccolo centro di commercio e di comodità pei molti paeselli che gli stanno vicino».

Giuseppe Allamano non ha mai lavorato nelle vigne, dato che all’età di 10 anni ha lasciato Castelnuovo per Torino per continuare i suoi studi nel Convitto di Don Bosco. Tuttavia i ricordi dei lavori della sua gente sono sempre stati vivi e presenti nella sua mente e hanno plasmato in qualche modo anche il suo carattere e personalità. Per lui la vita dei contadini tra le vigne di Castelnuovo si identificava con laboriosità, lavoro duro e diuturno, e propensione al servizio. Tali caratteristiche avrebbe trasmesso con insistenza ai suoi missionari e missionarie. Diceva loro: «Un missionario che non sappia e non abbia voglia di lavorare, non è un vero missionario». Era sua convinzione che il lavoro rende solidali con le persone umili e attenti ai bisogni dei poveri.

padre Piero Trabucco


La passione di dio

«Abbiate gli stessi sentimenti che furono in Gesù Cristo» (Fil 2,5): l’esortazione di san Paolo ai Filippesi si addice bene all’identità del beato Allamano che, come profeta, ha saputo condividere la «passione» di Dio per l’umanità.

Passione e compassione

Sono molti i testi biblici che ci mostrano come Dio provi affetti ed emozioni, partecipi alle vicende umane ed entri nelle peripezie della storia: «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei sorveglianti; conosco infatti le sue sofferenze» (Es 3,7). È un Dio al cui essere appartiene il «pathos». Egli soffre e sperimenta sentimenti, commozioni, passioni. Dio esprime questo suo essere coinvolgendosi nella storia umana, perché la vera passione è «com-passione», assunzione di responsabilità. È così che la passione di Dio per l’umanità porta all’Incarnazione. Gesù Cristo è risposta d’amore e passione per ogni uomo e ogni donna.

I profeti hanno avuto una comprensione di Dio non teorica, ma reale, fino al punto di lasciarsi coinvolgere totalmente nella sua passione per l’umanità, come Geremia: «Mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre. Mi dicevo: non penserò più a Lui, non parlerò più in Suo nome. Ma nel mio cuore c’era come un fuoco ardente» (Ger 20,7.9). Così il profeta è l’uomo che, in comunicazione con Dio, si identifica con il suo amore per l’umanità, in una partecipazione «appassionata» e «responsabile» agli eventi.

Una vita nella luce del profetismo

L’Allamano è profeta perché è in comunicazione permanente con Dio e da Lui si lascia coinvolgere profondamente. Vive per compiere la sua volontà, come afferma: «Credetemi, c’è niente di più consolante e tranquillo che aver fatto la volontà di Dio».

In forme diverse la Parola di Dio è rivolta all’Allamano, per portarlo alla coscienza di una personale esperienza di Cristo «Missionario del Padre» che è mandato e che manda.

In questa comunicazione, il nostro fondatore viene coinvolto «empaticamente», vale a dire in modo da condividere i sentimenti e la passione di Dio, in un certo senso la sua «sofferenza», per il suo popolo. Alla domanda: «Come dobbiamo amare Dio?», l’Allamano risponde: «Con tutta l’anima. La volontà la diamo tutta a Dio, non volendo che ciò che egli vuole e come lo vuole».

Profeta in ogni attività sociale e apostolica

L’Allamano è attento alle necessità del suo tempo e partecipa alla «passione» di Dio nelle molteplici attività in favore della promozione umana, ispirato dalla celebre enciclica «Rerum Novarum» del papa Leone XIII. Così, attorno al santuario sorgono alcune associazioni che, nella loro denominazione sociale, portano il nome della Consolata, quali: «Pia unione della Consolata fra le operaie-Tabacchi»; «Pia unione della Consolata fra le tessitrici»; «Pia Unione della Consolata fra le operaie del cotonificio Poma»; «Laboratorio della Consolata», per la preparazione professionale e morale di innumerevoli lavoratrici e dirigenti. Inoltre, l’Allamano incoraggia la stampa cattolica, in un momento in cui pochi vi credono, offrendo appoggio morale e aiuti finanziari.

Un altro impulso profetico dell’Allamano lo troviamo nel suo interesse, oltre che per la formazione spirituale e apostolica, anche per quella sociale del clero, che lo porta ad organizzare, nel Convitto Ecclesiastico, corsi di sociologia teorica, diritto finanziario, sociologia pratica. Il periodico «Difesa e Azione» così descrive questa ispirazione: «Possiamo annunziare con viva soddisfazione che il Rev. Can. Allamano, il quale ha sempre avuto un’intuizione precisa dei bisogni dei tempi, intende che il corso di sociologia abbia a formare parte integrante dell’insegnamento del Convitto». Questi corsi hanno la motivazione di fare comprendere ai giovani sacerdoti i grandi movimenti politici, sociali e religiosi del momento, per non rimanere tagliati fuori dai problemi più importanti della diocesi e del mondo.

L’ispirazione profetica più significativa

Gli istituti missionari dell’Allamano costituiscono l’ispirazione profetica più significativa, o meglio, il punto di arrivo di tutte le altre attività che realizza, non tanto come una serie di piccoli progetti, ma come provvidenziale preparazione alla fondazione stessa.

L’ispirazione fondamentale di dare vita agli istituti missionari per l’Allamano non proviene da un’esperienza mistica, o da un’improvvisa illuminazione interiore, ma è frutto della sua capacità di leggere e comprendere le necessità apostoliche del suo tempo (situazione storica sociale e religiosa; persone, avvenimenti, ecc.), e soprattutto della comunione con Dio, centro della sua vita.

L’Allamano è uomo di grande fede e molto realismo. Per esempio, in riferimento alla sua guarigione da molti ritenuta prodigiosa, secondo la testimonianza di padre Lorenzo Sales, l’Allamano confida con semplicità: «Non c’è da pensare che vi siano state rivelazioni; né le cerco né le desidero. Quando ero presso a morire feci promessa, se fossi guarito, di fondare l’Istituto. Guarii e si fece la fondazione. Ecco tutto».

L’Allamano ha le idee chiare ed è convinto che l’opera è di Dio e che è Lui a portarla avanti: «Ecco, questa casa l’ha posseduta fin dal principio Nostro Signore ed è proprio sua, come un campo è del suo proprietario; quindi, non dite goffaggini col dire che il tale o il tal altro l’ha fondata, no, no, è la
Madonna che la fondò, ed il principio è venuto da Nostro Signore».

Figli e figlie dell’Allamano, con gioia continuiamo a contemplare il nostro padre fondatore come «profeta-voce di Dio» che ci invita a condividere con lui la «passione-amore» di Dio in favore di tutta l’umanità.

suor Luz Mery Restrepo González


UMILI, ULTIMI, EUCARISTICI

Domenica 28 agosto, nella casa generalizia delle missionarie della Consolata, le due famiglie fondate da Giuseppe Allamano si sono riunite attorno a mons. Giorgio Marengo, prefetto  postolico di Ulaanbaatar, Mongolia, creato cardinale da papa Francesco nel Concistoro del giorno precedente.

Nella sua riflessione, il neo cardinale, illuminato dalle letture della 22ª domenica del tempo ordinario (ciclo C), ha ricordato aspetti che appartengono all’insegnamento del fondatore, alla tradizione dell’istituto e sono una chiara indicazione su come essere cardinale missionario.

Che avrebbe potuto dire il nostro fondatore se avesse visto un suo figlio, missionario della Consolata, diventare cardinale? La Parola di Dio di questa domenica può rispondere a questa domanda e ci propone tre criteri che non sono affatto lontani dalla spiritualità di Giuseppe Allamano e che devono essere presenti nella vita del cardinale missionario della Consolata.

La prima lettura tratta dal libro del Siracide, parla in modo eloquente dell’umiltà. «Quanto più sei grande, tanto più fatti umi-le perché ai miti Dio rivela i suoi segreti» (cf. Sir 3,18-19); in cambio la condizione dei superbi è descritta come misera. Gesù ha preso l’ultimo posto e, come dice san Paolo, se vogliamo vantarci, dovremmo farlo perché lui ci ha chiamati, e non per altri motivi.

Anche il Vangelo tocca lo stesso argomento quando dice che i poveri, gli storpi, i ciechi e gli zoppi sono i primi invitati al banchetto del Regno (cf. Lc 14,13), e noi siamo quei poveri che sono i privilegiati del Vangelo. L’umiltà quindi, non può mancare nella vita del missionario della Consolata e nemmeno in quella del cardinale missionario della Consolata.

La seconda lettura, una bellissima pagina tratta dalla Lettera agli Ebrei, la voglio leggere in chiave eucaristica perché ci manifesta un aspetto molto tipico della vita del missionario e missionaria della Consolata. L’autore di questo scritto dice che «Non vi siete avvicinati a qualcosa di tangibile né a un fuoco ardente né a oscurità» (Eb 12,18), quelle sono manifestazioni potenti e misteriose del Dio dell’Antico Testamento, ma «vi siete accostati al monte Sion, alla città del Dio vivente… a Gesù, mediatore dell’alleanza nuova» (cf. Eb 12,22-24). Non dimentichiamo che quando ci avviciniamo all’Eucaristia ci stiamo avvicinando a Gesù in persona. Quello che i nostri occhi vedono sono i segni umili e poveri del pane e del vino nel quale Gesù si fa realmente presente alla nostra vita quotidiana. Lui lo fa rispettando fino a tal punto la nostra libertà che in quei segni diventa piccolo e quasi invisibile.

Giuseppe Allamano tutto questo l’aveva nel cuore: l’Eucaristia è il fine della missione, perché come meta abbiamo la costruzione di una comunità convocata attorno alla Cena del Signore, ma è anche il principio perché nell’Eucaristia trova la sua origine la missione come testimonianza, carità e giustizia.

Giuseppe Allamano voleva che i suoi missionari fossero eucaristici perché dall’Eucaristia nasce il servizio verso i più poveri e l’annuncio del Vangelo nei tanti contesti nei quali siamo chiamati a evangelizzare. Anche questo è un criterio valido per il cardinale missionario della Consolata.

Il Vangelo di Luca forse non ha bisogno di spiegazioni perché stabilisce in modo lampante la logica che lo sottende: i nostri posti sono gli ultimi e non i primi. «Non metterti al primo posto, ma vai a metterti all’ultimo perché chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato» (cf. Lc 14,8-11). La logica del Vangelo, che è molto diversa da quella del mondo, si vive stando nell’ultimo posto e non nel primo. E questo vale per tutti noi missionari della Consolata, anche per il cardinale.

Il Signore conclude la pericope con questa frase: «(Al tuo banchetto) invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; sarai beato perché non hanno da ricambiarti» (Lc 14,13-14). Spesso nella vita finiamo sempre per fare qualche calcolo del tipo: «Se sono una persona buona e onesta ho diritto almeno a qualcosa… se faccio un gesto di carità mi dovranno almeno dire grazie».

Un famoso poeta mongolo, morto non molti anni fa, Dashbalbar, scrisse questo verso in una poesia titolata «Sii come il cielo»: «Qualunque cosa ti succeda, sia che ti applaudano o ti insultino, tu sii amplio come il cielo».

Nella nostra vita missionaria ciò che domina non è il calcolo ma la gratuità, uno dei segni più coerenti con la logica del Vangelo dove tutti siamo figli dello stesso Padre «che fa sorgere il suo sole su cattivi e buoni, e fa piovere su giusti e ingiusti» (cf. Mt 4,45).

Gli esempi di chi vive secondo la logica del Vangelo li abbiamo a casa nostra, nei nostri santi: il beato Giuseppe Allamano e le beate Irene Stefani e Leonella Sgorbati. Nei diari di Leonella si riporta una frase che dice: «… ma quando potrò fare un gesto di gratuità pulito, senza attendere niente in cambio?». Lo Spirito l’ha plasmata e alla fine è stata così somigliante al Cristo da versare il suo sangue mescolandolo anche con quello delle sue guardie del corpo che erano di fede mussulmana; morendo ha detto tre volte «perdono».

Nella tradizione orientale i santi sono chiamati «i somigliantissimi» perché assomigliano in tutto e per tutto a Gesù. La vocazione missionaria ci mette nella condizione degli apostoli e ci porta dove il Vangelo non è ancora conosciuto. Là, dobbiamo essere una chiesa umile, eucaristica, ultima fra gli ultimi e costruita secondo la logica del Vangelo. Dobbiamo essere «somigliantissimi»; santi come diceva il fondatore.

Giorgio cardinal Marengo