Il mondo al pronto soccorso


Il clima, la pandemia, la situazione in Ucraina precedente alla guerra. Tre film documentari sulle tre emergenze che, in modi diversi, stanno scuotendo il mondo. Quando il linguaggio cinematografico aiuta a guardare le cose per farsene carico.

A riveder le stelle

Emanuele Caruso, classe 1985, è un regista di cui si parla parecchio da alcuni anni, e non a caso.

Di origini siciliane e radici albesi, Caruso rappresenta, sia nella forma che nella sostanza, una sorta di piccola nuova frontiera della produzione cinematografica di casa nostra. Ha prodotto, tra il 2014 e il 2018, due film (E fu sera e fu mattina e La terra buona) finanziati interamente da compagne di crowdfunding di grande successo e, nonostante lo scetticismo che accompagna spesso chi ha il coraggio di buttare il cuore oltre l’ostacolo, anche nelle sale cinematografiche il pubblico ha risposto con un entusiasmo che ha di molto superato le attese.

Il 2 marzo, a Domodossola, è stata la volta della prima nazionale del suo nuovo film: A riveder le stelle, prodotto di nuovo con la sua Obiettivo Cinema.

Questa volta Caruso si è cimentato su un terreno già frequentato in gioventù: il documentario d’autore. Un gruppo di sei persone che non si conoscevano prima, tra cui gli attori Maya Sansa e Giuseppe Cederna, e il medico Franco Berrino, fondatore dell’associazione «La grande via», per sette giorni hanno macinato molta strada e scoperto la Val Grande, al confine tra Piemonte e Svizzera, 150 chilometri quadrati di natura selvaggia. A guidare il loro cammino c’era una semplice riflessione, che per il regista rappresenta il filo rosso che lega tutto il racconto: «Stiamo distruggendo il pianeta e nessuno fa niente. Nessuno, sono io».

Sulla pagina web dedicata al film, Emanuele Caruso scrive: «Quando, nei prossimi anni, il cambiamento climatico provocherà la più grande crisi che l’uomo dovrà mai affrontare, volgeremo il nostro sguardo al passato. Guardando indietro, ai tanti errori che con consapevolezza abbiamo commesso negli anni, ci porremo allora un’unica domanda: “Come abbiamo potuto permetterlo?”».

Il film è in distribuzione in alcune sale del Nord Italia, ma è possibile organizzare ovunque si voglia proiezioni per scuole e associazioni.

Tutti i dettagli sono sul sito www.obiettivocinema.com.

Ogni 90 secondi

Restando nell’ambito delle emergenze che ci riguardano tutti direttamente, va segnalato che il 31 marzo, giorno della fine ufficiale dello stato d’emergenza sanitaria in Italia, alle ore 23,30 su Rai1 è andato in onda Ogni 90 secondi. Storie di pronto soccorso tra emergenza e urgenza, un film documentario prodotto dalla Simeu, Società italiana medicina d’emergenza urgenza, firmato dal regista televisivo Davide Demichelis.

Il lavoro è un tributo a quei luoghi – sono 650 i pronto soccorso attivi in Italia -, che nel marzo del 2020 sono stati travolti dalla pandemia.

Uscendo dalla retorica dell’eroismo, Davide Demichelis viaggia da Nord a Sud alla scoperta della prima frontiera della sanità italiana e di chi, con dedizione e una professionalità altissima, permette che i pronto soccorso funzionino al meglio delle loro possibilità.

La forza del film è anche la rinuncia al catalogo delle debolezze del sistema. Quelle le conosciamo. Ciò che non conosciamo abbastanza, invece, sono le storie dei medici, degli infermieri, dei professionisti della medicina d’emergenza.

Li abbiamo scoperti a causa della pandemia, ma loro c’erano prima e ci saranno dopo. Certo per chi ha lavorato settimane di fila senza staccare mai, ha iniziato il turno a febbraio del 2020 e lo ha finito a maggio, nulla sarà davvero più come prima.

Quando la competenza e l’esperienza si fanno servizio e si mettono a disposizione, tutto sembra possibile. Il senso del dovere prende il sopravvento e il pronto soccorso diventa casa e famiglia, il luogo in cui rimarrai fino a quando sarà necessario. Non un minuto di meno.

In chiusura, un medico denuncia chiaramente quanto pesi ancora ciò che (forse) ci siamo lasciati alle spalle, afferma: «Se per assurdo dovesse restare un solo medico al mondo, quel medico sarà un medico di pronto soccorso. Non c’è nessuna alternativa possibile».

Per poter seguire la programmazione del film o organizzare una proiezione, scrivere a ufficio.stampa@simeu.it.

Il documentario è visibile anche sulla piattaforma di Raiplay.

Winter on fire

L’ultima emergenza, dopo quella ambientale e quella sanitaria, con cui chiudiamo questo numero di Librarsi, è la guerra in corso in Ucraina.

Su Netflix dal 2016 è presente un film documentario che ora è tempo, per chi non lo avesse fatto, di vedere. O magari anche di rivedere, perché alla luce degli avvenimenti e dello strano dibattito che circonda il conflitto, la visione di Winter on Fire del regista russo Evgeny Afineevsky può rivelarsi illuminante.

Il film, del 2015, è il racconto di quanto avvenne a Kiev dal novembre 2013 al febbraio del 2014 in Piazza Maidan.

Rileggere quei fatti, che portarono alla fuga del presidente Victor Yanukovic in Russia, oggi ha un sapore diverso. Evgeny Afineevsky compone un puzzle che rende con grande chiarezza la drammaticità di quelle settimane: da una parte c’era una grande fetta di opinione pubblica che voleva avvicinarsi all’Europa per dare all’Ucraina una vera indipendenza da Mosca, dall’altra una politica troppo debole e corrotta per andare fino in fondo e recidere il vincolo con la Federazione Russa.

Il film è crudo. La violenza dei Berkut, i corpi speciali della polizia poi disciolti, sui manifestanti è impressionante. Le scene dei cecchini che sparano sulla folla, che prendono di mira coloro che soccorrono i feriti, riporta alle pagine più buie dell’assedio serbo di Sarajevo. Ciò che però oggi più colpisce di Winter on Fire è la consapevolezza che quella vittoria di piazza è stata tradita di nuovo. A distanza di soli otto anni è ancora la voglia del popolo ucraino di essere Europa a segnare il tragico destino della sua nazione.

Sante Altizio




Ingiustizie che prendono quota


Ecosistemi sconvolti, intere comunità sfollate, denaro pubblico usato a beneficio di pochi. I progetti aeroportuali nel mondo crescono in numero e in violenza ambientale e sociale. E i movimenti locali di opposizione si mettono in rete.

«Ampliaciones, no. En lucha por el clima, la salud y la vida», «No ampliamenti. In lotta per il clima, la salute e la vita». Nel centro di Barcellona e nel vicino comune di El Prat de Llobregat, dove si trova l’aeroporto internazionale Barcelona-El Prat, lo scorso 19 settembre hanno manifestato con questo slogan oltre 10mila persone.

Convocati dalla coalizione Zeroport e dalla Rete per la Giustizia Climatica (Xarxa de justícia climàtica) della capitale catalana, i manifestanti si opponevano al progetto di ampliamento della struttura aeroportuale.

L’aeroporto che rischiava di mangiarsi il delta del fiume Llobregat era al centro di un acceso dibattito politico in Catalogna e in Spagna. Sia la Generalitat catalana (il governo della comunità autonoma) che il governo centrale spagnolo, infatti, sotto la pressione di gruppi imprenditoriali catalani, come il Grupo Godó, avevano stanziato 1,7 miliardi di euro per aumentare la capacità aeroportuale. L’obiettivo era quello di passare dai 55 milioni di visitatori e turisti annuali in epoca pre Covid a 70 milioni (alcuni hanno perfino parlato di 100 milioni). Più turismo, trasporto più rapido, più servizi, più attrazioni e più shopping tra un volo e l’altro. Il progetto, già traballante al momento della manifestazione, poco dopo è stato dichiarato «sospeso per cinque anni» dal governo nazionale che l’ha escluso dal «Piano aeroportuale spagnolo 2022-2026».

Dallas-Fort Worth International Airport Aerial / flickr.com

Niente interesse generale

Visti gli attuali dati climatici e le previsioni di innalzamento del livello dei mari che hanno da tempo dimostrato l’inevitabile inondazione dell’area dell’aeroporto nei prossimi decenni, il progetto di ampliamento pare segnato da una visione alquanto ottimista. Ed è anche una visione fuori contesto, dati gli impegni di riduzione delle emissioni di CO2 che lo stesso governo spagnolo ha preso nei vertici Onu per il clima. L’aviazione globale è, infatti, uno dei settori più contaminanti in termini di emissioni.

Inoltre, la terza pista in progetto passerebbe nel bel mezzo de La Ricarda, una delle zone paludose del delta del fiume Llobregat più popolate di biodiversità di tutta la penisola iberica, tanto da essere inserita in diverse liste di protezione ambientale a livello catalano, statale ed europeo.

Quella del progetto è, infine, una visione con la quale reti organizzate come la coalizione Zeroport dissentono profondamente anche per questioni sociali. Stanchi, infatti, del turismo di massa che ha sconvolto il tessuto sociale e commerciale di Barcellona, molti cittadini e cittadine rivendicano una maniera diversa di viaggiare e visitare il mondo: lenta, responsabile e attenta alle realtà locali.

Nel mezzo dell’emergenza climatica e con l’attività aeroportuale attualmente in crisi per la pandemia, afferma Zeroport, risulta chiaro che l’ampliamento dell’aeroporto di Barcellona non è un progetto d’interesse generale. Ciò che è in ballo, piuttosto, sono gli interessi di grandi imprese costruttrici d’infrastrutture e degli azionisti di Aena, società spagnola quotata in borsa in mano a fondi d’investimento, proprietaria della maggior parte degli aeroporti del paese. Gli stessi interessi che girano attorno al mondo delle crociere turistiche e delle grandi navi da carico nel porto della città.

Una mappa dei conflitti

Alla manifestazione di settembre a Barcellona ha partecipato anche la rete globale Stay Grounded («Restiamo a Terra»), a dimostrazione del fatto che la tendenza all’ampliamento delle infrastrutture aeroportuali è un fenomeno globale.

Con l’intento di visualizzare tale tendenza, sulla base dei dati forniti dal Center of Aviation (Capa), il gruppo di ricerca dell’Ejatlas (l’atlante della giustizia ambientale) ha identificato più di 350 progetti aeroportuali attualmente in costruzione o interessati da piani di ampliamento, dei quali oltre il 60% in Asia. Molti di essi hanno generato gravi conflitti relativi all’acquisizione di terreni, allo spostamento di persone, alla distruzione di ecosistemi, all’inquinamento e alla salute.

Nell’aprile del 2021 l’Ejatlas ha pubblicato una mappa tematica con più di 80 casi di conflitto e resistenza contro progetti aeroportuali, arricchita da ulteriore informazione cartografica.

Passeggeri e merci

Ma perché si stanno ampliando tanti aeroporti, o costruendo vere e proprie «aerotropoli»1? Possono esserci diverse ragioni, ma tutte legate alla fiducia nell’aumento degli investimenti per rilanciare i settori turistico, mercantile ed energetico. Molti sono, infatti, i progetti aeroportuali volti a far crescere il turismo e il numero dei passeggeri, come l’aeroporto di Chinchero già in costruzione, che mira ad aumentare il numero di visitatori a Machu Picchu in Perù.

La mappa dell’Ejatlas include anche aeroporti cargo, come quelli di Ebonyi e di Ogun Cargo in Nigeria. Quattro casi indicati nella mappa riguardano aeroporti cargo costruiti per la consegna di attrezzature per importanti progetti riguardanti combustibili fossili: l’aeroporto di Komo, ad esempio, per servire il progetto di gas naturale liquefatto (Gnl) della Papua Nuova Guinea; quello di Hoima per supportare lo sviluppo petrolifero sulle rive del lago Albert in Uganda; la pista di atterraggio di Afungi per servire il Gnl del Mozambico e l’aeroporto di Suai che serve piattaforme petrolifere al largo della costa di Timor Est.

Aereoporto di Malpensa / foto Gigi Anataloni

Aerotropoli

Una delle tendenze più eclatanti, soprattutto nel Sud del mondo, è quella delle «aerotropoli»: infrastrutture abnormi, circondate da centri commerciali e industriali, hotel, complessi logistici o collegati a zone economiche speciali. Non si tratta dunque di scali logistici con servizi di comfort, ma di una nuova concezione dell’esperienza aeroportuale. Lo sviluppo delle aerotropoli è iniziato in Europa e negli Stati Uniti negli anni ‘90, in particolare intorno agli aeroporti di Amsterdam, Monaco e Dallas. Ai più grandi progetti di aerotropoli del mondo vengono normalmente assegnate aree di gran lunga superiori alle necessità. Basti pensare a Kuala Lumpur, dove l’aeroporto sorge su 100 chilometri quadrati di terreno, a Denver con uno sviluppo aeroportuale pianificato su 137 km2 e al nuovo aeroporto di Dubai, a cui ne sono stati assegnati ben 140 (la superficie coperta dall’intera città di Napoli è di 119 km2 per 3 milioni di abitanti, ndr).

Tali estensioni sono ufficialmente giustificate dal fatto che le aerotropoli sono motori di sviluppo che galvanizzano la crescita economica per tutti i cittadini. L’obiettivo principale, tuttavia, è massimizzare il commercio e il traffico di passeggeri e di merci al servizio dei profitti delle multinazionali, tra le quali i produttori di aeroplani, le compagnie aeree, quelle petrolifere, di costruzioni, di cemento e asfalto, di sicurezza, i consorzi di grandi hotel e catene di vendita che trattano marchi globali.

I commerci locali di piccole e medie dimensioni sono esclusi.

Essendo grandi progetti infrastrutturali che richiedono, ad esempio, autostrade, collegamenti ferroviari, complessi turistici, le aerotropoli promuovono un ampio processo di espansione urbana e di speculazione immobiliare che finiscono per generare impatti e conflitti socio ambientali a catena.

20/02/2020 Protest in front of Environment Department, Manila – Photo: PAMALAKAYA

Sfollamenti e repressione

L’assegnazione di grandi siti per i progetti aeroportuali, spesso terreni agricoli e zone di pesca, comporta che intere comunità, in alcuni casi migliaia di persone, perdano le loro case e i loro mezzi di sussistenza. In molti dei casi studiati dall’Ejatlas si sono verificati espropriazioni di terre (50% dei casi totali) e sfollamenti coatti (47%).

Molte comunità che hanno resistito hanno subìto diverse forme di repressione da parte dello stato: sgomberi forzati, vessazioni, intimidazioni, arresti, incarcerazioni e violenze che hanno provocato anche morti e feriti. Si sono verificati alti livelli di violenza nel 35,5% dei casi, repressione nel 30% e militarizzazione nel 29%. Alcuni esempi sono quelli dell’aeroporto di Arial Beel (Bangladesh), di Mieu Mon (aeroporto militare in Vietnam) e di Lombok (Indonesia).

In Messico, le organizzazioni locali e la comunità indigena Rarámuri, che si oppongono alla costruzione di un aeroporto a Creel, hanno denunciato come crimine di stato l’omicidio di Antonio Montes Enríquez, un leader indigeno che si opponeva al mega progetto turistico «Barrancas del Cobre», trovato senza vita il 6 giugno 2020. Nei casi degli aeroporti di Bhogapuram e Salem in India si sono documentati casi di suicidi tra le persone che sarebbero state sfollate.

Uno degli episodi storici di violazione dei diritti umani si è verificato ad Atenco nel 2006, zona assegnata a un nuovo aeroporto per la Città del Messico: due giovani sono stati uccisi, 26 donne torturate e stuprate e 207 persone arrestate (12 di loro incarcerate per più di quattro anni durante i quali hanno subito torture). Oggi quel progetto è cancellato, ma l’attuale governo di Andrés Manuel Lopez Obrador non ha abbandonato il sogno della mega infrastruttura: un’altra zona, infatti, è stata identificata per il nuovo aeroporto di Santa Lucia, che causerà conseguenze su altre comunità. Ad Atenco e sul lago di Texcoco, rimangono cicatrici di tralicci, cemento e macchinari abbandonati. L’area permane recintata e l’accesso proibito.

Distruzione di ecosistemi

Nei casi analizzati da Ejatlas si sono registrati paesaggi deturpati (48%), deforestazione (41%) e perdita di biodiversità (32%). Uno dei casi più gravi di deforestazione in Sri Lanka si è verificato nell’area in cui è stato costruito l’aeroporto di Mattala. Nelle Maldive, l’espansione dell’aeroporto di Noonu Maafaru sta portando alla perdita di una vasta area della laguna, mettendo a rischio le tartarughe marine e altre specie. Le mangrovie nella baia di Manila, nelle Filippine, sono già state tagliate per il Bulacan Aerotropolis, mentre in Malaysia le barriere coralline e le praterie di alghe sono a rischio per un secondo aeroporto sull’isola di Tioman. La bonifica del terreno per l’aeroporto di Sanya Hongtangwan, in Cina, è stata interrotta per due anni dopo le denunce per gli impatti sull’habitat dei delfini bianchi cinesi, una specie protetta per il suo alto rischio di estinzione. Il sito per un secondo aeroporto pianificato a Lisbona (Portogallo) si trova nella riserva naturale dell’estuario del Tago, un ecosistema cruciale per l’alimentazione di dozzine di specie di uccelli.

Problemi di salute

Se la costruzione di aeroporti crea impatti sugli ecosistemi, ha ripercussioni negative anche sulla salute umana. Durante la fase di costruzione, si registrano molti casi di incidenti, come all’aeroporto indiano di Navi Mumbai, dove alcuni operai sono rimasti feriti in seguito all’uso di esplosivo per aprire passaggi in pareti di roccia e per livellare il terreno e dove, inoltre, soffrono di alti livelli di inquinamento da polvere. Negli Stati Uniti, i residenti nelle vicinanze dell’aeroporto di Cincinnati/Northern Kentucky hanno intentato un’azione legale collettiva per l’eccessiva polvere, rumore e onde d’urto dovute a esplosioni per la costruzione di un hub di carico.

Una volta che gli aeroporti sono operativi, le comunità limitrofe sono esposte agli inquinanti emessi dagli aerei e ad alti livelli di rumore. Le perdite di carburante per l’aviazione possono contaminare le riserve idriche. Ne sono state documentate in relazione alle strutture che riforniscono due basi aeree statunitensi, Kirtland Afb e Red Hill Bulk Storage Facility alle Hawaii.

Play card demonstration – Simara-Bara (Nepal) – 7/11/2021

Disuguaglianze mondiali

Le ingiustizie ambientali e sociali di cui abbiamo parlato dovrebbero essere inserite in una cartografia mondiale sulle diseguaglianze in termini di possibilità di spostamento e di attraversamento di frontiere, nonché di accessibilità ai beni trasportati negli aeroporti cargo.

Le persone con passaporto europeo possono viaggiare in più di 180 paesi senza visto preventivo, mentre i cittadini di paesi più poveri in molti meno, ad esempio gli afghani solo in 26. Per non parlare poi della capacità di far fronte alle spese per i biglietti aerei. I paesi dove è più alta la percentuale di cittadini che non possono fare viaggi internazionali sono quelli nei quali le persone soffrono maggiormente gli impatti sociali e ambientali dei progetti aeroportuali. A questi aeroporti accedono milioni di persone di altri paesi per turismo e per acquistare beni di difficile (o impossibile) accesso per i residenti locali.

Un altro dato su cui riflettere è quello delle disuguaglianze mondiali di emissioni da trasporto aereo. Le emissioni pro capite di CO2 per il turismo del paese più inquinante (Emirati Arabi Uniti) sono 2.908 volte superiori al paese con meno emissioni (Tagikistan). La maggioranza dei paesi (71%) produce emissioni pro capite relative al settore turistico inferiori alla media globale (242 kg). Ventisette paesi, per lo più in Africa, Medio Oriente e Asia meridionale, registrano emissioni di CO2 pro capite (relative al turismo) inferiori a 50 chilogrammi, il che dimostra che i loro cittadini viaggiano molto poco in aereo. Tuttavia, vi troviamo 419 aeroporti operativi e 113 aeroporti pianificati.

Un esempio è l’India, con pochissime emissioni pro capite relative al settore turistico (17,56 kg) ma con 77 aeroporti principali operativi e 52 in costruzione. Numeri destinati a crescere ancora, tramite il programma del governo per la connettività regionale (Udan) che ha l’obiettivo di «rendere il volo una realtà per l’uomo comune delle piccole città». A tal fine, il governo prevede di costruire altri 100 aeroporti entro il 2024.

Barcelona El Prat Airport 2019 – foto Christine Tyler / Stay Grounded

Le mobilitazioni sociali

La mappa dell’Ejatlas mostra anche una serie di vittorie contro progetti aeroportuali.

Nel 39 per cento dei casi analizzati, la resistenza è stata vista da parte di chi l’ha operata come (parzialmente) riuscita: per l’aumento della partecipazione della popolazione, o per i risarcimenti ottenuti, o, ancora, per le moratorie o cancellazioni dei piani di costruzione. Un esempio famoso in Europa è la resistenza contro il nuovo aeroporto di Nantes, che ha dato vita al movimento zadista (dall’acronimo Zad, zone à défendre, zona da difendere) e alle sue molteplici iniziative di produzione agroecologica, biocostruzioni e attività culturali nei terreni dell’area altrimenti concessionata all’aeroporto.

Tra i casi percepiti come «positivi» rientrano quelli dove le comunità sfollate hanno ottenuto maggiori indennizzi per l’acquisizione di terreni. È questo il caso degli aeroporti di Sentani (Indonesia) e di Bhogapuram (India). Quest’ultimo è un esempio di attivismo che ha ridotto la superficie assegnata al progetto.
In Nigeria, le famiglie agricoltrici espropriate delle loro terre senza preavviso per un aeroporto cargo a Ekiti hanno ottenuto una sentenza del tribunale che ha riconosciuto come illegali le procedure per l’acquisizione forzata delle terre e ha ordinato il pagamento dei danni.

Nella stragrande maggioranza delle storie di successo (80%) la resistenza è iniziata prima dell’inizio dei lavori, e ciò dimostra l’importanza di una strategia preventiva nell’organizzazione sociale. Tuttavia, in molti casi l’opposizione allo sviluppo di un aeroporto provoca lo stallo del progetto piuttosto che l’arresto, come nei casi delle terze piste degli aeroporti di Heathrow (Regno Unito) e di Vienna (Austria).

La possibilità sempre latente che i progetti aeroportuali siano riattivati provoca incertezze e difficoltà presso le comunità interessate, oltre che incontrollabili speculazioni sui terreni limitrofi.

Le domande dei movimenti

Bristol XR in Glasgow – Glasgow (UK) – 3/11/2021

Che cosa chiedono, dunque, i movimenti sociali? In poche parole, ripensare il settore dell’aviazione e la maniera in cui viaggiamo. La coalizione Stay Grounded chiede una moratoria sulla costruzione o ampliamento di nuovi aeroporti, sulle aerotropoli e sulle relative zone economiche speciali che beneficiano di riduzioni fiscali e di regolamentazioni sindacali e ambientali deboli. Chiedono inoltre la fine dei sussidi e delle agevolazioni fiscali a favore delle compagnie aeree. Per non parlare dei piani di salvataggio e cancellazione dei debiti di molte imprese.

Oltre alla politica fiscale e alla spesa pubblica a favore dell’industria dell’aviazione, Stay Grounded segnala anche la problematicità della strategia di mitigazione climatica. Quest’ultima prevede, infatti, che per compensare le emissioni di CO2 le imprese aeree possono comprare crediti di carbone derivanti da programmi di riforestazione o di energia rinnovabile. Un meccanismo interessante che si traduce in iniziative nefaste, come l’implementazione di monocolture di alberi che non garantiscono la biodiversità e che escludono le popolazioni locali dall’accesso ai relativi territori, o la costruzione di dighe idroelettriche che provocano perdita di foreste primarie, sconvolgimenti idrogeologici e sfollamenti coatti.

Queste iniziative non riducono gli impatti sociali e ambientali, ma li rimuovono dalla vista dei loro clienti e li spostano in territori e comunità marginalizzati.

Stay Grounded infine raccomanda cautela nell’affidarsi all’innovazione e alle «soluzioni» tecnologiche, come le ipotesi di sostituire il cherosene con biocombustibili o di costruire aerei elettrici. Mentre, infatti, i biocombustibili si sono già dimostrati inefficienti a livello energetico e problematici a livello ambientale, la conversione di un settore come l’aviazione attuale a tecnologie elettriche sembra del tutto irrealizzabile per l’elevatissima quantità di materiali, metalli ed energia che richiederebbe.

Luton Airport protest Luton (UK) 6/11/2021 Credits: @stevemerchantphotography (stevemerchantphotography.co.uk)

Viaggiare diversamente

C’è bisogno, dunque, di un profondo ripensamento del nostro modo di viaggiare.

Tra le azioni da intraprendere quanto prima rientra la riattivazione delle reti ferroviarie locali e a lunga distanza. Allo stesso tempo, i voli a corta distanza dovrebbero essere limitati, seguendo l’esempio di iniziative come quella di Barcellona che sta cercando di eliminare i voli peninsulari di meno di mille chilometri sostituibili con i treni.

La manifestazione di settembre contro l’ampliamento dell’aeroporto di Barcelona-El Prat, il suo clima festoso e propositivo, con la partecipazione di un ampio spettro di gruppi sociali diversi, dimostra che la volontà di pensare in modo diverso il turismo e la mobilità non manca.

Ciò che ora non deve mancare è la volontà politica di ascoltare e immaginare soluzioni all’altezza dei nuovi contesti sociali, ambientali ed economici che si stanno velocemente formando davanti ai nostri occhi.

Daniela Del Bene

Note:

1- neologismo che unisce i termini «aeroporto» e «metropoli»: indica un’area metropolitana le cui infrastrutture, uso del suolo ed economia sono centrate su un aeroporto.


Atlante della Giustizia Ambientale

Questo articolo fa parte di una collaborazione fra Missioni Consolata e l’Ejatlas (Environmental justice atlas) nell’ambito della quale portiamo a conoscenza dei nostri lettori storie e analisi riguardanti alcuni dei conflitti ambientali presenti nell’Atlante.

Per tutti i casi menzionati nell’articolo sono disponibili nell’Atlas le relative schede informative.

Red Line Bike demonstration A bike demonstration in Vienna 2017. Photo by Christian Bock




Nei panni degli altri: la moda insostenibile


L’industria dell’abbigliamento è ormai da anni al centro di un dibattito dai toni a volte anche aspri, sia per il suo impatto ambientale che per alcuni tragici incidenti sul lavoro, specialmente nel Sud del mondo. Diversi grandi marchi hanno iniziato a mostrare più sensibilità verso questi problemi, ma la mancanza di dati certi sul reale impatto economico e ambientale della moda non aiuta a formulare strategie adeguate, e il rischio di greenwashing è alto.

«Ci sono ovunque indizi evidenti che qualcosa non va, dai fiumi velenosi del Bangladesh e dell’Indonesia ai vecchi vestiti gettati sulle coste dell’Africa orientale alle microplastiche nella nostra acqua potabile. Ma finché disponiamo solo di informazioni spazzatura, otterremo solo azioni spazzatura da marchi e governi per risolvere il problema»@. Alden Wicker, giornalista statunitense fondatrice del blog Ecocult e collaboratrice di diverse testate come il New York Times, Vogue e Wired, riassume così il problema della mancanza di dati certi sull’impatto negativo del settore dell’abbigliamento sull’ambiente e sulle persone.

Sono circolati per anni dati falsi o mai verificati, eppure ripresi anche da fonti ufficiali come le Nazioni Unite o la Banca Mondiale. Che la moda inquini è fuori di dubbio, spiega Wicker, ma sapere quanto e come inquini fa la differenza quando si tratta di decidere come intervenire per limitare i danni.

I dati più riportati benché non sostenuti da prove, a detta della giornalista americana, sono quelli secondo cui la moda sarebbe la seconda industria più inquinante del pianeta, dopo quella del petrolio, e causerebbe il 10% delle emissioni, più del trasporto aereo e marittimo sommati.

Anche la pagina ufficiale dell’Alleanza delle Nazioni Unite per la moda sostenibile@ riporta dati che Wicker reputa tutti da verificare: l’industria dell’abbigliamento e dei prodotti tessili contribuirebbe alla produzione globale per 2.400 miliardi di dollari, impiegherebbe –  considerando tutta la catena del valore – 300 milioni di persone di cui molte donne, sarebbe responsabile del 2-8% delle emissioni di gas serra del pianeta e del 9% delle microplastiche disperse nell’oceano e consumerebbe 215mila miliardi di litri di acqua all’anno.

Kibera, Nairobi, vendita di vestiti usati

Dati meno clamorosi ma più attendibili

Un valore fra 2.250 e 2.500 miliardi di dollari quanto al giro d’affari sembra mettere d’accordo diverse fonti. Per agli altri dati, lo scorso gennaio Wicker ha cercato sul suo blog di fornire almeno un’analisi della credibilità delle diverse stime che collocano il contributo alle emissioni globali del comparto moda nell’intervallo fra il 2% e l’8% riportato dalle Nazioni Unite@. Con tutte le cautele del caso, la giornalista descrive il rapporto del 2017 Pulse of the fashion industry prodotto dai consulenti del Boston consulting group (Bcg)@ in collaborazione con il forum danese Global fashion agenda come la più approfondita analisi realizzata finora, nella quale la quota di emissioni generate da questo settore sono quantificate nel 4,8% per l’anno 2015.

Quanto all’acqua, lo stesso rapporto parla di 79 miliardi di metri cubi consumati, l’equivalente di 32 milioni di piscine olimpioniche, dato ripreso anche dal Servizio di ricerca del Parlamento europeo, che aggiunge un’ulteriore informazione@: per produrre una T-shirt occorrono 2.700 litri d’acqua potabile, quantità sufficiente a soddisfare il fabbisogno di una persona per due anni e mezzo. Settantanove miliardi di metri cubi è una quantità enorme, spiega Wicker, più di quella usata per produrre elettricità, ma è lo 0,87% dei 9.087 miliardi di metri cubi usati complessivamente ogni anno, non il 20% come alcune fonti riportano.

L’idea che la moda sarebbe la più inquinante industria dopo il petrolio, chiarisce inoltre Wicker, viene invece dall’improprio utilizzo di un’affermazione di una studiosa, Linda Greer, riferita peraltro all’inquinamento dell’acqua – e non dell’ambiente nel suo complesso – in una specifica provincia della Cina sulla quale stava effettuando degli studi. In quella zona, aveva rilevato Greer, la seconda industria che inquina di più l’acqua dopo l’industria chimica (e non quella petrolifera) era in effetti quella dell’abbigliamento. Questa sua affermazione circoscritta è stata poi generalizzata, ed è rimbalzata sui media senza mai essere controllata da chi la ripubblicava.

Nella Cop26, la Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, che si è svolta lo scorso autunno a Glasgow, «nessuno ha menzionato la falsa statistica, ora screditata, ma un tempo molto diffusa, che “la moda è la seconda industria più inquinante del pianeta”. Tutti hanno finalmente concordato che è una delle peggiori, e questo è già abbastanza grave», scriveva@ a novembre 2021 la giornalista della sezione moda del New York Times, Vanessa Friedman.

I problemi reali

Sempre secondo il report Pulse of the fashion industry 2017, è da attribuire all’industria dell’abbigliamento la produzione di 92 milioni di tonellate di rifiuti solidi all’anno, pari al 4% del totale mondiale. Secondo le proiezioni del rapporto, le tonnellate di tessili che elimineremo saranno 148 milioni l’anno nel 2030: ogni secondo, stima la Ellen MacArthur foundation, un camion di spazzatura pieno di vestiti finisce in una discarica@.

Come spiegava Wicker su Newsweek nel 2016, le fibre sintetiche sono derivati dei combustibili fossili e hanno tempi di decadimento di centinaia, se non migliaia di anni@.

Quanto invece alle fibre naturali come cotone, lino e seta, o semi-sintetiche create da cellulosa di origine vegetale, come rayon, tencel e modal, una volta gettate in una discarica si degradano ma producendo metano. Non possono essere compostate perché, per diventare indumenti, vengono sbiancate, tinte, stampate, e le sostanze chimiche impiegate in questi processi possono poi passare dal tessuto alle falde acquifere o, in caso di incenerimento, trasformarsi in fumi tossici liberati nell’aria.

Nel gennaio 2022, Lucia Capuzzi raccontava su Avvenire della enorme discarica illegale nel deserto di Atacama, in Cile, e di come la vicina cittadina di Alto Hospicio venga ciclicamente investita dai fumi tossici degli abiti che vengono inceneriti per ridurne la quantità, ormai fuori controllo@.

Il fast fashion contribuisce molto a generare questi rifiuti perché funziona esattamente secondo la logica dell’usare e buttare rapidamente un indumento. Good On You, un sito che valuta i marchi della moda sulla base della loro eticità e sostenibilità e che ha una app per aiutare i consumatori a scegliere i marchi etici, definisce il fast fashion come «abbigliamento economico e alla moda che cattura idee osservando le passerelle delle sfilate o le celebrità e le trasforma a una velocità vertiginosa in capi da vendere nei negozi delle vie dello shopping per soddisfare la domanda dei consumatori». Questi ultimi vengono messi in condizione di acquistare i capi ancora all’apice della loro popolarità per poi scartarli dopo averli usati una manciata di volte@.

Kibera, Nairobi, inquinamento da vestiti buttati

Le condizioni dei lavoratori

Oltre a contribuire all’aumento dei rifiuti, il modello del fast fashion riceve pesanti critiche anche dalle organizzazioni che difendono i diritti dei lavoratori. L’incidente che, secondo diversi osservatori, segna su questo tema uno spartiacque nella consapevolezza da parte dell’opinione pubblica sulle condizioni di lavoro nel settore tessile è quello del Rana Plaza, una fabbrica nella periferia della capitale del Bangladesh, Dhaka, che crollò nell’aprile del 2013 uccidendo 1.132 persone e ferendone altre 2.600, diverse delle quali hanno subito amputazioni e riportato danni permanenti@.

Si è trattato di una tragedia annunciata, commentano Shams Rahman e Aswini Yadlapalli della Rmit University in un articolo del 2021 su The Conversation: «Il giorno prima erano state scoperte crepe strutturali nell’edificio. Le attività ai piani inferiori (negozi e banca) avevano chiuso immediatamente mentre le cinque fabbriche di abbigliamento ai piani superiori facevano continuare a lavorare i loro operai. La mattina del 24 aprile 2013 ci fu un’interruzione di corrente e i generatori diesel in cima all’edificio vennero accesi. Poi l’edificio crollò»@.

La fabbrica produceva vestiti per diverse catene internazionali fra cui, riporta la pagina della campagna Clean Clothes@, Mango, El Corte Inglés e Benetton. Alcune di queste catene, come Benetton, Auchan, Primark, hanno pagato compensazioni, ma non tutte hanno reso noto l’ammontare@.

A otto anni dal disastro, sottolineavano Rahman e Yadlapalli su The Conversation, qualcosa è migliorato, ma non abbastanza: nelle interviste realizzate dai due studiosi, il rivenditore australiano interpellato affermava di acquistare indumenti solo dai produttori che garantivano ai lavoratori condizioni conformi all’accordo sulla sicurezza antincendio degli edifici in Bangladesh, firmato un mese dopo il crollo del Rana Plaza. I produttori bengalesi hanno però rivelato che i controlli di conformità sono spesso «una farsa», dal momento che la limitazione delle ore di straordinario del lavoratore e la presenza di un’infermiera e di un assistente all’infanzia nella struttura duravano solo per il giorno dell’audit.

Jeans di moda, Italia, Torino

Gli sforzi che si fanno

Ci sono diverse fonti per orientare i propri acquisti monitorando gli sforzi che fanno le grandi aziende per rendersi più sostenibili. Una di queste è il già citato sito Good On You, che ha un sistema di valutazione delle aziende@ basato su oltre 500 indicatori relativi a 60 aspetti potenzialmente problematici che riguardano l’ambiente, le condizioni di lavoro e il trattamento degli animali. I punteggi vanno da 1 (evitiamo) a 5 (ottimo), passando per buono (4), è un inizio (3) e non abbastanza buono (2).

Vi è poi il rapporto annuale Fashion transparency index di Fashion revolution@, una piattaforma nata dopo il disastro del Rana Plaza e composta da accademici, addetti ai lavori del comparto moda, rappresentanti dei lavoratori e comuni cittadini. È finanziata per le attività principali dalla Laudes foundation, «lanciata nel 2020, […] per sfidare e ispirare l’industria a sfruttare il suo potere per il bene. Come parte dell’impresa familiare Brenninkmeijer, ci basiamo su sei generazioni di imprenditorialità e filantropia e siamo al fianco delle imprese Cofra e delle altre attività filantropiche private della famiglia»@.

Il rapporto analizza e classifica 250 marchi e rivenditori «in base alle informazioni che divulgano sulle loro politiche, sulle pratiche e impatti sociali e ambientali, nelle loro operazioni e nella catena di approvvigionamento». Il gruppo Cofra include il marchio di prodotti di abbigliamento C&A, che nel rapporto del 2021 rientrava nelle prime dieci aziende più virtuose, mentre Good On You attribuisce a C&A una valutazione di 3 (è un inizio).

Tuxla Gutierrez, Mexico, buxato steso ad asciugare

Un caso virtuoso

Vi sono infine alcune esperienze di rigenerazione avviate da aziende che hanno nella moda sostenibile uno dei loro obiettivi primari, come nel caso di Rifò, un laboratorio di Prato@. La rigenerazione, ha spiegato nel podcast Il mondo alla radio di Vatican News@ il fondatore di Rifò Niccolò Cipriani, è propria del distretto tessile di Prato, dove da cento anni arrivano scarti industriali soprattutto di lana e cachemire che vengono selezionati per colore e qualità, sfilacciati, riportati allo stato di fibra e poi cardati.

L’idea di Rifò, racconta Cipriani, è nata da una sua esperienza come cooperante in Vietnam, che è uno dei principali centri manifatturieri del pianeta nell’ambito tessile: lì si è reso conto che l’industria dell’abbigliamento ha un problema di sovrapproduzione, al quale si aggiunge un parallelo problema di sovraconsumo, per cui le persone comprano di più di quello di cui hanno bisogno e le aziende producono più di quanto le persone comprano.

Rifò utilizza il 92% di fibre rigenerate di cachemire, cotone, jeans e poliestere e offre un servizio di raccolta di vestiti usati in cambio dei quali l’utente riceve buoni per effettuare acquisti sul sito. Un aspetto importante, racconta Cipriani, è quello della valutazione dell’impatto ambientale dei processi di riciclo, che non sempre sono sostenibili. Nel caso della rigenerazione delle fibre usate da Rifò si tratta di un processo meccanico, che richiede poca acqua e nel quale spesso non avviene la ritintura delle fibre con tutto il relativo impiego di prodotti inquinanti necessari per la colorazione. Altro punto chiave è quello della prevendita: Rifò produce solo ciò che viene ordinato, preferendo offrire uno sconto prima di produrre in cambio del tempo di attesa richiesto ai clienti per poter realizzare il prodotto, piuttosto che produrre in eccesso e fare poi i saldi.

Chiara Giovetti




L’emergenza climatica dopo la Cop26. Nero intenso, verde pallido

La Cop26 e un accordo fallimentare  Glasgow e la prevalenza del «bla bla bla».

Giovani e adulti davanti alla questione climatica
Quanto dista Milano da Glasgow?.

Sulla strada sbagliata
Una sfida impossibile (senza equità e solidarietà)

Lo stop alla deforestazione è entrato in un accordo di Glasgow, ma è difficile credere al suo rispetto. Foto Souro Souvik – Unsplash.


La Cop26 e un accordo fallimentare

Glasgow e la prevalenza del «bla bla bla»

Dopo 26 conferenze, paesi ricchi, paesi emergenti e paesi poveri procedono ancora in ordine sparso. Se a parole tutti sono consapevoli dell’emergenza, l’accordo sottoscritto a Glasgow è molto deludente lasciando il mondo in balia del clima e degli interessi particolari dei singoli paesi e delle multinazionali.

Tra il 1700 e il 1800, il carbone è stato il principale combustibile del motore a vapore e della rivoluzione industriale. Glasgow è stata un importante centro di questa rivoluzione e un polo carbonifero fino a metà del secolo scorso. Lo scorso novembre, la città scozzese ha ospitato la ventiseiesima «Conferenza delle parti» (in sigla, Cop26) sui cambiamenti climatici, a trent’anni dal Summit della Terra di Rio de Janeiro (1992). Quello di Glasgow è stato un appuntamento sul quale si sono profuse valanghe di aggettivi e superlativi, ma che si è trasformato – come da più parti paventato – in un fallimento le cui dimensioni e conseguenze sono tutte da valutare. La speranza di tutti (quasi tutti) è di essere smentiti dai fatti, ma – al momento – il tanto criticato «bla bla bla» di Greta Thunberg è stato una sintesi perfetta della lontananza tra la realtà dell’emergenza climatica e la politica.

L’antropocene e la giustizia climatica

Chiunque può rendersi conto che il mutamento del clima fa già parte della vita quotidiana, ovunque nel mondo: aumento delle temperature (in media, più 1,1°C rispetto ai livelli preindustriali, secondo il rapporto dell’Intergovernmental panel on climate change, Ipcc), ritiro dei ghiacciai montani e polari, aumento dei fenomeni estremi (siccità, alluvioni, cicloni tropicali, incendi, frane), deterioramento della salute di oceani e mari (riscaldamento, acidificazione, innalzamento), come racconta anche il rapporto «State of the Climate 2021» (31 ottobre) dell’Organizzazione meteorologica mondiale (Wmo).

Da tempo, la scienza ha individuato la causa e il responsabile del riscaldamento globale (global warming): l’aumento delle emissioni e della concentrazione nell’atmosfera dei cosiddetti «gas serra» (in primis, anidride carbonica, ma anche metano, protossido di azoto, ozono, vapore acqueo e fluorurati) come conseguenza delle attività umane. Per dirla in maniera sintetica: «Più si produce, più gas serra vengono emessi» (Lessico e nuvole, Università di Torino, 2019). Le responsabilità dell’uomo sono così chiare che si è coniato il termine «antropocene» per indicare l’epoca geologica attuale in cui l’ambiente terrestre è modificato dall’azione umana.

Tutti (quasi tutti) gli scienziati concordano sul fatto che il limite da non oltrepassare sia un aumento di 1,5°C ripetto ai livelli preindustrali, come peraltro già previsto dagli accordi di Parigi del 2015. Per raggiungere questo obiettivo occorre diminuire le emissioni di CO2 del 45% entro il 2030 e azzerarle (la cosiddetta «neutralità carbonica») entro il 2050, mete attualmente molto distanti. Come fare, dunque?

L’unica soluzione percorribile è la cosiddetta «decarbonizzazione dell’economia», ovvero una transizione energetica che preveda la progressiva riduzione dell’uso dei combustibili fossili (petrolio, carbone, gas naturale), l’aumento delle energie rinnovabili (da quella idroelettrica a quella solare, con alcuni che includono nel novero anche l’energia nucleare), il risparmio energetico, uno sviluppo più sostenibile. Visti gli obiettivi, si tratta di una sfida tremendamente complessa perché comporta il cambio del paradigma economico oggi dominante, che prevede una crescita infinita in un mondo finito. Misure da prendere, queste, a livello di sistema (governi, multinazionali, organismi internazionali), ma anche a livello dei singoli (per non «depersonalizzare» la questione climatica).

Il problema è: quali paesi possono intraprendere questa nuova strada? Come adottare misure efficaci, rapide e vincolanti, ma non punitive, considerando anche l’aspetto della giustizia climatica? Questa deve prendere in esame non soltanto le emissioni attuali, ma anche quelle storiche (ovvero quelle che hanno prodotto un «debito ecologico» dei paesi ricchi nei confronti di quelli poveri).

Glasgow, sede della Cop26, è stata un’importante città carbonifera come mostra questa foto storica. Foto theglasgowstory.com

La «neutralità carbonica»

Le emissioni sono responsabilità per circa l’80% dei paesi del G20. Sono, pertanto, questi i primi che dovrebbero tagliare drasticamente le emissioni di gas a effetto serra. Purtroppo, tutti i paesi sembrano non guardare più in là dei propri interessi particolari (sia economici che politici), non agendo con l’urgenza e la concretezza che la questione richiederebbe.

La Cina – in termini assoluti il maggiore inquinatore mondiale (con un 60% di energia consumata derivante dal carbone) – è disponibile ad agire, ma con tempistiche diverse (picco di emissioni entro il 2030, neutralità carbonica entro il 2060) e con Xi Jinping (lo scorso 11 novembre incoronato presidente a vita dalla sessione del Comitato centrale del Partito comunista cinese) che ha dato un pessimo esempio disertando sia il G20 di Roma sia Glasgow. Come ha fatto Vladimir Putin che per la Russia, grande esportatore di gas, ha fissato il termine al 2060. Ancora più dilatoria è l’India – terzo inquinatore mondiale e in procinto di diventare il paese più popolato della terra – che ha spostato la propria neutralità carbonica addirittura al 2070.

Gli Stati Uniti del presidente Biden, secondi nella (triste) classifica dei maggiori inquinatori, si sono scusati per il comportamento del predecessore Donald Trump (che aveva ritirato il paese dagli accordi climatici di Parigi e diffuso fake news climatiche) e garantito il dimezzamento delle emissioni entro il 2030 e la neutralità entro il 2050. Come prevede il Green deal (il «patto verde» varato lo scorso 14 luglio) dell’Unione europea la quale deve però convincere la Polonia ultranazionalista, tuttora grande produttore di carbone e refrattaria alle direttive europee.

A conti fatti, con gli attuali impegni politici (ma sarebbe meglio parlare di «promesse politiche»), entro il 2100 l’incremento della temperatura potrebbe essere tra 2,3 e 2,9 gradi Celsius, lontanissimo dal fatidico 1,5 (fonti Climate Action Tracker e Paris Reinforce).

Accordi fragili e nessun miracolo

La «ciambella» dell’economista inglese Kate Raworth che tiene conto dei nove limiti della terra individuati dal Stockholm Resiliance Center. Grafico italiano a cura del sito «duegradi.eu».

Vista la complessità della situazione geopolitica, chiudere la Cop26 di Glasgow con un accordo di alto livello (cioè concreto, efficace e immediato) sarebbe stato un miracolo. E il miracolo non c’è stato. È stato firmato un patto e sono stati sottoscritti alcuni accordi, ma il risultato complessivo è deludente, se non addirittura fallimentare. Questo giudizio ha trovato conferma nelle parole di chiusura di António Guterres: «I testi approvati sono un compromesso – ha detto il segretario generale delle Nazioni Unite -. Riflettono gli interessi, le condizioni, le contraddizioni e lo stato della volontà politica nel mondo di oggi. Fanno passi importanti, ma purtroppo la volontà politica collettiva non è bastata a superare alcune profonde contraddizioni». Ancora più laconico è stato Alok Sharma, presidente della Cop26: «Sono molto lieto di annunciare che ora abbiamo in vigore il patto per il clima di Glasgow, concordato tra tutte le parti qui presenti. […] Direi, tuttavia, che questa è una vittoria fragile. […] Il lavoro duro inizia ora».

Vediamo – dunque – a cosa ha portato la ventiseiesima Conferenza delle parti. In primis, è stato confermato – a parole e con fatica – l’obiettivo di limitare a 1,5 gradi centigradi l’incremento della temperatura.

Un centinaio di paesi ha dichiarato che porrà fine alla deforestazione (che causa circa l’11% delle emissioni di CO2) entro il 2030. Tra questi anche il Brasile amazzonico di Jair Messias Bolsonaro, presidente negazionista e antiambientalista. Nel frattempo, due importanti istituti di ricerca brasiliani – uno pubblico (Inpe) e uno privato (Imazon) – hanno pubblicato dati autonomi, ma drammaticamente coincidenti: per esempio, secondo Imazon, da gennaio a ottobre 2021 la deforestazione dell’Amazzonia è stata di 9.742 km², il 33 per cento in più rispetto all’anno precedente, il dato peggiore da dieci anni.

Un altro gruppo di 105 paesi ha aderito al patto che taglia le emissioni di metano (CH4, gas serra potente anche se di vita breve) del 30% entro il 2030. Tuttavia, gli impegni sono volontari. Inoltre, non fanno parte dei firmatari i maggiori emettitori di questo gas: Russia, Cina e India.

La questione più spinosa riguardava l’abbandono progressivo del carbone, il combustibile fossile più inquinante (30% più del petrolio, 70% più del gas, a parità di energia prodotta). E, a Glasgow, la sottoscrizione del patto sul clima (Glasgow climate pact) da parte dei 197 paesi è stata in forse proprio a causa del carbone, vista l’opposizione di Cina e India, di gran lunga i maggiori produttori e consumatori mondiali di questo combustibile. Il compromesso è stato raggiunto annacquando l’accordo finale attraverso la sostituzione del termine «phase out» (eliminazione graduale) con «phase down» (riduzione graduale, paragrafo 36).

Infine, del tutto irrisolta è rimasta l’annosa questione della finanza climatica. La vecchia promessa di 100 miliardi di dollari all’anno (peraltro ampiamente insufficienti) ai paesi più poveri, non è mai stata rispettata (sono stati soltanto 80 nel 2019, secondo i dati Unep). L’impegno è stato rinnovato (paragrafo 46), ma vedremo se i ricchi apriranno effettivamente la borsa. Ancora peggio è andata la discussione su Loss and damage, cioè sugli aiuti economici ai paesi che, a causa dei cambiamenti climatici, hanno già subito perdite e danni. Il paragrafo 73 dell’accordo di Glasgow si limita a prevedere sul tema un dialogo tra le parti, ma nulla di concreto è stato stabilito.

Questi sono gli aspetti relativi alla finanza che fa capo esclusivamente agli stati. Esiste poi la «finanziarizzazione del clima», ovvero il sistema costruito attorno al «carbon market», introdotto a partire dal 2005. Si tratta di un vero e proprio mercato sul quale si scambia la merce carbonio (CO2) sulla base del principio che il soggetto che inquina oltre i limiti fissati pagherà altri soggetti per progetti di riduzione dell’inquinamento. Attualmente una tonnellata di anidride carbonica costa circa 60 euro. Sul mercato delle emissioni di carbonio i pareri sono contrastanti, ma in generale il meccanismo non è trasparente e può trasformarsi in un incentivo a inquinare per i soggetti più ricchi o meno corretti. Lo stesso papa Francesco ne ha scritto criticamente nella Laudato si’ (al paragrafo 171).

Nel sistema del «capitalismo fossile», la finanza internazionale è oramai divenuto un attore peggiore delle multinazionali. È recente l’idea della creazione di imprese denominate Nac – Natural asset company -, il cui obiettivo sarebbe quello di gestire i benefici derivanti da risorse naturali come foreste, aree marine, terreni agricoli (New York Stock Exchange, settembre 2021). È facile prevedere che nulla di buono arriverà da queste nuove imprese.

Una ferita dovuta alla deforestazione, che rientrerebbe in uno degli accordi firmati alla Cop26. Foto Renaldo Matamoro / Unsplash.

Capitalismo fossile e destino climatico

Davanti a una situazione con così tante variabili e già ai limiti del collasso, risulta arduo avere una visione ottimistica del futuro. Difficile però accettare passivamente il destino climatico, come ha suggerito lo scrittore statunitense Jonathan Franzen (E se smettessimo di fingere? L’apocalisse climatica sta arrivando. Per prepararci, dobbiamo ammettere che non possiamo impedirla, in «The New Yorker», settembre 2019). E certamente, come singoli, possiamo fare molto con comportamenti adeguati, anche se una corrente di pensiero sostiene che l’impegno personale (performative environmentalism) è talmente irrilevante da risultare inutile se non addirittura controproducente (perché trasferisce un problema sistemico sulle azioni di singole persone). Scienza ed economia sono in campo. La scienza sta elaborando strategie di mitigazione (dei cambiamenti climatici) e di adattamento (ai cambiamenti climatici). L’economia – il cui sistema (fondato sul modello del citato «capitalismo fossile») ha spinto l’umanità verso l’antropocene – da tempo studia modelli che tengano conto dei limiti del pianeta. Nel 2009, il Stockholm resilience centre, guidato dal ricercatore Johan Rockström, ha individuato nove limiti fondamentali: gli oceani, il sistema climatico atmosferico, lo strato di ozono stratosferico, la biosfera e la biodiversità, il ciclo idrologico, lo sfruttamento del suolo, il ciclo dei nutrienti (come azoto e fosforo), l’inquinamento atmosferico e le scorie nucleari.

Nel 2012, questi limiti sono stati considerati dall’economista inglese Kate Raworth per elaborare la sua doughnut economics («economia della ciambella»), un’alternativa all’attuale e insostenibile sistema della crescita infinita. La teoria della Raworth prende il nome dalla sua rappresentazione grafica: una ciambella i cui bordi più esterni sono quei limiti bio-geo-fisici del pianeta che l’umanità non dovrebbe mai oltrepassare.

«Se il Prodotto interno lordo resterà al centro dell’attenzione, il nostro futuro sarà triste», ha detto (lo scorso 8 ottobre) ai parlamentari italiani Giorgio Parisi, neo premio Nobel per la fisica. Ancora più drastico è stato il climatologo Luca Mercalli che, in un’intervista, ha avvertito: «La crescita verde non esiste. […] Occorre agire sul modello economico. […] Ci vuole un senso del limite». In altri termini, crescita economica e crescita dell’impatto ambientale non paiono separabili.

La situazione è, dunque, molto complicata. Tuttavia, la scelta peggiore sarebbe quella di proseguire as usual e limitarsi a subire eventi naturali che sicuramente diverranno sempre meno gestibili.

   Paolo Moiola

 

Papa Francesco e l’emergenza ambientale

«Dio perdona sempre, l’uomo qualche volta, la natura mai»

Già con la Laudato si’ del 2015, papa Francesco aveva messo l’ambiente in cima alle sue preoccupazioni. Un’enciclica questa che parla di «cambio di paradigma», ma anche di piccoli gesti quotidiani. L’argomento clima entra in campo al punto 23, con una frase breve ma potente: «Il clima è un bene comune, di tutti e per tutti». L’argomento torna spessissimo negli interventi papali, come nel messaggio per la giornata della Terra (23 aprile 2021): «Vorrei ripetere un detto antico, spagnolo: “Dio perdona sempre, noi uomini perdoniamo di tanto in tanto, la natura non perdona più”. E quando s’innesca questa distruzione della natura è molto difficile frenarla. Ma siamo ancora in tempo. E saremo più resilienti se lavoreremo insieme invece di farlo da soli».

La collaborazione tra gli uomini è un elemento fondamentale. «Riconoscere che il mondo è interconnesso – ha detto Francesco nell’incontro “Fede e scienza verso Cop26” (4 ottobre 2021) – significa non solo comprendere le conseguenze dannose delle nostre azioni, ma anche individuare comportamenti e soluzioni che devono essere adottati con sguardo aperto all’interdipendenza e alla condivisione. Non si può agire da soli».

Contro Francesco

Un papa così impegnato nella difesa dell’ambiente dà molto fastidio al variegato fronte anti Francesco. Per limitarci agli avversari italiani, ricordiamo le reazioni al pur fragilissimo accordo di Glasgow apparse sul sito de La Nuova Bussola Quotidiana e su quelli dei vaticanisti Marco Tosatti e Aldo Maria Valli, tutti accomunati dalla lotta contro la presunta dittatura e contro l’ipotizzato «Nuovo ordine mondiale» paventato – su ogni media planetario disponibile – dal loro mentore, l’arcivescovo Carlo Maria Viganò. Per tutti costoro l’emergenza climatica non è altro che un altro inganno messo in campo dall’élite globalista anticristiana.

Pa.Mo.

Le alluvioni sono uno dei fenomeni metereologici estremi prodotti dal cambiamento climatico. Foto Hermann Trausb-Pixabay.

Giovani e adulti davanti alla questione climatica

Quanto dista Milano da Glasgow?

A Milano, Youth4Climate aveva raccolto le proposte dei giovani per Glasgow. L’accordo della Cop26 è rimasto molto lontano da quelle richieste. La distanza maggiore sembra però essere un’altra: quella fra dentro e fuori, fra adulti nelle stanze dei negoziati e giovani che manifestano per le strade.

Abbandono dei combustibili fossili entro il 2030, maggior peso dei giovani nei processi decisionali e più risorse per garantirlo, introduzione dell’educazione ambientale nelle scuole, solida regolamentazione delle emissioni di carbonio e trasparenza nei finanziamenti per gli interventi che affrontano i cambiamenti climatici.

Sono queste alcune delle richieste emerse dal Youth4Climate: driving ambition («Giovani per il clima: guidare l’ambizione»), l’evento ufficiale che si è svolto a Milano dal 28 al 30 di settembre dello scorso anno e che ha coinvolto circa 400 giovani di età compresa fra i 18 e i 29 anni provenienti da 197 paesi. A rappresentare l’Italia all’evento di Milano sono stati Federica Gasbarro, 26 anni, laureata in scienze biologiche, attivista ed ex portavoce romana dei Fridays for future e ora scrittrice e divulgatrice, e Daniele Guadagnolo, 28 anni, laureato in economia, cofondatore di una Ong italiana attiva nei settori della sostenibilità e della lotta al cambiamento climatico e oggi responsabile del marketing in un’azienda di servizi finanziari. Il forum, insieme all’incontro preparatorio pre Cop, era uno dei due eventi ospitati dall’Italia, che organizzava la Cop26 insieme al Regno Unito.

Il 25 ottobre è stato poi pubblicato il Youth4Climate manifesto, un documento più esteso ed elaborato che fornisce tutti i dettagli sulle idee e le proposte emerse a Milano.

Nel manifesto, i giovani chiedono, ad esempio, di fissare al 2030 il limite per il raggiungimento della neutralità carbonica, cioè il saldo a zero (zero-net emissions) fra i gas serra che vengono emessi nell’atmosfera e quelli che vengono rimossi. Propongono poi un innalzamento dell’attuale (troppo basso) prezzo del carbonio – cioè il prezzo da pagare per emettere una tonnellata di gas serra – in linea con l’accordo di Parigi, che prevedeva un costo fra i 40 e gli 80 dollari a tonnellata entro il 2020 e fra i 50 e i 100 entro il 2030. Fanno un appello per l’immediata rimozione dell’industria dei combustibili fossili, dei suoi lobbisti e degli altri suoi strumenti di influenza dai negoziati in sede Cop e Unfccc (Convenzione quadro Onu sui cambiamenti climatici), ed esigono l’urgente messa in atto di misure per «fermare le perdite e i danni», cioè bloccare la distruzione di interi ambienti naturali, infrastrutture e vite umane causata dal cambiamento climatico: distruzione che è già in atto, ad esempio nei piccoli paesi insulari come Tuvalu, Barbados e Maldive.

Il confronto tra le diverse anime

I partecipanti a Youth4Climate erano stati selezionati dai rispettivi governi – nel caso dell’Italia, attraverso il Ministero per la transizione ecologica (Mite) guidato dal ministro Roberto Cingolani – fra i giovani che erano già attivi in un gruppo, associazione o impresa, e che avevano inviato la propria candidatura attraverso gli appositi canali istituzionali.

Proprio su questo aspetto si è concentrata una delle numerose critiche che l’attivista svedese e fondatrice del movimento Fridays for future Greta Thunberg ha avanzato nel discorso pronunciato proprio allo Youth4Climate: «[I nostri leader] invitano a convegni come questo una rosa di giovani scelti ad arte, così da dare l’impressione che ci ascoltano. Ma non ascoltano».

In una diretta Facebook sulla pagina Ci sarà un bel clima, un progetto parallelo dell’associazione CrowdForest, la dialettica fra varie anime del movimento giovanile per il clima emerge in modo abbastanza rappresentativo.

Youth4Climate, spiegava la moderatrice dell’incontro Clara Pogliani, dovrebbe diventare la rappresentanza istituzionale permanente dei giovani all’interno della Cop26 e di quelle a venire, ma sono in molti ad avere l’impressione che a far sentire con più forza la propria voce e a tentare di cambiare le cose siano stati piuttosto i giovani fuori dalle stanze dei negoziati.

Se si ripeterà come quella di quest’anno, commentava Marco Pitò, ventiduenne attivista del movimento Extinction rebellion Italia, la Youth4Climate sarà solo un’iniziativa di facciata, uno youthwashing senza un reale intento di ascoltare i giovani. Un esempio: la presidenza Cop aveva fissato per il venerdì il giorno di confronto con i giovani sul manifesto prodotto da Youth4Climate, pur sapendo che da due anni le manifestazioni dei gruppi giovanili sono proprio il venerdì e che anche a Glasgow era prevista una marcia. Il risultato è stato che, proprio nella giornata dedicata al confronto con loro, nessuno dei giovani ha partecipato alla Conferenza e a chi ha tentato di entrare dopo la manifestazione è stato impedito l’ingresso.

Lorenzo Tecleme, 20 anni, membro del collettivo DestinazioneCop e del coordinamento italiano di Fridays for future, ha seguito insieme a diversi colleghi gli eventi sia a Milano che a Glasgow e ne ha restituito i punti salienti sia sulla pagina Instagram del collettivo sia nei podcast Buongiorno Milano e Buongiorno Glasgow per il quotidiano Domani.

Anche secondo la sua esperienza, riferiva Tecleme nell’incontro Facebook, i delegati a Youth4Climate non erano stati scelti dai rispettivi governi sulla base di un effettivo principio di rappresentanza scegliendo fra i più esperti e battaglieri membri dei movimenti giovanili.

L’unica proposta davvero dirompente emersa a Milano riguarda l’uscita (phase out) dai combustibili fossili entro il 2030, puntualizzava l’inviato di DestinazioneCop, ed è venuta non a caso da un gruppo di delegati che ha rotto il protocollo – nel quale non era previsto nessun gruppo di lavoro sui combustibili fossili – e, in aperta polemica con gli organizzatori, ha lavorato in modo autonomo giungendo così a formulare una proposta evidentemente più audace di quelle emerse dagli altri tavoli.

In disaccordo con Pitò e Tecleme si poneva invece Chiara Soletti, 34 anni, di Italian climate network, associazione nata nel 2011, membro della rete globale 350.org e osservatore presso la Unfccc dal 2014. Secondo Soletti, è vero che le iniziative come Youth4Climate rischiano di lasciare il tempo che trovano e di essere anche strumentalizzate, così come è vero che i negoziati non esauriscono il lavoro da fare per contrastare il cambiamento climatico, rispetto al quale la società civile, i suoi movimenti e le sue azioni concrete sono imprescindibili. Questo però non autorizza a negare che esistano consolidati meccanismi per garantire la partecipazione dei giovani in ambito istituzionale, a cominciare da Youngo (Youth non-governmental organizations), il coordinamento giovanile all’interno di Unfccc, che ha permesso negli anni di coinvolgere migliaia di persone e di ottenere diversi risultati.

Un lavoratore del carbone, risorsa fossile sulla quale la conferenza di Glasgow ha incassato un clamoroso fallimento. Foto Amir Arabshahi – Unsplash.

Fallimento o bicchiere mezzo pieno?

Guardando le richieste dei giovani, a cominciare da quella sull’uscita dai combustibili fossili, non si può dire che l’accordo di Glasgow raggiunto dalla Cop26 le abbia soddisfatte, certamente non le più importanti e ambiziose. Anche su questo, il giudizio dei diversi gruppi assume varie sfumature: se Extinction rebellion tende a vedere un fallimento, per DestinazioneCop non si tratta di una Caporetto ma certamente di una Conferenza delle parti non all’altezza delle aspettative – nemmeno di quelle degli organizzatori – che ha fatto solo qualche piccolo passo in avanti.

L’aspetto che ha deluso di più è quello del ridimensionamento delle ambizioni sull’uscita dai combustibili fossili. Con un colpo di mano dell’ultimo minuto, ricostruisce DestinazioneCop, l’India ha ottenuto che l’accordo prevedesse non più un’eliminazione (phase out) ma solo una riduzione (phase down) nell’impiego del carbone, oltretutto senza indicare date e applicando questa riduzione non a tutto il carbone ma solo a quello cosiddetto non abbattuto, cioè per il quale non è possibile ridurre le emissioni attraverso tecnologie che permettano la cattura e il sequestro del carbonio. L’accordo parla anche di eliminazione dei sussidi per i combustibili fossili, ma solo per quelli non efficienti, formulazione che lascia spazio a diverse ambiguità. È vero che questo è il primo accordo che parla esplicitamente di carbone e combustibili fossili, ma rispetto alla richiesta di Youth4Climate di abbandonarli entro il 2030 la distanza è siderale.

Fra gli aspetti positivi, invece, DestinazioneCop riporta l’approvazione delle regole mancanti per mettere in pratica l’accordo di Parigi, che dovrebbero fra le altre cose permettere una rendicontazione più trasparente e univoca delle emissioni. È stato poi stabilito un impegno a ridurre del 45% entro il 2030 le emissioni di CO2 e fissato al 2022 l’aggiornamento dei piani quinquennali con le azioni che ogni paese si impegna a compiere per raggiungere gli obiettivi fissati a Parigi. Inoltre, per la prima volta, si è parlato di gas serra diversi dall’anidride carbonica, come il metano, che gli stati sono invitati a ridurre entro il 2030.

Dal punto di vista negoziale, concludeva Lorenzo Tecleme nell’episodio 13 di Buongiorno Glasgow, Cop26 non è stata un flop come Madrid o Copenaghen. I passi avanti ci sono stati e si sono chiusi accordi che si trascinavano da anni. «Ma ciò che è bene dal punto di vista negoziale – riflette il giovane reporter e attivista – è quasi ininfluente dal punto di vista climatico, cioè di quella curva delle emissioni che dobbiamo avere sempre in mente quando parliamo di politica per il clima. La vera ambizione di Glasgow era di riuscire a chiudere il gap, cioè di avvicinare ciò che è ambizioso nei negoziati con ciò che è ambizioso nella realtà. Glasgow, in questo, ha fallito», mettendo in discussione l’idea stessa della Conferenza delle parti e svuotando di credibilità tutti gli impegni e le promesse che sono emerse negli anni dalle varie Cop.

«Sono qui per dirvi che non vi crediamo», ha detto nel suo discorso alla Cop26 la venticinquenne attivista ugandese Vanessa Nakate, «ma anche per supplicarvi di dimostrarci che ci sbagliamo. E che Dio ci aiuti, se non riuscirete».

Chiara Giovetti

Deforestazione. Foto Matt Palmer – Unsplash.

Da «Friday for future» a «Extinction rebellion»

Ribellioni con giustificazione

Il logo del movimento studentesco «Friday for future».

Il Friday for future (Fff) è un «movimento globale di sciopero per il clima» guidato e organizzato da giovani studenti di tutto il mondo. Nasce nell’agosto 2018, quando una studentessa quindicenne di nome Greta Thunberg comincia uno sciopero per il clima. Nelle tre settimane precedenti le elezioni svedesi, Greta si siede fuori dal parlamento del suo paese ogni giorno di scuola, chiedendo un’azione urgente sulla crisi climatica. Presto, altri si uniscono a lei e l’8 settembre Greta e i compagni di scuola decidono di ripetere il loro sciopero tutti i venerdì. Creano l’hashtag #FridaysForFuture e incoraggiano altri giovani in tutto il mondo a unirsi a loro, dando così inizio a una iniziativa unica: lo sciopero scolastico mondiale per il clima.

Il logo del movimento «Extinction rebellion».

Extinction rebellion (Er) è «un movimento decentralizzato, internazionale e politicamente apartitico che utilizza l’azione diretta nonviolenta e la disobbedienza civile per persuadere i governi ad agire con giustizia sull’emergenza climatica ed ecologica».

Il movimento nasce il 31 ottobre 2018, quando diversi attivisti britannici si riuniscono in Parliament Square a Londra per annunciare una Dichiarazione di ribellione contro il governo del Regno Unito. Nelle settimane successive, seimila persone confluiscono a Londra per attuare una serie di azioni di protesta, come bloccare pacificamente cinque grandi ponti sul Tamigi, piantare alberi al centro della piazza del Parlamento e scavare un buco per seppellire una bara che simboleggia la morte del futuro. I ribelli, inoltre, si incollano (letteralmente) alle porte di Buckingham Palace mentre leggono una lettera alla regina.
Tutto questo segna la nascita di Extinction rebellion, la cui «chiamata alla ribellione» diventa rapidamente globale.

 

I due movimenti, che collaborano e si sostengono a vicenda, si differenziano per una serie di aspetti: in primo luogo, Fff nasce dal coinvolgimento di ragazzi delle scuole, mentre Er – i cui fondatori Roger Hallam e Rupert Read hanno 55 anni – coinvolge persone di ogni età.

Inoltre, Extinction rebellion usa metodi di protesta incentrati sull’azione diretta nonviolenta (anche se, a volte, durante le proteste, gli attivisti vengono arrestati). Il movimento offre, inoltre, delle sessioni di formazione su storia della disobbedienza civile, teorie della nonviolenza e informazioni su come «parlare con la polizia, come bloccare una strada e come utilizzare le proprie reti di sostegno».

C.G.

Siti ufficiali dei due movimenti:

Donne indiane; l’India del presidente ultranazionalista Modi – spalleggiata dalla Cina – ha annacquato (eufemismo) gli accordi sul carbone. Foto Maruf Rahman – Pixabay.


Sulla strada sbagliata

Una sfida impossibile (senza equità e solidarietà)

Le conferenze sul clima non porteranno mai a risultati concreti se non si cambia il modello economico e non si inizia a prendere in esame la questione della giustizia.

Lo scorso novembre, per la 26esima Conferenza delle parti (Cop26), sono arrivate a Glasgow circa 30mila persone. Inquieta scoprire che il gruppo più numeroso – 503 delegati – è stato quello inviato dalle imprese produttrici di carbone, petrolio, gas, ovvero i combustibili fossili che sono all’origine della catastrofe climatica. Che fossero lì per convincere i governi che non c’è bisogno di una transizione ecologica troppo stringente?

L’infografica mostra le emissioni procapite di CO2 nel 2019; la Cina, prima per emissioni assolute, scende al settimo posto per emissioni procapite. Grafico del «Centro nuovo modello di sviluppo».

Da Rio a Glasgow

La Cop26 è stata l’ultima tappa di un viaggio iniziato nel 1992, quando tutte le nazioni del mondo si incontrarono a Rio de Janeiro, sotto l’egida delle Nazioni Unite, per discutere di cambiamenti climatici. Durante la conferenza tutti riconobbero la necessità di ridurre le emissioni di anidride carbonica e degli altri gas a effetto serra, ma nessuno accettò di assumere impegni concreti. Come soluzione venne firmato un accordo che conteneva l’impegno a proseguire il confronto tramite apposite conferenze organizzate annualmente. L’accordo assunse il nome di United nation framework convention on climate change (Unfcc), mentre le conferenze si sarebbero chiamate Conferenze delle parti, in sigla Cop, seguite dal numero dell’appuntamento.

L’infografica mostra la distribuzione della popolazione mondiale per impronta di carbonio (tonnellate procapite per anno): il 10% ha un’impronta superiore a quella sostenibile (2,5t/anno) di ben dieci volte, il 40% di due volte. Il restante 50% è sotto della metà. Grafico «Centro nuovo modello di sviluppo».

Fra le conferenze più importanti sono da segnalare la Cop3, che si tenne a Kyoto (Giappone) nel 1997, e la Cop21, che si tenne a Parigi nel 2015. La prima produsse il protocollo di Kyoto che prevedeva l’impegno a ridurre le emissioni di CO2 del 5,2% rispetto al 1990. La seconda, invece, produsse l’accordo di Parigi che prevede l’impegno a limitare le emissioni di gas serra nella misura necessaria a impedire alla temperatura terrestre di crescere oltre 1,5 gradi centigradi rispetto ai livelli preindustriali.

L’accordo di Parigi venne firmato da 197 nazioni più l’Unione europea: praticamente tutti i paesi del mondo. Esso costituisce un classico esempio di soft law, di tentativo, cioè, di ottenere dei risultati non tramite regole vincolanti e punitive, ma tramite meccanismi di persuasione morale e politica. In effetti, al di là dell’obiettivo generale, l’accordo di Parigi non impone ai singoli stati adempimenti obbligatori. Ogni paese che ratifica l’accordo è tenuto a darsi degli obiettivi di riduzione delle emissioni, ma quantitativi e tempistica sono definiti in maniera volontaria. È previsto un meccanismo per forzare i paesi a stabilire i propri obiettivi, ma non sono previste conseguenze qualora gli obiettivi dichiarati non vengano soddisfatti: l’accordo prevede solo un sistema «name and shame», la compilazione di una sorta di lista «della vergogna» in cui inserire  i paesi inadempienti.

Ad oggi, 192 paesi hanno presentato i loro primi obiettivi nazionali di riduzione di gas a effetto serra (in sigla Ndc, Nationally determined contributions). Ad esempio, il documento presentato dall’Unione europea prevede che per il 2030 le emissioni siano abbattute almeno del 55% rispetto a quelle emesse nel 1990. Gli Stati Uniti, invece, per la stessa scadenza, hanno dichiarato di volerle abbattere del 50-52% rispetto ai livelli del 2005. Più ermeticamente la Cina ha dichiarato che, a partire dal 2020, ridurrà del 40% le emissioni di anidride carbonica per unità di prodotto interno lordo. Ha anche dichiarato che aumenterà la quota di combustibili non fossili del 15% e che aumenterà l’area ricoperta a foresta di 40 milioni di ettari. Fra i paesi più virtuosi risulta  la Gran Bretagna che per il 2030 si è impegnata ad abbattere le emissioni del 68% rispetto al 1990. Del resto, già nel 2008, aveva varato una legge che la impegna a raggiungere, entro il 2050, un livello di emissioni nette pari allo zero. Che tradotto significa impegno a non emettere   gas a effetto serra in quantità superiore a quella che i sistemi naturali sono in grado di neutralizzare. Recentemente, anche l’Unione europea e il  Canada hanno fatto annunci nella stessa direzione e anche altri paesi, fra cui Sudafrica, Giappone, Corea del Sud, Cina, hanno dichiarato di voler diventare paesi a zero emissioni entro archi temporali diversificati, che però ruotano sempre attorno al 2050. La Cina, ad esempio, ha dichiarato di voler diventare un emettitore zero per il 2060, mentre l’India ha assunto come data di riferimento il 2070. E, dopo l’insediamento di Biden alla Casa Bianca, anche gli Stati Uniti si sono impegnati a raggiungere zero emissioni nette entro il 2050.

Temperatura, una crescita inarrestabile

Tutti assieme, i paesi che hanno annunciato di voler perseguire l’azzeramento delle proprie emissioni orientativamente per la metà del secolo, sono 131. Un numero importante considerato che complessivamente sono responsabili del 73% delle emissioni globali. Tuttavia, il segretariato dell’Unfccc non è molto ottimista. In un rapporto pubblicato nel febbraio 2021, sostiene che se anche tutti gli impegni dovessero essere rispettati, solo nel 2030 ci si può attendere una lieve diminuzione effettiva delle emissioni di anidride carbonica. Al contrario fino al 2025 continuerebbero ad aumentare. E le conclusioni in termini di gradi centigradi le tira il Climate action tracker, un centro studi internazionale, secondo il quale le riduzioni promesse non riuscirebbero a contenere l’aumento della temperatura terrestre entro il limite di 1,5 gradi centigradi auspicato dall’Accordo di Parigi. A suo avviso, senza impegni più stringenti la temperatura crescerà di 2,1 gradi, se non di 2,6 gradi, entro il 2100.

Secondo gli ambientalisti anche il piano presentato dall’Unione europea è troppo timido. Il 14 luglio scorso, la Commissione europea ha presentato il suo piano particolareggiato di riduzione di emissioni denominandolo «Fit for 55», traducibile come adatto per il 55, ossia la riduzione del 55%. Fra gli obiettivi forti del piano c’è quello di arrivare al 2030 con il 40% di energia elettrica ottenuta da fonti rinnovabili, il miglioramento energetico di 35 milioni di edifici, l’allestimento di una rete su strada di carica batterie, la messa a dimora di tre miliardi di nuove piante. Il piano prevede anche delle forme di tassazione sui carburanti utilizzati per trasporti, industria e attività residenziali, in modo da scoraggiare il consumo di combustibili fossili. Ma, secondo le associazioni ambientaliste, bisognava porsi obiettivi più ambiziosi in ognuno di questi ambiti. Anche se va detto che il grande assente dal piano è la lotta allo spreco e al consumismo. La conferma di come il sistema continui ad illudersi di poter risolvere la crisi ambientale limitandosi al solo cambio di tecnologia. Ma la crisi in atto non è solo climatica, si estende a ogni tipo di risorsa e rifiuto. Per cui potremo avere qualche possibilità di successo solo se all’efficienza abbineremo la sufficienza. Ossia cercheremo di produrre meglio, mentre accetteremo di produrre e consumare di meno.

L’impronta procapite media per classi di reddito: a livello mondiale il 10% più ricco (circa 700 milioni di persone) è responsabile del 49% delle emissioni climalteranti, mentre il 50% più povero (circa 3 miliardi di individui) contribuisce solo per il 7%. Grafico del «Centro nuovo modello di sviluppo».

Un modello da cambiare

Recentemente la Iea, l’Agenzia internazionale per l’energia, ha pubblicato due rapporti: uno sulla strada da perseguire per arrestare la crescita della CO2, l’altro sugli ostacoli che la strada alternativa rischia di incontrare. La strada indicata è di prediligere l’elettricità come fonte di energia, anche per i trasporti, purché generata da fonti rinnovabili. I limiti che però questa strada rischia di incontrare sono legati ai minerali che le nuove tecnologie richiedono, specie per la mobilità elettrica. Rame, litio, cobalto, nickel, sono metalli poco abbondanti, che oltre tutto richiedono molta energia e molta acqua per i processi di lavorazione.

Una chiara ammissione di scarsità che avvalora la necessità di abbandonare il modello consumistico non solo per esigenze di sostenibilità, ma soprattutto di equità. Finché abbiamo tenuto l’attenzione solo sulla nostra parte di mondo ed abbiamo trattato la giustizia sociale come una mera questione interna alle nostre nazioni ricche, ci è sempre sfuggito il nesso fra sostenibilità ed equità. Tanto meno abbiamo sentito il bisogno di mettere in discussione il modello consumista. Al contrario lo abbiamo giustificato, addirittura glorificato considerandolo obiettivo di sviluppo da garantire a tutti. Ma il «tutti» che avevamo in mente non arrivava ai confini del mondo, si fermava ai residenti nella nostra torretta d’avorio. I nostri connazionali erano gli eletti a cui ritenevamo di dover garantire ogni forma di amenità. E abbiamo costruito un mondo ingiusto dove una minoranza ricca fa la parte del leone nel consumo delle risorse, e, ahinoi, nella produzione di rifiuti. A titolo di esempio, i paesi aderenti all’Ocse, tradizionalmente i più ricchi, pur ospitando solo il 18% della popolazione planetaria, consumano il 40% dell’energia prodotta a livello mondiale.

Quanto all’ambiente, non ci siamo mai occupati un granché delle sue sorti: eravamo sicuri che ce l’avrebbe fatta. Le risorse per noi élite c’erano, gli spazi ambientali pure: finché non abbiamo visto i primi segni dei cambiamenti climatici, per noi la questione ambientale non esisteva. Ma oggi che la crisi si è fatta evidente, dobbiamo scegliere che tipo di sostenibilità vogliamo perseguire: se quella dell’apartheid che destina le poche risorse   esistenti al consumismo di pochi, o quella dell’equità che privilegia i diritti per tutti.

Simbolicamente, la scelta è: auto elettrica per una minoranza o beni e servizi fondamentali per tutta l’umanità? Domanda oziosa per i cristiani:   la Chiesa ci ha sempre insegnato a scegliere la giustizia, intesa addirittura in senso estensivo. Ossia riferita non solo ai viventi di oggi, ma allargata alle generazioni del domani che hanno diritto anch’esse a trovare un pianeta ospitale. Diritto di cui potranno godere solo se noi, i loro antenati, sapremo privilegiare la sobrietà rispetto allo spreco. Questa è la responsabilità che ci compete se vogliamo bene ai nostri figli.

Il tema dell’equità richiama prepotentemente in causa un altro valore di fondamentale importanza per poter vincere la crisi climatica: la solidarietà. L’Ipcc, il gruppo di studio sul clima istituito dalle Nazioni Unite, sostiene che per vincere la sfida dell’anidride carbonica andrebbero investiti ogni anno 3.500 miliardi di dollari a livello mondiale, addirittura da qui al 2050.

In effetti, non si tratta solo di rinnovare il modo di produrre energia elettrica, ma anche di riorganizzare la mobilità, di ristrutturare gli edifici, di trasformare i processi produttivi delle industrie altamente energivore e inquinanti come quelle del cemento, dell’acciaio, dell’alluminio.

Clima, questione di tutti

La sfida si presenta così ardua da mettere in difficoltà non solo i paesi più poveri, ma anche i cosiddetti paesi emergenti come Cina, India, Sudafrica. Bisognerebbe smettere di procedere in ordine sparso, ognuno per conto proprio, secondo la logica fatalista del «si salvi chi può». Atteggiamento suicida: il clima è una questione globale e il fallimento anche di uno solo si trasforma in fallimento per tutti. Perciò urge attivare piani di solidarietà che permettano a tutti di ridurre la propria impronta di carbonio. Meccanismi solidi, non affidati al buon cuore. Ma su questo tema c’è ancora molta latitanza.

Un punto fermo si cercò di metterlo nel corso della Cop16 che si tenne a Cancun nel 2010. Venne deciso di costituire un fondo, alimentato dai paesi ricchi, che entro il 2020 avrebbe dovuto mobilizzare ogni anno almeno 100 miliardi di dollari, sia di origine pubblica che privata. Somme da utilizzare a vantaggio dei paesi più deboli per la transizione energetica e la costruzione di opere a protezione delle avversità climatiche. Il 2020 è arrivato, ma l’obiettivo non è stato raggiunto. Gli ultimi dati, relativi al 2019, dicono che la raccolta si è fermata a 79,6 miliardi, per il 37% messi a disposizione dai governi, il 43% dal sistema bancario multilaterale che fa capo alla Banca mondiale e il 20% dal sistema privato. Non si capisce, però, se i soldi versati dai governi siano somme aggiuntive a quelle tradizionalmente versate sotto forma di aiuto o se sono soldi sottratti ad altri obiettivi di cooperazione. Un’opacità che troppi hanno interesse a mantenere per nascondere le proprie inadempienze. Ma è arrivato il tempo di capire che dalla catastrofe climatica o ci si salva tutti o non si salva nessuno. Per questo, la scelta operata a Glasgow di rinviare al 2025 il raggiungimento dei 100 miliardi, non è di buon auspicio.

Francesco Gesualdi

Il mondo brucia (ma i decisori politici ed economici fanno a finta di nulla). Foto Gerd Altmann – Pixabay.


Hanno firmato questo dossier:

  • Paolo Moiola – Giornalista, redazione MC.
  • Chiara Giovetti – Responsabile dell’ufficio progetti di Missioni Consolata Onlus. Per MC cura la rubrica «Cooperando».
  • Francesco Gesualdi – Già allievo di don Milani, fondatore del «Centro nuovo modello di sviluppo», autore di vari libri, per MC cura ogni mese la rubrica «E la chiamano economia».
  • Federica Mirto – Per le foto da Glasgow.
  • Dossier a cura di Paolo Moiola.

Partecipanti di ogni età alla manifestazione «Global day action for climate justice» tenutasi lo scorso 6 novembre nella città scozzese. Foto Federica Mirto.

Sitografia ragionata

Siti italiani divulgativi:

Siti internazionali divulgativi:

 Siti internazionali scientifici:

 Siti negazionisti:

Partecipanti di ogni età alla manifestazione «Global day action for climate justice» tenutasi lo scorso 6 novembre nella città scozzese. Foto Federica Mirto.

Bibliografia essenziale

Libri:

  • Michael E. Mann, «La nuova guerra del clima. La battaglia per riprenderci il pianeta» (New Climate War: The Fight to Take Back Our Planet), Edizioni Ambiente, 2021.
  • Paul Hawken, «Il piano più completo mai proposto per invertire il corso del riscaldamento globale» (Drawdown: The Most Comprehensive Plan Ever Proposed to Reverse Global Warming), Viaggi nel Tempo, 2019.
  • Aa.Vv., «Atlante dell’antropocene», Mimesis Editore, gennaio 2021.
  • Luca Mercalli, Daniele Pepino, «La Terra sfregiata. Conversazioni sul vero e falso ambientalismo», Edizioni Gruppo Abele, giugno 2020.

Report scaricabili dal web:

Donna waorani. Foto Federica Mirto.




Gli incendi bruciano anche il nostro futuro


In Italia, ogni anno, migliaia di ettari di aree boschive sono perse a causa del fuoco. Sei incendi su dieci sono di origine dolosa e criminale. In Siberia e Brasile la situazione è ancora peggiore.

Ogni anno, durante il periodo estivo, sono molte le regioni italiane nelle quali vaste aree boschive sono colpite da incendi. E la situazione sta rapidamente peggiorando. Nell’estate 2021, tra le regioni più interessate da incendi ci sono state la Sardegna, la Sicilia e la Calabria, che hanno registrato il maggior numero di danni, ma anche la Campania, la Basilicata, l’Abruzzo, le Marche, il Molise e la Toscana. Secondo il report di Europa Verde Incendi e desertificazioni, in Italia, dall’inizio dello scorso anno, sono bruciati circa 158mila ettari di boschi e di macchia mediterranea e questo ha ovviamente comportato la morte di migliaia di animali selvatici, nonché la perdita di oliveti e di pascoli. Nel 2021 l’Italia ha detenuto in Europa il record estivo d’incendi, che sono cresciuti del 256%, rispetto alla media storica 2008-2020, secondo i dati Effis (European forest fire information system). Secondo la Coldiretti, 6 incendi su 10 sono di origine dolosa.

Meno agricoltori e zero forestali

La situazione è aggravata dalla dismissione di parecchie aziende agricole, quindi dalla cospicua riduzione del numero di agricoltori, che hanno sempre esercitato un’azione di vigilanza e di gestione del patrimonio boschivo, che in Italia rappresenta un terzo della superficie, per un totale di 11,4 milioni di ettari (di cui il 32% fa parte di aree protette).

Un altro colpo alla sorveglianza e alla salvaguardia delle aree boschive in Italia è stato dato dalla riforma Madia del 2016, durante il governo Renzi, che ha riformato il Corpo forestale dello stato, sotto la spinta della spending review e sostanzialmente privatizzato la flotta dei canadair. Purtroppo in Italia, secondo il «Rapporto ecomafie 2020» di Legambiente, gli incendi scoppiano più frequentemente nelle regioni a forte presenza della criminalità organizzata, che spesso colpisce le aree naturalistiche sotto vincolo, come è avvenuto nella riserva dello Zingaro, in provincia di Trapani, nel Metapontino in Basilicata, nella riserva di Punta Aderci e nelle colline intorno a Pescara, nelle aree protette del Lazio, sulla costiera amalfitana, nella Sila e in provincia di Olbia. In Italia, la situazione è aggravata da due fattori: da un lato l’aumento delle temperature e la riduzione delle precipitazioni, che hanno caratterizzato gli ultimi anni con conseguente siccità sulle foreste, che risultano quindi meno resilienti nei confronti degli incendi; dall’altro gli errori nella scelta delle piante nelle attività di forestazione. Talora, infatti, vengono scelte, per la piantumazione di aree verdi, specie che soddisfano solo le ragioni estetiche, ma sono inadatte a resistere all’impatto climatico. Come capitò nel 2017 quando un incendio colpì le pendici del Vesuvio, dove erano stati piantati dei pini, che nulla avevano a che fare con la flora del territorio, cioè la macchia mediterranea, la quale ha una maggiore capacità di resistere alle temperature locali. In Italia, il pericolo d’incendi ha un andamento stagionale legato al fattore climatico, che influenza il grado di umidità della vegetazione, in particolare di quella erbacea del sottobosco.

Ci sono zone dove il pericolo d’incendio è maggiore che in altre. In base all’andamento meteorologico e climatologico, possiamo individuare due periodi di particolare pericolosità: quello estivo per le regioni del Sud e per la Liguria, e quello invernale per le regioni dell’arco alpino, quindi ancora la Liguria, il Piemonte, la Lombardia e il Veneto.

Ci sono, inoltre, diverse situazioni, che possono favorire lo scoppio di incendi boschivi come l’afflusso turistico, il già citato abbandono rurale delle campagne, particolari attività agronomiche e pastorizie, le vendette e le speculazioni. Queste ultime andrebbero sempre e comunque contrastate in base all’art. 9 della legge 1 marzo 1975, n.47, che vieta l’insediamento di qualsiasi tipo di costruzioni nelle zone boschive distrutte o danneggiate dal fuoco, impedendo così che tali zone assumano una diversa destinazione rispetto a quella avuta prima dell’incendio.

Non sempre però gli incendi sono di origine dolosa, seppure correlati alle attività umane. È stato, infatti, osservato che ad un progressivo aumento del numero dei veicoli circolanti e dello sviluppo viario, corrisponde un progressivo aumento degli incendi boschivi. Si è, inoltre, osservato che molti incendi hanno inizio ai bordi di strade e di autostrade. Anche le linee ferroviarie possono essere responsabili dell’innesco di incendi, quando nelle cunette e nelle scarpate c’è dell’erba secca, che può prendere fuoco per le scintille sprigionate dalle ruote dei treni. Da tutto ciò si evince che non solo è necessario ripristinare il Corpo forestale, rafforzando i nuclei investigativi con risorse umane e materiali adeguate, ma è indispensabile formare personale, che sia in grado di prevenire gli incendi con le tecniche più avanzate, tra cui quella degli incendi volontari controllati («fuochi prescritti»).

Nel resto del mondo

Se la situazione italiana quest’anno è stata drammatica, la mappa elaborata dal Fire information for resource management system della Nasa ci mostra che le fiamme hanno devastato i territori di molti stati nel mondo, soprattutto laddove le temperature estive sono state molto alte a lungo. Nel Sud dell’Europa, oltre all’Italia, sono state colpite la Grecia, la Turchia e la Spagna. Nel Nord Europa, la Finlandia e nell’Europa nord orientale, vaste regioni della Russia meridionale. Oltre oceano sono state interessate da incendi ampie zone del Nord e del Sud America. Nella zona centro meridionale dell’Africa, gli Stati più colpiti sono Zambia, Angola, Malawi e Madagascar. Le fiamme hanno inoltre colpito la penisola arabica e in Asia, le coste dell’India, la Siberia, la Cina e l’Indonesia.

In Siberia, il bilancio degli incendi da cui è stata colpita quest’anno, complici le insolite ed elevatissime temperature (intorno ai 39°C), che hanno interessato per giorni questa immensa regione russa, è superiore a quello disastroso del 2012, in cui aveva perso 181.100 Km2, infatti a metà settembre è stata registrata una perdita di 181.300 Km2 di foresta, ma se si considera che le fiamme hanno colpito anche praterie, canneti e tundra, l’estensione dei fuochi potrebbe essere superiore a 300mila Km2 (cioè un territorio di poco inferiore all’Italia). Gli incendi che colpiscono la taiga siberiana, cioè la più grande regione boschiva del mondo (comprendente quasi un quarto delle foreste del pianeta), sono estremamente dannosi perché non solo rilasciano enormi quantità di anidride carbonica (immagazzinata sia nella vegetazione, che nella torba del terreno) in atmosfera, ma riescono a sopravvivere all’inverno continuando a bruciare nel sottosuolo. Essi, pertanto, restano invisibili fino al rialzo delle temperature, pronti a tornare poi in superficie durante la stagione estiva. Il sistema di monitoraggio satellitare europeo Copernicus ha rilevato una quantità di 970 Mega tonnellate (Mt) di CO2 immessa nell’atmosfera tra giugno e agosto 2021 dovuta solo agli incendi siberiani. Tale quantità aumenta a 1.258 Mt a luglio e 1.384,6 Mt ad agosto, se si considerano le immissioni di CO2 dovute agli incendi, in tutto l’emisfero boreale.

Se in quest’ultimo la maggior parte degli incendi boschivi è legata a incuria, combustione di rifiuti, eventi accidentali, incidenti industriali e talvolta dolo, nelle regioni tropicali e subtropicali, gli incendi sono appiccati per lo più intenzionalmente con lo scopo di cambiare la destinazione d’uso dei terreni, che possono essere così utilizzati per la coltivazione e gli allevamenti intensivi.

Il decadimento dell’amazzonia

È evidente che il cambiamento climatico, con l’innalzamento delle temperature per lunghi periodi dell’anno, favorisce l’attecchimento degli incendi boschivi e la loro propagazione, ma la CO2 rilasciata in atmosfera dai roghi è essa stessa causa dell’innalzamento globale della temperatura, pertanto si instaura un circolo vizioso. Si stima che ogni anno gli incendi delle foreste immettano in atmosfera una quantità di CO2 equivalente a quella immessa dall’Unione europea e che vi siano circa 340mila morti premature causate da problemi respiratori e cardiovascolari attribuiti al fumo degli incendi.

Se da un lato la perdita di enormi quantità di foreste è dovuta agli incendi, dall’altro essa è legata al disboscamento illegale causato dall’agricoltura commerciale e dalla richiesta di legname. Secondo il rapporto Forest Trends 2021, il Brasile è il paese maggiormente responsabile di disboscamento illegale, insieme al Congo e all’Indonesia. Questi tre paesi, insieme, rappresentano il 50% del global logging (termine anglosassone che accorpa il taglio e il trasporto del legno). A sua volta, la Cina è responsabile del disboscamento illegale della taiga siberiana, essendo il più grande importatore di legname al mondo e avendo vietato il disboscamento delle proprie foreste.

Si stima che, tra il 2013 e il 2019, quasi 2/3 delle perdite delle foreste tropicali sia stata causata dall’agricoltura commerciale e che 3/4 della conversione agricola dei terreni sia avvenuta illegalmente.

Secondo i dati della Ong brasiliana Imazon, tra agosto 2020 e luglio 2021, il disboscamento dell’Amazzonia ha raggiunto 10.476 Km2, cioè una superficie grande il doppio di quella della provincia di Roma. L’ecosistema forestale amazzonico sta versando in condizioni critiche con 10mila specie dichiarate a rischio. Inoltre, con il 35% della superficie disboscata o degradata, uno studio decennale è arrivato alla conclusione che la foresta attualmente emette più CO2 di quanta ne assorba, per cui non può più essere considerata il polmone verde della terra.

Le promesse della Cop26

Durante la conferenza sul clima dell’Onu, la Cop26 di Glasgow (cfr. dossier in questo stesso numero), oltre 100 paesi hanno sottoscritto una dichiarazione sulle foreste e sull’uso del suolo, che dovrebbe limitare e invertire la deforestazione entro il 2030.

In pratica 114 paesi, che detengono insieme l’85% delle foreste mondiali, si sono impegnati a mettere a disposizione circa 16,5 miliardi di euro, tra fondi pubblici e privati, per il recupero dei terreni danneggiati, per la gestione degli incendi e per gli aiuti alle comunità che vivono in questi ambienti. La prima criticità di questo accordo è rappresentata dal fatto che i paesi partecipanti hanno avuto una richiesta, non un obbligo, a «rivedere e a rafforzare gli obiettivi sul clima al 2030 nei loro contributi nazionali entro la fine del 2022 di quanto è necessario per allinearli con l’obiettivo di temperatura dell’Accordo di Parigi, tenendo in considerazione le diverse circostanze nazionali», come recita il punto 29 del patto sul clima di Glasgow. Questo ha permesso ad Australia e Nuova Zelanda di affermare che non presenteranno contributi nazionali volontari prima della Cop27 del prossimo anno, perché si ritengono già allineate. Un’altra criticità emersa da Glasgow è il ruolo della piantagione di nuovi alberi (l’Unione europea si è impegnata a piantare 3 miliardi di piante entro il 2030), unitamente al contrasto alla deforestazione, nella lotta al cambiamento climatico. Di per sé, la piantagione di nuovi alberi sembra una buona soluzione, ma non può essere considerata fondamentale per la lotta al cambiamento climatico perché prima che, in un terreno distrutto da un incendio, essa sia in grado di ricostituire un bosco, devono passare almeno 15 anni, troppi per i danni all’ambiente e all’economia delle popolazioni locali.

È molto più importante perseguire politiche di prevenzione degli incendi e del disboscamento illegale, così come la lotta alla criminalità organizzata, piuttosto che correre ai ripari a cose fatte. È altrettanto importante un’azione di educazione delle popolazioni alla conoscenza e alla salvaguardia dei boschi e delle foreste, soprattutto perché le piante, con la loro organizzazione, hanno molto da insegnarci. Ogni singola pianta è infatti costituita da una rete di moduli e una foresta è una rete di reti, cioè un superorganismo. Dall’unione di tante unità emergono caratteristiche, che non esistono nel singolo individuo, ma permettono di superare le difficoltà presentate dall’ambiente. Le piante quindi ci insegnano la cooperazione, il senso di comunità e di rete, cioè che non vince il più forte, ma chi sa cooperare.

Rosanna Novara Topino


Una difesa naturale

Piante fuocoresilienti

Può sembrare strano l’utilizzo del fuoco per controllare gli incendi. Si tratta di una tecnica già utilizzata negli Stati Uniti dai primi anni del secolo scorso. Essa mira a sfruttare la capacità di resistenza di alcune specie di piante nei confronti del fuoco. Pertanto, la loro presenza può salvaguardare il bosco da un incendio più distruttivo. Un esempio è dato dal comportamento del Pinus palustris, che allo stadio giovanile è poco più di un ciuffo di aghi verdi su un esile fusto, che rimane a lungo in questo stato, se circondato e sovrastato da erbe e arbusti, che lo adombrano e gli tolgono spazio. Quando però un incendio colpisce il suo territorio, con l’eliminazione delle piante concorrenti, questo tipo di pino cresce molto rapidamente, diventando in breve tempo una delle piante più alte del bosco. Come ci riesce? Grazie alla protezione della propria gemma apicale con un mazzetto di aghi lunghi circa 20 centimetri, che bruciano se attaccati dal fuoco, lasciando la gemma intatta alla loro base. Anche il cisto e il pino di Aleppo utilizzano il fuoco per svilupparsi. Lo stesso discorso vale per la quercia da sughero, la cui spessa corteccia serve proprio a proteggere la pianta dal fuoco, oppure per i castagni, i corbezzoli e le robinie, tutte piante capaci di sopravvivere a un incendio emettendo nuovi fusti dai ceppi residui o dalle radici. La tecnica del fuoco prescritto sfrutta tutto questo: serve a selezionare piante resistenti e autoctone e nel contempo a eliminare il carico di combustibile presente nel territorio, in modo che un incendio incontrollato possa raggiungere le chiome degli alberi. È chiaro che, per poterla applicare, sono necessarie condizioni meteorologiche favorevoli (vento e umidità) e uno studio accurato del territorio. Nei terreni dove da lungo tempo manca un incendio, può verificarsi il cosiddetto «paradosso del fuoco» cioè l’accumulo di arbusti, legno e foglie secche diventa un pericoloso combustibile, che per un evento accidentale (fulmini, forte siccità, azioni umane) può dare origine ad un incendio devastante e incontrollabile. Per evitare tutto questo, se non si vuole ricorrere alla tecnica del fuoco prescritto, a cui non tutti sono favorevoli perché comunque essa può alterare la flora e la fauna del sottobosco, è necessario ricorrere a un’asportazione meccanica dei carichi d’incendio e quindi un controllo costante del patrimonio boschivo, che da anni in Italia è abbandonato a sé stesso. (RNT)




A spasso su strade d’acqua


L’Amazzonia, quasi un mito lontano, con la sua foresta, gli immensi fiumi. Ma anche territorio conteso, al centro dell’attualità, tra incendi e cambiamenti climatici. In questo ecosistema ci sono tante storie umane, semplici e complesse.

Il 23 agosto del 2019, io e la mia amica Marika siamo partite per Belém (Pará, Brasile), dove avevo il contatto di una coppia. Appena arrivate ci siamo tuffate nell’accogliente umidità della città, dal sapore aspro dell’açai. L’açai è una bacca di colore blu, alimento base delle popolazioni indigene. Da essa si ricava una bevanda violacea ricca di antiossidanti.

Da Belém siamo partite per la Ilha do Marajò, l’isola fluviale più grande al mondo. In seguito, abbiamo preso un barcone fluviale, un mezzo di trasporto locale che poteva ospitare fino a 300 amache e qualche cabina, per raggiungere l’ecovillaggio di Macaco, vicino alla Ilha do Amor (Isola dell’amore), e raggiungere infine Manaus. In totale, cinque giorni e 105 ore di navigazione sull’immenso Rio delle Amazzoni.

A Manaus ci aspettava la meravigliosa famiglia di Vau ed Enoque, di cui conoscevamo solo i nomi. Marika aveva ottenuto il loro contatto da una commessa di un negozio di Forlì, dopo averle chiesto il prezzo di un paio di jeans. La vita funziona sempre in maniera inaspettata.

Da questa base sicura, siamo partite nuovamente per conoscere gli angoli meno conosciuti di Manaus e dintorni.

Voglia di raccontare

Da quel viaggio sarebbe nato poi l’impulso di narrare questa parte straordinaria del mondo, ma soprattutto la vita delle persone incontrate. E ne sarebbe nato «Strade d’acqua», una raccolta di racconti. Il libro ripercorre le tappe più significative del viaggio. In ognuna di esse c’è un personaggio reale che racconta la sua esperienza e, tramite essa, mostra la realtà ecologica, politica, sociale ed economica di un pezzettino di Amazzonia.

Il primo intento del libro è quello di raccontare in modo semplice e diretto alcune nozioni scientifico-naturalistiche che riguardano la ricchezza e le peculiarità di quell’ecosistema fragilissimo.

Ciò che immediatamente ci ha colpite, infatti, è stata la dimensione della natura, fuori dalla nostra immaginazione. Per fare un esempio, l’esemplare più alto di angelim vermelho (Dinizia excelsa), chiamato anche gigante dell’Amazzonia, misura 80 metri.

Una natura esuberante e pericolosa e pure piena di leggende: le trasformazioni notturne del delfino rosa (o boto vermelho), le radici della marapuama (Ptychopetalum olacoides), con cui oggi viene preparato il «viagra dell’Amazzonia» (anche se dagli indigeni è utilizzato per curare le paralisi), le «formiche proiettile», che entrano velocemente a fare parte della quotidianità e del linguaggio del viaggiatore.

Foresta esuberante e fragile

Prima ancora di mettere piede in Brasile, sull’aereo, scopro con stupore e una vaga tristezza per la perdita di quelle poche nozioni che credevo di aver imparato a scuola, che la foresta amazzonica non è il grande polmone del mondo. Tra un pisolino e l’altro, Juan, un agronomo peruviano incontrato per caso, mi ha spiegato che sono le diatomee (microalghe unicellulari, ndr) a produrre gran parte dell’ossigeno mondiale, attraverso un ciclo che dai deserti africani raggiunge e coinvolge anche
l’Amazzonia. Di fatto, la foresta amazzonica utilizza quasi tutto l’ossigeno che produce per alimentare i tessuti dei suoi alberi e tutti i batteri e funghi che degradano gli scarti degli alberi caduti al suolo. Questo ricco strato di materia organica assicura alle piante la loro stessa sopravvivenza. L’esuberanza della flora amazzonica nasconde la sua fragilità e la poca fertilità del suo suolo, fatta di strati di sabbia e argilla. Se si taglia un albero e se ne tolgono le radici, lì, non cresce più nulla. La foresta si trasforma in un deserto.

Gli studi di archeobotanica dimostrano come l’Amazzonia sia una sorta di «giardino addomesticato» dall’uomo. Già prima del 1492, milioni di indigeni abitavano quelle foreste considerate vergini.

L’agricoltura preispanica prevedeva l’arricchimento continuo del suolo amazzonico infecondo, e la sua riutilizzazione, piuttosto che l’ampliamento delle arre coltivabili tramite incendi controllati. Gli indigeni hanno saputo interagire con la foresta senza comprometterne l’ecosistema come fanno le multinazionali agricole oggi.

Incontro con i riberinhos

Un’altra realtà che abbiamo incontrato è quella delle comunità fluviali, i cosiddetti riberinhos, che vivono lungo le sponde del fiume più lungo del mondo, il Rio Amazonas. Un flusso d’acqua, fango e detriti imponente, che espandendosi «nella sua grandiosità, raggiunge il fondo dell’orizzonte, tentando, invano, di allargare anche il cielo».

Gli abitanti dei grossi centri urbani considerano i riberinhos persone felicemente autosufficienti, senza però conoscere le loro difficoltà. Queste comunità sono isolate, spesso non hanno la possibilità di accedere ai servizi di base, anche se hanno sempre pesce a disposizione, faticano a reperire acqua potabile. Inoltre devono lottare contro le invasioni dei taglialegna illegali nei loro territori.

Durante la navigazione, dall’alto del nostro barcone vedevamo dei bambini dalla terraferma saltare sulle piroghe per dirigersi verso la nostra imbarcazione, sfidando le onde create dal nostro scafo. Si avvicinavano per recuperare i sacchetti chiusi, riempiti di vestiti e cibo, che i nostri compagni di viaggio lanciavano loro. La povertà di queste comunità spesso spinge le ragazzine a prostituirsi a marinai, commercianti o proprietari delle imbarcazioni.

Arrivo a Manaus

Siamo poi arrivate a Manaus, la capitale bollente dell’Amazzonia. Una città costruita a fine Ottocento durante il florido commercio della gomma che mise in piedi un vero e proprio sistema schiavista, dove torture e minacce nei confronti degli indigeni erano all’ordine del giorno.

La ricchezza sociale di questa città è straordinaria: dal centro alle sue periferie ribollono iniziative di riscatto sociale come il percorso per disabili (la strada per bambini speciali) nella baraccopoli di Petropolis. Ci sono slanci di creatività come quella di Rò, un giovane che stampa le foglie degli alberi sulle magliette per ricordare a tutti la loro somiglianza e parentela con la natura. Le lavoratrici sfruttate dalle multinazionali nella zona franca di Manaus sviluppano riflessioni sul senso della vita.

Queste sfumature umane si intersecano con le traiettorie sociali dei rifugiati venezuelani che vendono acqua alle macchine ferme ai semafori, spremono arance agli angoli delle strade, dimenticandosi i propri titoli di studio e vivendo nelle aiuole accampati su materassi di cartone o in stanze sovraffollate. Si incrociano anche con le proteste delle comunità indigene che hanno dovuto lasciare la foresta e sono relegate ai margini della città e che lottano per il riscatto della propria storia e dei propri diritti.

Nel libro riporto anche alcune testimonianze raccolte a Torino di ritorno dal viaggio: quella dell’indigena Célia Xakriabá, 30 anni, professoressa, attivista e una delle coordinatrici del Articulação dos Povos Indígenas (Apib), arrivata in Italia con una delegazione di indigeni brasiliani per denunciare gli abusi del presidente Jair Bolsonaro contro le comunità. Quella di padre Josiah K’Okal, missionario della Consolata che ha vissuto per anni a contatto col popolo indigeno Warao del Venezuela, e quella di Carlo Zacquini, uno straordinario fratello della Consolata che ha dedicato la sua vita agli indigeni Yanomami e di conseguenza alla protezione della foresta.

Amarilli Varesio


Manaus, Colonia Antonio Aleixo

Un quartiere complesso

Il quartiere Colonia Antonio Aleixo nasce nel 1930 per i cosiddetti «soldati della gomma» che estraevano la sostanza (borracha) dagli alberi della gomma, seringueiras. In seguito, negli anni Quaranta, cominciò a essere utilizzato come lebbrosario per allontanare tutti i malati da Manaus, e, verso la fine degli anni Settanta, fu aperto alle loro famiglie, circa duemila anime. Fino a una ventina d’anni fa, gli autobus che collegavano il quartiere alla capitale erano differenziati per evitare contaminazioni, ma ancora oggi questo continua a essere un luogo di emarginazione per i suoi abitanti.

Nel 2017, al suo interno, grazie alla passione di Tommaso Lombardi ed Elaine Elamid, fondatori del ramo amazzonico dell’associazione O pequeno nazareno (il piccolo nazareno), nasce il Projeto gente grande (Pgg). Il Pgg è una scuola per la prevenzione della criminalità, del lavoro infantile e della mendicità. È gestita da educatori sociali. Gli studenti, per otto mesi, seguono quattro cicli: sviluppo pedagogico, nel quale si insegna portoghese e matematica e si iscrive il minore alla scuola pubblica, se non lo è ancora; sviluppo personale, dove si lavora sui valori e sull’etica e sulla personalità; sviluppo professionale, dove si impara a scrivere il curriculum e a lavorare in gruppo; infine, sviluppo tecnologico, dove si insegnano i principi base per usare il computer.

«L’obiettivo finale è inserirli nel mercato del lavoro come apprendisti. Ma è necessario partire da valori fondamentali quali il rispetto, l’onestà, la responsabilità, l’amore per il prossimo; dimensioni che spesso i ragazzi di strada perdono nel tentativo di far fronte agli strappi affettivi e alle necessità economiche che devono affrontare. C’è molto rispetto per il nostro lavoro da parte degli abitanti del quartiere, e anche da parte dei trafficanti di droga. Negli adulti c’è un desiderio profondo di vedere i propri figli fare una vita diversa dalla loro. Noi non diciamo ai ragazzi che trafficare droga non va bene, ma, dando loro delle opportunità concrete, li aiutiamo a non diventare manodopera infantile del commercio illecito», racconta Tommaso.

A.V.


Manaus, Tarumã

Il parco delle tribù

La comunità indigena Parque das Tribos risiede nel quartiere  Tarumã di Manaus ed è formata da più di 400 famiglie di 38 etnie diverse. La migrazione indigena verso l’area urbana è cominciata negli anni Settanta con l’inaugurazione della zona franca e negli anni a venire non si è più fermata. Sulle strade del quartiere, l’asfalto è stato posato per la prima volta nel 2018, assieme all’impianto d’illuminazione pubblica a led e ai servizi di acqua corrente.

Nel Parque das Tribos si lotta per la conservazione delle tradizioni native, ma anche per l’accesso all’educazione superiore e universitaria delle nuove generazioni. In questo contesto multilingue, Claudia Martins Tomas, di etnia Baré, ha deciso di aprire una scuola indigena. Dopo essersi laureata in Pedagogia e Interculturalità e aver ricevuto alcuni finanziamenti, Claudia ha realizzato un progetto di conservazione e trasmissione della lingua autoctona. I bambini e i ragazzi che frequentano la sua scuola sono delle etnie più disparate: Ticuna, Desana, Tukano, Mura, Kokama, e altre ancora. Per insegnare, utilizza la sua lingua materna, il Nheengatu o Lingua Geral Amazonica. Una lingua franca utilizzata nel processo di colonizzazione che i gesuiti standardizzarono, partendo dalla lingua Tupinambà, e adattarono alla grammatica portoghese. Era l’idioma più parlato sulla costa atlantica; fu imposto come mezzo di comunicazione principale e insegnato agli indigeni che fungevano da forza lavoro nelle missioni.

Claudia non parla la sua lingua originaria, il baré, perché non esiste più.

Durante le sue lezioni, la donna narra leggende, insegna i segreti dell’artigianato e delle decorazioni. Lo fa principalmente in Nheengatu, ma anche nelle altre lingue indigene, per rinforzarle. La scuola è un container e nella stagione secca si scalda come un forno. Claudia vende collane di semi e vestiti pitturati con colori naturali e motivi indigeni per finanziare la scuola.

A.V.


Manaus, centro storico

Medicina indigena

João Paulo Lima Barreto è un indigeno di etnia tukano, antropologo, ideatore e coordinatore del Centro di Medicina Indigena Bahserikowi’i, collocato nel centro storico di Manaus. Ha i capelli neri e una pacatezza perenne nello sguardo. Il Centro è stato aperto nel giugno 2017. Nel primo mese ha ricevuto più di 1.200 persone per i trattamenti con i Kumuã (o anche conosciuti come pajés, specialisti). Gli specialisti presenti al Centro sono di etnia tukano, desano e tuyuka. I loro trattamenti sono rivolti a curare dolori emozionali, muscolari, ferite, mal di testa, gastriti, calcoli nei reni; vengono somministrati attraverso i bahsese (benedizioni) e sono affiancati da rimedi prodotti dagli indigeni di etnia apurinã e da rigide raccomandazioni, come astenersi dal mangiare certi alimenti o da attività sessuali.

«All’inizio, la maggior parte delle persone si aspettavano di vedere il guaritore in una capanna, con le piume in testa e le collane di semi al collo; si aspettavano che guarisse tutto e subito, come per magia. Arrivavano con l’immaginario creato dai media, dal folclore e dalla ricerca. Quando scoprivano che il pajé indossava bermuda e camicia e riceveva in una casa storica, uguale alle altre della via, rimanevano delusi e smettevano di venire», racconta João. La sua intenzione è che le persone possano conoscere altre forme di trattamento a partire dai saperi dei popoli originari, visto che fino ad adesso le terapie indigene sono sempre state considerate pratiche religiose o forme di stregoneria. Invece, secondo il pensiero tukano, ogni problema psicologico corrisponde a un disordine nelle aree vitali di una persona: il lavoro, la vita familiare, la salute, la vita comunitaria. È necessario sostenere queste aree con le benedizioni degli specialisti. «A differenza della medicina occidentale, quella indigena serve più come prevenzione che come trattamento. Io suggerisco di imparare ad anticipare la malattia, ascoltando e conoscendo meglio il proprio corpo».

A.V.

 




Ripresa e resilienza,

quale Italia ci aspetta?

testo di Francesco Gesualdi |


Al nostro paese stanno arrivando i soldi dell’Ue. La domanda è: come utilizzarli? Riprendere la strada della vecchia economia o cercare una vera svolta verso l’equità e la sostenibilità?

In Italia, il piano messo a punto per poter ricevere e spendere i soldi resi disponibili dall’Unione europea, nell’ambito del progetto Next generation Eu, è stato battezzato «Piano nazionale di ripresa e resilienza», in sigla Pnrr. E, per dargli un tocco di patriottismo, è stato sottotitolato: «Italia domani».

Il documento non è di facile lettura, non foss’altro per la sua lunghezza: ben 269 pagine. Del resto, la posta in gioco è alta: dalle sue scelte dipenderà l’assetto dell’economia e della società italiana dei prossimi decenni. Non a caso la stesura del piano è stata la pietra d’inciampo che ha fatto cadere il governo Conte 2.

Ripresa e resilienza, crescita e sostenibilità

Troppi soldi in ballo che hanno inevitabilmente acceso appetiti e divergenze non solo finanziarie, ma anche ideologiche, perché quei soldi potrebbero essere utilizzati per rafforzare l’economia produttivista, vecchia maniera, o per imprimere una svolta in una logica di equità e sostenibilità.

La copertina del documento sul Pnrr, scaricabile dal web.

Una contrapposizione riportata nel titolo stesso del piano tramite le due parole «ripresa e resilienza». Dove per ripresa si intende il rilancio dell’economia intesa come crescita di produzione, Pil, vendite, affari, esportazioni; per resilienza si intende l’introduzione di tutti quei cambiamenti utili ad arrestare il deterioramento della situazione ambientale. La pretesa del piano, tuttavia, è di aver saputo affrontare i due aspetti non come esigenze in contrapposizione fra loro, ma come due percorsi  complementari che si sostengono a vicenda.  Sarà davvero così? Il sistema si illude di poter tenere insieme crescita e sostenibilità, ma può farlo perché dimentica l’equità. In realtà, quando pensa a un «mondo verde», tiene a mente solo il miliardo di persone che popola i paesi del Nord. Senza dichiararlo, la sua idea di sostenibilità è quella dell’apartheid, un mondo nel quale le poche risorse e gli scarsi spazi ambientali esistenti sono messi al servizio esclusivo di una minoranza di cui i paesi del Nord sono la componente pigliatutto, mentre tutti gli altri non sono neppure presi in considerazione.

Per questo possiamo fantasticare di mobilità basata sull’auto elettrica per chiunque, senza pensare che se il poco cobalto, nickel, litio, esistente sul pianeta ce lo prendiamo tutto noi, gli altri non potranno neanche disporre di un pannello solare per accendere il frigorifero. Purtroppo, solo il tempo potrà stabilire se certe previsioni rientrano nella categoria del catastrofismo o del realismo. Ma allora sarà troppo tardi, esattamente come è successo per gli avvertimenti relativi ai cambiamenti climatici: gli scienziati più attenti hanno cominciato a segnalare il problema attorno agli anni Settanta del secolo scorso, ma i governi hanno riconosciuto l’esistenza del fenomeno solo attorno al 2010.

Sia come sia, è comunque certo che la stesura del Next generation Eu non è stato il massimo della partecipazione democratica. Nella fretta di passare alla fase esecutiva, la Commissione europea ha imposto tempi di presentazione del progetto troppo brevi che la concomitante caduta del governo ha ulteriormente corroso. Fatto sta che nel paese non c’è stato dibattito e neanche il Parlamento ha avuto la possibilità di dire la sua. L’unico progettista è stato il governo, prima sotto la guida di Conte, poi di Draghi, mentre il Parlamento si è limitato a una funzione poco più che notarile con tempi di discussione che hanno permesso solo dichiarazioni di voto.

I fondi in gioco: 236 miliardi di euro

Alla fine, i soldi complessivi che il Pnrr conta di spendere entro il 2026, ammontano a 236 miliardi di euro, 44 in più di quelli messi a disposizione dall’Unione europea tramite il Recovery fund. Un’aggiunta, in parte finanziata da prestiti ottenuti direttamente dal sistema bancario e finanziario (Fondo complementare), in parte da ulteriori sostegni offerti dall’Unione europea attingendo a un fondo speciale denominato React.

Volendo ricapitolare, le fonti di finanziamento si possono analizzare sotto due grandi profili: la provenienza e la natura. Dal punto di vista della provenienza, l’87% giunge dall’Unione europea, il rimanente 13% dal sistema creditizio privato. Dal punto di vista della natura, si tratta per il 65% di prestiti e per il 35% di somme a fondo perduto. In termini monetari, mettendo insieme i soldi provenienti dal Recovery fund e quelli ottenuti dal fondo React, le sovvenzioni a fondo perduto sono 82 miliardi. Ma sarebbe sbagliato considerarli tutti in entrata perché l’Unione europea conta di recuperare i soldi che regalerà tramite un aumento di contribuzione da parte degli stati membri. Sulla reale entità della somma netta incassata dall’Italia esistono numerosi calcoli molto diversi fra loro. Alcuni danno un’entrata netta di circa di 10 miliardi di euro, altri di una quarantina di miliardi. La verità è che le incognite sono ancora troppo ampie per azzardare ipotesi fondate.

Le riforme: quali e per chi?

Va precisato subito che nessuno distribuisce pasti gratis e, analizzando meglio l’offerta dell’Unione europea, si scopre che essa condiziona il proprio sostegno alla realizzazione di una serie di riforme che, a suo avviso, i singoli paesi devono adottare per migliorare la propria situazione e di riflesso quella dell’Unione europea. Non a caso il Pnrr elenca un numero indefinito di riforme che lo stato italiano si impegna a realizzare in ambiti che spaziano dalla giustizia al fisco, dalla pubblica amministrazione alla concorrenza. Tutte con ottimi propositi considerato che, secondo il Pnrr servono per garantire al paese equità, efficienza, celerità. Parole rassicuranti, ma finché gli annunci non si trasformano in proposte di legge rimane difficile capire dove andremo davvero a parare e se si tratta di modifiche condivisibili.

A gettare acqua sulle aspettative c’è che il Pnrr pone troppa enfasi sulla crescita dandoci la sensazione che le riforme siano finalizzate solo a creare un contesto attraente per gli investitori e a rendere più spediti i progetti di investimento.

In questa prospettiva, ad esempio, si possono leggere la riforma della giustizia e degli appalti. Da tempo tutti gli organismi internazionali denunciano che la lentezza della giustizia italiana tiene alla larga gli investitori stranieri che non sopportano l’idea di dover aspettare anni per risolvere eventuali liti commerciali con i propri clienti, fornitori o concorrenti. Pertanto, quando si parla di riforma della giustizia si pensa soprattutto a rendere più spediti i contenziosi civili in cui le imprese incappano con grande frequenza. E se, nel caso della giustizia, la preoccupazione è che la riforma possa essere solo parziale, nel caso degli appalti il timore è che, pur di accelerare i lavori, si indeboliscano i controlli sull’impatto ambientale delle opere, sulla correttezza contabile delle imprese, sulle loro eventuali connessioni con soggetti mafiosi, sul rispetto dei diritti dei lavoratori. Del resto, già in passato abbiamo visto come il concetto di riforma fosse tutto impostato in chiave pro imprese e pro investimenti, trasformandosi, di fatto, in un processo di demolizione dei diritti dei lavoratori nel campo delle assunzioni, dei licenziamenti, della sicurezza, dell’attività sindacale. Dunque, è meglio drizzare le orecchie quando sentiamo pronunciare la parola «riforme».

Le sei «missioni» del piano

Mappa tricolore dell’Italia. Foto MMedia – Pixabay.

Volendoci focalizzare sulle spese previste dal Pnrr, che poi rappresentano l’argomento forte del piano, si possono analizzare sotto vari profili: per finalità, per settori, per ripartizione geografica, per ricaduta sociale per ricaduta ambientale. Ma volendo seguire l’ordine espositivo utilizzato dal Pnrr, si può senz’altro cominciare dicendo che le spese sono suddivise in sei grandi capitoli, più religiosamente definiti «missioni»: innovazione, transizione ecologica, mobilità sostenibile, istruzione e ricerca, inclusione e coesione, salute.

L’innovazione assorbe 50 miliardi, il 21% della spesa complessiva, e serve in gran parte a potenziare il processo di digitalizzazione della pubblica amministrazione, ma soprattutto del settore produttivo privato che assorbirà i 4/5 della spesa.

La transizione ecologica assorbe 70 miliardi, il 30% della spesa complessiva, ed è finalizzata a interventi per promuovere l’economia circolare, per mitigare la produzione di anidride carbonica, per potenziare la produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili. In questo capitolo ricadono anche le spese per il superamento dei veicoli a motore e per la riqualificazione energetica degli edifici.

La cosiddetta mobilità sostenibile assorbe 31 miliardi, il 13% della spesa complessiva e si riferisce in gran parte all’ammodernamento del sistema ferroviario (alta velocità), autostradale, portuale. Per tale ragione aveva più senso chiamare questa sezione «ammodernamento infrastrutturale».

Istruzione e ricerca assorbono 34 miliardi di euro, il 15% della spesa complessiva ed è suddivisa in due grandi capitoli: istruzione pubblica e ricerca al servizio delle imprese.

L’inclusione e coesione assorbe 30 miliardi, il 13% della spesa complessiva ed è finalizzata a migliorare gli uffici di collocamento, ad assistere l’imprenditorialità giovanile e femminile, a fornire protezione sociale a chi subisce contraccolpi occupazionali a causa dell’innovazione tecnologica.

Infine, la sanità assorbe 20 miliardi, l’8% della spesa complessiva, ed è finalizzata a potenziare la medicina del territorio e altre infrastrutture sanitarie.

Il senso del limite e l’ottica della sobrietà

Il Pnrr è stato molto elogiato dalle imprese e molto criticato dalle associazioni ambientaliste. Alle imprese è piaciuto perché prevede molti soldi per loro. Va detto, infatti, che non tutte le spese preventivate dal piano saranno eseguite direttamente dal governo o dagli enti locali. Parte di esse saranno delegate a famiglie e imprese. Le famiglie, ad esempio, riceveranno soldi per interventi di miglioramento energetico alle proprie abitazioni. Le imprese, invece, per l’ammodernamento energetico, informatico o ambientale delle proprie attività produttive. Per quale importo, il piano non lo dice con precisione: verosimilmente oltre i 40 miliardi di euro che poi rappresentano il 17% dell’intero stanziamento.

Gli ambientalisti contestano al piano di non impegnarsi abbastanza per limitare la produzione di rifiuti e di CO2, ma solo di volerne ridurre gli effetti. Gli rimproverano di concentrarsi troppo sui trasporti di lunga distanza e poco su quelli locali, di non spendere abbastanza per la difesa del territorio.

In una parola gli contestano di non fare nessun tentativo per invertire il senso di marcia verso una società che faccia i conti con il senso del limite, una società che cioè tenti di riorganizzare produzione, consumo, mobilità rifiuti, edifici, servizi pubblici in un’ottica di sobrietà che però garantisca a tutti di vivere dignitosamente nel rispetto della piena inclusione lavorativa.

«Transizione» non significa «conversione»

Questa prospettiva avrebbe richiesto non solo più investimenti verso l’energia elettrica di tipo rinnovabile, verso la mobilità pubblica locale di tipo sostenibile, verso un programma integrale di recupero e riciclaggio di tutti i rifiuti, verso la ristrutturazione edilizia generalizzata finalizzata al risparmio energetico, ma anche più impegno per la messa in sicurezza del territorio indebolito da decenni di cementificazione selvaggia e di abbandono delle zone montane. Più impegno per organizzare una formazione scolastica capace di mettere i cittadini in condizione di saper badare a se stessi tramite la «prosumazione» (consumazione di ciò che si produce) ossia ricorrendo il meno possibile agli acquisti. Più impegno per potenziare i servizi pubblici gratuiti specie nelle periferie e nelle zone più disagiate con il duplice compito di promuovere il ripopolamento delle zone abbandonate e di evitare lunghi ed estenuanti spostamenti per il semplice godimento di servizi essenziali. Interventi, insomma, per evitare che la stretta sui carburanti si trasformi in un castigo per i più poveri. Ed è con questa attenzione di tipo sociale che gli ambientalisti ci richiamano alla necessità di non limitarci a una pura e semplice «transizione tecnologica», ma di procedere verso una vera e propria «conversione ecologica». Più di un cambio di tecnologia, un cambio dell’essere.

Francesco Gesualdi

 




Clima, cibo, economia: dalla Cop26 al G20

testo di Chiara Giovetti |


La conferenza sul clima Cop26, il vertice Onu sui sistemi alimentari e il G20 si sono svolti o stanno per svolgersi in questo autunno 2021. Le decisioni e gli indirizzi che forse emergeranno da questi eventi potrebbero rivelarsi decisivi per il futuro del pianeta e del modo in cui affronteremo le crisi sanitarie, alimentari e ambientali che verranno.

Il 23 settembre si è tenuto a New York il vertice delle Nazioni Unite sui sistemi alimentari, uno degli eventi previsti nell’ambito del cosiddetto Decennio di azione sulla nutrizione@ che è iniziato nel 2016 e si concluderà nel 2025. Lo scorso luglio a Roma, presso la Fao, agenzia Onu per il cibo e l’agricoltura, si è svolto il prevertice, ospitato dal governo italiano.

Il 30 e 31 ottobre sarà la volta del G20@, il forum internazionale che riunisce i 19 paesi del mondo più industrializzati (Argentina, Australia, Brasile, Canada, Cina, Francia, Germania, India, Indonesia, Italia, Giappone, Messico, Russia, Arabia Saudita, Sudafrica, Corea del Sud, Turchia, Gran Bretagna e Stati Uniti) più l’Unione europea, che si svolgerà a Roma.

Infine, dal 31 ottobre al 12 novembre avrà luogo a Glasgow, in Scozia, la 26° Conferenza delle parti aderenti alla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, o Cop26@. L’Italia organizza la Conferenza insieme al Regno Unito e ha ospitato a settembre gli eventi preparatori come il vertice pre-Cop@, l’ultimo incontro ministeriale prima dell’inizio dei lavori a Glasgow, con l’obiettivo di «fornire a un gruppo selezionato di paesi un ambiente informale per discutere e scambiare opinioni su alcuni aspetti politici chiave dei negoziati e offrire per questi ultimi una guida politica».

I tre eventi affrontano temi fra loro profondamente legati: clima, cibo, economia. Due degli incontri, la Cop26 e il G20, hanno anche il potenziale di definire accordi che determineranno davvero le successive azioni dei paesi partecipanti. Lo ha sottolineato lo scorso luglio il presidente del Consiglio italiano, Mario Draghi, in occasione del prevertice sui sistemi alimentari alla Fao: «La presidenza italiana del G20 ha individuato le priorità per migliorare la sicurezza alimentare globale. Tra queste, l’impatto negativo dei cambiamenti climatici sarà al centro della Cop26 che l’Italia presiede con il Regno Unito. […] Alla Cop26, a Glasgow, vogliamo raggiungere un accordo ambizioso sul clima»@.

Disinfezione prima della messa a Tura Mission contro il Covid-19

Premesse: il fallimento della Cop25

L’ultima Conferenza sul clima, svolta a Madrid nel 2019, era stata un insuccesso. Marlowe Hood, corrispondente dell’agenzia Afp, ha individuato cinque possibili motivi del fallimento@: il primo era, a suo dire, la gestione amatoriale dei negoziati, dovuta alla non impeccabile leadership del paese organizzatore, il Cile, che non avrebbe svolto in modo efficace il ruolo di mediatore che è fondamentale in incontri diplomatici di questo tipo.

Il secondo motivo era la presenza ingombrante di lobbisti delle aziende che producono combustibili fossili (la volpe nel pollaio, rimarcava Marlowe), con le conseguenti interferenze in negoziazioni il cui scopo è in larga parte quello di ridurre la dipendenza del pianeta proprio da quei prodotti. Vi era stato poi il «corrosivo effetto-Trump», cioè il disimpegno – per non dire il boicottaggio – sulle questioni climatiche manifestato dagli Usa nel quadriennio della presidenza di Donald Trump. Infine, l’atteggiamento tiepido della Cina che, con il 29% di emissioni di CO2, «ha in mano il destino del pianeta»: alla Cop25 Pechino «ha puntato i piedi e, sostenuta dall’India, ha invocato il principio secondo cui i paesi ricchi devono assumere un ruolo guida nell’affrontare il cambiamento climatico, denunciando il loro fallimento nel mantenere le promesse fatte», vincolando poi al rispetto di queste ultime la propria disponibilità a prendere impegni. Secondo diversi esperti, infatti, la Cina adotterà delle misure significative solo se l’Unione europea confermerà il suo obiettivo di impatto zero entro metà secolo e si impegnerà a ridurre le emissioni di almeno il 55% entro il 2030.

Infine, concludeva Hood, il fallimento della Cop25 è stato probabilmente il sintomo di una più ampia crisi della cooperazione e del multilateralismo legata all’ascesa di nazionalismi e populismi e alla tendenza dei governi a contrarre la spesa pubblica.

Che cosa dovrà decidere la Cop26

La conferenza di Glasgow dovrà, dunque, riprendere le fila di un dialogo interrotto nel 2019 e puntare a decisioni più ambiziose possibile. A cominciare dall’impegno per mantenere l’aumento della temperatura globale sotto il grado e mezzo, che a sua volta richiede il raggiungimento dell’obiettivo di azzerare le emissioni entro il 2050 e maggior decisione e incisività nel promuovere le alternative ai combustibili fossili.

Se il rientro degli Usa nell’accordo di Parigi sul clima, deciso dal presidente Joe Biden, e le alluvioni dello scorso agosto in Germania e Belgio@ sono elementi che suggeriscono un’aumentata sensibilità dei governi all’urgenza di reagire al cambiamento climatico, permangono comunque forti resistenze. Durante l’incontro del G20 a Napoli dello scorso luglio, il presidente della Cop26, Alok Sharma, ha riferito alla Bbc@ che il tema del cambiamento climatico è stato in effetti affrontato dalle venti principali economie del mondo – responsabili dell’80% delle emissioni – e si è visto un generale consenso circa la necessità di eliminare il carbone dalla produzione di energia. Purtroppo, Cina e India, due attori di primaria importanza nell’eventuale processo di decarbonizzazione, si sono opposte con decisione.

Altro elemento che rappresenta un’incognita è il ruolo della pandemia sui negoziati della Cop26. Se, da un lato, molte persone nel mondo sembrano aver recepito la pandemia come un motivo di riflessione sulla sostenibilità della presenza umana sul pianeta, dall’altro, opinioni pubbliche le cui economie sono provate da lockdown e restrizioni potrebbero mostrarsi restie ad accettare i costi degli investimenti richiesti per un’efficace transizione verso fonti di energia e stili di vita più sostenibili.

I negoziatori dovranno tenere conto di tutti questi aspetti e anche delle proposte e richieste emerse dal 28 al 30 settembre dallo Youth Summit@ il vertice che ha riunito a Milano 400 giovani, di età compresa fra i 18 e i 29 anni, da 197 paesi – in modo da includere il punto di vista delle generazioni che saranno più esposte alle conseguenze del cambiamento climatico.

Il G20 e la cooperazione

Il G20, o Gruppo dei 20, e gli incontri fra i leader e i ministri dei paesi che lo compongono, ha le sue origini nella necessità di coordinare gli sforzi delle principali economie del mondo per reagire alle crisi finanziarie della fine dello scorso millennio, a cominciare da quella del 1999 che interessò diversi paesi asiatici – Thailandia, Indonesia, Corea del Sud, Malaysia – e si estese poi a Brasile e Russia@.

In quell’anno e per i successivi nove, alle riunioni del G20 parteciparono i ministri delle finanze e i governatori delle banche centrali dei paesi membri. Con la crisi finanziaria del 2008, su iniziativa del presidente Usa George W. Bush cominciarono i vertici del G20 che coinvolgevano i capi di Stato e di governo. Dal 2010 questi incontri hanno cadenza annuale con il paese ospitante che cambia ogni anno@.

Le decisioni prese ai summit non sono vincolanti da un punto di vista giuridico, ma il loro peso politico e di indirizzo può essere molto elevato. Fra i temi connessi alla cooperazione e allo sviluppo che il vertice di Roma dovrà affrontare, vi è la ristrutturazione del debito per i paesi a basso e medio reddito. Nelle economie fragili, l’espansione della spesa pubblica e il maggior indebitamento imposti dalla pandemia rischiano di risultare insostenibili e così, già a novembre dell’anno scorso, i paesi del G20 avevano deciso di congelare il debito. Un provvedimento temporaneo e di emergenza che il summit di Roma dovrebbe tentare di sostituire con un accordo più articolato di riduzione o rinegoziazione@.

Altro tema che dovrebbe ricevere attenzione da parte dei leader del G20 è quello dell’accesso al cibo, dal momento che le persone in condizione di grave insicurezza alimentare sono aumentate dai 690 milioni del 2019 agli 820 milioni attuali, in larga parte a causa della pandemia@.

Il vertice Onu sui sistemi alimentari

Proprio del cruciale tema del cibo si è occupato il vertice Onu sui sistemi alimentari che si è svolto a New York il 23 settembre scorso. Il suo obiettivo, si legge sul sito istituzionale, era di suscitare la consapevolezza che occorre «lavorare insieme per trasformare il modo in cui il mondo produce, consuma e concepisce il cibo»@.

Per sistemi alimentari si intende tutta la «costellazione di attività coinvolte nella produzione, lavorazione, trasporto e consumo di alimenti». Uno dei principali problemi che il vertice intendeva affrontare era quello dei sistemi alimentari fragili e a rischio di collasso, «come milioni di persone in tutto il mondo hanno sperimentato in prima persona durante la crisi del Covid-19».

L’obiettivo era quello di individuare soluzioni e stabilire principi di riferimento che possano guidare il cambiamento di questi sistemi nella direzione di una maggior sostenibilità e garantire a tutti l’accesso al cibo. Alla chiusura di questo articolo (fine agosto 2021, nda) non è possibile dare conto dei risultati del vertice; certamente però le critiche che hanno preceduto il suo svolgimento sono state numerose e aspre.

Il prevertice di luglio e le critiche

Queste critiche sono emerse già in occasione del prevertice che si è svolto alla Fao nel luglio scorso, attraverso prese di posizione come quelle della piattaforma Csm (Civil society and indigenous peoples’ mechanism)@ che riunisce organizzazioni della società civile attive nella lotta all’insicurezza alimentare e alla malnutrizione: nonostante affermi di essere un «vertice del popolo» e un «vertice delle soluzioni», è l’accusa del Csm, questo summit favorisce piuttosto una maggiore concentrazione nelle mani delle multinazionali, promuove catene del valore globalizzate insostenibili e rafforza l’influenza dell’agroindustria sulle istituzioni pubbliche. E lo fa proponendo «false soluzioni, come i modelli falliti degli schemi volontari per la sostenibilità aziendale, soluzioni “naturali” che includono tecnologie rischiose come gli organismi geneticamente modificati e la biotecnologia e l’intensificazione sostenibile dell’agricoltura». Queste soluzioni, continua il Csm, non sono né sostenibili, né abbordabili per i produttori alimentari su piccola scala e non affrontano le ingiustizie strutturali come l’accaparramento di terre e risorse, l’abuso di potere da parte delle grandi aziende e la disuguaglianza economica.

Anche il Vaticano ha preso posizione nel dibattito. Nel suo intervento al prevertice, il cardinale Peter Kodwo Turkson, prefetto del dicastero per il Servizio dello sviluppo umano integrale, ha ricordato che per individuare soluzioni davvero sostenibili è opportuno guardare ai popoli indigeni e alla loro capacità di adattare i metodi di coltivazione alle condizioni che via via si presentano, mentre occorre porre un freno all’opposto tentativo di spazzare via queste conoscenze: «L’utilizzo delle tecniche tradizionali si è dimostrato fondamentale per la vitalità e la resilienza delle colture e delle specie alimentari indigene, mentre l’introduzione di specie straniere, accompagnate da fertilizzanti, pesticidi, erbicidi, “compromette gravemente questa vitalità, e l’agricoltura tradizionale locale in Africa lo dimostra”»@.

Chiara Giovetti




Noi e Voi

Ai nostri missionari

Invio la foto della targa che è stata collocata nella Villa Pisani di Biadene (Tv), nel corridoio di entrata al teatro Binotto, in ricordo della loro scuola/seminario nell’immediato dopo guerra, su iniziativa di Fondazione Contea.

Gino Merlo
dell’associazioneAvi di Montebelluna (Tv) – 14/06/2021

Grazie per la segnalazione del bel gesto della Fondazione Contea. Anche se abbiamo lasciato Biadene, dove siamo stati dal 1949 al 1981, il cuore di molti missionari è sempre legato a quel luogo, così caro a tanti, soprattutto per l’affetto e la sintonia vissuti con la comunità locale.

Ringraziamo con due immagini: una visione del complesso della villa dove quella che era la chiesa è ora il teatro, e una foto di gruppo dei seminaristi del 1951-52.


Un dossier per agire

Problemi ambientali, soluzioni sociali

Si scrive sostenibilità, si pronuncia equità: così potrebbe essere sintetizzato il dossier infografico realizzato dal Centro nuovo modello di sviluppo in collaborazione con Riccardo Mastini, ricercatore in ecologia politica all’Università autonoma di Barcellona, e che ha per titolo Problemi ambientali, scelte sociali. Siamo abituati a pensare che la questione climatica, e più in generale la problematica ambientale, richieda solo interventi di carattere tecnologico, tutt’al più nuovi stili di vita; in realtà impone anche scelte di carattere fiscale e di spesa pubblica, perché questione ambientale e questione sociale sono intimamente intrecciate fra loro.

Degrado ambientale e tenore di vita

Per cominciare, la responsabilità del degrado ambientale è diversificata in base al tenore di vita. Basti dire che a livello mondiale il 10% della popolazione più ricca è responsabile del 49% di CO2 emessa. L’1% da solo è responsabile addirittura del 15%. Per contro, il 50% più povero contribuisce solo al 7% delle emissioni globali. Le stesse disparità le riscontriamo anche a livello di singole nazioni. Nell’Unione europea l’impronta pro capite di anidride carbonica dell’1% più ricco corrisponde a 55 tonnellate all’anno. Quella del 50% più povero è undici volte più bassa.

Nel valutare quali misure assumere per porre un freno alle emissioni di anidride carbonica, occorre considerare che nella nostra società c’è chi può decidere come vivere e chi invece lo deve subire. Chi si trova in povertà non può scegliere se vivere in centro o in periferia, se mangiare biologico o cibo spazzatura, se avere la casa coibentata o ad alta dispersione termica. Deve semplicemente adottare lo stile di vita meno dispendioso. Che non è automaticamente il meno impattante.

Povertà e ambiente

Molti poveri, ad esempio, sono costretti a vivere in periferia dove gli affitti sono generalmente più bassi, ma dove, contemporaneamente, mancano servizi essenziali (scuole, negozi, presidi medici) e trasporti pubblici. Di conseguenza l’auto si rende indispensabile con inevitabile aumento dell’impronta di carbonio. E arriviamo all’assurdo che al di sotto di certi livelli di reddito, l’impronta ambientale non è determinata dalla ricchezza, ma dal livello di povertà che non lascia possibilità di scelta come invece hanno i facoltosi.

Se sei così ricco da poterti permettere un’automobile di alta cilindrata, allora sei anche sufficientemente ricco da poterti permettere una vita senza automobile. I soldi ti permettono di scegliere il tuo stile di vita, e se finisci per condurne uno ad alto impatto ambientale, ne sei responsabile. Non altrettanto per i più poveri la cui mancanza di libertà annulla anche la responsabilità per le conseguenze che la loro vita arreca all’ambiente.

E a dimostrazione di come per i più poveri non esista una diretta correlazione fra impronta di carbonio e responsabilità, c’è il fatto che molti di loro hanno chiaro che investire in incrementi di efficienza per la propria casa, per i propri elettrodomestici e per la propria vettura può fare la differenza. Molti sanno che a parità di consumi, una famiglia che vive in una casa ben coibentata e utilizza elettrodomestici e veicoli ad alta efficienza energetica può arrivare a produrre fino a tre volte meno emissioni climalteranti rispetto a una famiglia costretta a utilizzare beni a bassa efficienza. Ma pur sapendolo non investono in innovazione perché non hanno i soldi per farlo.

Fisco che compensa

Le proteste dei gilet jaunes vanno lette in questa prospettiva. Vogliono dirci che le misure fiscali per ridurre il consumo di benzina e di elettricità si trasformano in misure contro i poveri se non sono accompagnate da maggiori servizi e da adeguati contributi alle ristrutturazioni.

Considerato il ruolo centrale giocato dalla collettività per il raggiungimento di una sostenibilità che non lasci indietro nessuno, è fondamentale garantirle tutto il denaro che serve per lo svolgimento delle proprie funzioni. Per questo il sistema fiscale assume importanza strategica, tanto più che non serve solo a raccogliere denaro per le casse pubbliche, ma anche a ristabilire equità fra cittadini e a orientare i comportamenti di famiglie e imprese affinché le loro scelte di consumo e di produzione non entrino in rotta di collisione con l’interesse generale.

Ecco perché è arrivato il tempo di porre con forza una seria riforma del fisco coerente con l’articolo 53 della Costituzione. Ossia che ogni forma di ricchezza (reddito, patrimoni, eredità) siano tassati secondo criteri di progressività e cumulo. Ricordandoci che i tre individui più ricchi d’Italia possiedono la stessa ricchezza del 10% più povero, ossia sei milioni di persone. Disuguaglianze che pesano come macigni e che paghiamo su tutti i piani: umano, sociale e ambientale.

Centro nuovo modello  di sviluppo

A proposito delle «briciole dei ricchi»

Gentile redazione,
mi è capitata tra le mani una copia del numero di giugno della vostra rivista (oserei dire nostra, perché ho appena fatto una donazione per riceverla a casa) e mi è piaciuta moltissimo.

Ho letto, ad esempio, gli articoli sul Sudafrica, e sono rimasto impressionato favorevolmente dalla lucidità e onestà intellettuale con le quali scrivete di quel paese che un pochino conosco tramite un amico sudafricano. Siete davvero in gamba! Ma tutta la rivista è davvero «ok».

In ultimo ho letto l’articolo di Francesco Gesualdi: «Le briciole dei ricchi e la giustizia sociale», alla fine della lettura ho pensato di scrivervi qualcosa nel merito. Senza la pretesa che lo pubblichiate. Vedete voi!

A proposito del capitalismo compassionevole

Nel merito: sono d’accordo su tutta la linea rispetto al «capitalismo compassionevole», al fatto che in realtà il capitalismo internazionale non vuole «lacci e lacciuoli» come si diceva anni fa quando l’amministrazione Clinton negli Usa per prima (forse) ha tolto questi lacci permettendo, di fatto, qualsiasi cosa al capitalismo internazionale, senza parlare poi dell’aggressività dei fondi sovrani cinesi, ecc.

Sono molto d’accordo sulla redistribuzione equa degli utili per una democrazia economica (e non solo) vera e inclusiva in tutto il mondo. Ho qualche perplessità sulle modalità necessarie per raggiungere l’obiettivo. Mi riferisco alla classica idea di tassare i ricchi, anche con una patrimoniale, per, appunto, redistribuire. Idea che sarebbe assolutamente condivisibile (anche qui se vivessimo ancora nel ‘900 con gli stati che da soli o quasi potevano determinare in buona parte il proprio divenire economico e sociale).

Purtroppo, non è più possibile ragionare in questi termini: tassazioni importanti e patrimoniale finirebbero soltanto per favorire la «fuga» di imprese e capitali all’estero. Paradisi fiscali compresi, anche quelli di casa nostra, nella stessa Unione europea.

Il potere delle multinazionali e dei grandi gruppi di investimento internazionali è tale che nessuno stato (tolti forse gli Usa da un lato e la Cina dall’altro che non sono realmente interessati al problema) ha il potere di condizionarli in un modo o nell’altro. Gruppi di potere quasi occulti quali il Bildenberg (occulti nel senso che nessun giornalista può o osa dire che cosa si dicono quando si riuniscono per decidere i nostri destini in base al loro interesse) di fatto condizionano le scelte politiche degli stati in un senso o nell’altro.

La globalizzazione è solo, o quasi, per i «ricchi». Noi poveri da un lato e la cosiddetta classe media (che non può scappare all’estero) dall’altro, la subiamo. Ad esempio, una nuova patrimoniale colpirebbe, alla fin fine, questi ultimi già sufficientemente vessati.

Altre soluzioni? Magari chiudere il mercato e creare una forma di autarchia europea contro la Cina. Certo (tolto un periodo di assestamento magari doloroso) non avremmo bisogno di nessuno per avere e produrre quello che ci serve e nel contempo potremmo mantenere rapporti il più possibile equi e paritari con il Terzo Mondo. Ma non credo sia possibile. Anche i nostri capitalisti o grandi imprese, per il loro interesse, vogliono la globalizzazione e vogliono i mercati aperti nei confronti della Cina (ad esempio la variante Covid Delta sta bloccando i porti cinesi e ne sentiremo le conseguenze), infatti ormai, per il guadagno di pochi, siamo legati a loro a doppio filo.

C’è anche la tassazione dei giganti del web… ma non scherziamo! Condizionano anch’essi gli stati a loro piacimento con l’aiuto degli Usa (e non solo) che fanno finta di volerli tassare.

Una soluzione forse praticabile sarebbe di trattenere in Italia (parlando di casa nostra) le imprese, abbassando la tassazione in cambio di assunzioni che compenserebbero almeno in parte le perdite dell’erario ma favorirebbero l’occupazione. Niente di nuovo, mi direte. Ma paesi come l’Irlanda, la Svizzera e molti altri hanno tratto grande benefico da scelte del genere.

Mi spiego. Se ad un’impresa (che, vivaddio, magari paga le tasse) che deve versare, ad esempio, tre milioni l’anno allo stato, si dicesse: un milione tienitelo ma devi assumere in modo che due milioni lo stato li veda rientrare con le tasse sui nuovi dipendenti? È noto che in Italia (per motivi di mentalità e di costo del lavoro) si tende ad avere meno dipendenti che in altri paesi.

Mi rendo conto che detta così si tratta di una proposta un po’ naif. Ma ci si potrebbe ragionare magari insieme ad una vera riforma della Giustizia, della Pubblica amministrazione, ecc.

Non sono un esperto. Non sono sicuramente all’altezza di chi ha scritto l’articolo. In sintesi, volevo solo dire che, a parer mio, certe ricette non funzionano più e bisogna avere il coraggio di pensarne di nuove!

A voi, pensatori ed economisti non asserviti, sta di aiutarci. A noi la presa di coscienza e la lotta non violenta ma decisa per mondo più giusto e solidale.

Grazie anche solo se qualcuno leggerà questa lettera. Avanti così con la vostra bellissima rivista!

Marcello Poggi
Genova, 14/06/2021




Il ghetto dei miracoli

testo e foto di Amarilli Varesio |


In un quartiere malfamato della capitale un giovane musicista ha un’idea geniale. Crea uno spazio per lottare contro il degrado dando lavoro ai giovani. Qui la plastica trova una seconda vita, e gli ortaggi fioriscono in bottiglie e scarpe vecchie.

Un bambino a torso nudo fa rotolare abilmente il cerchio della ruota di una bicicletta su un sentiero di spazzatura senza farlo cadere. Corre su un pianoro di rifiuti compatti, schivando taniche rotte, cumuli di stracci, galline e mucche che pascolano alla ricerca di scarti alimentari. Otto anni fa, questo luogo era per metà una palude e per l’altra un parco giochi per i bambini di Kwamokya (uno degli slum più grandi di Kampala, la capitale dell’Uganda). Il ghetto, come lo chiamano gli stessi abitanti del quartiere, si trova incastonato tra le colline della città, all’ombra di lussuosi grattacieli e supermarket, come l’Acacia Mall.

«Ogni volta che alziamo lo sguardo, ci ricordiamo da dove veniamo», commenta Patrick Mujuzi, il fondatore di Ghetto research lab (Grl). L’uomo indossa degli stivali di plastica bianchi sporchi di fango, e un cappello di lana rossa che non riesce a trattenere tutti i suoi dreadlocks. È musicista, produttore musicale e professore di storia e religione. Mi racconta come Kwamokya sia diventato famoso nel paese negli ultimi anni poiché vi è cresciuto Robert Kyagulanyi (conosciuto come Bobi Wine), 39 anni, musicista reggae e principale oppositore dell’attuale presidente Yoweri Museveni (al potere da 36 anni, oggi al sesto mandato) alle elezioni presidenziali del gennaio 2021. Prima delle votazioni, i caccia volavano bassi, vicini alle case, per spaventare i moltissimi sostenitori del «presidente del ghetto», e la polizia reprimeva violentemente qualsiasi manifestazione di protesta. A Kwamokya, attaccare volantini di Museveni sulle case, anche se si era oppositori, era diventata una strategia per proteggersi quando la polizia faceva irruzione.

Il cancello del Ghetto research lab a Kwamokya, Kampala. (Foto Amarilli Varesio)

Arriva la polizia

Nel gennaio 2021, la polizia è andata anche al Ghetto research lab per cercare i sostenitori di Bobi Wine. Patrick ricorda bene quella sera. Fuori dal cancello i poliziotti avevano trovato un ragazzo che fumava marijuana e quello era diventato il pretesto principale della loro visita. «Ci hanno fatti uscire tutti dalla sede e hanno chiesto chi fosse il capo. Mi hanno indicato. Noi eravamo una quindicina e loro il doppio, tutti armati di bastoni e pistole. Mi hanno strappato due dreadlocks e poi mi hanno picchiato, calciandomi tra le gambe e sulla testa. Poi mi hanno trascinato di peso fino alla sede della polizia. Sono rimasto tre giorni all’ospedale. Fortunatamente ho delle conoscenze politiche. Alcuni parlamentari hanno chiamato i poliziotti che avevano organizzato l’attacco e hanno ordinato loro di liberarmi immediatamente. Mi hanno rilasciato, ma per quei fatti nessuno è stato condannato».

L’impunità della polizia è una storia ben conosciuta agli abitanti del ghetto. Quasi ogni sera, i poliziotti si muovono in gruppo per il quartiere con il warrag (l’alcol) in una mano e la pistola nell’altra. Picchiano chiunque attraversi il loro cammino, a meno che non ricevano dei soldi. A quel punto ti ringraziano.

«Per fare una perquisizione dovrebbero avere un mandato. Io conosco la legge. Mica sono tutti stupidi nel ghetto, dicevo loro. Ma più parlavo, più mi picchiavano».

Dopo quell’episodio, una volta uscito dalla clinica, Patrick per sicurezza, non si è fatto vedere nel quartiere per qualche giorno.

Ora, il bambino a torso nudo corre con la ruota sotto il braccio per scampare al temporale torrenziale che si è aperto sopra di noi senza preavviso.

Ci dirigiamo verso la sede in bambù di Ghetto research lab, che sorge su un angolo della discarica. In questa zona, il governo non permette di costruire strutture permanenti per via della vicinanza alla linea dell’elettricità che arriva da Jinja, la città che sorge presso le sorgenti del fiume Nilo. Nonostante la terra appartenga al governo, Grl paga un affitto di 9 milioni di scellini ugandesi (2.108 euro) all’anno a un uomo che si ritiene il padrone della zona.

Il capannone in bambù è circondato da piante di papaya, banana, seneci nel pieno della fioritura che traboccano da scarpe bucate appese alle pareti e vecchi pneumatici, di misure diverse, impilati e pieni di terra. In questi ultimi crescono pomodori, fragole, spinaci.

All’interno della sede, l’ambiente è fresco e ventilato. Anatre e galline scorrazzano libere tra le macchine da cucito, che vengono utilizzate per insegnare il mestiere ai giovani del quartiere, e tra le gambe della gente. C’è chi, spaparanzato sulla poltrona, guarda un film sul televisore comune, chi lava i vestiti a mano. Per una decina di persone, Grl è diventata la propria casa.

Patrick si mette a preparare la colazione a base di cipolla, pomodori, avocado e zenzero per tutti. Nel 2008, una volta finita l’università, aveva deciso di raggiungere il fratello a Kwamokya per dargli una mano con lo studio di registrazione e ne era diventato il manager. «Attraverso quel lavoro, sono entrato in contatto con moltissime persone del quartiere e ho capito, tramite loro, cosa vuol dire vivere nel ghetto. Non riuscivo a fare pranzo perché sapevo che loro non avevano mangiato. Tanti ragazzi rubavano i cellulari, mentre le ragazze si prostituivano perché avevano fame. Erano guidati dalla disperazione. I miei amici mi davano pochissimi soldi per registrare le canzoni, molti erano senza lavoro. Piano piano ho capito che dovevo creare un posto dove poter connettere le idee e realizzare dei progetti per dare lavoro ai giovani. Così, mi sono messo a pensare, e nei rifiuti del ghetto ho visto la soluzione per dare il pranzo ai miei amici».

Imparare sbagliando

È il 2013 quando Patrick crea un gruppo con i ragazzi che frequentano lo studio di registrazione. Sono in 24. L’obiettivo è quello di promuovere la propria musica e, allo stesso tempo, trovare delle soluzioni per risolvere i problemi dello slum, come la disoccupazione giovanile e la degradazione ambientale, attraverso l’idea che «si impara facendo e sbagliando».

Per sfamare i suoi amici, Patrick decide inizialmente di occuparsi di agricoltura urbana. Lui sperimenta e, se le tecniche funzionano, le trasmette ai ragazzi. «Raccoglievamo buste di plastica e vecchi sacchi. Li riempivamo di terra e vi coltivavamo piante o fiori. Per esempio, riempivamo di terra un sacco di 50 kg e lo bucavamo su tutta la lungehzza per infilarvi semi di cipolle e pomodori. Facevano inoltre in modo che l’acqua bagnasse anche le piante che crescevano in fondo». Patrick e il gruppo realizzano concime naturale con gli scarti vegetali, saponi naturali e sistemi di acqua ponica (un sistema di coltivazione in assenza di terreno, unito all’allevamento dei pesci). Ben presto, alcuni giornali locali si interessano a quelle attività alternative che vengono portate avanti nel ghetto.

Grazie alla visibilità ricevuta, il gruppo partecipa a delle esibizioni artistiche ed esegue la pianificazione dei giardini urbani per alcuni privati. Ma l’indipendenza economica è ancora lontana perché le entrate non sono stabili.

Nel frattempo, Patrick organizza anche giornate di pulizia del ghetto. «All’inizio raccoglievamo la plastica e la bruciavamo perché, all’epoca, non avevamo altre idee. Ci mettevamo a bordo strada con le casse e i microfoni e raccontavamo alle persone che passavano quello che stavamo facendo. Ma poi ho capito che bruciare la plastica impattava lo strato d’ozono. Dovevamo trovarne un uso alternativo intelligente».

Il Grl ha costruito la propria sede su parte della discarica di Kwamokya. (Foto Amarilli Varesio)

Bagni di plastica

Mentre si salta da una sponda a un’altra dei canali che scandiscono i vicoli angusti tra le case, non bisogna lasciarsi ingannare dalla solidità apparente del terreno. Nascosti sotto sottili strati di terra mista a plastiche varie, rimangono acquattate le cosiddette «flying toilets», i sacchetti di plastica in cui la gente chiude i propri bisogni, lasciati per strada, al riparo da occhi indiscreti. Patrick sa che l’igiene è una delle sfide più grandi di Kwamokya.

Dopo due anni, finalmente, il gruppo trova una soluzione economica e soddisfacente per ridurre l’inquinamento da plastica nel ghetto: i bottle bricks, mattonelle derivate dalla fusione delle bottiglie. «Mi ci è voluto del tempo per arrivarci. Dopo aver trovato l’idea giusta, ho scoperto che in Asia c’erano tante case costruite con i mattoni di plastica, ma dentro c’era la terra, non altra plastica». Intanto, nel 2016, Patrick e i suoi amici si registrano ufficialmente come Ghetto research lab, un’organizzazione non profit che ha l’obiettivo di formare i giovani su pratiche sostenibili, e aiutarli a diventare economicamente indipendenti. Poi, nel 2018, la Lupererial foundation, una fondazione gestita da un ricco indiano, proprietario di moltissimi lodges turistici in Uganda, dona 15 milioni di scellini ugandesi a Grl, raccolti tramite una «goat race» (gara di capre, tipica di certi gruppi etnici, ndr), per costruire due bagni pubblici. Vengono coinvolte decine di madri single che abitano nelle baracche attorno alla discarica. Le donne raccolgono e riempiono 35mila bottigliette con sacchetti di plastica. «Il governo voleva chiudere una scuola di Kwamokya perché non aveva le latrine per gli studenti. Grazie a questo progetto, quei bambini possono continuare a studiare».

Attualmente, però, la fusione delle bottiglie di plastica per la creazione delle mattonelle è in sospeso, per via dei fumi neri e tossici che vengono emanati nel processo. Il gruppo sta cercando di costruire delle macchine che non producano emissioni. A ogni modo, da ogni fallimento nascono nuove idee. Infatti Grl impara a realizzare le compost toilet da un’organizzazione americana, Give Love. «Avevano costruito delle compost toilet nella regione del Karamoja, nel Nord Est dell’Uganda, ma il progetto era fallito, perché la gente non le usava. Un amico che lavorava con loro me li ha fatti conoscere, convinto che, grazie a me, in Kwamokya quel progetto sarebbe decollato». Grl costruisce, quindi, delle compost toilet per un gruppo di 40 disabili di Kwamokya. «Per loro, andare in bagno era un grosso problema. Le latrine erano lontane ed era complicato raggiungerle. Ciascuno, adesso, ha un bagno in casa. Noi andiamo da loro una volta a settimana per raccogliere il loro «oro», e gli diamo il cesto pulito indietro. Dopo un anno, possiamo vendere il concime a cinquemila scellini al chilo».

Un’università dove sporcarsi le mani

La conversazione con Patrick viene interrotta per l’ennesima volta da un nuovo visitatore. Manu, un rifugiato congolese, saluta Patrick, che ricambia il saluto col pugno chiuso. Poi si allontana col prototipo di sacco solare che purifica l’acqua in quattro ore, ricavato da bottiglie di plastica. Al Grl, le idee e le sinergie sono molte e la voglia di offrire maggiori opportunità di lavoro ai giovani è il sogno più grande di Patrick. «Vorrei che il Grl diventasse un’università, ma non come quelle che conosciamo tutti. Vorrei che fosse un posto per tutti, anche per chi non ha soldi, nel quale sono necessarie solo la curiosità e la voglia di sporcarsi le mani. Un professore universitario, che poco tempo fa è morto di Covid, mi ha donato dieci ettari di terreno da utilizzare per dieci anni. Questo è il secondo anno che non lo uso. Il mio sogno è di implementare su scala maggiore quello che facciamo qui, creare un centro di ricerca più grande dove insegnare la pratica agli studenti che imparano solo la teoria, le “Muzungu things” (cose da bianchi, nda)».

La mamma di Patrick viene ad avvertirci che il pranzo è pronto. Si è sistemata con le pentole e i tavoli dentro il Grl perché l’affitto di un locale (tipo ristorante di strada) è troppo caro per lei. Nella pentola fumante sta cucinando il matoke, il frutto del platano, avvolto nelle sue foglie. Di fianco a lei, svetta una pianta di marijuana rigogliosa e il contrasto è immediato. Quasi leggendomi nella mente, Patrick risponde al mio sguardo divertito. «Sono un lavoratore sociale, ho a che fare con i giovani del ghetto. Questa è la ragione per cui fumo e per cui ho i dreadlocks. Solo diventando come loro, i giovani si avvicinano e ti ascoltano. Solo così si è in grado di cambiarli. Io spiego loro che si può lavorare anche fumando».

D’un tratto, vediamo i ragazzi accalcarsi attorno al televisore e commentare le scene con tono indignato. Il telegiornale mostra le immagini appena riprese dell’attentato contro il ministro del Lavoro e dei trasporti. Katumba è sopravvissuto all’attacco, ma gli assassini hanno ucciso la figlia e l’autista. Patrick scuote la testa amareggiato. «Sento che devo entrare in politica, questo sentimento cresce ogni giorno dentro di me. Tra qualche anno chiamerò i media per dire che sto arrivando. Bobi Wine mi ha ispirato, ma non è quella la mia motivazione principale. Io so che qui in Uganda entrare in politica equivale a morire. Non voglio abbandonare i miei figli (si riferisce ai giovani del centro, ndr). Ma mi stanno provocando. E sento che le persone voterebbero per me, anche se non sono un uomo ricco, ma la gente mi conosce. Se Bobi Wine non vince nei prossimi anni, allora quando questo presidente morirà, ci proverò».

Amarilli Varesio

Il negozio dove vengono esposti i saponi naturali e i vestiti creati dalle allieve del corso di cucito del Grl. (Foto Amarilli Varesio)