Biogas, istruzione e salute: il 2023 di Mco


L’anno che sta per concludersi ha visto la realizzazione di diversi progetti, sia nei settori tradizionali per i Missionari della Consolata – cioè la sanità e l’istruzione – sia in settori nuovi, come la promozione di energia pulita. E l’Africa, anche quest’anno, è stata la grande protagonista.

Lo scorso settembre, durante il vertice del G20 a Nuova Dehli, India, diciannove paesi e dodici organizzazioni internazionali hanno lanciato la Global biofuel alliance (alleanza globale per i biocarburanti). L’obiettivo dell’alleanza, di cui fanno parte fra gli altri anche l’Italia, gli Usa, l’India e, fra le organizzazioni, il World economic forum, la Banca mondiale e la Banca asiatica di sviluppo, ha l’obiettivo di promuovere l’uso dei biocarburanti sostenibili@.

I biocarburanti sono un tipo di bioenergia; quest’ultima, si legge nella sintesi del rapporto 2011 sulle fonti energetiche rinnovabili del «Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico», può essere prodotta da una varietà di materie prime di biomassa, cioè materia organica, come i residui forestali, agricoli e zootecnici, alcune colture, la parte organica dei rifiuti urbani, eccetera. Queste materie prime, attraverso vari processi e tecnologie, possono essere utilizzate direttamente per produrre elettricità e calore, oppure per ricavare combustibili gassosi, liquidi o solidi@.

Vecchie delusioni, nuove prospettive

La bioenergia, spiega sul suo sito l’«Agenzia internazionale dell’energia» (Iea, nell’acronimo inglese), rappresenta il 55% dell’energia rinnovabile a livello globale e oltre il 6% della fornitura energetica complessiva.

La moderna bioenergia, riporta ancora la Iea, è un combustibile a emissioni quasi zero, perché – per dirla in modo molto semplificato – l’anidride carbonica che si libera durante la combustione della biomassa si compensa in larga parte con quella che le piante coltivate per creare la biomassa assorbono con la fotosintesi.

All’inizio di questo secolo, i biocarburanti – ad esempio il biodiesel – avevano già ricevuto grandi attenzioni e generato aspettative che si erano però rivelate troppo ottimistiche@.

Le emissioni di anidride carbonica imputabili ai biocarburanti, infatti, non erano poi così basse, considerando la quantità di terra, acqua ed energia necessarie a produrre le piante per formare le biomasse di base. Inoltre, queste piante spesso rimpiazzavano le coltivazioni destinate alla produzione di cibo, provocando aumenti significativi dei prezzi dei prodotti agricoli. Da qui il dibattito, tuttora in corso, sintetizzato dall’espressione food vs. fuel, cibo contro carburante. Si parla oggi quindi di bioenergia moderna e biocarburanti sostenibili proprio in contrapposizione a queste prime esperienze di vent’anni fa e al loro parziale insuccesso.

Biogas e biometano

Anche il biogas rientra fra le bioenergie. Esso, spiega la Iea in un rapporto del 2020, è una miscela di metano, anidride carbonica e piccole quantità di altri gas prodotta dalla digestione anaerobica di materia organica in un ambiente privo di ossigeno.

Una delle tecnologie in grado di produrre biogas utilizza i biodigestori, cioè contenitori o cisterne ermetici nei quali il materiale organico, diluito in acqua, viene scomposto da microrganismi presenti in natura. Altri modi di produzione includono poi la «cattura» del biogas che si forma per la decomposizione dei rifiuti solidi urbani nelle discariche e il recupero dei fanghi di depurazione degli impianti di trattamento delle acque reflue. I fanghi, infatti, possono contenere materia organica e sostanze come azoto e fosforo e, con un ulteriore trattamento, possono essere utilizzati come base per produrre biogas in un digestore anaerobico@.

Il biogas può poi essere trasformato in biometano attraverso un ulteriore processo che rimuove l’anidride carbonica e le impurità. Il 90% del biometano prodotto oggi nel mondo si ottiene con questo metodo, detto upgrading, traducibile con miglioramento, passaggio alla categoria superiore.

Il biogas a Kimbiji

Secondo la Iea, 2,7 miliardi di persone nel mondo non dispongono di energia pulita per cucinare e usano biomassa solida: legna da ardere, carbone, sterco bruciato all’aperto, oppure cherosene. Circa un terzo di queste persone vive nell’Africa subsahariana.

Se fossero raggiunti tutti gli obiettivi di sviluppo sostenibile, nel 2040 il biogas potrebbe fornire energia pulita per cucinare a ulteriori 200 milioni di persone, metà delle quali in Africa, riducendo così l’inquinamento domestico causato da fornelli inefficienti e inquinanti che, secondo i dati del 2018, è direttamente collegato a circa mezzo milione di morti premature annuali nell’Africa subsahariana e a 2,5 milioni a livello globale.

Anche a Kimbiji, villaggio a circa quaranta chilometri a sud di Dar Es Salaam, in Tanzania, i missionari della Consolata registrano questa mancanza di alternative al carbone e alla legna da ardere come combustibili per cucinare. Per questo, padre Domnick Otieno, missionario di origine
keniana che lavora a Kimbiji da quasi tre anni, ha proposto di realizzare un biodigestore da alimentare con gli scarti generati dalla piccola porcilaia realizzata nel 2022 con il contributo della Caritas italiana. Questa ne ha sostenuto la costruzione per permettere a un gruppo di giovani locali di avviare un’attività generatrice di reddito.

«Siamo consapevoli», scriveva padre Domnick lo scorso marzo, «che una parrocchia dovrebbe essere un luogo di trasformazione nella società, un luogo in cui le persone imparano anche a prendersi cura dell’ambiente. L’installazione del biogas nella missione ci permetterà di avere sufficiente gas per l’uso domestico e potremo abbassare la retta per l’asilo, così i genitori dei nostri ottantasei alunni non dovranno più portare legna e carbone per pagare la parte di retta che non possono coprire in denaro. Il sistema a biogas offrirà inoltre a coloro che verranno alla missione la grande opportunità di conoscere l’importanza di questa fonte per ridurre l’inquinamento».

Scuola ad Alaba

Etiopia, istruzione in affanno

L’Etiopia, riporta il Fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia (Unicef), ha fatto progressi significativi verso l’istruzione primaria universale, con l’88,7% dei bambini iscritti nell’anno 2021/2022@.

Ma alcuni studi del ministero dell’Istruzione etiope e i risultati degli esami per l’accesso all’università di quest’anno costringono a ridimensionare questo dato incoraggiante.

Secondo Africanews, il sito di notizie legato alla rete televisiva Euronews, solo il 3% degli studenti etiopi di scuola secondaria ha passato l’esame di ammissione all’università@, mentre il ministero fa sapere che l’85,9% delle scuole elementari e medie e il 70,9% delle scuole superiori in Etiopia sono «completamente al di sotto degli standard@».

«I risultati peggiori», riferisce padre Marco Marini, missionario della Consolata in Etiopia, «sono spesso nelle scuole private, anche se le scuole cattoliche continuano a mantenere un buon livello e quindi un buon nome».

Ad Alaba, 250 chilometri a sud della capitale Addis Abeba, i missionari della Consolata gestiscono una scuola con 730 alunni, seguiti da quattordici maestri; ci sono poi otto persone che svolgono altri servizi, dalla segreteria alla sicurezza. Le classi vanno dall’asilo alla quinta, ma i missionari intendono attivarne altre, fino all’ottava (equivalente alla nostra terza media, ndr), che è l’ultima del ciclo primario.

L’intervento realizzato ad Alaba ha permesso di fornire alla scuola quarantacinque banchi necessari per avviare la sesta classe e per sostituire quelli danneggiati nelle classi già esistenti. «In Etiopia – spiega padre Marco -, i banchi per la scuola sono pensati per tre studenti e hanno una struttura in ferro su cui sono poggiati i ripiani in legno che servono per scrivere e sedersi. I nuovi banchi possono quindi accomodare un totale di 135 studenti. Li ha realizzati la falegnameria della missione di Shashemane, a sessanta chilometri da Alaba».

Studenti in cortile della nuova scuola di Alaba

Kenya, la sanità fra riforme e vecchi problemi

Secondo i dati dell’Organizzione mondiale della sanità (Oms), il Kenya ha oggi un’aspettativa di vita di 66,1 anni, circa 7 anni sotto la media globale, ma 12,2 anni in più rispetto all’anno 2000@. Tuttavia, si legge nel rapporto 2022 dell’ufficio dell’Unicef in Kenya@, la povertà rimane alta e interessa 16 milioni di persone, cioè un keniano su tre. La metà della popolazione – 23,4 milioni di persone (o addirittura quasi 29 oggi, ndr), di cui 11,7 milioni sono bambini – non ha accesso a servizi di base come assistenza sanitaria, acqua potabile, servizi igienicosanitari, nutrizione e alloggio.

Il Kenya, continua il rapporto, si è impegnato a porre fine alla diffusione dell’Hiv/Aids, che è una minaccia sempre attuale per la salute pubblica, e alle gravidanze delle adolescenti entro il 2030. Se gli sforzi per garantire agli adulti l’accesso alle terapie per il trattamento dell’Hiv sono stati efficaci, tante infezioni nelle persone più giovani non vengono rilevate né trattate. Si stima che quasi 38mila bambini e adolescenti affetti da Hiv non siano in terapia.

Inoltre, secondo il ministero della salute keniano, come riportava lo scorso anno il giornale The Nation, una su cinque adolescenti fra i 15 e i 19 anni è madre o è incinta.

Uno studio pubblicato su Health economic review, rivista del gruppo anglo-tedesco Springer nature, rivela che solo un quinto dei keniani è coperto da una qualche forma di assicurazione sanitaria@ privata o pubblica (il Nhif, National health insurance fund del ministero della Salute, iniziato nel 1966, però collassato a causa della corrotta amministrazione di questi ultimi anni, ndr). Diverse testimonianze dirette da parte di missionari della Consolata, oltre a confermare sul campo questo dato, riportano che, di fatto, soltanto pagando è possibile ottenere cure adeguate.

Recentemente, il governo@ ha lanciato una riforma del fondo che però sembra peggiorare la situazione. Prima della riforma, i keniani pagavano dal loro stipendio o in forma volontaria cifre che andavano da 150 a 1.700 scellini keniani al mese (da poco meno di un euro a circa 11 euro) per il Nhif. Il nuovo fondo prevede un contributo minimo pari al doppio e, per i lavoratori dipendenti, un maggior prelievo percentuale sulla retribuzione.

Troppe persone oggi non hanno un lavoro regolare che dia loro diritto al Nhif o permetta loro di acquisirlo in forma volontaria e, tantomeno, di accedere alle cure sanitarie a pagamento.

Timbwani, la nuova clinica

Una delle zone in cui la povertà è più diffusa è la periferia di Mombasa, grande città portuale sull’Oceano Indiano, dove i missio-
nari della Consolata sono presenti a Likoni e a Timbwani, sulla costa sud oltre lo stretto che separa dalla città antica. Proprio a Timbwani, i missionari hanno di recente completato la costruzione di una nuova struttura sanitaria.

L’aiuto richiesto a Missioni Consolata Onlus dal responsabile, padre Joseph Waithaka, riguarda l’acquisto e installazione di mobilio e attrezzatura per la sala consultazioni, per il triage, per la sala delle cure prenatali e di materiale per le consultazioni pediatriche. La clinica di Timbwani lavorerà di concerto con il dispensario di Likoni, di cui è di fatto un’estensione, e avrà un bacino di utenza di circa 10mila persone. «Chi vive nella zona di Timbwani», scriveva lo scorso marzo padre Waithaka, «deve prendere il traghetto e attraversare lo stretto per raggiungere la struttura sanitaria pubblica più vicina. Questo nuovo centro sanitario ci permetterà di offrire assistenza ai malati e programmi di consulenza ai giovani tossicodipendenti e alcolisti». Mombasa si trova, infatti, su una delle nuove rotte del traffico mondiale di eroina e questo ha reso il Kenya un paese non solo di transito, ma anche di consumo@.

Chiara Giovetti




L’ad gentes della cooperazione

testo di Chiara Giovetti |


Salute mentale in Costa d’Avorio, biogas per le scuole del Kenya, rifugiati venezuelani in Brasile. Sono tre degli ambiti nei quali i missionari della Consolata si impegneranno in questo 2020,  cercando di coniugare la più che centenaria esperienza di lotta alla povertà con gli attuali temi dell’inclusione e dell’ambiente.

(© AfMC/Ariel Tosoni)

1. Costa D’Avorio

La malattia mentale, terra di nessuno della sanità

«Si può dire che i malati mentali siano l’ad gentes del mondo della salute: quelli che nessuno ha ancora avvicinato, di cui nessuno vuole occuparsi». Padre Matteo Pettinari, missionario italiano che lavora a Dianra, Costa d’Avorio, usa questa immagine per sottolineare come la salute mentale sia ancora un ambito inesplorato e ai margini, così come ad gentes indica appunto la missione che si rivolge a chi ancora non è stato raggiunto dall’annuncio del Vangelo.

Insieme ai confratelli padre Ariel Tosoni, argentino, e padre Raphael Ndirangu, kenyano, padre Matteo ha avviato un dialogo con la sanità pubblica ivoriana, in particolare con il professor Asséman Médard Koua, direttore dell’ospedale psichiatrico di Bouaké – struttura sanitaria che si occupa della salute mentale di tutta la regione settentrionale del paese – e con la sua équipe. «L’ospedale in cui il professor Koua lavora», spiega padre Ariel, «dovrebbe gestire i pazienti psichiatrici di un bacino d’utenza pari a undici milioni di persone».

Numeri in linea con quelli riportati sul sito di Samenta-com@, il progetto di salute mentale comunitaria lanciato dal ministero della Salute e igiene pubblica ivoriano e dalla tedesca Mindful-Change-Foundation.

In Costa d’Avorio, si legge sul sito, a partire dal 2002 la popolazione è stata colpita psicologicamente e socialmente dalle varie crisi, cioè dai disordini e conflitti che hanno scosso il paese nel primo ventennio del XXI secolo. L’offerta e l’accesso alle cure per la salute mentale sono limitati: due ospedali psichiatrici pubblici e circa trenta psichiatri per oltre 26 milioni di abitanti.

Secondo i dati dell’Organizzazione mondiale della sanità, le persone colpite da disturbi mentali e neurologici sono presenti in tutte le regioni del mondo, in tutti i contesti sociali e in ogni fascia d’età, indipendentemente dal livello di reddito dei loro paesi. A livello mondiale, il peso di questi disturbi sul carico complessivo delle malattie è del 14%; nei paesi a basso reddito tre su quattro pazienti affetti da tali disturbi non hanno accesso alle cure di cui hanno bisogno.

(© AfMC/Ariel Tosoni)

«Chi li aiuterà se non voi?»

In Costa d’Avorio esiste un coordinamento chiamato Urss-Ci, acronimo di Unione dei religiosi e delle religiose nella salute e nel sociale in Costa d’Avorio, del quale i missionari della Consolata sono parte. «Il professor Koua ci ha avvicinato in quanto membri Urss-Ci», spiegano ancora i padri Matteo, Ariel e Raphael. «La sanità pubblica fatica a seguire questi malati, ci ha detto il medico: se anche voi religiosi impegnati nell’ambito sanitario restate prigionieri di timori e remore e li rifiutate, allora chi li aiuterà?».

A questo primo dialogo è succeduta poi una sessione di formazione che lo psichiatra ha tenuto al centro sanitario Beato Joseph Allamano (Csja) di Dianra, gestito dai missionari della Consolata, e l’avvio di una collaborazione che ha coinvolto anche il neonato Distretto sanitario di Dianra per mezzo del suo direttore.

Sono già attivi alcuni servizi che permettono di seguire pazienti affetti da epilessia e da malattie psichiatriche: tutte persone che la comunità emargina perché le considera possedute.

«Fin dalla prima visita del professor Koua al centro sanitario», racconta padre Matteo, «abbiamo toccato con mano l’urgenza di fornire servizi in questo ambito. Noi missionari non avevamo fatto preventivamente una grande pubblicità alla cosa. Avevamo giusto segnalato, durante la messa e nelle comunità di base, che sarebbe venuto un medico specializzato in salute mentale e che, se qualcuno conosceva persone con disturbi di questo tipo, poteva farle venire per una consultazione: si sono presentate 72 persone solo il primo giorno».

Oggi il centro di Dianra lavora applicando un protocollo e utilizzando schede fornite da Samenta-com; offre consultazioni ai pazienti per identificarne con precisione, sulla base di una serie di domande contenute nelle schede, il tipo di disturbo e definire poi la terapia.

(© AfMC/Ariel Tosoni)

Formare operatori

ll 2020 sarà dunque l’anno in cui si penserà a come dare maggior forma, struttura ed efficacia a questa collaborazione appena partita e già così significativa. «Certo», riconoscono i missionari di Dianra, «non possiamo fare un centro psichiatrico. Ma se già con la formazione del nostro personale sanitario siamo in grado di accompagnare diverse di queste persone che prima erano lasciate ai margini, perché non pensare a uno spazio piccolo e semplice da costruire – ad esempio un appatam, la versione locale della paillote – che diventi una sorta di centro dove i pazienti possano svolgere attività diurne?».

Lo spazio, per come lo stanno concependo i missionari, potrebbe ospitare corsi di teatro, danza e varie forme di arte-terapia che vanno dalla pittura alla musica e alla scrittura, e diventerebbe un luogo dove, anche grazie all’aiuto di volontari, si ferma la dinamica di emarginazione e ci si sforza, viceversa, di invertirla, riavvicinando di nuovo i pazienti psichiatrici al resto della comunità attraverso l’arte come strumento di socializzazione.

Immagini della costruzione dell’impianto di biogas finanziato dalla Caritas italiana nel 2019 (© AfMC/Denis Mwenda)

2. Kenya, il biogas

Energia pulita per le scuole

La ricerca di fonti energetiche rinnovabili resa urgente negli ultimi anni dalla necessità di limitare le emissioni di anidride carbonica ha portato maggior attenzione sulle cosiddette biomasse, di cui fanno parte i rifiuti biodegradabili derivanti dall’agricoltura e dall’allevamento. Il biogas può essere prodotto a partire da questi rifiuti e utilizzando i cosiddetti digestori.

I digestori, spiega la Fao, sono grandi serbatoi in cui il biogas viene prodotto attraverso la decomposizione di materia organica mediante un processo chiamato digestione anaerobica. Sono chiamati digestori perché il materiale organico viene «mangiato» e digerito dai batteri per produrre biogas@.

Nel 2019, una delle strutture educative gestite dai missionari della Consolata in Kenya, la scuola materna e primaria Familia Takatifu (Santa Famiglia) di Rumuruti, in Kenya, ha utilizzato questo metodo per dotarsi del gas necessario a soddisfare il fabbisogno di energia della cucina che serve gli oltre 700 allievi della scuola.

Il progetto, finanziato da Caritas Italiana nell’ambito del suo programma che sostiene ogni anno centinaia di microprogetti nel mondo, si è concluso lo scorso gennaio e ha visto diverse fasi: lo scavo dello spazio dove collocare il digestore, la costruzione di quest’ultimo in cemento, l’introduzione della biomassa nel digestore, la sua messa in funzione per la produzione di biogas e l’installazione nelle strutture della scuola di un impianto in grado di portare il gas dal punto dove viene prodotto alla cucina.

Immagini della costruzione dell’impianto di biogas finanziato dalla Caritas italiana nel 2019 (© AfMC/Denis Mwenda)

I vantaggi del biogas

«La scuola ora usa il sistema a biogas per la cottura dei cibi, la bollitura dell’acqua e anche, in parte, per l’illuminazione», riporta il responsabile di progetto padre Denis Mwenda Gitari. «Il residuo prodotto, inoltre, si può usare come fertilizzante per l’orto della scuola e», conclude il missionario, «il biogas ci permette ora di risparmiare sui costi necessari a garantire la qualità e la continuità delle attività scolastiche».

Già nel 2013 a Familia ya Ufariji, la casa per i ragazzi di strada che i missionari della Consolata gestiscono nella capitale Nairobi, si era installato un biodigestore che usava scarti e rifiuti della struttura integrati con quelli derivanti dall’allevamento di sei mucche e tre vitelli@. Nel corso del 2020 si tenterà poi di portare il biogas anche nella scuola primaria di Mukululu.

Le tecnologie per la produzione di questo tipo di energia si sviluppano continuamente e cercano di adattarsi alle esigenze e al potere d’acquisto delle comunità rurali dove vengono utilizzate. Il Fondo internazionale per lo sviluppo agricolo delle Nazioni Unite (Ifad) promuove, nel suo portale dedicato alle soluzioni per lo sviluppo rurale individuate dalle comunità locali@ , un sistema per la produzione di biogas che è più flessibile@ perché utilizza plastica e non cemento per costruire digestori trasportabili, facili da installare e rapidamente produttivi.

Costruzione dell’impianto di biogas per la scuola Familia Takatifu a Rumuruti (© AfMC/Denis Mwenda)

 


3. Boa vista

La migrazione venezuelana

La situazione politica ed economica del Venezuela non ha ancora smesso di spingere migliaia di persone a emigrare. L’Alto Commissariato Onu per i rifugiati parla di 4 milioni e mezzo di migranti e rifugiati Venezuelani nel mondo@.

Alimentação crianças – alimentazione dei bambini (© AfMC/Jaime Patias)

Il reportage di Marco Bello e Paolo Moiola, di cui nel numero scorso di MC è uscita la prima puntata@ – vedi questo MC pag. 10 -, ha raccontato la vita dei migranti venezuelani arrivati nello stato brasiliano di Roraima e, in particolare, delle oltre 630 persone che vivono in uno spazio occupato e autogestito a Boa Vista. Ka Ubanoko, questo il nome dello spazio, ospita 150 famiglie indigene in prevalenza di etnia warao, ma ci sono anche gruppi E’ñepa, Cariña, Pemon e 76 famiglie non indigene.

Un’équipe itinerante di missionari della Consolata assiste questi rifugiati e migranti: da fine luglio 2019, cento bambini e venti adulti hanno cominciato a ricevere ogni martedì e venerdì un pasto preparato sul posto da volontari. I fondi per l’intervento sono venuti da donatori privati che sostengono direttamente l’Istituto missioni Consolata (Imc), da benefattori della città di Boa Vista e da alcune parrocchie del Sud del Brasile più sensibili alla situazione dei migranti e dei rifugiati.

Dallo scorso dicembre, grazie al sostegno di un donatore statunitense, è stato possibile intensificare e stabilizzare il programma di lotta alla malnutrizione, estendendolo a 12 mesi (cioè per tutto il 2020) e aumentando fino a 150 i bambini e a trenta gli adulti assistiti.

(© AfMC/Jaime Patias)

Bambini sradicati

«Una delle conseguenze più preoccupanti di questa situazione», riportava lo scorso autunno il consigliere generale Imc, padre Jaime Patias, al rientro dalla sua visita a Ka Ubanoko, «è che questi bambini, completamente sradicati, non riceveranno per mesi, forse per anni, alcuna forma di istruzione». Uno dei rischi connessi alla crisi venezuelana, in altre parole, è quello di far crescere una generazione di giovani privi di formazione e di competenze, limitando molto le loro possibilità di contribuire in modo attivo alla ricostruzione del loro paese.

Alimentação crianças – alimentazione dei bambini – volontari al lavoro per preparare il cibo (© AfMC/Jaime Patias)

Per questo, prima del pasto, i bambini seguiti dall’équipe missionaria ricevono almeno una formazione civico-sociale. Nel corso del 2020 si valuterà la fattibilità di un intervento il cui obiettivo sia quello di fornire a questi bambini una formazione più continua e strutturata.

Chiara Giovetti