Pakistan. Sotto scacco dei militari

Venerdì 5 gennaio, alla periferia di Islamabad, in pieno giorno, una motocicletta con due uomini dal volto coperto si avvicina a un’auto. Uno degli uomini spara una raffica di proiettili contro la vettura. L’ attacco uccide il passeggero e ferisce gravemente l’autista.

L’uomo deceduto si chiamava Masoodur Rehman Usmani, leader e portavoce del movimento Sunni ulema council (Suc), organizzazione sunnita molto attiva nella politica pachistana. Leader carismatico per i religiosi del suo Paese, terrorista per gli Stati confinanti, Usmani era stato più volte accusato di fomentare l’odio verso l’India. Rivalità, quella tra Pakistan e India, che sembra ben lontana da una soluzione.

Dopo questo ennesimo attentato, e in vista delle elezioni dell’8 febbraio, la tensione in Pakistan cresce giorno dopo giorno. Continui sono gli arresti. Il 13 gennaio, a Peshawar sono stati fermati due sospetti terroristi, mentre pianificavano un attacco suicida contro una scuola sciita. L’opinione comune, largamente condivisa, è che le elezioni non si potranno tenere a febbraio, ma verranno posticipate a data da destinarsi.

La Moschea di Masjid Baadshahi conosciuta anche come la Moschea Imperiale, è uno dei simboli religiosi del Pakistan. (Foto Angelo Calianno)

Adam (nome di fantasia) è un imam della moschea di una piccola comunità alle porte di Islamabad. Mi spiega il perché: «Se ci fossero davvero le elezioni, le strade sarebbero piene di manifesti elettorali e volantini. Ci sarebbero comizi e camion con bandiere ovunque. Non hai idea di quanto chiasso e fermento c’è nel Paese durante questi eventi. Non vedi nulla perché, anche se si dovesse votare, nessuno ha speranza che le cose possano cambiare. Chiunque andrà al potere, sarà sempre sotto il controllo militare, sono loro che comandano. Lo vedi quello che accade: omicidi, rapimenti, attacchi terroristici. Il Paese ha tante risorse, ma vengono tutte controllate dai militari. L’inflazione è altissima e la gente è arrivata al limite della sopportazione».

I principali candidati alle elezioni di febbraio saranno (o dovrebbero essere): Bilawal Bhutto Zardari, esponente del Partito popolare di centrosinistra (Ppp), e Nawaz Sharif, leader del Partito conservatore islamico (Pml-n). Nawas Sharif è stato già primo ministro, per tre volte. Si è ricandidato in Pakistan dopo quattro anni di autoesilio all’estero.

Nessun candidato, però, ha rimpiazzato nel cuore dei pachistani l’ex primo ministro Imran Khan. Il carismatico leader del Pakistan Tehreek-e-Insaf (Movimento per la giustizia in Pakistan) dal 2023 si trova in carcere. Kahn è accusato di oltre 150 reati, tra cui quello di corruzione. Crimini da lui sempre negati.

A Lahore, incontriamo un giovane ricercatore universitario. Sostenitore di Kahn, mi racconta: «Non crediamo che possano esserci elezioni regolari. I militari, in diverse forme, sono ovunque: intelligence, polizia, esercito. Non può esserci una democrazia così. Ufficialmente possiamo anche avere un presidente, un primo ministro, un parlamento. Ma sono trent’anni che chi governa davvero il Paese è lo Stato maggiore militare. Controllando le forze armate e la sorveglianza, questi possono fare tutto quello che vogliono e nessuno ha il coraggio di andargli contro. Chi ci prova fa una brutta fine: guarda cosa è successo a Imran Kahn o a chi ha supportato la causa dell’indipendenza del Balocistan: la gente sparisce, senza lasciare traccia».

Il 2023, per il Pakistan, è stato l’anno record dei morti legati a terrorismo e conflitti interni. Un report del The Hindu, testata che monitora la geopolitica in Asia, riporta oltre 1.500 morti e 789 attacchi terroristici negli ultimi 12 mesi.

Nel frattempo, in questi giorni, un’enorme marcia è arrivata a Islamabad da Quetta. Migliaia di persone hanno camminato dal Balocistan, per protestare contro il governo per le violenze e le sparizioni, avvenute nella regione ai confini con l’Afghanistan. Oltre a quest’ultimo caso, lo Stato dovrà affrontare il problema di migliaia di profughi afghani che arrivano qui ogni giorno, il malcontento generale per l’economia in crisi e la presenza del terrorismo. Con questi presupposti, pochissimi credono nella possibilità di elezioni regolari e in sicurezza.

A Islamabad, sono lunghissime le file di persone fuori dalle ambasciate straniere. L’obiettivo di tantissimi, e unica soluzione per il loro futuro, sembra soltanto quella di cercare asilo in un altro Paese.

Angelo Calianno da Islamabad

 




Ogni pace e ogni guerra hanno una storia


Una giornalista racconta alcuni dei molti conflitti dimenticati del mondo, e ci dice che ogni guerra insegna qualcosa su come si può fare la pace. Un diplomatico italiano racconta gli ultimi giorni della Nato in Afghanistan, cercando anzitutto le radici lontane di un fallimento e di una speranza.

La meccanica della pace

Quando La meccanica della pace, firmato da Elena Pasquini, esce a metà luglio con People, è piena estate, e la guerra in Ucraina ha compiuto molte devastazioni. All’orizzonte non c’è alcuna speranza né di un cessate il fuoco, né, tantomeno, di una pace tra le parti. Di fronte a questo scenario che non favorisce l’ottimismo, mi sembra cosa buona e giusta consigliarvene la lettura.

Pasquini è una brava e capace giornalista che, da oltre venti anni, con grande sensibilità, osserva da vicino le crisi internazionali. Soprattutto quelle umanitarie, che sono sempre tante, troppe e molto spesso fuori dal circuito dell’informazione.
Esistono, ma non esistono.

Nel suo La meccanica della pace, non solo ci porta nei luoghi dimenticati dalle cronache di guerra in Africa, Medio Oriente e America Latina, ma ci racconta esperienze che dicono una pace possibile da trovare.

«Ogni guerra è diversa, ogni guerra distrugge qualcosa in maniera definitiva, vite, beni, risorse, storia, radici – scrive l’autrice -, ma ogni guerra insegna qualcosa su come si può fare la pace e che la pace è possibile. La pace non è un cessate il fuoco e neppure un accordo. E non è data per sempre. Una pace possibile è fatica, impegno incessante, vigilanza anche quando sembra raggiunta o scontata. E la risoluzione dei conflitti armati è “il più drenante” e logorante dei lavori».

Esiste quindi un meccanismo che mette in relazione gli opposti. La diatriba tra Caino e Abele non deve avere per forza un finale scontato. A loro è mancato un mediatore, o una mediatrice.

Nelle dieci storie raccolte nel libro, non a caso, molte protagoniste dei processi di pacificazione sono donne.

Per costruire la pace senza usare la guerra serve tanta voglia di sporcarsi le mani, grande determinazione, enorme spirito di adattamento, rispetto per tutti, ma proprio tutti, gli attori in campo. E no, non servono eroi.

«Fare la pace è dolorosa pazienza che una vittoria militare non garantisce – scrive Elena Pasquini -. Pace compiuta o parziale, che inizia quando si accoglie l’esistenza dell’altro, il nemico, e dove “nessuno vince tutto e nessuno perde tutto”. Serve qualcuno che inneschi la scintilla, che accenda la luce, che riconosca la realtà e metta in moto il meccanismo».

Chissà se e quando questa logica lineare, semplice nella sua essenzialità, inizierà a prendere il sopravvento sul linguaggio della violenza.

 

L’ultimo aereo da Kabul

C’è un altro libro, uscito quasi in contemporanea con Piemme, che, invece, racconta la storia di un fallimento diplomatico e porta la firma di Stefano Pontecorvo, già ambasciatore italiano in Pakistan, ma soprattutto rappresentante civile della Nato in Afghanistan.

È lui l’uomo che ha coordinato, nell’aeroporto di Kabul, l’evacuazione dei civili afgani in fuga dal ritorno dei taliban, in un contesto che definire apocalittico pare misurato.

Era la fine del mese di agosto dello scorso anno.

L’ultimo aereo da Kabul. Cronaca di una missione impossibile è un libro fondamentale, soprattutto per un motivo: alla catastrofe finale il suo autore dedica solo due capitoli, il nono e il decimo. Gli altri otto sono una approfondita analisi storica del contesto che ha preceduto tutto quello che abbiamo visto un anno fa, partendo dagli albori della storia afgana, ed entrando nelle dinamiche tribali, religiose, economiche. Tutto quasi completamente ignorato nei vent’anni di presenza militare occidentale in quel paese.

Pontecorvo, che è figlio di diplomatici, già da bambino viveva in quella fetta di Asia e, in quell’aerea sospesa tra cultura araba e persiana, all’ombra di Cina e India, vi ha trascorso più tempo che in Italia.

«Alle 18.21 di venerdì 27 agosto 2021 terminò formalmente l’avventura afgana della Nato – scrive l’ex ambasciatore -. In quel momento il C130 italiano sul quale ero imbarcato, ultimo rappresentante dell’Alleanza atlantica a lasciare il paese, passò il confine tra l’Afghanistan e il Pakistan. Per la prima volta in vent’anni l’Afghanistan era senza presenza Nato. Lasciammo il paese e lo lasciammo male, in mano a quegli stessi talebani che avevamo cacciato dal potere in poche settimane venti anni prima. E lasciammo un paese che aveva creduto in noi e una popolazione condannata ancora una volta, non certo per scelta, a un futuro ben diverso da quello che le avevamo fatto intravedere».

Avere ignorato la storia del contesto, averne ignorato i meccanismi (per recuperare il lessico della Pasquini), ha prodotto una sequela di errori che alla fine si sono sommati alla decisione presa dall’allora presidente Donald Trump di lasciare del tutto e definitivamente l’Afghanistan per motivi di pura politica interna.

L’ultimo aereo da Kabul è una sorta di manuale, un compendio di «cose da non fare se» ti occupi di diplomazia, se devi sanare ferite, se devi chiedere a tribù che si odiano da secoli di fare un governo insieme.

Interessante è, ovviamente, anche il punto di vista di Pontecorvo: uomo occidentale, che ha vissuto l’Oriente, ne è stato contaminato ed è stato chiamato a scrivere una delle pagine più tragiche della sua storia recente.

Traspare spesso nelle sue parole un senso di amarezza che però attenua nelle ultime pagine del libro, quando si chiede: ne è valsa la pena andare laggiù per vent’anni se il risultato è stato questo? La risposta è: sì. «Conosciamo la storia del bambino che mette il dito nel foro di una parete della diga e impedisce all’acqua di […] allargare la falla, salvando il suo villaggio dall’inondazione. […] Quel bambino è la Nato. Fino a che abbiamo tenuto il dito […], il sistema ha retto per gli afgani e per noi. […] Abbiamo lasciato un Afghanistan ben diverso da come lo abbiamo trovato. Vent’anni fa non vi erano praticamente scuole, sanità, educazione, le donne vivevano nel Medioevo. […] Tutto questo è cambiato e lo abbiamo cambiato noi. […] L’età media afgana è di 28 anni, una intera generazione è crescita esposta alla guerra, ai troppi morti causati da essa, ma anche avendo negli occhi un modello alternativo e la consapevolezza di cosa significhi vivere una vita diversa. Per l’Afghanistan vi è ancora una speranza».

Sante Altizio




Afghanistan. I nuovi Talebani

Sommario

 

 


Ritorno a Kabul

«Maometto è il suo profeta»

Il nostro collaboratore Angelo Calianno è tornato in Afghanistan dopo la riconquista del potere da parte dei Talebani. Questo è il suo racconto.

Kabul. Avevo lasciato l’Afghanistan nel 2018. Avevo lasciato un paese devastato dagli attentati dei Talebani che cercavano di destabilizzare il governo. Avevo lasciato un paese dove i clan dei signori della droga si contendevano il dominio sui campi di oppio.

Kabul era un susseguirsi di checkpoint, andirivieni di elicotteri americani, strutture blindate e soldati armati a guardia di banche, ministeri, alberghi. Nonostante questo, nonostante la corruzione dilagante, il paese aveva fatto molti passi in avanti. Molte Ong e compagnie straniere avevano cominciato a investire, le donne erano finalmente più presenti nella politica e nei media, pur rimanendo, quella afghana, una società estremamente patriarcale.

Atterrando a Kabul oggi, la sensazione è surreale. L’aeroporto è semideserto, a parte la presenza massiccia dei Talebani, schierati in ogni angolo. Capelli e barba lunga, uniforme assemblata con capi d’abbigliamento di diverse nazioni, e armi semiautomatiche americane, sono i Talebani a occupare tutti i checkpoint che, prima di agosto 2021, erano presenziati dall’esercito regolare. La bandiera bianca, con la scritta: «Sono testimone che nessuno merita di essere adorato se non Allah, sono testimone che Maometto è il suo profeta», ha ovunque soppiantato il tricolore nazionale afghano.

Talebani a un check point, a Kandahar. Foto Angelo Calianno.

Quei giovanissimi «soldati di Allah»

Nei primi incontri, quelli per ottenere i permessi giornalistici e nei posti di blocco, i Talebani si mostrano molto cordiali. Mi offrono del tè e mi chiedono di quali temi voglia occuparmi.

«Mi raccomando, parla bene di noi. Scrivi che, da quando siamo tornati al comando, l’Afghanistan è un posto sicuro». È una delle frasi che più sento pronunciare ogni qual volta vengo fermato o mi trovo a intervistare qualcuno delle forze di sicurezza.

Durante un pranzo, dei giovanissimi Talebani, forse appena diciottenni, con un buon inglese e armati fino ai denti si siedono al mio tavolo.

«Da dove vieni?», mi chiedono. «Sai chi siamo noi?». «Conosco il gruppo a cui appartenete», rispondo. «Vi posso chiedere da quanto tempo vi siete uniti ai Talebani? E com’è stato il vostro addestramento?». «Abbiamo iniziato quando avevamo dieci anni, sulle montagne nella provincia di Helmand. L’addestramento è molto duro. Ci insegnano a sparare, combattere, si marcia al freddo e sulle montagne, a volte per mesi», raccontano.

«E se qualcuno non volesse più far parte dei Talebani e non volesse più combattere?». Mi guardano stupiti. Sorridono come se avessi chiesto qualcosa di estremamente stupido. «Siamo soldati di Allah, non smetteremo mai di combattere».

«Siete soddisfatti ora che gli americani sono andati via e ci siete voi al comando del paese?», insisto. «Ora siamo contenti. Gli americani sono il male. Prima di noi c’era solo degrado, la gente si ubriacava, c’era corruzione ovunque. Sei il benvenuto qui, che Allah ti protegga».

In realtà, nessuno di questi ragazzi aveva mai visto Kabul prima di agosto. A loro la capitale era stata descritta come un luogo fuori controllo, fatto di vizi e perdizione. Prima di andare via i due giovani mi chiedono se posso regalare loro del credito telefonico per usare internet. «Le giornate nei posti di blocco sono molto lunghe e ci annoiamo tanto», mi confessano.

Ci metto poco però a capire che la situazione è tutt’altro che migliorata come i Talebani vorrebbero farmi credere. I principali attentatori in passato erano Talebani. Con loro al comando ovviamente gli attentati sono diminuiti. Le esplosioni, che spesso si odono in giro per le città principali, sono quelle causate dagli ordigni piazzati dai miliziani dell’Isis-k (la fazione afghana dello Stato islamico), oggi principali oppositori del regime talebano.

Camminando per Kabul, più di metà di quelli che erano affollatissimi negozi, caffè, sale da tè, ora sono chiusi o deserti. Il numero di chi chiede l’elemosina per strada, soprattutto bambini, è decuplicato. Fuori dalle banche ci sono file dal mattino presto: è possibile prelevare un massimo di 200 dollari al mese, ma solo fino ad esaurimento del contante. Molto spesso quando arriva il proprio turno, non ci sono più banconote. È così da agosto. Le code più lunghe, chilometriche, si trovano fuori dall’ambasciata iraniana e pakistana. Centinaia di persone provano a chiedere un visto per fuggire in uno dei paesi confinanti.

Uomini in preghiera fuori dalla moschea di Shah-e Doh Shamshira, a Kabul. Foto Angelo Calianno.

L’amarezza del professore

Scuole e università sono vuote. In una di queste incontro Mohammed, professore di ricerca ed educazione linguistica all’Università di Kabul. «Fino ad agosto – mi racconta – insegnavo a 160 studenti, di cui il 65% erano donne. Quando sono arrivati i Talebani, non hanno avuto bisogno di vietare nulla. La gente era talmente spaventata che, chi non è fuggito verso l’aeroporto, si è chiuso in casa senza uscire per settimane. Io ho ancora il mio posto di lavoro, anche se, come vedi, agli studenti non è ancora permesso frequentare le lezioni. Abbiamo provato a contattare le autorità talebane, dicendo di essere disposti a dividere le classi tra donne e uomini, anche in giorni diversi. La loro risposta è stata: “Vedremo”. Ma sono già passati vari mesi senza nessuna comunicazione».

«Cosa pensi di tutte le persone che sono fuggite? Tu vorresti andare via?». «Non posso biasimare chi è scappato – risponde il professore -. Le persone, soprattutto i giovani, vogliono un futuro che qui non si vede più. Non si gioca con il futuro. Mi rattrista molto che, soprattutto le menti più brillanti, i giovani più istruiti, siano fuggiti. Io personalmente non andrei mai via per due ragioni: la prima è che non ho più l’età per farlo. Trasferirsi in un paese straniero, ricominciare la propria vita da zero, è una cosa che puoi fare solo se hai molti anni da vivere davanti a te. La seconda è che io amo l’Afghanistan, non voglio lasciare i miei studenti, se me ne andassi io, chi ci sarebbe per loro? Che punto di riferimento avrebbero?».

Gli chiedo se sia possibile un futuro senza Talebani. «Arrivati a questo punto, non so come potrebbero andare via. Molto probabilmente per sovvertirli ci vorrebbe un altro conflitto ma questo paese ha già sofferto abbastanza, generazioni sono cresciute vedendo solo guerra e occupazione».

«Che soluzione potrebbe esserci allora?», insisto. «Io penso che l’unico scenario possibile sia quello in cui le forze internazionali facciano pressione sui Talebani affinché includano nel governo, tutte le minoranze attualmente escluse: Sciiti, Hazara, Uzbeki, Tagiki. L’altro aspetto fondamentale da tenere vivo è quello dell’istruzione. Senza scuola, se non ci sono fondi e soldi per gli insegnanti, non c’è possibilità di cambiare le cose. Una persona istruita può avere un effetto positivo anche sui Talebani. Io ho constatato personalmente molta differenza tra quelli che sono da qualche mese a Kabul e quelli che sono ancora nelle zone rurali. Il contatto con la società, con persone che hanno un’istruzione, potrebbe farli ragionare e, magari, aprire nuove possibilità».

Una vista dall’alto di Kabul, la capitale dell’Afghanistan. Foto Angelo Calianno.

Verso l’Iran, l’Uzbekistan o il Pakistan

Non tutti però riescono ad accettare la realtà di oggi, l’obiettivo principale di quasi tutti gli afghani che incontro rimane quello di andare via. Ci sono pochi voli disponibili in uscita, circa due a settimana, al momento operati solo da due compagnie aree (Qam air e Ariana) e solo per due destinazioni: Islamabad in Pakistan e Dubai negli Emirati arabi. I costi, poi, sono esorbitanti per chi vive qui con uno stipendio di settanta dollari al mese. Un biglietto aereo, di sola andata, costa attorno ai mille dollari, sempre che si possegga un visto o un permesso valido per il paese di destinazione. Per molti, quindi, l’unica soluzione è uscire dal paese via terra. Legalmente, oggi ci sono tre possibilità: l’Iran, l’Uzbekistan (che, però, apre e chiude continuamente il valico per ragioni di sicurezza) e il Pakistan.

In questi giorni, il passaggio uzbeko è nuovamente chiuso. Quindi, decido di andare verso l’unico valico possibile per me: il corridoio di Torkaham verso il Pakistan.

Partendo da Kabul con un taxi condiviso, attraverso Jalalabad proseguendo verso Est. L’atmosfera e l’approccio nei miei confronti, da parte dei Talebani, cambia totalmente rispetto a Kabul.

In queste zone molti di loro sono nati e cresciuti tra le montagne, non sanno leggere o scrivere, non parlano altra lingua che non sia il pashtun (la lingua ufficiale in Afghanistan è il daari), e sono estremamente sospettosi e aggressivi.

La zona a Est di Jalalabad, ovvero la provincia del Nangarhar, è conosciuta per molti motivi. Luogo nevralgico per tutti gli scambi commerciali in entrata e uscita (incluso l’oppio) verso Est, in passato è stato la regione di provenienza della maggior parte dei seguaci di Bin Laden e, prima ancora, di molti mujaheddin che combatterono contro i russi negli anni Ottanta. Per anni, il Nangarhar è stato teatro di scontro tra le forze armate governative e i Talebani. Oggi, nuovamente, è uno dei principali campi di battaglia tra Talebani e Isis-k. Già una dozzina di chilometri prima del valico, è possibile vedere una coda di centinaia di camion: sono fermi lì da un mese aspettando il permesso di poter passare. Gli autisti vivono tra la cabina del loro mezzo e l’asfalto, stendendosi su un tappeto per mangiare e riposare.

Talebani in uno dei check point di Kandahar. Foto Angelo Calianno.

In coda al confine, in balia delle guardie

Visto che, con gli stranieri, i Talebani si comportano diversamente per dimostrare che sono «cambiati», decido di fingermi tagiko per testimoniare cosa accade su questo confine alle persone «comuni». Cominciando l’attraversamento del corridoio di uscita, nessuno mi chiede documenti (probabilmente perché nessuno di questi Talebani sa leggere). Siamo migliaia, divisi in due file indiane di cui non si vede la fine. Le famiglie affittano delle grandi carriole di legno per appoggiarvi i bagagli, i bambini, o far riposare gli anziani.

Parlo con alcuni ragazzi in coda con me: «Ci vogliono giorni per percorrere questi due chilometri che ci separano dal Pakistan. Molto spesso arrivati quasi al cancello, ci rimandano indietro perché non abbiamo i documenti in regola, così c’è gente che è in coda da una settimana».

I Talebani qui sono molto violenti, prendono a bastonate chiunque si sporga fuori dalla fila, o provi a scavalcare un paio di posizioni. Un ragazzo tira fuori un telefono, una guardia dei talebani lo prende, controlla alcune foto sullo schermo e comincia a picchiarlo con pugni sulla testa. Il ragazzo cade e viene trascinato fuori dalla fila, lasciato poi a lato del marciapiede.

Passano 15 ore solo per fare i primi 500 metri. Quando i Talebani aprono il cancello tra un settore e l’altro, ci picchiano con i bastoni dietro le ginocchia. La gente corre, cade, viene calpestata dagli altri. I bambini perdono la mano dei genitori e piangono sommersi dalla folla. Arrivati al cancello successivo, ci si ferma di nuovo.

Una donna si registra per ricevere un sacco di farina al centro distribuzione del World food program, a Kandahar. Foto Angelo Calianno.

Botte per tutti (ma in nome di Allah)

Una donna viene rispedita indietro, le vengono lanciati via i bagagli, i suoi figli piangono. Prova a protestare contro una delle guardie, questa la colpisce con il calcio del fucile. La donna prova rialzarsi ma cade a terra e viene trascinata via. Alcuni dei Talebani, per tenere a bada la folla, sparano in aria. Tutti ci sediamo per terra e, dopo pochi minuti, queste scene ricominciano daccapo, così per ore.

Un ragazzo accanto a me dice: «I Talebani prendono la nostra voglia di andare via come un tradimento. Pensavano che, arrivati loro al comando, le persone li avrebbero osannati, che a pochi sarebbe venuto in mente di scappare perché scappare è come rinnegare la loro autorità. Loro sono davvero convinti di essere nel giusto, di agire in nome di Allah e, quindi, noi che cerchiamo un futuro senza di loro siamo come dei disertori di un esercito. Ecco perché agiscono così, perché ci prendono a bastonate e a calci».

L’attesa continua. La notte fa molto freddo, siamo a metà percorso ora, in un tunnel fatto di lamiera e rete metallica. C’è ghiaccio ovunque, impossibile dormire, ci stringiamo l’uno all’altro avvolgendoci con coperte di lana. Alcuni ragazzini passano vendendo tè caldo e qualcosa da mangiare. Sono passate 24 ore dall’inizio della mia fila. Approfittando del buio e di alcuni buchi nella recinzione, dalle colline intorno arrivano uomini e ragazzi che provano a passare illegalmente. La gente è solidale con loro, fanno spazio serrando le fila. Qualcuno non è abbastanza veloce e viene visto, picchiato e trascinato via, ributtato al di là della rete.

Un gruppo di giovani Talebani di pattuglia al centro di Kabul. Foto Angelo Calianno.

Stanchezza, fame, freddo, sonno

Dopo 33 ore, raggiungo l’ultimo cancello. Qui devo mostrare la mia identità. Tiro fuori il passaporto e il permesso giornalistico, ma il Talebano di guardia non riconosce i documenti: comincia a urlare. Provo a spiegare di essere un reporter, ma lui parla solo pashtun, allora comincia a picchiarmi con un bastone. Provo a proteggermi, cado. Un altro soldato mi riporta all’inizio della fila per motivi che non comprendo.

Passano altre tre ore, io e altre centinaia di afghani siamo bloccati a un passo dal Pakistan. La gente è agitata, è stanca, ha freddo, sonno, fame. Comincia una calca che le due guardie al cancello non riescono a contenere: sfondiamo l’ultimo blocco passandogli sopra. Cadiamo, ci rialziamo, in una delle cadute un ragazzo su una sedia a rotelle mi passa sopra una caviglia. La gente corre verso l’ultimo cancello, esausta.

Ci vuole ancora qualche ora per sbrigare le pratiche di ingresso in Pakistan. Rivestiti i panni del cittadino europeo, le mie sono abbastanza veloci. In totale ho impiegato 40 ore per attraversare il confine, senza dormire, senza bagni, con quel poco cibo venduto per strada. Per migliaia di afghani, invece, la tortura continua in Pakistan. Molti arrivano con documenti non validi e vengono rispediti dall’altra parte del confine dove, per giorni, continueranno a provare il passaggio. Ancora e ancora.

Donne nella sala d’aspetto dell’Ospedale di Kandahar. Foto Angelo Calianno.

Coperte, bicchieri e il sogno di tornare

Le persone conosciute e con cui ho parlato durante le interminabili ore dell’uscita verso il Pakistan sono state tante.

Cosa si porta con sé quando si va via per sempre? Alcuni avevano solo le proprie coperte, bellissime coperte afghane di lana cucite a mano. Altri una confezione di bicchieri di vetro, altri un piccolo zainetto con un cambio, i bambini un giocattolo a testa.

A un uomo, in fila con la sua famiglia accanto a me, quando gli ho chiesto cosa avesse deciso di portare, mi ha risposto: «Nulla, se non il necessario per sopravvivere in questi giorni di attraversamento. Dentro di me porto la bellezza dell’Afghanistan, i suoi colori. I miei figli sono troppo piccoli e non ricorderanno cosa stanno lasciando. Io sono troppo vecchio e non penso riuscirò mai a tornare, ma loro sì, sono sicuro che lo faranno. Ecco perché non sto portando niente se non un tasbih (il rosario musulmano), il Corano con la parola di Allah, ma soprattutto l’amore per il mio paese che cercherò di raccontare ai miei figli. Possano loro tornare qui, in un paese finalmente in pace».

Angelo Calianno

Donne sedute per strada in attesa di ricevere un sacco di farina e legumi, a Kandahar. Foto Angelo Calianno.


Gli invisibili

Hazara e profughi, un futuro oscuro

Oltre alla storica minoranza sciita degli Hazara, altri gruppi della popolazione afghana non sono considerati dai Talebani. Come i rifugiati interni (Idp), residenti in villaggi senza nome.

Kabul. L’Afghanistan, soprattutto nella sua storia recente, è stato luogo di continui stravolgimenti politici e sociali: invasioni, guerre interne, regimi estremisti, missioni militari e, per ultimo, un ulteriore ritorno dei Talebani. In tutti questi cambi sono quasi sempre le stesse categorie di persone ad avere la peggio, fettei della popolazione totalmente tagliate fuori da qualsiasi scenario, anche dall’ultimo, quello nato nell’agosto 2021.

Le minoranze etniche come gli Hazara, musulmani sciiti, già bersaglio storico dei Talebani, vivono oggi ai margini della società, venendo arrestati con i pretesti più assurdi e sperimentando una situazione di costante terrore.

Gli Hazara sono vittime di un vero e proprio genocidio già dal 1880, quando è cominciato il dominio delle tribù pashtun. Per anni i massacri si sono susseguiti fino a portare il loro numero dall’80% al 20% della popolazione del paese. Uno dei capitoli più tristi nella storia di questa minoranza sciita, è stato scritto proprio con i Talebani al comando nel 2001, quando decine di Hazara sono stati giustiziati per le strade di Bamiyan. Nel momento in cui i Talebani sono tornati al potere, a Kabul il quartiere sciita si è chiuso su se stesso per settimane. Ricordando le stragi del passato, gli Hazara si sono nascosti nelle proprie case chiudendo mercati, negozi e qualsiasi attività pubblica.

Bambini e uomini per le strade del villaggio numero 52. Foto Angelo Calianno.

Un afghano non è soltanto afghano

Nel quartiere sciita incontro Hassan (nome di fantasia), che è uscito da poco di prigione. I Talebani lo hanno arrestato semplicemente perché stava facendo un filmato con il telefonino a una fila in banca. È stato picchiato e lasciato senza cibo per tre giorni.

«Io gestivo un hotel a Bamiyan, al Nord. Gli affari andavano abbastanza bene fino all’arrivo dei Talebani. Con una ruspa essi hanno abbattuto le colonne d’entrata e il muro circostante, chiudendo poi l’hotel. Il pretesto è stato che l’albergo aveva un nome inglese sull’insegna. Quindi, mi hanno accusato di gestire una discoteca o una casa d’appuntamenti per infedeli. Ovviamente sapevano benissimo che non era così, ma contro gli Hazara, usano qualsiasi scusa».

Chiedo ad Hassan: «La vostra etnia è stata sempre la più perseguitata in Afghanistan. Credi che possano ricominciare stragi come quelle di venti anni fa?». «Non lo sappiamo ancora – risponde -. Non riusciamo a capire cosa davvero abbiano in mente. Io penso che stiano cambiando modo di agire, sono sicuro ci odino ancora in quanto sciiti e hazara, questo non cambia. Forse però hanno capito che sterminarci, ucciderci per strada, attira troppa attenzione mediatica. Per noi è impossibile però dimenticare che, soltanto fino allo scorso agosto, i Talebani facevano saltare in aria le nostre scuole, moschee, mercati. Siamo stati sempre il loro bersaglio principale, la notte spesso si aggirano qui per queste strade con la scusa di pattugliare e cercare sovversivi. Con loro al comando siamo tutti terrorizzati».

«Si stanno organizzando soccorsi e mobilitazioni internazionali sia per provare a fare arrivare degli aiuti, sia per far uscire e offrire asilo a chi è in pericolo. Qual è la situazione della vostra etnia?». «Per molti – spiega Hassan -, in Occidente, un afghano è un afghano e basta. Non capiscono quanto qui la situazione sia divisa tra etnie, religioni, clan. A noi non arriva nulla. Molto spesso gli aiuti che vengono dai paesi occidentali devono avere il nullaosta dei Talebani per essere distribuiti. Quindi, noi non abbiamo diritto a nulla. Come ti ho detto, forse hanno cambiato metodo, ma i Talebani che vedi per le strade, sono gli stessi che fino ad agosto volevano cancellarci dalla faccia della terra».

Peraltro, i Talebani non sono l’unica fonte di preoccupazione, nel quartiere sciita di Kabul. Anche l’Isis-k, la fazione afghana dello Stato islamico, rivale dei Talebani, essendo sunnita ha giurato guerra agli Hazara, mettendo a segno i principali attentati degli ultimi mesi.

Sherin Safi (al centro, vestito di scuro), il capo del villaggio «numero 52» degli Idp, posa insieme ad alcuni dei suoi abitanti. Foto Angelo Calianno.

Villaggio «numero 52»

Oltre agli Hazara, ci sono altri gruppi relegati ai margini del nuovo ordine che i Talebani hanno promesso di costruire. Migliaia sono infatti gli afghani isolati nelle zone rurali e gli Idp (Internal displaced people), i rifugiati interni. Gli Idp sono profughi nel proprio paese, persone che hanno dovuto abbandonare le loro case, spesso perché nel mezzo dei conflitti o perché in aree al centro delle lotte per il controllo dei campi di oppio. Oggi, in Afghanistan gli Idp sono 250mila. Vivono in villaggi di fortuna nelle periferie di città più grandi. Le abitazioni sono fatte con mura di fango e tetti in lamiera. Già prima di agosto queste comunità sopravvivevano a stento e solo grazie al lavoro di alcuni di loro e all’aiuto di alcune Ong. Con la fuga della maggior parte delle organizzazioni internazionali e l’economia pressoché ferma, questa gente rischia di essere decimata, soprattutto in inverno, quando nevica e la temperatura, di notte, scende anche a dieci sotto zero. Si pensi che questi villaggi non hanno nemmeno un nome: vengono contrassegnati con un numero.

Il villaggio in cui mi trovo porta il numero 52. Ad accogliermi c’è Sherin Shafi. «Da quanto sei il capo del villaggio? Chi ti ha eletto?», gli chiedo. «Occupo questo posto ormai da 13 anni. Vengo eletto dagli abitanti, sono loro che scelgono da chi farsi rappresentare».

Sommergo Sherin con le mie domande. E lui, con pazienza, risponde: «Siamo circa 300 persone. Come vedi, queste sono le condizioni in cui viviamo. Ci siamo sempre arrangiati, abbiamo un pozzo per l’acqua, generatori per l’elettricità, ma continuiamo a vivere in tende e case di fango. Ora, visto il raddoppio del prezzo di tutto, compreso il gas, non so come potremo riscaldarci. Qui il freddo è un grande nemico. Fino a poco tempo fa alcuni di noi lavoravano in città, ma ora è quasi tutto fermo. Al momento non riceviamo nessun aiuto, e anche i Talebani, qui non si sono mai visti».

Sherin Shafi mi guida attraverso le viuzze del villaggio, stradine che non hanno asfalto ma solo terra battuta e fango. Tra questi vicoli ci sono anche delle scuole: piccole strutture con insegnanti volontari che insegnano a ragazzi dai 6 ai 14 anni le materie principali. Le classi sono divise tra uomini e donne in orari diversi.

È qui che incontro Sayed, uno dei maestri: «Ho studiato in Pakistan quando ero giovane. Lì ho imparato anche un po’ di inglese. Insegno quasi a titolo gratuito. Fino all’arrivo dei Talebani, le famiglie mi davano quel che potevano, spesso mi pagavano con del cibo. Adesso, nessuno più lavora, questa gente è abbandonata. Pochissimi si interessavano a loro già prima dei Talebani, ora che anche quasi tutte le organizzazioni umanitarie sono andate via, non so che futuro potranno avere. Io continuerò a insegnare. L’istruzione, il sapere, la conoscenza, sono tra le poche cose che non ti possono togliere, le uniche che possono dare una speranza. Per questo continuo a insegnare, e lo faccio con ragazzi di tutte le età, con chiunque voglia imparare, come vedi in questa classe».

Reparto pediatrico dell’Ospedale centrale di Kandahar. Foto Angelo Calianno.

A Kandahar, in fila per la farina e i legumi

Sono ancora tanti gli «invisibili», quelli che non sono rientrati nei piani di evacuazione di agosto e che non potranno, comunque, mai permettersi il denaro per poter andare via. In alcuni luoghi in particolare, come a Kandahar, la situazione è drammatica.

Kandahar è – e lo era anche prima del ritorno dei Talebani – una delle province più conservatrici dell’Afghanistan. Qui è quasi impossibile vedere una donna adulta che non abbia il viso coperto dal burqa. Anche a Kandahar per muoversi e intervistare qualcuno, ho bisogno di permessi speciali rilasciati dal capo locale dei Talebani che, pure qui, si dimostra particolarmente cordiale nei miei confronti, raccomandandomi di fargli fare «bella figura» quando scriverò.

Come a Kabul, anche a Kandahar la percezione che si ha per le strade non suggerisce una situazione tranquilla. Decine di checkpoint con guardie armate, centinaia di persone in coda ad aspettare gli aiuti: un sacco di farina, un sacchetto di legumi. Le Ong internazionali rimaste qui, a lavorare sono pochissime. Sono ancora presenti la Croce Rossa internazionale e il World food program. Altre organizzazioni come Emergency e Medici senza frontiere cercano di inviare aiuti direttamente negli ospedali ancora funzionanti.

Mi reco al centro di distribuzione del World food program dove una dozzina di uomini scaricano grandi sacchi di farina destinati ai bisognosi.

Abdullah, il responsabile, racconta: «Lavoro qui come volontario da sei anni, ma non ho mai visto così tanta gente aver bisogno di cibo come in questo momento. Le donne che vedi fanno la fila per ricevere un aiuto. Noi le registriamo in modo che nessuno prenda il cibo due volte o prima del proprio turno. Possiamo distribuire un sacco di farina per 250-300 persone al giorno. Al mese sono migliaia, ma continua a non bastare. Sono felice di fare questo lavoro, sto aiutando il mio paese e ne sono orgoglioso, mi chiedo però, senza aiuti come questo del World food program, cosa avrebbe da mangiare questa gente. E, in ogni caso, la sola farina non basta: molti ormai mangiano quasi sempre e solo pane. Vai all’ospedale centrale, lì potrai farti un’idea della gravità della situazione».

Un bambino recita il Corano in una scuola coranica di Kandahar. Foto Angelo Calianno.

Fame e malnutrizione

L’ospedale principale di Kandahar è pieno come mai prima d’ora, chiedo il perché al direttore,

Mirawais: «Prima del ritorno del regime, le strade che collegavano Kandahar a molti villaggi, erano impossibili da praticare perché teatro di scontri tra il governo e i Talebani, o tra Talebani e Isis. Ora queste strade sono riaperte, quindi, tutte quelle persone che non riuscivano a raggiungerci fino a poco tempo fa, ora si riversano qui di continuo, tanto che non abbiamo, come hai visto, più posti letto. Uno dei problemi principali lo abbiamo nel reparto pediatrico, tutti i bambini che vedrai sono ricoverati per problemi dovuti alla malnutrizione. Questa gente non mangia. I genitori hanno cominciato a razionare il cibo, quasi sempre derivati della farina, ma mancano proteine e vitamine».

Entro nel reparto pediatrico accompagnato da un’infermiera. La ragazza batte due colpi alla porta per avvertire le mamme dei bambini di coprirsi testa e volto. I letti sono pochi, alcuni bambini devono dividerlo con altri piccoli pazienti e le loro mamme. Alcuni sono piccolissimi, causa la malnutrizione. Alla nascita sono sviluppati pochissimo. L’odore è tremendo, è sangue rappreso: «Un bambino ha avuto una forte emorragia. Siamo così in emergenza che non abbiamo nemmeno il tempo di pulire», mi confessa un’infermiera.

Secondo il World food program, una persona su tre in Afghanistan soffre la fame e due milioni di bambini vivono in un pericoloso stato di malnutrizione.

Angelo Calianno

Ragazzini nella scuola del villaggio degli Idp, il «villaggio numero 52», fuori Kabul. Foto Angelo Calianno.


Le donne

La forza e il coraggio delle escluse

Le donne afghane sono le più colpite dal ritorno dei Talebani al potere. A parte la questione del burqa, alla maggior parte di loro non è più permesso lavorare.

Kabul. La data del 15 agosto 2021 ha cambiato la vita di molte persone in Afghanistan. Tra le persone a cui è stata totalmente stravolta, ci sono sicuramente le donne. Ricordando quello che accadeva con il regime talebano venti anni fa, ovvero l’obbligo del burqa, le esecuzioni pubbliche, le lapidazioni, le donne sono state le prime ad essere terrorizzate dal ritorno degli estremisti. Molte sono le donne e ragazze, soprattutto attiviste, che hanno trovato rifugio nei paesi europei, Stati Uniti e Canada, ma tante altre sono ancora qui con la voglia di lottare e la paura per la propria vita.

A quasi nessuna di loro è più permesso lavorare: insegnanti, avvocatesse, parlamentari, giornaliste. Di recente, i Talebani hanno dato il via libera (ma soltanto per necessità) al reintegro di alcune di loro in alcuni campi: medici e infermiere nei reparti femminili e pediatrici, ai cancelli di sicurezza per la perquisizione delle donne. Ad altre, come ad esempio negli uffici ministeriali, è permesso entrare solo indossando il burqa (che, almeno per ora, non è obbligatorio sempre e comunque).

Che il cambiamento dei Talebani del 2022 sia falso lo si è visto lo scorso 23 marzo quando le ragazze delle scuole superiori sono state rimandate a casa, producendo sconcerto e lacrime tra le studentesse.

Arzo Amiri, fisioterapista e giocatrice di pallacanestro, al lavoro presso il Centro di riabilitazione della Croce rossa internazionale a Kabul. Fot Angelo Calianno.

Il divieto della pratica sportiva

Ho intervistato diverse donne, ma l’ho sempre dovuto fare in segreto, fingendomi un amico di famiglia che andava a trovarle nelle loro case, spesso accompagnato da altri uomini, ad esempio i fratelli.

Prima del ritorno del regime talebano, le donne afghane eccellevano anche negli sport. In particolare, la squadra femminile di pallacanestro su sedia a rotelle, aveva ottenuto moltissime vittorie nei campionati asiatici. Lo sport aveva dato una seconda occasione a queste ragazze, donne e disabili in un contesto patriarcale. Il successo nello sport, i viaggi per raggiungere i tornei, rappresentavano una grandissima occasione di riscatto. Ora, come per tante altre attività, alle donne non è più permesso praticare sport. Arzo Amiri ha 24 anni. Arzo ha perso una gamba quando era piccola a causa della polio. Oggi è una fisioterapista presso il centro di riabilitazione della Croce Rossa internazionale e, inoltre, una delle migliori giocatrici della squadra di pallacanestro in carrozzina.

«Arzo, fortunatamente tu puoi continuare a lavorare. Essendo la Croce Rossa un’organizzazione internazionale, non devi sottostare alle regole dei Talebani». Arzo conferma: «Sì, è vero. Mi ritengo molto fortunata, soprattutto in questo momento di profonda crisi dove la gente non ha da mangiare, avere ancora un posto di lavoro è un dono». Le chiedo della pratica sportiva che è stata vietata alle donne. «Sono molto triste di non poter praticare più la pallacanestro. Lo sport mi faceva dimenticare di essere disabile. Lì sul campo, tutte su una sedia a rotelle, siamo tutte uguali. E poi, la nostra squadra era molto forte, abbiamo vinto molto e viaggiato per tutta l’Asia».

Arzo e la sua famiglia mi invitano a entrare in casa. Abitano in una parte estremamente povera di Kabul, dove fa molto freddo e i vicoli sono pieni d fango, ghiaccio e neve. Ci sono solo due stanze, una di queste viene usata per tutto: come sala da pranzo, sala da tè e, la notte, con le coperte sul tappeto, diventa una delle camere da letto. Non c’è riscaldamento e spesso manca la corrente. La stanza è illuminata da una lampada a kerosene che funge anche da stufa.

«Ci sono dei momenti in cui mi sento molto depressa – confessa Arzo -. Vivo con i miei genitori, sorelle e fratelli, siamo in dodici. In questo momento sono l’unica a guadagnare qualcosa, dall’arrivo dei Talebani tutti nella mia famiglia hanno perso il lavoro». «Che futuro vedi per te e per i tuoi familiari? Vorresti andare via?», le chiedo. «L’Afghanistan è un paese bellissimo, io però vorrei andare via se ne avessi la possibilità. Non vedo futuro qui e, soprattutto, per me lo sport è una parte fondamentale della mia esistenza e senza il quale non riesco a immaginare la mia vita».

Donna e bambino in attesa di alimenti al centro di distribuzione del Wfp, a Kandahar. Foto Angelo Calianno.

L’esempio di Mahbouba Seraj

Sicuramente in Afghanistan una delle voci femminili più potenti è quella di Mahbouba Seraj, principale attivista per i diritti delle donne afghane e, secondo il settimanale Time, una delle cento donne più influenti al mondo.

Nata a Kabul nel 1948 e nipote del re Khan, Mahbouba Seraj e suo marito vengono arrestati nel 1978, quando la Russia invade il paese. Fugge così negli Stati Uniti, nazione che le dà asilo. Nel 2003, a due anni dalla caduta del regime talebano, decide di tornare in Afghanistan per fondare il primo rifugio dedicato a donne e bambini vittime di violenza. Prima del suo ritorno, la violenza domestica non era nemmeno considerata reato. Incontro Mahbouba Seraj a casa sua.

«Mahbouba, lei era rifugiata negli Stati Uniti, ha un passaporto Usa, cosa l’ha spinta a tornare qui nel 2003?». «Ricordo esattamente il momento in cui ho preso la decisione di tornare. Ci sono state due scene in televisione: una quella della distruzione dei grandi Buddha di Bamiyan. La seconda, atroce, quella di una donna, giustiziata in strada con un colpo di pistola alla testa. Dopo quelle scene, non potevo più rimanere negli Stati Uniti. Appena ho potuto, sono quindi tornata Kabul come donna che voleva proteggere le donne afghane».

«Mahbouba, si sarebbe mai aspettata che i Talebani potessero riprendere il paese così in fretta?». «Debbo essere sincera: no, assolutamente non me lo aspettavo. Per me è stato incredibile. Non sono riuscita a realizzare subito quello che davvero stava accadendo». Le chiedo se abbia intenzione di rimanere qui. «Sì, rimarrò qui. Ora più che mai ci sono tantissime persone che hanno bisogno di me, di organizzazioni come la mia». Domando se si senta in pericolo, se abbia ricevuto delle minacce. «No – risponde -, non mi sento in pericolo e non ho ricevuto alcuna minaccia. Penso di essere ormai un nome troppo conosciuto fuori del paese. Danneggiare me vorrebbe dire attirare troppa attenzione mediatica, soprattutto ora che i Talebani vogliono dare al mondo un’immagine diversa di sé».

«Lei crede che siano davvero cambiati?». «È difficile dirlo. Come si può dimenticare che, chi è al comando ora, è lo stesso gruppo che, fino ad agosto scorso, uccideva migliaia di civili con i suoi attentati? Io non penso che siano cambiati, ma sicuramente sono cambiate le cose. Ora il mondo ha gli occhi su di noi: internet, reporter, social media, fin quando sarà così, per i Talebani sarà impossibile tornare a fare quello che facevano 20 anni fa».

Un bambino paraplegico durante la riabilitazione nel centro della Croce rossa internazionale, a Kabul. Foto Angelo Calianno.

Joe Biden e Ashraf Ghani, delusioni presidenziali

«Torniamo un attimo ai giorni della riconquista talebana. Cosa è accaduto qui, come si è sentita?». «Sono stati giorni folli, soprattutto le prime 48 ore. La gente correva verso l’aeroporto calpestandosi. Sembravano polli a cui avevano tagliato la testa: impazziti. Per me è stato tremendo, soprattutto sentire le parole di Biden, è stato come uno schiaffo in faccia. In una delle sue conferenze stampa, Biden ha detto che il suo istinto gli suggeriva che lasciare l’Afghanistan era la cosa giusta da fare. Quindi, noi ci stiamo giocando la vita e il futuro per il suo “istinto”? È una cosa assurda. Un’altra cosa vorrei aggiungere, prendendomene la responsabilità: il nostro presidente Ashraf Ghani si è comportato da codardo, fuggendo e mettendosi da parte immediatamente. È una cosa che non gli perdonerò mai».

Domando a Mahbouba cosa pensi lei delle migliaia di persone scappate dal paese. «Non la trovo una cosa giusta, è come arrendersi e consegnare il paese nelle mani del regime. Ognuno però è responsabile per la propria vita, non sta a me giudicare quanta paura si può provare in quei momenti. Quello che mi consola – e di cui sono sicura – è che tante persone fuggite non hanno dimenticato l’Afghanistan e anche a distanza, stanno facendo e faranno tanto per aiutare chi è rimasto qui».

«Qual è la situazione delle donne ora e come procede il suo lavoro di attivista dopo questi mesi caotici?». «Purtroppo, al momento non c’è nessun lavoro sul fronte dell’attivismo, nel senso che le priorità sono altre. La gente non ha da mangiare, non ha vestiti per l’inverno, dobbiamo prima di tutto pensare a questi beni essenziali. Io al momento ospito 120 persone nelle mie case rifugio e con il mio team cerchiamo di consegnare cibo e qualcosa di caldo a chi è rimasto nelle zone rurali».

Le chiedo come si possa aiutare l’Afghanistan per provare a cambiare le cose. «Quello che si può fare e continuare a chiedere, ognuno al proprio governo, di monitorare l’Afghanistan e di avere una propria rappresentanza qui: diplomatici, giornalisti, Ong. In questo momento, questa è l’unica speranza che abbiamo per poter arrivare a qualche cambiamento».

«Mahbouba, come vede il futuro della donna afghana?». «È difficile dire che futuro abbiano le donne, soprattutto adesso che a molte di loro è vietato lavorare. Di una cosa però sono sicura: le donne rimaste in Afghanistan e anche le afghane che sono andate via, sono istruite, competenti e coraggiose. Sono certa che, per questo paese, il prossimo cambiamento, la prossima rivoluzione partirà proprio da loro».

Angelo Calianno

Primo piano di Raziya Masumi, afghana rifugiata in Olanda. Foto archivio Raziya Masumi.


Dall’Olanda, Raziya Masumi

Il burqa è la cancellazione dell’identità

Sono tante le donne afghane che vivono all’estero e che si stanno battendo per aiutare le afghane rimaste in patria. Raziya Masumi è una di queste. Avvocatessa, Raziya è andata via da Kabul per studiare, tre anni fa. Oggi vive all’Aia, dove si occupa dei diritti delle donne e soprattutto, in questo momento, di dare sostegno e aiuto a chi non è potuto scappare. Contatto Raziya tramite internet.

Raziya, in questi giorni si è parlato molto dello sport femminile. Ho parlato con alcune sportive a cui non è permesso più praticarlo. Quali sono le motivazioni secondo te?

«Il contesto afghano è molto maschilista. A parte i Talebani, è una società dove il ruolo della donna è sempre stato secondario. I Talebani, così come molti uomini, estremizzano una condizione già esistente. Per loro, come accade per molti lavori, lo sport deve essere un campo esclusivamente maschile. Quindi, vedono la donna come qualcuno che cerca di invaderlo. Negli ultimi 20 anni c’era stata una grande ripresa. Il numero delle donne che studiava è stato crescente di anno in anno. Oggi, di nuovo, sembra che i Talebani vogliano cancellare quasi l’identità della donna afghana. Il burqa, ad esempio: forzare qualcuno a coprire interamente il volto è un tentativo di omologare tutte le donne nello stesso ruolo, senza alcuna distinzione, individualità o identità».

Purtroppo, molte persone sono scappate. Cosa hai pensato quando hai visto, dall’estero, tutta quella gente che correva per salire su un aereo. Pensi che un giorno, una parte di quelle persone vorrà o potrà tornare?

«Le immagini di quei giorni di agosto a Kabul, rimarranno per sempre nella memoria di tutti. È stato un evento tragicamente storico. Ti assicuro però che nessuna di quelle persone avrebbe voluto lasciare l’Afghanistan, noi amiamo il nostro paese. Tutta quella gente si è sentita costretta a scappare per disperazione, per paura. Quelle persone in quel momento non hanno visto nessuna alternativa. Sono sicura che, con le condizioni giuste, quindi se ci fosse la pace e le basi per costruire un futuro, tutti torneremmo in Afghanistan».

L’altra grande migrazione dall’Afghanistan si è avuta durante l’invasione da parte dei russi. Che differenze trovi tra oggi e quei tempi?

«Sono casi molto diversi. Molti di quelli che sono fuggiti 40 anni fa, non avevano nessuna istruzione. Oggi dall’Afghanistan fuggono ingegneri, professori, attivisti, giornalisti. Un altro aspetto importante rispetto a 40 anni fa è l’accesso alle comunicazioni: con i social media e internet oggi tutti possono raccontare la propria storia, mentre sappiamo pochissimo delle persone che sono fuggite in passato».

Sei molto impegnata per la causa delle donne afghane. Come le stai aiutando nel concreto?

«Ricevo decine e decine di telefonate ogni giorno. Cercare di fare qualcosa oggi è molto complicato, anche perché i canali classici di aiuto, come i bonifici bancari o la presenza di Ong sul campo, sono tutti sospesi. Ho creato un podcast che sto trasmettendo qui in Olanda. Ho raccolto la voce di alcune donne che mi raccontano la propria storia. Pian piano, con il mio gruppo, stiamo traducendo queste registrazioni in modo da poterle trasmettere ovunque in Europa, almeno per cominciare. In maniera più immediata poi, stiamo creando una campagna di raccolta fondi online. I fondi raccolti serviranno prima di tutto per beni di prima necessità, in secondo luogo vorremmo supportare gli insegnanti e poter offrire loro uno stipendio e materiale scolastico per gli studenti. I soldi, anche se in maniera lenta, possono adesso essere ricevuti in Afghanistan con Western Union, MoneyGram, ecc. In loco poi abbiamo diversi volontari che si occuperanno della distribuzione».

An.Ca.

Quadro dimostrativo delle varie componenti di una protesi presso il Centro di riabilitazione della Croce rossa internazionale, a Kabul. Foto Angelo Calianno.


 

Ha firmato questo dossier

Angelo Calianno – Laureato in storia antica, è reporter e fotografo freelance. Ha viaggiato in America Latina, Africa, Asia e Medio Oriente, specializzandosi in conflitti riguardanti l’estremismo islamista. Collabora con molte riviste italiane tra cui Missioni Consolata. All’estero lavora soprattutto per Byline Times. Il suo sito è: www.senzacodice.com.

Dossier a cura di Paolo Moiola.

Un gruppo di uomini si riposa dopo aver scaricato centinaia di sacchi di farina destinati ai bisognosi presso il centro di distribuzione del Wfp. Foto Angelo Calianno.

La bandiera ufficiale dei Talebani, tornati al potere in Afghanistan.




Disastro Afghanistan,

un istruttivo fallimento

testo di Francesco Gesualdi |


Prima una guerra assurda, cruenta e costosa, poi vent’anni di occupazione. Oggi, nel paese asiatico, siamo di nuovo al punto di partenza: i Talebani al potere. Con le stesse barbe e le stesse idee.

Ad agosto, l’Afghanistan è tornato alla ribalta della cronaca mondiale per la decisione degli Stati Uniti e dei loro alleati di abbandonare repentinamente il paese. Ritiro che ha coinciso con la ripresa del potere da parte dei Talebani (Taliban), la stessa formazione politica che governava nel 2001 quando gli americani invasero il paese asiatico. Invasione che poi si trasformò in un’occupazione durata venti anni, con la collaborazione di vari altri eserciti dell’alleanza Nato, compreso quello italiano.

La guerra in Afghanistan ha sorpreso l’opinione pubblica mondiale due volte: quando è iniziata e quando è finita: all’inizio perché non se ne capivano le ragioni; alla fine perché niente di quanto era stato dichiarato è stato realizzato. Era stato detto che l’obiettivo era stroncare il terrorismo, introdurre la democrazia e garantire i diritti delle donne. Ma il terrorismo ha continuato a colpire, mentre il paese è stato di nuovo consegnato nelle mani di coloro che si era detto di voler combattere perché nemici della democrazia e delle donne.

Il punto è che le guerre sono odiose per tutti, non solo per le popolazioni che le subiscono, ma anche per quelle dei paesi che le scatenano e ogni volta i potenti debbono farle digerire ai propri cittadini. Non di rado la strategia prescelta è il ricorso a motivazioni nobili che, con il tempo, però, si dimostrano fake news. Per questo i cittadini più critici non si fidano più delle notizie che ricevono e in occasione di ogni conflitto continuano a chiedersi se sia stata raccontata la verità o delle frottole. Un metodo infallibile per uscire dal dilemma non esiste, ma l’assunzione di un supplemento di informazioni è di fondamentale importanza, stando attenti ad approfondire almeno tre aspetti: gli antefatti, il contesto geopolitico, la realtà economica. Anche se va da sé che, sullo sfondo di ogni guerra, c’è sempre l’interesse per la vendita di armi da parte dell’industria bellica.

1979-1989: i russi e i mujhaidin

L’anno da cui conviene partire è il 1979, quando l’Unione Sovietica, a quel tempo nazione confinante, invase l’Afghanistan per sostenere un governo comunista intenzionato, fra l’altro, a imprimere una svolta laica al paese. Ma l’invasione provocò l’opposizione armata da parte di una molteplicità di gruppi locali,  tutti genericamente definiti mujahidin («combattenti»), in realtà tutti diversi l’uno dall’altro per etnia, appartenenza religiosa, impostazione politica.

In effetti, l’Afghanistan è una realtà complessa formata da una quindicina di etnie, in particolare Pashtun, Tajik, Uzbek, Hazara. E benché tutte siano di fede islamica, hanno modi diversi d’interpretare la tradizione e i testi sacri.

I Talebani e Bin Laden

È di questo periodo l’emergere di un gruppo che, vivendo il progetto di secolarizzazione perseguito dal governo filorusso come una forma di colonizzazione, virò verso un’interpretazione rigida dei precetti coranici, ormai caricati non solo di valore religioso ma anche politico, perché rivendicati come tratti essenziali dell’identità afghana. Il movimento, che era capeggiato dal Mullah Omar, prese il nome di Talebani (da «talib», studente in arabo, «taliban» significa due studenti), perché aveva fatto proseliti soprattutto fra i giovani afghani cresciuti nei campi profughi del Pakistan, che avevano trovato nelle scuole coraniche la sola possibilità d’istruzione. Ed è molto probabile che il nascente movimento dei Talebani abbia anche goduto di denaro elargito dagli Stati Uniti che, tramite la cosiddetta «Operazione ciclone», sostenevano la lotta dei mujahidin contro i sovietici. Soldi probabilmente goduti anche da Osama Bin Laden il quale, benché cittadino dell’Arabia Saudita, era corso in Afghanistan per combattere le truppe dell’Unione Sovietica viste come nemiche dell’Islam.

I russi se ne andarono nel 1989. Seguì un periodo di instabilità e di lotte intestine che si concluse nel 1996 con l’ascesa al governo dei Talebani che erano stati capaci di assicurarsi un buon appoggio popolare grazie alle alleanze con i capi locali e alla prospettiva di porre fine alla guerra per bande, alla corruzione e all’illegalità dilagante. Ma all’estero il governo dei Talebani non trovò uguale accoglienza a causa dei suoi metodi repressivi contro le donne e della sua politica decisamente contraria ai diritti umani.

Arrivarono gli attentati dell’11 settembre 2001 che procurarono la morte a quasi tremila persone. Attentati prontamente attribuiti a Bin Laden che, nonostante la vittoria sull’Unione Sovietica, era rimasto in Afghanistan per condurre una nuova lotta, questa volta contro l’Occidente, ritenuto anch’esso responsabile di comportamenti oltraggiosi nei confronti dell’Islam.

Non era passato neanche un mese dall’attacco alle Torri gemelle che le bombe americane già piovevano su Kabul. La colpa dei Talebani era di non aver consegnato Bin Laden, non si sa se per incapacità di catturarlo o per mancanza di volontà. In ogni caso, i politici statunitensi sostenevano che l’incursione contro l’Afghanistan sarebbe stata di breve durata. «Cinque giorni, cinque settimane, magari cinque mesi, non di più. Di certo non sarà una terza guerra mondiale», dichiarò solennemente l’allora ministro della difesa Donald Rumsfeld. In realtà, la cattura di Bin Laden avvenne in Pakistan dieci anni dopo, mentre l’occupazione dell’Afghanistan è durata venti. Errori di calcolo o utile catena di fallimenti funzionali a permettere agli Stati Uniti di rimanere in Afghanistan il più a lungo possibile? Solo i documenti segreti della Cia ci potrebbero dare le risposte, ma un’analisi della situazione geopolitica può aiutare.

Iran, Iraq e Siria

Studiando la carta geografica si nota che l’Afghanistan si trova nel cuore dell’Asia, al centro di un cerchio che in periferia comprende Russia e Cina, due superpotenze che prima della globalizzazione capitalistica erano considerate nemiche, poi solo concorrenti, ma pur sempre rivali. La possibilità di mantenere una presenza militare ravvicinata forniva agli Stati Uniti un vantaggio non trascurabile. Ma ciò che più contava per i contenziosi del tempo, è che l’Afghanistan si trova alle spalle dell’Iran, un paese che dopo la cacciata dello shah era stato inserito nella lista degli «stati canaglia» da parte degli Stati Uniti. E più avanti, verso il Golfo Persico, c’è l’Iraq, altro paese che gli Stati Uniti consideravano nemico. Messi assieme, Iran, Iraq e Siria, formavano quella che George Bush chiamava «l’asse del male», a suo dire un covo di terroristi che andava soppresso. Tuttavia, il paese verso il quale venne messa in atto la strategia più diretta fu l’Iraq. Inventandosi l’esistenza nel paese di armi di distruzione di massa, mai dimostrata, nel marzo 2003 gli Stati Uniti lo invasero facendo cadere Saddam Hussein e lo abbandonarono solo nel 2011, pur mantenendo un contingente di 2.500 marines col compito dichiarato di aiutare le forze locali a sconfiggere l’Isis.

Nello stesso anno in cui le truppe Usa abbandonavano l’Iraq, la Siria piombava in una guerra civile, ancora non conclusa, che in dieci anni ha prodotto 600mila morti e 12 milioni di sfollati di cui la metà rifugiati all’estero. Un vero e proprio inferno nel quale si sono inserite forze di ogni genere, interessate ad assumere il controllo di un pezzo di territorio o a utilizzare un terreno terzo per regolare conti in sospeso fra loro. Fra esse molti eserciti regolari compresi quelli russo, turco, statunitense, quest’ultimo con una presenza di 900 berretti verdi.

Quanto all’Iran, il terzo componente dell’asse del male, era un paese troppo grande e soprattutto troppo armato e organizzato per essere aggredito direttamente o per essere fatto implodere dall’interno. Ma l’idea di stringerlo a tenaglia fra tre paesi alleati degli Stati Uniti (Iraq, Afghanistan, Pakistan) deve essere stata seducente, quantunque l’arma più utilizzata per piegare l’Iran ai voleri delle potenze occidentali siano state le sanzioni economiche. E qui veniamo al terzo ambito d’indagine, quello economico, che va analizzato ogni volta che ci si trova di fronte a un conflitto armato.

Mappa dell’oleodotti TAPI

L’oleodotto Tapi

Al tempo in cui venne invaso, l’Afghanistan non presentava un grande interesse da un punto di vista economico. Paese montuoso di difficile accesso, la sua popolazione è dedita principalmente alla pastorizia e solo nelle zone meno aspre della parte occidentale pratica anche l’agricoltura (con una spiccata predilezione per la coltivazione del papavero da oppio). Si sapeva che nel suo sottosuolo era presente anche del gas, ma non in misura così cospicua da meritare l’esplorazione. Situazione ben diversa da quella dei paesi confinanti, in particolare l’Iran e il Turkmenistan che tutt’oggi si collocano rispettivamente al secondo e al sesto posto per riserve mondiali di gas naturale.

Ma il gas è vera ricchezza solo se si può fare arrivare ai paesi consumatori. Un problema sentito in particolare dal Turkmenistan, incastrato fra il Mar Caspio e le montagne. Per questo sul finire del secolo scorso il Turkmenistan aveva stretto un accordo con l’Afghanistan e il Pakistan per costruire un oleodotto, battezzato «Tapi» (dalle iniziali di Turkmenistan-Afghanistan-Pakistan-India), che portasse il gas verso il Mare Arabico. E subito le imprese petrolifere di tutto il mondo avevano sgomitato fra loro per aggiudicarsi l’esecuzione dell’opera. Il match venne vinto da Unocal, un’impresa americana che però si ritirò quando cominciarono a moltiplicarsi gli attacchi terroristici che facevano puntare il dito contro il governo dei Talebani. La somma da investire era così alta che Unocal affermò di essere disposta a mettersi in gioco solo se l’Afghanistan avesse dato garanzia di stabilità. In un’audizione al Congresso dichiarò: «Il progetto esige finanziamenti internazionali, accordi fra governi e accordi fra governi e consorzio. Dunque, non potremo iniziare la costruzione dell’oleodotto finché l’Afghanistan non sarà amministrato da un governo riconosciuto internazionalmente». E a rassicurarla che il governo degli Stari Uniti aveva recepito il messaggio, nel settembre 2001, pochi giorni prima dell’attacco alle Torri gemelle, il portavoce del dipartimento governativo dell’energia dichiarava: «L’importanza dell’Afghanistan da un punto di vista energetico deriva dalla sua posizione geografica: è l’unico passaggio possibile per fare arrivare il gas dal Mar Caspio al Mare Arabico». In realtà anche l’Iran era un’opzione, almeno da un punto di vista geografico. Ma non lo era da un punto di vista politico, e l’unico modo per permettere alle multinazionali petrolifere americane di condurre i loro affari in Asia Centrale era l’addomesticamento dell’Afghanistan tramite la soppressione dei Talebani e l’instaurazione di un governo amico. Congetture? Può darsi. È un fatto, tuttavia, che nell’ottobre 2001 l’Afghanistan venne invaso, prima con sole bombe, poi anche con truppe, fino a raggiungere una presenza a terra di 110mila uomini nel 2011. Ma le cose non andarono per il verso voluto e l’oleodotto rimase congelato per una diecina di anni. Poi ripartì ma senza le multinazionali americane che, nel frattempo, avevano perso qualsiasi interesse per quell’area geografica. Per di più Unocal, la protagonista principale, era caduta in disgrazia. Travolta da un processo per violazione dei diritti umani a causa di una collaborazione con il regime militare del Myanmar, nel 2005 venne fagocitata da Chevron e scomparve per sempre.

Largo a Cina e Russia

Del resto con la crisi climatica ormai conclamata, il futuro dei combustibili fossili ha i giorni contati mentre altri minerali stanno assumendo importanza.  Fra questi il rame, il litio, le terre rare, di cui l’Afghanistan sembra avere riserve importanti. Ma dopo 20 anni di occupazione militare, che in soldi è costata varie migliaia di miliardi di dollari (5.400 solo agli Stati Uniti), e in vite umane è costata la perdita di 47mila civili e 125mila soldati, di cui 6.300 americani, gli Stati Uniti hanno deciso che era meglio ritirarsi dall’Afghanistan e accettare che altri, magari la Cina o la Russia, traggano vantaggio da tali ricchezze.

La dimostrazione che, dove non può la morale, sono i fallimenti a indicare la strada più giusta da intraprendere.

Francesco Gesualdi

 




Afghanistan: Sulle tracce degli Hazara, Storia di una persecuzione

Reportage. Testo e foto di Angelo Calianno |


Quella dell’Afghanistan è una delle tante (troppe) guerre dimenticate. Kabul torna, per pochi istanti, nei telegiornali soltanto in occasione di qualche attentato o quando un profugo afghano approda sulle nostre coste. In questo reportage si racconta del genocidio degli Hazara, etnia di fede sciita. Da secoli discriminati, la loro condizione è peggiorata con il dominio dei Pashtun e con l’arrivo dei talebani e dell’Isis, tutti di fede sunnita.

Bamiyan, 2 marzo 2001.I talebani arrivano con i loro pickup sulla strada principale di Bamiyan, di quella che era la via dei bazar, ormai non rimane altro che rovine e polvere. Sono due anni che gli estremisti hanno preso il controllo di questa zona del massiccio centrale afghano. Qui la popolazione, prevalentemente di etnia hazara, convive con assassinii e violenze quotidiane. I talebani entrano nelle case, trascinano fuori i civili giustiziandoli per strada, davanti agli occhi dei loro cari. Oggi è un giorno ancora diverso, oggi un’ulteriore ferita sarà inflitta a questa terra martoriata. Da circa venti giorni i talebani costringono gli Hazara a perforare le due enormi statue di Buddha, simboli di questa terra e patrimonio mondiale dell’Unesco. Due sculture giganti di 38 e 55 metri presenti qui da circa 1.700 anni. Per secoli il sito è stato meta di pellegrinaggi per i buddhisti di tutto il mondo, le descrizioni delle statue compaiono nei diari di viaggio dei mercanti sulla via della seta e in quelle dei pellegrini cinesi in visita nel 1600.

Una volta completati i fori, i talebani vi piazzano la dinamite e fanno saltare i Buddha. Le statue crollano su se stesse. Una nuvola di polvere avvolge quello che rimane del sito archeologico distrutto in piccoli frammenti di roccia, e, una volta diradata, mostra solo due enormi nicchie semivuote.

I talebani esultano ma, non contenti, radunano venti persone, tutte di etnia hazara, le mettono in  fila davanti al luogo prima occupato dalle statue, e sparano alla nuca di ciascuna. Lasciano i cadaveri lì. È vietato seppellire i corpi per almeno tre giorni: «Serve da monito per gli altri», dicono. Lasciano una pattuglia di ronda su un pickup e si ritirano a prendere un tè nelle case che da due anni abusivamente occupano.

Kabul, 6 dicembre 2017.

È difficile per noi oggi immaginare tutto quest’astio verso un popolo, verso un’etnia, eppure qui continua ogni giorno. Dagli attacchi dei talebani a quelli dell’Isis, i bersagli sono molto spesso i musulmani sciiti, in questo caso gli Hazara.

Quando in Occidente si parla di Afghanistan e di afghani, si tende ad avere un’immagine stereotipata in mente: un uomo dai tratti somatici marcati, barba lunga, carnagione scura. Le cose non stanno esattamente così.

L’immagine che tutti hanno presente è quella dei Pasthun, solo una delle etnie afghane che convive insieme a Tagiki, Uzbeki e, ultimi nella scala sociale, gli Hazara.

Hazara letteralmente vuol dire «mille». Fino al 1880 rappresentavano il 67% di tutta la popolazione afghana, oggi, approssimativamente, il 22%. La tragica riduzione del loro numero è il risultato di uccisioni di massa e fughe in nazioni vicine come il Pakistan (altro luogo dove sono comunque perseguitati) o in qualsiasi altro paese nel quale si possa trovare rifugio. Da molti organi di controllo, come Human Rights Watch, lo sterminio degli Hazara è stato riconosciuto come un vero e proprio genocidio.

I pretesti per un genocidio

L’origine di questo popolo è ancora incerta. Fisiognomicamente gli Hazara sono diversi dalle altre etnie afghane: naso schiacciato e occhi a mandorla, sono più simili agli abitanti delle steppe asiatiche.  Questo è stato uno dei primi motivi della loro discriminazione. Chi da sempre li perseguita, tende a considerarli discendenti delle orde mongole di Gengis Khan arrivate su queste montagne nel 1300. Gli storici hazara, al contrario, affermano di essere originari dell’Afghanistan molto prima di tutte le altre popolazioni. Ma la presunta discendenza mongola non è il problema maggiore per gli Hazara, la principale ragione del loro genocidio o forse il pretesto più usato, è quello religioso: gli Hazara sono sciiti in un paese a maggioranza sunnita.

Prima del regno di Amir Abdul Rahman, durato dal 1880 al 1901, gli Hazara occupavano posizioni importanti. Erano proprietari terrieri e ricchi allevatori. Una volta arrivato al potere Rahman (di etnia pashtun) le tribù sunnite, allora in minoranza, perpetrarono una serie di attacchi e assassinii ai danni degli sciiti.

I Pashtun occuparono le terre più fertili e si impadronirono del bestiame, così la maggior parte degli Hazara emigrò nelle aree più inospitali e difficili da coltivare, la zona del massiccio centrale con capitale Bamiyan, dove risiedono oggi.

Un dato interessante rilevato da alcuni storici è che, prima del regno di Rhaman, la concentrazione maggiore degli Hazara si riscontrava nella zona di Kandahar, oggi completamente pashtun nonché una delle maggiori roccaforti talebane. Se questo dato fosse corretto, proverebbe che quella terra soprannominata oggi «Hazaristan» (o Hazarajat), è solo un luogo dove gli Hazara furono costretti a muoversi molti secoli dopo l’arrivo di Gengis Khan, questo sfaterebbe la teoria della discendenza mongola.

Sotto il regime di Rhaman si tocca l’apice del genocidio, circa il 60% di tutta la popolazione hazara viene eliminata. In questo periodo, in questi anni nasce anche il detto pasthtun, tristemente famoso, che recita: «I Tagichi in Tagikistan, gli Uzbechi in Uzbekistan e gli Hazara in goristan», goristan vuol dire cimitero. Agli inizi del ‘900 metà degli Hazara è quasi scomparsa, quelli rimasti sono relegati alle mansioni più umili: pastori, domestici, spesso veri e propri schiavi.

Si avvia così in tutto il paese un processo di «pashtunizzazione» e tutta l’area dell’Hazarajat  viene tenuta ai margini dello sviluppo nazionale, senza infrastrutture, priva di strade e grandi vie di comunicazione. Fino agli anni ’70 nelle scuole sunnite si propaganda lo sterminio degli Hazara. Gli insegnanti predicano che l’uccisione di qualsiasi Hazara garantisce l’accesso al paradiso.

Arrivano i sovietici

Nel 1979 la Russia invade l’Afghanistan, la persecuzione si placa, c’è un altro nemico contro cui combattere e così, per circa dieci anni, paradossalmente gli Hazara vivono in pace in uno stato in guerra. Anzi, molti di loro combattono fianco a fianco con i mujaidin contro i russi, mostrando grande coraggio.

Scappati i russi però le persecuzioni riprendono. A parte rari casi in cui la presenza di Human Right Watch e Amnesty International registra le uccisioni, non esistono nemmeno documenti ufficiali che attestino gli omicidi di massa. Addirittura anche Ahmad Shah Massoud, il comandante mujaidin ed eroe afghano nella guerra contro i sovietici, viene accusato di aver ordinato diverse rappresaglie ai danni degli Hazara. Le stragi continuano ancora oggi: sono tantissimi gli attacchi recenti in tutto l’Afghanistan. Solo nell’ultimo anno a Kabul, sono stati colpiti due centri culturali e tre moschee sciite, tutte frequentate da Hazara. Questi attentati hanno causato la morte di novantacinque persone e il ferimento di altre centinaia.

Dominio pashtun

Amir è un antropologo originario delle zone rurali attorno a Bamiyan. I talebani, nei primi anni del loro regime, uccisero gran parte della sua famiglia e così lui, con i parenti superstiti, si rifugiò in Pakistan. È tornato in Afghanistan solo tredici mesi fa per lavorare in una tv locale. Lo incontro a Kabul, in un ristorante frequentato solo da Hazara. Mi racconta: «Siamo un popolo pacifico, lo scoprirai quando andrai a vedere Bamiyan e le sue splendide montagne, non è una coincidenza che di tutto l’Afghanistan, quella sia l’unica parte sicura al momento». Perché più sicura?, gli chiedo. «Perché lì sono tutti hazara. Sono i Pashtun a fare la guerra. I talebani sono tutti pashtun, le gang armate sono tutte pashtun, quelli che ci hanno perseguitato sono sempre stati i Pashtun. Ci sono stati anche i Tagiki e gli Uzbeki, che a volte hanno preso parte ai massacri, ma penso sia avvenuto solo per entrare nelle grazie di chi comandava, che erano sempre pashtun».

Amir è quasi incredulo quando gli dico che in Italia, quasi tutti, quando pensano a un uomo afghano, hanno in mente l’immagine del Pashtun e che quasi nessuno sa chi siano gli Hazara. «A me sembra quasi impossibile essere ignorati così. Siamo uno dei popoli più perseguitati della storia. Siamo rimasti in pochissimi: è stato un vero e proprio genocidio».

Gli chiedo il perché. «La religione è una buona scusa per controllare chi deve compiere l’atto materiale dell’omicidio o dell’attacco suicida, com’è successo di recente a Kabul. I sunniti non ci considerano veri musulmani, nemmeno veri esseri umani a dire il vero, ed è risaputo che alcuni di loro hanno fatto voto di eliminarci tutti. Molti di noi hanno già pagato con la vita. Ma la ragione storica è più tribale che religiosa. Le tribù hazara erano numerose, pacifiche e lavoratrici, avevano molte terre da coltivare e migliaia di capi di bestiame. Le prime persecuzioni avvennero per avidità e conquista, si sono protratte fino ad oggi, ma sono certo che, se chiedi a un Pashtun del perché ce l’ha tanto con gli Hazara, non ti saprà dare un valido motivo. Io sono dovuto scappare in Pakistan ma nemmeno lì siamo trattati bene. Ci insultavano ed eravamo oggetti di violenze quotidiane. Agli inizi degli anni 2000 però, non c’era molta scelta, con la mia famiglia dovevamo decidere se morire in Afghanistan o essere bersagliati dal razzismo in Pakistan. La scelta è stata semplice».

Verso Bamiyan, 15 dicembre 2017.

Quando parto per Bamiyan, decido di farlo via terra, ma a un certo punto devo ritornare indietro: la strada che collega Kabul con Bamiyan è occupata dagli scontri tra talebani e militanti dell’Isis, entrambi sunniti ma entrambi interessati al controllo dei campi d’oppio.

Finalmente, con un piccolo aereo da quaranta posti, arrivo a Bamiyan, capoluogo di circa 100 mila abitanti, quasi tutti hazara. La città vecchia oggi è un luogo spettrale, bellissimo e ferito. Siamo nel cuore delle montagne afghane, un’aria sottile a 2.500 metri d’altezza, cime innevate e «case grotta» scavate nella roccia, dove ostinatamente molti continuano a vivere. La prima cosa visibile sono le enormi nicchie vuote dove prima c’erano i Buddha, e poi una lunghissima strada fatta di macerie, resti di colonne, resti di archi: era la strada dei bazar, il cuore pulsante di Bamiyan, oggi solo una strada polverosa. A parte le famiglie che continuano a vivere nelle grotte, il nucleo abitativo si è spostato tutto a valle dove sono sorte nuove case, lasciando la zona storica ancora più abbandonata.

Haji è un uomo di quarantacinque anni ed è stato testimone delle violenze sotto il regime talebano, mi guida attraverso le rovine dei Buddha: «Non abbiamo perso solo le due grandi statue di Buddha quel giorno, ma tantissimi altri reperti, affreschi e grotte dove anticamente vivevano i monaci buddhisti. Prima dei talebani molte delle case grotta erano ancora occupate, poi hanno distrutto tutto. I talebani entravano nelle case, trascinavano fuori gli uomini e a volte anche i ragazzini più grandi e li uccidevano, senza dire nulla, senza un motivo preciso. Qui ne abbiamo contati almeno 300, ma se consideriamo tutti i villaggi, parliamo di migliaia di persone. Sarei dovuto morire anche io in quei giorni, trascinarono fuori anche me, urlavano che non eravamo musulmani. Mia moglie mostrò il sacro corano ma loro lo gettarono via. Quando sentii la pistola puntata dietro la nuca cominciai a pregare e a parlare in pashtun, che avevo imparato lavorando a Kabul. Mi ha salvato quello. Uccisero tutti gli altri in ginocchio accanto a me, altre diciassette persone davanti ai miei occhi».

Gli Hazara non solo sono diversi nei lineamenti del viso e nella fede, ma anche per il ruolo delle donne all’interno della comunità. Qui, pur vivendo ai limiti della povertà, le donne studiano, lavorano, indossano il velo ma non il burqa. Camminando nei pressi dell’università, le ragazze mi salutano e alcune si fermano addirittura a chiacchierare con me, cosa che sarebbe impossibile in città come Kandahar e la sua provincia.

Grazie all’intervento di alcune organizzazioni non governative, pian piano gli Hazara stanno rialzando la testa. I giapponesi hanno costruito le strade, olandesi e tedeschi hanno donato soldi all’università e ai piccoli allevatori con il sistema del microcredito. Finalmente questa gente comincia ad avere una voce, pur rimanendo di fatto la più povera di tutto l’Afghanistan. I giovani hazara sono coscienti della loro storia e hanno un grande senso di rivalsa che li fa eccellere nello studio e nel lavoro.

Una di queste giovani è Najiba, una ragazza di ventidue anni che oggi fa la documentarista per l’Ong francese Geres. È originaria di Bamiyan ma per lavoro si è dovuta spostare a Kabul. Mi racconta: «Siamo molto poveri qui ma le donne hazara non sono discriminate come in tante famiglie pashtun. Non ho mai avuto impedimenti dalla mia famiglia che mi ha sempre incoraggiato. Tramite la scuola ho cominciato a lavorare in una radio locale qui a Bamiyan quando avevo solo tredici anni. Mi sono innamorata del mondo della comunicazione e appena ho potuto, a diciotto anni, ho comprato una telecamera, ho preso delle lezioni di giornalismo e fotografia. I miei primi lavori sono stati proprio sulle donne che vivono qui nelle case-grotta. Per me, donna e hazara, è stato facile avvicinarmi, ma soprattutto è stato importante raccontare la loro storia».

Subito dopo i talebani, con il governo di Karzai, sono arrivati i primi rappresentanti hazara in parlamento. Oggi sono diversi i candidati che proveranno a far sentire la propria presenza nelle prossime elezioni di luglio.

Malgrado questo però, né questo governo, né quello precedente, né tantomeno gli organi internazionali, hanno mai intrapreso un’azione decisa contro la persecuzione degli Hazara: tutti condannano quello che accade a parole ma nessuno si è mai schierato apertamente a loro difesa.

Angelo Calianno
(dall’Afghanistan tra il novembre 2017 e gennaio 2018)


Nella Repubblica islamica

Dove il papavero regna sovrano

Incertezza politica, presenza di truppe straniere, gruppi terroristici, nella Repubblica islamica dell’Afghanistan la sola risorsa certa rimane il papavero da oppio.

L’Afghanistan è oggi un paese di 34 milioni e 66 mila abitanti. I gruppi di nazionalità afghana, al di fuori dell’Afghanistan, si trovano per ordine di numero in: Pakistan, Iran e India.

Il presidente attuale è Ashraf Ghani, di etnia pashtun, eletto nel 2014. A luglio 2018 si dovrebbero tenere le elezioni del parlamento a lungo rinviate. La sicurezza nazionale oggi è affidata alle forze di sicurezza afghane ma, vista la loro inadeguatezza, le operazioni sono ancora supervisionate dagli Stati Uniti, principalmente di stanza a Kabul e Kandahar. Le forze della coalizione Isaf (International Security Assistance Force), di base a Herat e Mazar I Sharif, il 28 dicembre 2014, dopo 13 anni di attività, sono state sostituite da quelle di Sostegno Risoluto (Resolute Support Mission), missione sostenuta dalla Nato.

La sicurezza è il primo problema dell’Afghanistan, un paese che si trova a fronteggiare trafficanti di oppio, attacchi di gruppi talebani, volti a destabilizzare il governo per un loro possibile ritorno, e gli attentati dell’Isis.

Le risorse principali dell’Afghanistan sono: l’allevamento di bovini e ovini, giacimenti di carbone, rame, petrolio e gas naturale. Molto importanti sono le miniere di smeraldi che si trovano nella valle del Panjshir. Nonostante queste attività, la più redditizia rimane però quella della coltivazione del papavero da oppio, coltivazione che aumenta il problema della corruzione e degli scontri (soprattutto tra talebani e Isis) per prenderne il controllo.

L’Afghanistan è una Repubblica islamica. Il 99% dei suoi cittadini sono di fede islamica, di questi circa il 7-15% sono sciiti.

A.Cal.

Fonti: Norwegian Afghanistan Committee, Human Rigth Watch, Deagostini Geografia.


Un conflitto interminabile

Cronologia essenziale dal 2001 al 2018

Dal bombardamento statunitense del 2001 agli attentati dei talebani e dell’Isis, l’Afghanistan rimane un paese senza pace.

  • 2001, Ottobre – Dopo l’attacco dell’11 settembre, gli Stati Uniti decidono di bombardare l’Afghanistan. Subito dopo i bombardamenti, i soldati entrano nel paese con una coalizione armata anti-talebana.
  • 2001, Dicembre – Hamid Karzai giura come capo di un governo temporaneo.
  • 2002, Gennaio – Per combattere i talebani, alle forze armate statunitensi si unisce il primo contingente di caschi blu dell’Onu e una coalizione internazionale denominata International Security Assistance Force (Isaf).
  • 2002, Giugno – Il Gran Consiglio (Loya Jirga) elegge ufficialmente Hamid Karzai come capo dello stato. Karzai in seguito sceglie i membri della sua amministrazione.
  • 2003, Agosto – Data la precarietà della sicurezza in Afghanistan, l’emergenza umanitaria dovuta agli attacchi dei talebani e ai bombardamenti americani, la Nato prende il controllo delle operazioni di sicurezza a Kabul: è la prima operazione di questo tipo che avviene fuori dall’Europa.
  • 2004, Novembre – Nelle elezioni presidenziali, viene dichiarato vincitore Hamid Karzai.
  • 2005, Settembre – Per la prima volta in 30 anni, gli afghani votano per le elezioni parlamentari.
  • 2006, Ottobre – Dopo Kabul, la Nato assume il controllo della sicurezza in tutto l’Afghanistan.
  • 2007, Agosto – Le Nazioni unite riportano che, da dal 2001, cioè dall’ entrata in guerra degli Stati Uniti e delle forze della colazione, si è registrato il più alto numero di produzione di oppio nel paese.
  • 2008, Luglio – Un attacco suicida all’Ambasciata indiana uccide 50 persone.
  • 2008, Settembre – Il presidente Usa Bush rinforza la presenza dei soldati americani in Afghanistan con altri 4.500 soldati.
  • 2009, Febbraio – La Nato aumenta la sua presenza militare con altri 17.000 soldati.
  • 2009, Agosto – I talebani cercano di sabotare le elezioni presidenziali e provinciali con diversi attacchi.
  • 2009, Ottobre – Karzai viene dichiarato nuovamente presidente dopo che il suo oppositore, Abdullah Abdullah, decide di ritirare la sua candidatura.
  • 2009, Dicembre – Il presidente degli Stati Uniti, Barak Obama, aumenta il contingente dei soldati americani da 30 mila a 100 mila soldati, dichiara inoltre che a partire dal 2011 ci sarà un parziale ritiro delle truppe. Nello stesso mese, un uomo di Al Qaida uccide 7 agenti della Cia nel campo militare americano di Khost.
  • 2010, Febbraio – La Nato sferra la sua maggiore offensiva da quando è in Afghanistan: l’operazione Moshtarak. L’attacco mira a controllare la parte meridionale del paese.
  • 2010, Settembre – Lo spoglio delle schede delle elezioni parlamentari sono nuovamente sabotate da violenti attacchi talebani che causano ritardi nei risultati.
  • 2011, Settembre – Il governatore di Kandahar, Ahmad Wali Karzai, fratello del presidente, viene assassinato dai talebani.
  • 2011, Dicembre – 58 persone, quasi tutte di etnia hazara, vengono uccise in un attacco simultaneo a due moschee sciite a Kabul e Mazar I Sharif.
  • 2012, Gennaio – I talebani accettano di intavolare una trattativa con gli Usa e il governo afghano a Dubai.
  • 2012, Marzo – Il sergente americano Robert Bales viene accusato di aver ucciso 16 civili durante un’operazione militare a Panjwai, nel distretto di Kandahar.
  • 2012, Aprile – I talebani annunciano «l’offensiva della primavera», una serie di attacchi contro il quartiere delle ambasciate a Kabul.
  • 2012, Maggio – La Nato annuncia che ritirerà le proprie truppe nel 2014. Il presidente francese Hollande decide di anticipare il ritiro dei soldati francesi alla fine del 2012. L’ex talebano Arsala Rahmani, membro del Gran Consiglio di pace, viene assassinato, i talebani declinano qualsiasi responsabilità per l’attentato. Arsala Rahmani era un uomo chiave per il dialogo nelle trattative di pace.
  • 2013, Giugno – L’esercito afghano prende in consegna le operazioni di sicurezza precedentemente sotto il comando della Nato. Il presidente Karzai rinuncia alla mediazione degli Stati Uniti nelle trattative di pace e annuncia un piano per dialogare direttamente con i talebani.
  • 2014, Gennaio – Una squadra di attentatori suicidi talebani attacca un ristorante nel quartiere delle ambasciate a Kabul. L’attentato uccide 13 stranieri.
  • 2014,?Aprile – Le nuove elezioni presidenziali, che vedono in competizione Abdullah Abdullah e Ashraf Ghani, si concludono con un nulla di fatto. Nel secondo turno di votazioni 50 persone rimangono uccise durante le proteste e gli incidenti.
  • 2014, Settembre – Dopo scontri e accuse di brogli, sotto la mediazione degli Stati Uniti i due candidati alla presidenza firmano un accordo di collaborazione. Ashraf Ghani giura come nuovo presidente dell’Afghanistan.
  • 2014, Dicembre – Nonostante nel paese la violenza non si sia mai attenuata, dopo 13 anni di missione, l’Isaf abbandona l’Afghanistan. Tuttavia, le forze internazionali mantengono nel paese 12.000 unità per addestrare le forze armate afghane: è la missione Resolute Support. Nello stesso mese emerge nell’Est del paese un nuovo gruppo terroristico: lo Stato islamico. In pochi mesi prende il controllo dell’area di Nangarhar, precedentemente sotto dominio talebano.
  • 2015, Maggio – I talebani, durante le trattative in Qatar, dichiarano che non smetteranno di combattere finché tutte le forze internazionali straniere non avranno lasciato l’Afghanistan.
  • 2015, Luglio – I talebani ammettono che il loro capo, il mullah Omar, è morto già da alcuni anni, e annunciano il suo sostituto, il mullah Akhter Mansour.
  • 2016, Gennaio – Le Nazioni Unite calcolano che, a causa degli scontri, della mancanza di sicurezza e della povertà, tra il 2015 e il 2016 ci sono stati più di un milione di rifugiati afghani, divisi tra Iran, Pakistan e Unione europea.
  • 2016, Maggio – Il mullah Mansour viene ucciso da un attacco di droni statunitensi nella provincia di Baluchestan, in Pakistan.
  • 2016, Luglio – Vista la delicata situazione, il presidente Usa Obama annuncia che lascerà nel paese 8.400 soldati fino al 2017. La Nato annuncia che manterrà i militari della coalizione per addestrare e coadiuvare le truppe afghane fino al 2020.
  • 2017, Gennaio – Un ordigno esplosivo a Kandahar uccide 6 diplomatici degli Emirati arabi uniti.
  • 2017, Marzo – Un attacco a un ospedale militare, rivendicato dall’Isis, uccide 30 persone e ne ferisce 50.
  • Da marzo 2017 a gennaio 2018 – Kabul viene continuamente attaccata da attentatori suicidi con una media di 3 assalti al mese. I bersagli sono quasi sempre politico-istituzionali, oltre alle ambasciate, agli alberghi e alle moschee e ai centri sciiti. A gennaio 2018 un’ambulanza riempita di esplosivo e diretta verso il ministero dell’interno esplode nei pressi di un check-point, uccidendo più di 100 persone e ferendone circa 300.
  • 2018, 21 Marzo – In un nuovo attentato a Kabul muoiono 29 persone. L’Isis rivendica.

A. Cal.

Fonti: BBC World, CNN, Human Right Watch, Tolo News, Al Jazeera.

(U.S. Army photo by Pfc. Justin A. Young/Released)


L’Italia in Afghanistan

Cronologia 2002-2018

  • 2002, Gennaio – A seguito delle decisioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, anche l’Italia entra a far parte della coalizione Isaf volta a mantenere e assistere le istituzioni politiche provvisorie afghane e garantire la sicurezza. L’impiego vero e proprio dei militari italiani avrà inizio nel 2003. Gli italiani saranno di stanza a Kabul.
  • 2005, 4 Agosto – Nell’ambito della rotazione dei comandi Isaf in Afghanistan, per 9 mesi, all’Italia viene affidata la leadership per l’Isaf VIII. L’Italia assume il comando della regione di Herat e delle province di Badghis, Ghowr e Farah. Una delle missioni, operazioni di sicurezza a parte, è quella dell’assistenza umanitaria a civili e della supervisione alla ricostruzione delle infrastrutture.
  • 2006, Maggio-Giugno – Muoiono per un ordigno in strada, nei pressi di Kabul, il tenente Manuel Fiorito e il maresciallo Luca Polsinelli. In un incidente stradale muore il caporal maggiore Giuseppe Orlando.
    Per l’esplosione di un ordigno a Kabul, muoiono i caporal maggiori Giorgio Langella, e Vincenzo Cardella.
  • 2009, 17 Settembre – Sei militari italiani del 186o reggimento paracadutisti Folgore rimangono vittime di un attentato suicida a Kabul.
  • 2010, 4 Ottobre – Quattro alpini cadono vittime di un’imboscata nella valle del Gulistan. Nella stessa valle, il 31 dicembre, muore anche il caporal maggiore Matteo Miotto di 24 anni.
  • 2011, 23 Settembre – A Herat, a causa di un incidente stradale, muoiono 3 militari italiani. Durante l’estate, tra scontri armati e attentati, hanno perso la vita altri 7 italiani.
  • 2018, 17 Gennaio – La Camera approva la riorganizzazione delle missioni italiane all’estero. Tra le decisioni, un ridimensionamento della presenza militare italiana in Afghanistan.

Il contingente italiano che, all’inizio della missione, contava 3.000 militari è oggi ridotto a 750 unità, dislocati tra Herat, Kabul e Mazar I Sharif. Dal 2003 ad oggi, i caduti italiani sono stati 52.

A.Cal.

Fonti: www.difesa.it, adkronos.com, Internazionale.


I Pashtun e gli altri

Le etnie dell’Afghanistan

La geografia dell’Afghanistan ha contribuito per secoli a mantenere le sue popolazioni divise in diversi gruppi tribali. Negli ultimi due secoli, con il crescere delle vie di comunicazione, il contatto tra le etnie è cresciuto, a volte sfociando in scontri violenti. L’Afghanistan è oggi diviso tra i seguenti 5 gruppi etnici.

  • 40% Pashtun – I Pashtun oggi sono l’etnia dominante. Parlano una loro lingua, il pashtu, quasi tutti ma anche il dari, la lingua ufficiale dell’Afghanistan. I Pashtun sono di fede sunnita e considerati da Human Right Watch la comunità tribale più ampia al mondo. Ancora oggi questa etnia è divisa in piccoli clan che per secoli si sono combattuti per la supremazia sugli altri. Quasi tutti i Pashtun erano pastori e contadini, ancor prima nomadi, negli ultimi secoli hanno occupato posti nel governo e nel mondo degli affari, oltre a riscoprirsi anche combattenti, come i muj?hid?n che combatterono contro i russi. I Pashtun, con regimi e governi diversi, sono al potere in Afghanistan dal 18esimo secolo.
  • 30% Tajiki – I Tajiki sono stati i primi ad essere urbanizzati, anche se in gran numero continuano a vivere sulle montagne. I Tajiki sono di lingua dari. Questo li ha portati a occupare spesso lavori nella burocrazia e nel commercio. Quasi tutti i Tajiki sono di fede sunnita; una piccola percentuale, il 5%, è di fede sciita, spesso vittima di persecuzioni.
  • 15-22% Hazara – Gli Hazara sono la terza etnia per numero in Afghanistan. Oggi quasi tutti confinati nell’Hazarajat, zona del massiccio centrale afghano. Di fede sciita, dai tratti che ricordano i mongoli e le popolazioni delle regioni asiatiche, gli Hazara sono il gruppo etnico più perseguitato della storia afghana, oggetto spessissimo di violenze da parte soprattutto dei talebani. Ufficialmente dal 2004, gli Hazara hanno gli stessi diritti degli altri gruppi etnici, malgrado questo però continuano a essere discriminati, soprattutto nel mondo del lavoro. Impossibile è stabilirne la percentuale precisa per l’enorme numero di Hazara che fugge in Pakistan o che viene assassinato negli attacchi suicidi.
  • 5% Uzbeki e Turkmeni – Queste etnie vivono per lo più ai confini con Uzbekistan e Turkmenistan. Di fede sunnita, lavorano nella pastorizia o nel commercio di lana usata per fabbricare tappeti.
  • 3% Altre etnie – Altre etnie sono gli Aimaqs, sunniti e anche loro perseguitati, per lo più ora sparsi tra le montagne dell’Hazarajat. I Farsiwan, popolazione, una volta nomade, ora insediatasi ai confini con l’Iran. I Nuristani, contadini che vivono nell’Est dell’Afghanistan, parlano una lingua molto antica, una combinazione di persiano e hindi.

A. Cal.

Fonti: Thomas Barfield, Afghanistan. A cultural and political history; Norwegian Afghanistan Committee; Human Rigth Watch.

 

 

 




La lettura come arma di libertà contro il terrore in Afghanistan

Testo di Luca Lorusso |


Il maestro che sfidò la guerra

Tra gli Hazara perseguitati dai talebani in Afghanistan avviene l’incontro tra un uomo coraggioso e una bambina speciale. Lui gira per i villaggi prestando libri, lei li legge ad alta voce alle amiche che non possono andare a scuola. Una storia per aiutare i più piccoli (dagli otto anni in su) a sentirsi parte di un’umanità più ampia, piena di problematiche e di speranze.

Maryam ha 10 anni ed è l’unica bambina del villaggio a saper leggere. Quando ne aveva sette e abitava nella città di Bamiyan, in Afghanistan, un attentato dei talebani ha portato via i suoi genitori e la sorellina Baharak, che significa Piccola primavera. Lei era a scuola quando il camion è esploso. Da allora vive presso dei parenti, a Moshtarak, un abitato povero e sperduto nella provincia di Bamiyan. Questa è la zona degli Hazara, la minoranza nel mirino dei terroristi (cfr. reportage pag. 15).

Maryam ha gli occhi neri, come nero è il pesciolino protagonista di un libro che la maestra le leggeva quando andava a scuola: unico pesciolino ad avere il coraggio di nuotare alla scoperta del mondo fino al grande mare.

Un giorno arriva al villaggio un uomo speciale che porta con sé, su una bicicletta, una cassa di legno piena di libri da distribuire ai bambini del villaggio. Si chiama Amir Zerai, il «maestro dei cento soli e delle cento lune», e vuole donare agli abitanti la gioia della lettura: ogni due settimane, lui o una persona di sua fiducia, verrà al villaggio per riprendere i libri già prestati e prestarne altri.

Tra la bambina e l’uomo nasce subito un’amicizia e da essa nasce una piccola grande rivoluzione per l’intero villaggio: Maryam, spinta da Amir, inizia a leggere a voce alta i libri alle altre bambine. Loro, infatti, non vanno a scuola, a differenza dei maschi che ogni mattino si spostano al villaggio vicino per imparare a leggere e scrivere.

La storia di Maryam è inventata, ma contiene molti elementi tratti dalla realtà. Raccontata con linguaggio semplice e delicato da Alberto Melis, essa accompagna i piccoli lettori in una terra, in una situazione di vita, in mezzo a problematiche lontane, ma che riguardano tutti.

La narrazione ci accompagna nelle vicende di Maryam che, fa crescere la sua attività di lettura a voce alta fino a farla divenire una vera e propria scuola, e in quelle del maestro Zerai, minacciato dai talebani, e nello scambio di lettere tra Maryam e un bambino di un altro villaggio, anch’egli amico del maestro. In essa l’autore affronta i grandi temi della libertà che la cultura può offrire contro l’oscurantismo e la paura, del coraggio contro le avversioni e contro i tentativi di chi si oppone al bene comune, dell’amicizia, dell’amore dei cari, del pregiudizio di cui a volte la stessa protagonista è vittima, della speranza.

In appendice, Alberto Melis, insegnante e scrittore sardo, propone anche una breve intervista a Saber Hosseini, il vero «maestro dei cento soli e delle cento lune» che ha ispirato il suo racconto.

Perché porti i libri ai bambini?

«Perché per troppo tempo in questo paese i bambini sono stati sopraffatti dalla paura e dalla violenza […]. Ora è arrivato il momento che imparino a sorridere e soprattutto a sognare, non credi anche tu Maryam? (p. 37).
Sai, a volte ho l’impressione che nelle parole dei libri ci sia una magia capace di guarire anche le ferite che non si vedono» (p. 72).

Il libro: Alberto Melis, Storia del maestro che sfidò la guerra, Mondadori, Milano 2017, 120 pagine, 9,50 Euro, dagli 8 anni.