Turisti per forza

testo e foto di Alberto Sachero |


Reportage dalle isole Canarie, dove la Spagna e l’Europa parcheggiano a forza i migranti africani, trasformando i grandi alberghi per turisti in domicili coatti per migliaia di persone in fuga da guerre e povertà.

La rotta migratoria atlantica è quella che dal Nord Ovest dell’Africa conduce all’arcipelago delle isole Canarie, territorio spagnolo.

È una rotta marittima solcata dagli africani in cerca di una vita migliore dall’inizio degli anni ‘90 ed è ritenuta molto pericolosa in quanto attraversa le acque insidiose dell’Oceano Atlantico. È stata la prima via d’acqua verso l’Europa a essere percorsa ben prima di quella mediterranea, ma a causa della sua difficoltà e delle valide alternative, solamente nel 2020 è tornata in auge con ingenti arrivi.

Rifugiati sulle spiagge dell’isola Gran Canaria. – ® Alberto Sachero

Una rotta più sicura

La rotta mediterranea difatti, o meglio le tre rotte mediterranee (Libia/Tunisia-Italia, Marocco-Spagna e Turchia-Grecia), sono più brevi e meno pericolose. Negli ultimi anni, però, sono diventate sempre più difficili da percorrere.

In Italia il decreto Minniti prima e i decreti sicurezza Salvini poi, criminalizzando le Ong e ostacolando l’assistenza e soccorso nel Sud del Mediterraneo, hanno ridotto le partenze da Libia e Tunisia. Anche il secondo governo Conte, per mano della ministra dell’Interno Luciana Lamorgese, ha stretto patti e sovvenzionato il governo libico e quello tunisino per limitare il più possibile il flusso migratorio. Inoltre, le umiliazioni e le atroci torture inflitte nelle carceri libiche scoraggiano i migranti a percorrere questa via.

Più a Ovest, sulla rotta mediterranea occidentale tra Marocco e Spagna, sono state costruite, nelle enclavi spagnole di Ceuta e Melilla, chilometri di reti per arginare il passaggio. Il governo spagnolo ha pagato quello marocchino per disincentivare le partenze.

Idem nel Mediterraneo orientale, dove i pattugliamenti greci, scaduto il patto miliardario con il dittatore turco Erdogan, si sono intensificati aumentando di fatto i respingimenti.

Un altro motivo che ha spinto le persone verso le Canarie, è il costo del viaggio. Fuerteventura, l’isola più vicina alla terraferma, dista solo 70 km dal Marocco, le altre poco più. Mentre nel Mediterraneo si arriva a spendere fino a 5mila euro, oltre al denaro per raggiungere il posto di imbarco (in Marocco, Libia o Tunisia), nell’Atlantico il costo è decisamente inferiore: tra i 400mila e i 700mila franchi Cfa, moneta utilizzata da 14 paesi africani ex colonie francesi, equivalenti a 600-1.000 euro.

Rifugiati sulle spiagge dell’isola Gran Canaria. – ® Alberto Sachero

No options

La storia insegna che le migrazioni non si possono fermare, si possono solo temporaneamente limitare. Per tanti non ci sono alternative. No options, come mi hanno sempre ripetuto i migranti incontrati. Rese più difficilmente praticabili le rotte mediterranee a suon di euro e motovedette, le attenzioni di chi cerca miglior futuro si sono rivolte, nonostante l’elevata pericolosità, alla rotta atlantica, porta d’ingresso occidentale dell’Europa.

Al 20 dicembre, data del mio arrivo sulle isole, si calcola che nel 2020 siano sbarcati circa 23mila migranti, molti dei quali tra ottobre e dicembre, nove volte in più rispetto al 2019. Provengono da paesi nei quali è difficile vivere e lavorare come Marocco e Senegal, o dove vi è una grossa crisi politico-sociale come Mali, Mauritania, Costa d’Avorio, Guinea Conakry, Guinea Bissau e Gambia.

Da pescatori a profughi

La maggior parte dei migranti sono ragazzi molto giovani che lasciano i propri paesi per disperazione e mancanza di futuro. Il loro sogno è quello di arrivare in Europa e costruirsi una nuova vita aiutando così la famiglia rimasta nel paese di origine.

Per arrivare alle Canarie partono dalle località di mare di Marocco, Sahara Occidentale, Mauritania e Senegal. Il viaggio può durare da 4 a 20 giorni, a seconda della distanza e delle condizioni dell’oceano. Si stima che sui 25mila partiti, più di 2mila non siano mai arrivati, ma finiti in fondo al mare in quella grande tomba che, come il Mediterraneo, non sappiamo esattamente quanti corpi accolga.

Le imbarcazioni utilizzate sono quelle in legno variopinte dei pescatori locali. Possono ospitare da 10 a 40 persone, a seconda della grandezza dello scafo.

Imbarcazioni sequestrate nel porto di Arguineguin, Isola Gran Canaria ® Alberto Sachero

Parcheggiati sul molo

Negli ultimi mesi, la maggior parte degli arrivi sono avvenuti nel Sud dell’isola Gran Canaria, nella zona delle località turistiche comprese tra Maspalomas e Puerto Rico. Di norma le imbarcazioni vengono avvistate dagli elicotteri, che danno l’allarme alle vedette di salvataggio spagnole ormeggiate nel porto di Arguineguin. Queste salpano per recuperare i migranti che vengono portati sul molo, identificati e smistati nei centri di accoglienza dell’isola.

I barconi, chiamati patera in spagnolo, vengono poi trainati e ormeggiati in fondo al molo.

Tra ottobre e dicembre 2020 il numero degli arrivi si è impennato. Le autorità spagnole si sono fatte trovare completamente impreparate e hanno deciso di parcheggiare 2.300 persone sul molo stesso, trattandole di fatto come bestiame. In condizioni igienico-sanitarie precarie, buttate a terra senza possibilità di lavarsi, sono state ospitate in questa sorta di campo gestito dalla Cruz Roja, la Croce Rossa spagnola, per circa 15 giorni.

Il Covid-19 per loro non conta, si è scelto di non far rispettare le distanze di sicurezza. Giornalisti e fotografi sono stati tenuti alla larga, con le buone o le cattive maniere, ufficialmente per proteggere la privacy dei migranti. In realtà, per tentare di occultare le pessime condizioni dei campi e il mancato rispetto delle regole sul diritto internazionale.

La popolazione locale si è divisa su questo tema: alcuni portavano aiuti alimentari, altri inveivano contro i ragazzi. Ci sono state manifestazioni pro e contro, come sulla vicina isola di Tenerife.

Dopo due settimane, le autorità hanno finalmente trasferito i migranti: una parte in un campo tendato nella periferia di Las Palmas, capitale di Gran Canaria, e l’altra, dopo una lunga trattativa con gli albergatori dell’isola, nelle stanze solitamente occupate dai turisti europei, ma ora vuote a causa del Covid-19.

Rifugiati sulle spiagge dell’isola Gran Canaria. – ® Alberto Sachero

Incontri

Il giorno del mio arrivo nella capitale Las Palmas, incontro Kamal, un ragazzo marocchino ospite nella Fabrica, un hotel gestito da Cruz Blanca, che ospita circa 150 migranti. Ha 28 anni e un figlio che vive con la nonna a Safi, la citta marocchina da cui proviene, affacciata all’Oceano Atlantico. Per imbarcarsi è sceso fino a Dakhla, una località nel Sud del Marocco. In tutto ha viaggiato per sette giorni.

Mi dice che la vita nel suo paese è impossibile. Non si trova lavoro e le condizioni sono sempre più difficili.

Vuole andare in Spagna, trovare lavoro e aiutare il figlio e la madre. Il padre e il fratello sono annegati in un naufragio nel 2019 poco distanti da Lanzarote, isola nel Nord Est dell’arcipelago. In pochi anni ha perso 21 amici della sua stessa città, annegati. Mi mostra il lungomare di Las Palmas, dove alcuni migranti vivono, preferendo la strada all’accoglienza. Si sentono meno comodi, ma più liberi. Bivaccano in tende sulla spiaggia, rifugi di fortuna dietro al porto, angoli desolati sotto i cavalcavia.

Il giorno successivo mi reco ad Arguineguin. Fortunatamente i migranti non ci sono più, ma trovo una ventina di barconi ormeggiati in fondo al molo, tra le barche a vela e i catamarani dei turisti. Con qualche difficoltà riesco a salire a bordo.

Sembra di entrare in una casa dove è appena passato un uragano e da cui la gente è fuggita in fretta e furia. Sul fondo dello scafo trovo di tutto. Bidoni di benzina, alcuni vuoti altri ancora pieni, teloni di plastica, giubbotti salvagente, guanti, stivali di gomma, mantelle e pantaloni antipioggia, crema solare, fusti da cinque litri di acqua da bere, cartoni ancora pieni di latte, tantissima frutta secca, barrette energetiche, chili di pane. Tutto ciò che serviva per sopravvivere alla traversata. Quel che più mi colpisce è la presenza di oggetti personali. Probabilmente nella fretta di scendere dai barconi, i migranti li hanno lasciati a bordo, o forse il personale addetto al salvataggio li ha obbligati ad abbandonarli.

Trovo vestiti, zainetti pieni, beauty case, giochi per bimbi, mappe geografiche, persino un paio di mutandine colorate nuove con l’etichetta ancora attaccata.

Due abitanti del paese salgono a bordo e recuperano tele cerate, giacche antipioggia e salvagenti che possono servire. Mi chiedono di non essere fotografati. Trovo giusto recuperare indumenti che possono essere ancora utilizzati. Alcuni turisti si fanno selfie con i barconi come sfondo, altri ancora strappano una luce di emergenza e se la portano via. Intorno, barche a vela ancorate, turisti che pagaiano sulla tavola da surf, moto d’acqua che solcano le onde e gente che prende il sole in topless sulla spiaggia.

Rifugiati in uno degli alberghi di Puerto Rico, Gran Canaria – ® Alberto Sachero

«Turisti» per forza

Mi reco poi a Puerto Rico, il penultimo paesino al termine dell’autopista GC1, unica grande strada che unisce la capitale Las Palmas con il Sud dell’isola.

Questa località turistica in mezzo al nulla è costituita da grandi alberghi e casette a schiera per turisti, con relativi servizi come negozi, bar e ristoranti. Quest’anno 2020, l’alta stagione invernale è partita male e prosegue peggio. Solo i pochi turisti europei residenti sulle isole, o che vi lavorano, sono giunti alle Canarie. Gli alberghi sono vuoti, quindi il governo iberico, vista l’emergenza di Arguineguin, ha deciso di riempirli di migranti. Gli hotel Servator, Holiday Club e Canema concedono loro le stanze ma non l’accesso a sala da pranzo, piscina e spazi comuni.

La spiaggia di Puerto Rico sembra un’arena, circondata sui tre lati da immensi alberghi e strutture ricettive di colore bianco. Il quarto lato è il mare.

Quattro senegalesi fanno ginnastica sul bagnasciuga per tenersi in forma, mentre alcuni turisti sovrappeso li osservano meravigliati. Chiacchiero mentre faccio un po’ di ginnastica con loro.

Aliou mi racconta che in Senegal facevano i pescatori e lavoravano sulle stesse barche utilizzate per arrivare alle Canarie. Un milione e mezzo di persone vivono di pesca, in uno dei mari più ricchi del mondo. Negli ultimi dieci anni la quantità pescata dai locali è diminuita di circa l’80%. I grandi pescherecci provenienti da mezzo mondo svuotano con le loro reti il mare, dopo aver stipulato accordi vantaggiosi con i governanti locali. Ai senegalesi restano le briciole.

L’ultima volta sono stati in mare tre giorni pescando cinque cassette di pesce, mentre pochi anni prima ne pescavano fino a otto volte di più. Hanno quindi deciso di arrivare in Europa per tentare un futuro migliore. Così non potevano sopravvivere.

Campo di “Barranco Seco”, periferia di Las Palmas, isola Gran Canaria ® Alberto Sachero –

Braccialetti gialli

Conosco poi Mussa, un ragazzo del Gambia, mentre attraversa col semaforo rosso. Un turista italiano gli urla dall’auto: «Cannibale! Guarda cosa fai!». Lui mi spiega che non sa cosa sono i semafori: nel suo villaggio in riva al fiume Gambia non ne ha mai visti.

A 15 km da Puerto Rico sorge il villaggio di Maspalomas, la meta turistica più frequentata dell’isola, nota per le bellissime dune di sabbia sulla spiaggia. Una distesa di negozietti discoteche e bar costeggia la bella «Playa des Ingles».

Qui alcuni migranti vivono stabilmente da alcuni anni, visto che i controlli della polizia sono molto più rari che a Las Palmas. Vendono ricordini e gadget ai turisti, che però ora scarseggiano. I migranti arrivati recentemente occupano invece anche qui i mega hotel svuotati dal Covid-19.

Nella piazzetta centrale conosco una ragazza senegalese che fa treccine ai capelli per 10 euro, e un ragazzo della Guinea che vorrebbe trovare una donna bianca un po’ «più grande» di lui e sposarla, per rimanere a vivere a Maspalomas. Parlo con quattro ragazzi del Mali, dove una guerra interna dura da anni. Ci scambiamo i numeri di telefono. Vorrebbero venire in Italia e incontrarmi al loro arrivo. Come tutti i migranti ospitati negli hotel dell’isola, hanno al polso un braccialetto giallo con un codice identificativo.

Campo o prigione?

Altri migranti purtroppo sono stati meno fortunati, e sono stati rinchiusi a Barranco Seco, un campo costruito velocemente alla periferia sud della capitale Las Palmas, nei pressi dello stabilimento della birra «Tropical», la «cerveza» prodotta in Gran Canaria. Il campo è costruito in un sito militare dismesso e può contenere circa mille persone. Qui sono stati portati la maggior parte dei migranti rimasti due settimane sul molo di Arguineguin. Dormono nelle tende, non possono uscire e sono sorvegliati da un ingente numero di poliziotti.

La situazione creatasi di recente alle Gran Canarie risulta piuttosto complessa. Il 2020 passerà alla storia come l’hanno del Covid-19 e dei migranti. Mentre a causa delle restrizioni sui viaggi all’estero sono presenti pochissimi turisti, circa 23mila migranti sono sbarcati sulle isole, 7mila dei quali sono stati sistemati proprio nei grandi hotel occupati fino al marzo scorso dai turisti. Una volta terminata l’emergenza Covid-19 e riaperte le porte al turismo, i migranti dovranno «sparire» dalla circolazione e verranno probabilmente rinchiusi nei nuovi campi che l’esercito sta costruendo. La Spagna (e quindi l’Europa) sta di fatto utilizzando le isole Canarie come parcheggio, come le isole di Lesbo e Kios in Grecia. Nel frattempo, sta cercando di firmare accordi con Marocco e Senegal, per limitare le partenze e aumentare i rimpatri, che per il momento faticano a essere stipulati. Dei 23mila migranti arrivati nel 2020, pochissimi riusciranno ad arrivare dove vorrebbero: Spagna continentale, Francia, Germania, Nord Europa. La maggior parte continuerà a essere trattenuta in queste isole, senza futuro. In un limbo: senza tornare indietro e senza poter andare avanti.

Ptoteste degli albergatori a causa delle crisi causa Covid – ® Alberto Sachero

Strategia discutibile

La strategia anti migratoria europea è chiara: sigillare le frontiere e non concedere, se non in pochi casi eccezionali, il diritto di asilo politico. Una strategia sbagliata che mostra come i governi europei non hanno alcuna intenzione di aiutare le popolazioni in difficoltà. Ritengono più giusto bloccare i migranti, spesso provenienti da luoghi impoveriti da politiche economiche succubi degli interessi di multinazionali e paesi ricchi, invece di permettere loro la ricerca di una vita migliore lontano dal proprio paese.

Alberto Sachero,
da Las Palmas




La dignità sotto i piedi

testo di Daniele Biella |


In Piazza Libertà, davanti alla stazione, una coppia si prende cura dei migranti che arrivano in Italia dopo le peripezie e le violenze alle frontiere. Curare le loro ferite sotto gli occhi di tutti, è un urlo contro la normalizzazione del male.

«Avevo un ricordo bellissimo dei boschi della ex Jugoslavia, mi sembravano paesaggi usciti da film della Disney. Ora, quando li guardo, penso alla tragedia che si sta consumando in quei luoghi. Decine di persone – non sapremo mai quante – vi perdono la vita tentando di migrare verso il Nord Europa. È straziante».

Lorena Fornasir ha uno sguardo al quale non si può sfuggire: nei suoi occhi chiarissimi si specchiano le immagini create dalle parole che ci ha appena rivolto.

Non sono immagini belle, ma questa è la realtà: benvenuti in Europa, dove le frontiere uccidono chi cerca di superarle con la speranza di una vita migliore, ma senza documenti validi.

© Daniele Biella

Unico obiettivo: la cura

Incontriamo Lorena in Piazza Libertà, davanti alla stazione di Trieste, in un tardo pomeriggio di settembre, mentre la seconda ondata di Covid inizia a svegliarsi. È qui che la donna, psicologa 67enne, giudice onorario minorile con un’energia inesauribile, si fa trovare tutti i giorni assieme al marito Gian Andrea Franchi – filosofo e storico, ex professore di 84 anni – e ai volontari dell’associazione Linea d’ombra nata nel 2019. Dedicano tempo a presidiare il luogo con un unico obiettivo: la cura.

«Qui c’è un passaggio continuo di migranti che arrivano dalla “rotta balcanica”. Si fermano a Trieste giusto il tempo per riprendere le forze prima di provare ad andare a Nord», spiega Lorena. «Il problema è che molti arrivano a dir poco malridotti e bisognosi di attenzione. Noi veniamo qui proprio per questo, per curarli: medichiamo le ferite a piedi, gambe, braccia, e ascoltiamo i loro tremendi racconti».

© Daniele Biella

Respingimenti e violenze

Nessuna fake news in questa brutta storia. È tutto vero: la controprova dello scempio dei diritti umani in atto ai confini dell’Europa sono proprio loro, i sopravvissuti con i traumi che si portano addosso.

«Tentava di attraversare il confine italo sloveno insieme alla moglie e a un compagno, ma è morto cadendo in un burrone dopo un volo di venti metri, nei pressi del castello di San Servolo, in provincia di Trieste», riporta Radio Capodistria il primo gennaio 2020. È una vicenda che a Lorena Fornasir ritorna spesso in mente, perché ricorda la disperazione della moglie. Così come ricorda i tanti racconti di chi riesce ad arrivare in Piazza Libertà – ribattezzata da loro Piazza del Mondo – e narra di persone care e compagni di viaggio persi nel buio dei boschi, nelle settimane di cammino tra le frontiere balcaniche e, soprattutto, tra un respingimento e l’altro: «Le persone vengono rimandate indietro dalla polizia di confine, sia in Croazia che in Slovenia. Negli ultimi mesi anche all’arrivo in Italia», sottolinea Gian Andrea.

«Ci sarebbe il diritto del migrante a chiedere asilo politico, ma evidentemente non viene rispettato». E c’è di più: «Le persone che assistiamo in piazza arrivano spesso con evidenti segni di violenze, e denunciano pestaggi da parte delle forze di polizia una volta entrati nel confine croato».

Botte documentate da foto e video che anche gli europarlamentari di Bruxelles conoscono almeno dal 2017, grazie alle mobilitazioni di associazioni per i diritti umani di tutta Europa, compresa Linea d’ombra Odv (Organizzazione di volontariato – www.lineadombra.org), la onlus creata da Fornasir e Franchi. Violenze che nessuno pare riuscire a fermare, anche per la resistenza del governo croato ad ammettere le responsabilità delle proprie forze dell’ordine.

The game, il gioco

Gli stessi Lorena e Gian Andrea hanno visto con i loro occhi i segni di quelle percosse quasi in diretta, quando nel 2015 hanno iniziato a fare la spola con altri amici tra Italia e Balcani, portando vestiario e viveri nei campi profughi informali che si erano creati a Bihac e Velika Kladusa, al confine tra Bosnia e Croazia: «Non solo le botte. Alle persone vengono rotti i telefoni cellulari, requisiti gli zaini, e a volte addirittura tolti i vestiti che indossano», aggiunge Gian Andrea, lasciando intuire tutto il proprio sdegno.

Parecchi di quei migranti che avevano conosciuto al confine tra Bosnia e Croazia, ragazzi e giovani soli, ma anche famiglie con bambini e anziani, li hanno poi reincontrati nei pressi della stazione di Trieste: quelli fortunati che sono riusciti ad arrivare in Italia, nonostante tutto. Tra loro, alcuni hanno affrontato l’ultima parte del viaggio anche decine di volte: ogni volta venivano respinti, ma dopo avere recuperato le forze ripartivano, perché non c’era possibilità di tornare indietro nel posto da cui erano scappati. L’unica speranza era quella di andare avanti, raggiungere il Nord Europa.

Questo continuo procedere ed essere respinti, lo chiamano the game, il gioco: un nome che richiama il divertimento, usato però per qualcosa che di giocoso non ha nulla, forse per esorcizzare una realtà che fino a pochi anni fa non si sarebbe immaginata nemmeno nei peggiori incubi, se pensiamo che accade a ridosso di quell’Europa che nel 2012 ha ricevuto il premio Nobel per la Pace per il suo impegno a cancellare guerre e violenze dal proprio vocabolario.

Una straordinaria prova di quella solidarietà che abbatte i muri e crea legami di fratellanza. La comunità senegalese a Trieste si è mobilitata in sostegno di chi arriva dalla rotta balcanica, fratelli migranti che arrivano da altre terre e per altre vie. Un incontro toccante, ieri in Piazza Libertà, quasi un abbraccio. Un aiuto concreto, consegnato a Linea d’ombra, da parte di chi ha vissuto sulla propria pelle la violenza dei confini, destinato a chi ancora è in viaggio.

Davanti alla stazione

Dal 2019, con un flusso di arrivi notevole (almeno 15mila persone secondo i dati ufficiali dell’Agenzia europea Frontex), l’impegno dei volontari di Linea d’ombra in Piazza Libertà è diventato quotidiano. I viaggi solidali si sono interrotti, in particolare con l’arrivo del Coronavirus, e oggi l’attività è concentrata proprio lì.

«Abbiamo appena ricevuto notizie da una famiglia iraniana che è passata qualche settimana fa da Trieste, dopo avere superato la rotta balcanica. È riuscita ad arrivare in Francia e, da lì, ha raggiunto la casa di un parente in Germania, dove ora sta bene», ci racconta Franchi a fine novembre con sollievo. «Li ricordo bene, perché ci ha impressionato il fatto che fosse la loro figlia di 7 anni, che parlava inglese, a relazionarsi con noi per fare capire i loro bisogni».

Storie. Tante storie che i volontari di Linea d’ombra e di altre associazioni con le quali Linea d’ombra collabora, incrociano ogni giorno. Oltre all’associazione di Lorena e Gian Andrea, infatti, in Piazza Libertà sono presenti quotidianamente l’Ics, Consorzio italiano di solidarietà, che agevola le pratiche di asilo per i pochi che non vogliono continuare il viaggio verso Nord; l’associazione Strada SiCura, con dottoresse che medicano le ferite; e c’è chi si occupa di preparare un pasto caldo, di distribuire i vestiti e le scarpe donati.

Tra i migranti che arrivano a Trieste, alcuni si fermano per chiedere la protezione umanitaria: è la scelta di una giovane medico siro palestinese fuggita dalla guerra, che oggi aiuta a curare le ferite di chi arriva, così come quella emblematica e drammatica di Umar Adnan, un ragazzo pachistano oggi poco più che ventenne, partito da solo a 18 anni dal suo paese, dopo un’infanzia segnata dallo sfruttamento lavorativo, e arrivato in Italia dopo aver subito, tra le altre cose, le angherie di un gruppo di poliziotti croati al confine: «Mercoledì 25 settembre 2019 ho incrociato Adnan lungo la strada che scende dal confine di Velika Kladusa in Bosnia Erzegovina, dopo che era stato catturato, seviziato e respinto dalla polizia croata. Gli avevano tolto le scarpe e lo avevano torturato con una sbarra incandescente scorticandogli la gamba», scrive inorridita Lorena in quello che è poi diventato un appello rivolto all’Unione europea intitolato «Torture ai confini d’Europa», diffuso tramite la piattaforma change.org, dove ha raccolto quasi 70mila firme.

Incontro in piazza con gli Scouts sloveni in Italia (Slovenska Zamejska Skavtska Organizacija), venuti per conoscere la realtà di chi arriva dalla rotta balcanica e portare un aiuto concreto e prezioso

La disumanità

Fornasir ricorda nel testo del suo appello anche un’altra persona che però non ce l’ha fatta: si chiamava Alì. «Nel febbraio 2019, Alì era stato catturato e la polizia croata, dopo vari maltrattamenti, dalla Croazia lo aveva respinto in Bosnia, tra la neve e il gelo, levandogli vestiti e scarpe. Alì era ritornato a Velika Kladusa a piedi, tra la neve, vagando per ore. I suoi piedi si erano congelati ed erano andati in necrosi. Dopo mesi di sofferenze, Alì è morto sabato 21 settembre, a causa della disumanità».

Molte persone, non solo Lorena e Gian Andrea, hanno tentato di alzare la voce per Alì, ma nessuna autorità, Onu compresa, è riuscita a evitare la sua morte.

È andata meglio, nonostante tutto, a Umar Adnan che incontriamo in Piazza Libertà dove, una volta recuperato l’uso della gamba ferita, oggi offre aiuto a sua volta ai nuovi arrivati, e scatta foto molto utili a Linea d’ombra per documentare e diffondere informazioni su quello che accade. «I poliziotti croati volevano obbligarmi a dichiarare che ero un trafficante, e quando negavo arrivavano le botte», ricorda, aiutato dal mediatore volontario Raheem Ullah, suo connazionale arrivato a Trieste per il proprio lavoro di ricercatore in biologia. «È passato un anno e mezzo, qui mi trovo bene e posso dare una mano, oltre che ricominciare a vivere. Ma di certo sono ancora molto risentito. Non riesco e non voglio perdonare. Nessuno mi ha chiesto scusa», conclude mostrandoci i segni ancora ben visibili sulla gamba.

Tollerati perché utili

L’aspetto importante è che ora Umar Adnan ha ritrovato il sorriso, grazie anche a questa «normalità dell’aiutare» che, nella Piazza del Mondo, è visibile a occhio nudo. Una normalità quotidiana, anche se precaria. «Siamo tollerati dalle autorità locali perché siamo funzionali», analizza Franchi. «Medicando le persone, tamponiamo un problema, mettiamo in atto quello che dovrebbero fare loro di fronte a persone bisognose d’aiuto».

Anche durante tutto questo periodo di pandemia, infatti, a Linea d’Ombra è stato permesso di operare, ovviamente con tutti i dispositivi di protezione individuale del caso.

L’unica opposizione esplicita al loro operato, di fatto, è arrivata dalle frange di estrema destra della zona, che un giorno di fine ottobre hanno indetto un presidio nella piazza. Quel giorno, dall’altra parte, si sono fatte presenti numerose persone solidali con i migranti e con i volontari che danno loro supporto.

«Dopo quel momento, a livello cittadino è nato un gruppo di persone che ora si ritrova per coordinarsi su come agire per affrontare le problematiche di Trieste. Partendo dai migranti», aggiunge Gian Andrea, «si riflette anche su altri aspetti, politici e sociali, come le condizioni carcerarie, ad esempio».

Scarpe, giacconi, tute

«Un’altra novità degli ultimi mesi è, nonostante le difficoltà causate dal Covid-19, la creazione di una rete organica di attivisti che arriva fino al confine con la Francia, seguendo gli spostamenti dei migranti tra Trieste, Veneto, Milano, Torino, Oulx e poi Briançon, in Francia».

I migranti scelgono la via più lunga per arrivare in Germania perché la frontiera austriaca è quasi del tutto inaccessibile da tempo. Del resto, la situazione, in questi flussi migratori, è in continuo cambiamento: per la paura di essere respinti al confine italo sloveno vicino a Trieste, le persone cercano sentieri tra le montagne e si spostano anche verso la provincia di Udine senza passare dalla città, con il rischio di diventare ancora più invisibili e di rimanere quindi senza assistenza in casi di emergenza.

Il 2021 si preannuncia un anno duro per tutti a causa della pandemia ancora in corso, ma sarà ancora più arduo per chi non ha una casa e sta cercando un luogo sicuro dove arrivare.

Con una meravigliosa catena di solidarietà, Linea d’ombra continua a ricevere donazioni sia di soldi che di materiale, entrambe molto importanti perché il bisogno è sempre alto: «In questo periodo nel quale fa più freddo, a volte ci sono 30 persone al giorno, a volte meno di una decina, dobbiamo essere sempre pronti», ci dice Franchi.

«Abbiamo bisogno più di tutto di scarpe, giacconi, pantaloni, tute e zaini, mentre usiamo i fondi per comprare in particolare cibo e medicinali».

dalla descrizione della foto su FB: “#BalkanRouteEurope Trieste 10 gennaio 2021 Piazza mondo: <>
Carrettino: “sarò anche pazzo ma sono qui in nome delle madri del mondo, amiamo la vita che mettiamo al mondo, ce la consegniamo l’una con l’altra, nel dolore ci rafforziamo. Aspetto i loro figli, giorno dopo giorno, cerco il coraggio di sognare e di provare a far vivere i sogni. Ma, ti prego piazza del mondo, grida a tutti: APRITE LE FRONTIERE. Lipa è sempre, non solo ora che si è incendiato il campo”

La normalità del male

Mentre accompagniamo Lorena Fornasir e Gian Andrea Franchi lungo la strada che porta a casa loro, una volta lasciata la Piazza del Mondo, l’immagine che abbiamo di questa coppia è quella di un mix di umiltà e tenacia talmente forti da risultare sorprendenti, perlomeno a prima vista. Ma pensando alle storie e alle scelte di vita di tanti uomini e donne che hanno fatto la storia con la loro dedizione agli ultimi, dopotutto, capiamo che loro due fanno parte di questa categoria di persone: una coppia splendidamente normale. Due operatori di pace che hanno come orizzonte il bene dell’umanità.

«Tra di noi è un continuo scambio: io ho un approccio più politico e intellettuale, lei è più corporea e immediata», ragiona Franchi. «Ci completiamo», aggiunge la moglie prima di gettare uno sguardo all’indietro, verso Piazza Libertà e la stazione. «Il dolore che provo, a volte, quando volto le spalle alla piazza, è tremendo: so che le persone andranno a dormire in un posto di fortuna, e rimarranno lì, soli con i loro drammi personali, mentre io vado a casa al sicuro. Questo mi pesa tanto. Mi preoccupo soprattutto per i giovani soli, perché le famiglie che arrivano assieme hanno almeno il conforto di essere un gruppo, di avere dei bambini che, quando scherzano e ridono, portano gioia anche nei momenti peggiori. I ragazzi invece no, e spesso sono in giro da anni, tra Serbia e Bosnia, respinti da tutti e con danni psicologici irreversibili. Mi chiedo quale sarà il loro futuro».

Lorena ci confida poi un suo cruccio: quello di sentire dentro sé crescere l’abitudine, conseguenza dell’aver visto per troppo tempo troppe situazioni insostenibili: «Non sento più tanta rabbia come quella che provavo nel 2015, quando ho iniziato. E questo mi stupisce e mi amareggia, perché significa che ti abitui alla bruttura, alle deportazioni, alle violenze. Perdo di vista l’essere umano mentre mi sforzo di capire e poi denunciare i meccanismi con cui i governi respingono le persone alle frontiere. Ci vuole anche questo aspetto, certo, ma la rabbia, se ben canalizzata, è un collante sociale che genera la giusta reattività per chiedere conto a chi di dovere di quanto accade. Invece se il male diventa “normale”, un’abitudine, rischiamo la rassegnazione, l’assuefazione. Per questo il mio sentimento più forte oggi è resistere alla normalizzazione della barbarie in atto».

Sentendo le parole della moglie, Gian Andrea prosegue e rilancia: «La nostra resistenza è continuare a esserci, “esistere” in questa piazza, fare vedere che l’azione diretta è il modo migliore per evitare che quello che accade cada nell’oblio. Stiamo parlando di persone come noi che non chiedono altro se non di trovare un luogo dove stare che sia migliore di quello dal quale sono venute via».

Un gruppo di liceali triestini ha colto al volo il messaggio: a novembre, dopo che una loro professoressa ha invitato una volontaria di Linea d’Ombra in classe, ha raccolto decine di paia di scarpe in ottimo stato.

Quelle scarpe ora sono ai piedi di qualcuno che ne aveva un grande bisogno.

Daniele Biella

Archivio MC




Moria è bruciata

testo e foto di Alberto Sachero |


Dopo la devastazione del campo profughi nell’isola di Lesbo, cambierà qualcosa per i migranti?

Il campo di Moria sull’isola di Lesbo, il più grande d’Europa arrivato a contenere circa 20mila persone a inizio 2020, è stato per anni un periferico limbo in cui l’Europa ha parcheggiato i migranti, permettendo solo a pochi di completare l’iter di richiesta di asilo politico.

Moria è andato a fuoco il 9 settembre 2020. Gli abitanti del campo hanno perso il poco che avevano e sono fuggiti per non perdere anche la vita.

Sembra che ad appiccare il fuoco siano stati i migranti stessi. Nel campo erano stati individuati 35 casi di Covid-19, e per questo motivo era ogni giorno più blindato, fino alla completa chiusura.

Alcune persone hanno quindi dato fuoco alle tende, per evitare di essere rinchiusi a tempo indeterminato.

Moria bruciata

Arrivato sull’isola di Lesbo mi reco a vedere cosa resta di Moria (foto 1 – di apertura). Dopo cinque giorni dall’incendio, un forte odore di ulivi carbonizzati e plastica bruciata aleggia ancora nell’aria. Ovunque tende bruciate, letti, biciclette, bottiglie di acqua in plastica e ogni tipo di effetto personale. Tutto andato in fumo.

Incontro alcuni abitanti che ancora riempiono sacchi neri con quello che sono riusciti a salvare dalle fiamme. Poco più avanti, due ragazzi afghani sono saliti su un ulivo e stanno cercando di tagliare dei cavi dell’alta tensione per costruire delle corde per trainare le loro «slitte» con a bordo il poco che gli è rimasto.

L’esodo intrappolato

Fuggendo dal rogo, gran parte dei migranti si è diretta in verso Mytilini, il principale centro dell’isola di Lesbo (foto sopra). La strada però è stata bloccata dalla polizia greca che non voleva che arrivassero in città. Sulla strada che collega Mytilini e Moria, con dei bus messi di traverso, sono stati creati due blocchi, distanti circa 1,5 Km tra di loro, in modo da intrappolare le persone nella strada e non farle muovere. Sono stati chiusi i supermercati, ufficialmente per ragioni di sicurezza, in realtà per mettere in difficoltà i migranti e non permettere loro di acquistare cibo e acqua per sopravvivere.

I fuggiasci da Moria si sono costruiti ripari di fortuna, con teli, rami e paglia. Li hanno piazzati sui marciapiedi della strada, nei parcheggi dei supermercati chiusi, nei boschi adiacenti, sopra i tetti, in resti fatiscenti di vecchie costruzioni e sotto tir parcheggiati (foto qui). Tutto ciò con temperature sopra i 30 gradi.

Il governo greco, col benestare dell’Europa, non ha mosso un dito per assisterli, si è limitato a costruire in fretta e furia un altro campo per rinchiuderli il più velocemente possibile e renderli nuovamente invisibili.

Molte Ong sono così arrivate sull’isola e moltissimi giovani volontari indipendenti hanno portato il loro sostegno da tutta Europa. Mancavano solamente le istituzioni. Osteggiati dalla polizia greca, che spesso non li faceva accedere all’area o li faceva attendere ore al di fuori, hanno portato cibo, acqua, vestiti e medicinali a 13mila migranti. Questi, con una calma incredibile, hanno formato code lunghe più di un chilometro aspettando fino a due ore sotto il sole cocente, per assicurarsi un pasto o qualche bottiglia di acqua (foto 3, qui sotto).

Condizioni disumane

Mi dirigo verso la zona a circa due chilometri a Nord della città di Mytilini con Sia, una volontaria greca che deve portare dei farmaci a una donna afghana. La polizia non ci permette di entrare. Dobbiamo fare un lungo giro sulla collina per aggirare gli altri due posti di blocco e finalmente, dopo un’ora di cammino, giungiamo sul posto. L’impatto visivo è molto forte: migliaia di persone sistemate in accampamenti di fortuna, buttate per terra in condizioni disumane; interminabili code per il cibo; uomini, donne, qualche anziano e migliaia di bambini ovunque. Si stima che siano circa 13mila persone di cui 4mila sotto i 18 anni, tantissimi molto piccoli o addirittura neonati (foto 4, qui sotto).

Protezione negata

Inizio a parlare con la gente. Un ragazzo mi dice che circa l’80% di loro proviene dall’Afghanistan, un paese distrutto dalla guerra, dai Talebani, dai Daesh, dall’intervento statunitense, dai continui attentati. Mi dice in perfetto inglese: «Sono scappato, non avevo altra scelta, e ora devo arrivare in Europa, indietro non posso tornare, mi ucciderebbero». Ci sono anche Iraniani, Iracheni, Somali, Yemeniti, tutte persone che fuggono da guerra persecuzione o povertà, che avrebbero il sacrosanto diritto di chiedere protezione e accoglienza.

Una madre, con in braccio due bimbi, mi dice: «Uno è mio, ha dodici giorni. È nato qui, e dopo cinque giorni di vita siamo scappati dal campo in fiamme. L’altro ha cinque mesi, è di una mia amica in ospedale a Mytilini con grossi problemi di salute, l’ho adottato, almeno per il momento, poi si vedrà».

I bambini tengono allegra la drammatica situazione sulla strada, con i loro sorrisi e la loro spensieratezza. Sono purtroppo abituati a vivere in guerra e povertà, ma la loro voglia di ridere e di giocare vince quasi sempre sulla tristezza e dà agli adulti un motivo di speranza per un futuro migliore.

Indietro non si torna

La sera vado in un locale indicatomi da alcuni volontari, in cui ci sono parecchie persone da tutta Europa. Lì mi vengono segnalati altri locali di «destra», in cui i volontari non sono ben accetti. Il governo greco è di destra, e l’isola di Lesbo è piena di fascisti che fanno ronde. Ci sono stati moltissimi episodi di aggressioni a profughi, volontari e anche giornalisti e fotografi. Le bandiere nere sono numerose e ben visibili sulle strade isolane.

Il secondo giorno mi reco da solo nella zona in cui sono bloccate le persone. La polizia mi ferma di nuovo. Rientro in paese, incontro un gruppo di afghani che fanno la spesa e che tornano al loro rifugio. Mascherina, occhiali da sole e borse della spesa mi permettono di superare il posto di blocco. La famiglia afghana che mi ha aiutato a entrare, mi ospita. «Come Alberto, this is our house». Padre, madre e due figli. Mi offrono del cibo, anche se ne hanno poco. Ringrazio e cerco di dire che ne hanno più bisogno loro. Mi meraviglia la loro dignità, presenza e pulizia. Non so come fanno, buttati a terra in quel modo con poco cibo e scarse possibilità di lavarsi. Io che dormo in una camera con bagno privato sono molto meno presentabile.

Il figlio maggiore mi racconta che vivevano in una zona di Kabul. Da una parte i Talebani, dall’altra il Daesh. Non riusciva ad andare a scuola per le continue sparatorie, il padre lavorava saltuariamente. Hanno quindi deciso di partire per l’Europa. In due anni sono arrivati a Lesbo, dopo aver lavorato per pochissimo denaro ed essere stati rinchiusi nei campi turchi. «Non abbiamo scelta, indietro non possiamo tornare».

«No Photo, no photo»

Il terzo giorno, dopo esser nuovamente «rimbalzato» al posto di blocco, riesco ad entrare grazie ai ragazzi, tutti molto giovani e pieni di voglia di fare, di una Ong. Mi consigliano di «infilarmi» tra di loro nel momento in cui la polizia concede alla Ong di entrare nella zona. Così accade, dopo circa due ore, con il capo dei poliziotti che raccomanda ai volontari «No photo, no photo». I governi europei non vogliono che si mostri quel che sta succedendo a 13mila persone bloccate in strada dalla polizia in tenuta antisommossa e tenute in condizioni disumane, senza cibo, riparo, servizi e assistenza. La sopravvivenza di questa gente è stata garantita esclusivamente dal lavoro straordinario svolto dalle Ong e dai volontari, che si sono fatti in quattro per portare viveri, acqua e beni di prima necessità.

Il nuovo campo prigione

Tutto quello che ha fatto l’Europa è stato di dare soldi alla Grecia per costruire un nuovo campo (foto 6, sopra).

I migranti sono poi stati lasciati privi di cibo e riparo per una settimana, per costringerli a entrare nel nuovo campo. In quei giorni ho assistito personalmente a dialoghi tra funzionari greci e migranti in cui i primi esortano i secondi a prepararsi per entrare nel nuovo campo. Ma questi ultimi rispondono di no, che non volgliono essere rinchiusi in un nuovo campo prigione.

Tutte le mattine ci sono manifestazioni, con in testa centinaia di bambini, che fanno la spola tra un blocco e l’altro della polizia, urlando «Asadi» (libertà in lingua farsi), «We don’t go in the new camp» e «Freedom» (foto 7, qui).

Davanti al rifiuto della gente, i funzionari cercano di convincerla che solo nel nuovo campo di Kara Tepe troverà ristoro, tende, farmaci e WiFi. Dai migranti ancora risposta negativa. Alla seconda risposta negativa, dato che i migranti mostrano di fidarsi più dei volontari e dei giornalisti che dei poliziotti e funzionari greci, questi provano a convincerli che il governo vuole solo il loro bene, mentre Ong e giornali vogliono solo usarli.

Infine, visto che con le buone non ottengono niente, iniziano a minacciare: «O entrate nel campo o la vostra richiesta di asilo non verrà processata».

Il giorno successivo, dopo aver sigillato l’area tenendo fuori tutti, in primis i giornalisti, viene messo in atto un vero e proprio rastrellamento. Ingenti forze di polizia in tenuta anti sommossa armate fino ai denti, passano lentamente intimando ai migranti di recarsi nel nuovo campo. Le persone a questo punto cedono e formano code interminabili per la registrazione. È vietato accedere con cinture, accendini e qualsiasi tipo di oggetto appuntito, come in galera.

Il nuovo campo di Kara Tepe viene riempito da circa 10mila «ospiti». Sorge in un’area in riva al mare, già zona militare contaminata da residui bellici e pallottole inesplose, certo luogo non ideale per le migliaia di bimbi che in quella terra giocano. L’area è nota per essere molto fredda e piovosa nella brutta stagione.

Le famiglie sono ammassate in grossi tendoni in plastica, caldi in estate e freddi in inverno. Duecento in ogni tenda su letti a castello, contro ogni regola anti Covid. I bagni sono in tutto venti.

L’unica buona notizia è che gli abitanti potranno uscire dalle 8.00 alle 20.00, con obbligo di rientro. Almeno per ora.

Spero di sbagliarmi ma il mio presentimento è che con gli inevitabili casi di Covid positivi, il campo sarà presto sigillato.

Rientrato in Italia, il 23 settembre apprendo alla radio che è stata approvata la bozza per il nuovo «Patto di solidarietà» sul tema migranti: verranno stanziati dall’Europa più soldi per i paesi periferici come Italia e Grecia e saranno finanziati e agevolati i rimpatri forzati.

Solidarietà tra i paesi europei nel cacciare i poveracci, non solidarietà verso gli esseri umani.

Alcuni amici afghani mi informano che, come era prevedibile, le prime piogge autunnali hanno completamente inondato il campo e le tende, che il cibo è scarso e di pessima qualità, e che si fanno code in continuazione, per mangiare, per uscire e rientrare al campo, per andare in bagno.

Moria è bruciata, cambierà qualcosa per i migranti?

No, anzi, sì. Sarà ancora più duro per loro richiedere asilo ad una «fortezza» Europa sempre più arroccata e solidale solo con i propri interessi economici e con la protezione dei propri confini.

Alberto Sachero




Nuova presenza dei Missionari della Consolata in Marocco


Dall’inizio di novembre i Missionari della Consolata hanno cominciato a rendere concreto un progetto da lungo sognato: un presenza in Marocco a servizio dei rifugiati sub sahariani.

Da alcuni anni i missionari della Consolata in Spagna stanno cercando un maggiore coinvolgimento nel lavoro degli immigrati. Soprattutto a Malaga, con la cura pastorale nella chiesa di Cristo Re e con il coinvolgimento sociale nella “Piattaforma di solidarietà con gli immigrati” e in altre forme, hanno iniziato ad aprirsi alla collaborazione con altre forze. Si è tenuto conto della situazione strategica delle città di confine, Ceuta, Melilla, Nador e Tangeri come indicato dalla Conferenza 2018 della Delegazione di Spagna e dal Consiglio Continentale dell’epoca.

La proposta del Vescovo: Oujda

Dopo tre visite da parte di gruppi di missionari della Consolata (missionari e laici insieme), a cui ho partecipato anche io, abbiamo ricevuto la proposta concreta del cardinale Crisbal Lopez, vescovo di Rabat, di assumerci la responsabilità di lavorare con gli immigrati a Oujda (Uchda, in spagnolo), una città marocchina nell’estremo orientale del paese, a circa 15 km dal confine con l’Algeria e a circa 60 km a sud del Mediterraneo. Oujda è la capitale della regione orientale vasta circa 1.000 km2, uno dei 12 grandi territori amministrativi marocchini. Si tratta di un punto di passaggio di tante persone provenienti da diversi paesi dell’Africa subsahariana, che qui arrivano con l’intenzione di raggiungere l’Europa dopo aver attraversato il deserto ed essere passati attraverso tante tribolazioni. Qui la lingua ufficiale è l’arabo, ma si parla anche il francese insieme al dariya, una variante dell’arabo.

Secondo il vescovo Christopher, da “Chiesa samaritana” che siamo, la parrocchia ha sentito il dovere di accogliere coloro che hanno bussato alla sua porta chiedendo aiuto. E per più di due anni, il parroco Antoine Exelmans, sacerdote francese “fidei donum” e attuale vicario generale della diocesi, ha organizzato questa attività che cerca, seguendo le linee guida di Papa Francesco, di “accogliere, proteggere, promuovere e integrare” gli immigrati.

In questa parrocchia di St. Louis, una chiesa del ventesimo secolo, viene offerto un servizio di accoglienza di emergenza tutto l’anno per i migranti in situazioni vulnerabili. Circa 1000 persone passano da qui ogni anno, ma nel 2020 sono già passate più di 2000 persone. Sono praticamente tutti subsahariani: più dell’80% proviene dalla Guinea Conakry, e altri provenienti da Camerun, Sudan, Madagascar, ecc. Molti di quelli accolti qui sono minorenni.

Il Consiglio della regione d’Europa dei Missionari della Consolata mi ha chiesto di coordinare il processo e la possibile presenza a Oujda. Dopo diversi mesi di corrispondenza con il Vescovo di Rabat, il 3 novembre sono arrivato a Rabat, e dopo alcuni giorni di introduzione alla realtà del Marocco e della chiesa qui con l’aiuto dello stesso vescovo, il 12 novembre ho iniziato questa esperienza a Oujda, a 530 km da Rabat, sede dell’arcidiocesi.

Principi di orientamento per la nostra presenza a Oujda

Fraternità

Anche se ero già stato qui in visita l’anno scorso, mi sono reso conto che l’arrivare fin qui è una bella esperienza impegnativa di vita di fede e di fraternità, che richiede di “conoscere la realtà dall’interno, anche con coraggiose opzioni di presenza…”

È una presenza di fraternità che si vive anche nella sua bellezza di realtà ecumenica ecumenico e fortemente interreligiosa con una convivenza pacifica in Marocco, un paese con più del 98% della popolazione che pratica l’Islam. Il re del Marocco Mohamed VI ha sottolineato a Papa Francesco nella sua visita apostolica in Marocco nel marzo dello scorso anno che “le religioni abramiche esistono per essere aperte e conoscersi, in una coraggiosa competizione per fare del bene l’una con l’altra”.

Legami con Malaga

Dopo la presentazione di cui sopra, è chiaro il rapporto che esiste tra la nostra presenza qui con l’Europa, e in particolare con la Spagna, o più in particolare ancora, con la nostra comunità a Malaga. A causa del nostro coinvolgimento in questo fenomeno a Malaga e del processo che culmina nella nostra installazione qui, considero questa presenza come un “allegato” alla comunità di Malaga, missionari e laici insieme.

Itineranza

È la caratteristica inarrestabile del fenomeno dell’immigrazione. Pertanto, nessuno sa quanto durerà la nostra presenza qui. Questa presenza comporta anche un certo “itineranza mentale”, cioè la flessibilità. Si tratta di una missione dinamica, corrispondente alla natura del fenomeno stesso, suscettibile di cambiamenti dovuti a fattori socio-politici, ecc. Inoltre, è essenziale tessere reti collaborative. Con la nostra comunità di Malaga, e con tutta la nostra regione Europa e BMI e l’intera congregazione. Naturalmente,  è importante anche l’appoggio e la collaborazione con altri organismi ecclesiali ed extra-ecclesiali.

Evangelizzazione e pastorale

Sappiamo che “la Buona Notizia è l’essenza e il contenuto di tutto ciò che siamo e facciamo come missionari” (PMC n. 86.1). Per parafrasare il vescovo emerito di Rabat, monsignor Vincent Landel, si può dire che “i cristiani sono l’unico Vangelo che leggono molti musulmani”. La Conferenza Episcopale della Regione del Nord Africa (CERNA) nella sua lettera pastorale del 2014 riconosce la presenza della Chiesa in queste terre come “servi della speranza” e quindi ci invita all'”apostolato dell’incontro”, come Maria, in questi “incontri dell’umanità”.

La presenza pastorale qui comprende anche l’accompagnamento alla comunità cristiana di circa 50 parrocchiani, la maggior parte dei quali studenti subsahariani, così come funzionari diplomatici, turisti, ecc. Allo stesso modo, per questo compito, aspetto con ansia l’arrivo di almeno altri due confratelli della Consolata.

Nel suo messaggio per la Giornata Mondiale dei Poveri 2020, Papa Francesco ci invita a “tendere la mano ai poveri” ricordandoci che “tenere gli occhi sui poveri è difficile, ma molto necessario per dare alla nostra vita personale e sociale la giusta direzione”. Speriamo di avere la cooperazione di tutti, che la saggezza del Signore ci accompagni, e contiamo sempre sull’intercessione della Madonna del Marocco.

Padre Edwin Osaleh
da Oujda, Marocco

(nostra traduzione da Consolata en Marruecos, nueva presencia, su www.consolata.org)




Migranti ai tempi del Covid

testo e foto di Amarilli Varesio |


A Torino l’esperienza di un palazzo autogestito da migranti si fa strada. Non senza aiuti esterni, e con molto impegno degli occupanti. Ma con l’arrivo della pandemia le difficoltà sono aumentate.

Madonna della Salette potrebbe sembrare, a prima vista, una via della periferia torinese come tante altre, poco popolata, con palazzi bassi e spazi verdi lasciati incolti. Uno dei pochi elementi che nella strada, lunga qualche centinaio di metri, attirano l’attenzione, è l’insegna di un supermercato che si staglia oltre i campi dall’erba alta, rigogliosi di malva, verbena e tarassaco. Camminando per la via, un passante qualunque non potrebbe non notare l’andirivieni di giovani africani, prevalentemente uomini, che entrano ed escono da un palazzo di cinque piani, con la facciata ben ristrutturata di colore bianco e arancione. Spinto dalla curiosità, il nostro passante, aprendo il portone della struttura, rimarrebbe stupito dall’intreccio di lingue africane e dall’orchestra di profumi cosmopoliti di tè alla menta, tajine, banane fritte, attieké, poulet yassa, soupe kandja, jollof rice che invadono i corridoi.

Durante l’emergenza coronavirus, nessuno avrebbe potuto accorgersi di questo luogo singolare. Gli odori culinari raggiungevano una strada vuota e silenziosa, solcata giornalmente dalle auto della polizia che controllavano i movimenti del quartiere. Gli abitanti della palazzina non osavano uscire. L’immobilità significava la perdita o l’interruzione improvvisa del lavoro, l’impossibilità di percepire un reddito e la delicata convivenza in una casa collettiva dove gli spazi devono essere continuamente negoziati.

Nel 2016, ho avuto la fortuna di scoprire la «residenza transitoria collettiva» dell’ex occupazione di via Madonna della Salette. All’epoca, la frequentavo come volontaria per dare un supporto ai ragazzi nei corsi d’italiano e in quelli per la patente. Ricordo che un giorno mi presentai a un giovane del Ghana dicendo che mi chiamavo Ama. Lui rimase esterrefatto e poi scoppiò a ridere. Mi raccontò che nel suo paese tutti i bambini nati di sabato venivano chiamati Ama e da quel giorno mi battezzò «Ama Ghana».

Erano momenti semplici e intensi, nei quali la conoscenza reciproca e lo scambio culturale era alla base della condivisione.

Spesso, verso la fine delle lezioni, io diventavo la studentessa e imparavo a mia volta qualche termine in wolof o bambara. Questo luogo mi affascina da sempre per la sua complessità e peculiarità. Diversamente da altre esperienze per migranti, grazie alle regole e ai principi sui quali è basata la convivenza al suo interno, la Salette permette di osservare da vicino e andare incontro ai bisogni e alle priorità delle persone che ci vivono.

L’occupazione

La Salette era stato un pensionato per lavoratori e studenti, proprietà dei Missionari di Nostra Signora de La Salette, ed era diventata una struttura abbandonata finché non ha supplito alla necessità abitativa di decine di immigrati e rifugiati lasciati in strada da un sistema d’accoglienza poco efficace.

Il 17 gennaio 2014, in una notte piovosa, è scattata l’occupazione, in una mobilitazione per il diritto alla casa, promossa dal Comitato di solidarietà per rifugiati, costituito da volontari e militanti dei centri sociali torinesi, Gabrio e Askatasuna. I primi occupanti, una quarantina circa, erano un gruppo eterogeneo di famiglie italiane e immigrati provenienti dalle palazzine dell’ex Moi (il villaggio olimpico del Lingotto, costruito per i giochi invernali del 2006, cf. MC dicembre 2015), dove vivevano in camere sovrappopolate o negli scantinati. Quasi tutti avevano i documenti, ma non un tetto. Molti di questi immigrati erano approdati sulle coste italiane nel 2011, durante la cosiddetta «Emergenza Nord Africa». Quell’anno, quando scoppiò la guerra civile in Libia, le frontiere del paese arabo furono chiuse e gli immigrati che cercavano di tornare nei loro paesi non potevano farlo. Venendo a mancare gli accordi presi dal regime di Gheddafi con l’Italia per impedire alle persone di partire, gruppi di trafficanti approfittarono del caos e del vuoto di potere per organizzare le spedizioni verso le coste italiane. Molti immigrati subsahariani che lavoravano in Libia non avevano altra scelta se non quella di imbarcarsi.

«La dichiarata “Emergenza Nord Africa” è stata gestita con l’accoglienza in grandi centri e conseguentemente con forme di assistenzialismo inutili all’autonomia dei singoli. Nei primi mesi del 2013, il momento dell’uscita dai progetti per molti ha significato affrontare il problema dell’assenza di una casa», spiega l’antropologa Laura Ferrero, che per un anno ha svolto una ricerca all’interno della Salette. «Finito il progetto d’accoglienza, per qualcuno il passaggio alla Salette è stato immediato, per altri è stato intervallato con una permanenza all’ex Moi, altro punto di riferimento per immigrati di tutta Italia che cercavano una soluzione abitativa. Altri ancora stavano negli accampamenti formali e informali che si creavano attorno agli spazi del lavoro stagionale, come a Saluzzo o a Rosarno. Ognuno aveva attivato le reti sociali disponibili: amici conosciuti in Libia, durante la traversata o nei progetti. Ma il problema è stato che tutti si trovavano nelle stesse condizioni».

Mosso dai forti appelli del papa all’accoglienza, fin dai primi giorni dell’occupazione, l’arcivescovo di Torino Cesare Nosiglia è intervenuto creando un gruppo di soggetti eterogenei, fra i quali Pastorale migranti, Caritas, Cooperativa O.R.So., Luoghi Possibili, al fine di interagire con il comitato e gli occupanti di via Madonna de La Salette.

Un modello alternativo

Il progetto d’accoglienza alternativo proposto dal comitato e dagli occupanti al resto del gruppo prevedeva alcune condizioni precise: non doveva seguire tempistiche prestabilite, doveva includere tutti gli abitanti, prevedere attività di inserimento lavorativo, una gestione condivisa dai residenti secondo decisioni prese in assemblea e un processo di regolarizzazione e ristrutturazione dell’edificio secondo i principi dell’auto recupero e della manodopera di chi vi abitava.

Nicolò, membro del comitato, racconta: «Per i primi due anni non c’è stato giorno né notte. Eravamo sempre lì con i ragazzi per coordinare la situazione. Nonostante la struttura fosse solida, c’erano molti problemi. La corrente continuava a saltare per l’uso massiccio di piastre elettriche, allora si cucinava a turno, prima un piano e poi l’altro, l’acqua calda è mancata finché non abbiamo messo i boiler elettrici».

Nel 2015, l’edificio, costituito in ogni piano da camere, cucina e bagni comuni, è stato oggetto di ristrutturazione e riqualificazione energetica. Il coinvolgimento diretto degli abitanti del palazzo nei lavori di manutenzione aveva come obiettivo quello di promuovere il senso di appartenenza collettiva alla struttura e di contribuzione alla «residenza collettiva». Nel corso dei mesi si è costituito un comitato di cogestione, composto da un rappresentante per ogni piano, un rappresentante della cooperativa e uno del Comitato di solidarietà per i rifugiati. In seguito, il progetto ha ottenuto il comodato d’uso gratuito dell’immobile per 10 anni e, nel 2018, i suoi abitanti hanno ottenuto la residenza. L’obiettivo a lungo termine è che la comunità della Salette raggiunga l’autonomia. Ma la condizione di marginalità che accomuna la maggior parte degli abitanti inficia la loro possibilità di contribuzione economica per le spese della casa. Per cui, attualmente, i residenti pagano un 30% delle spese vive, mentre la diocesi mette il resto.

«La gente sta alla Salette fin quando ne ha bisogno, perché magari non ha alternative, o finché se la sente. Questa è la condizione necessaria per costruire un percorso lavorativo dignitoso. Nei centri d’accoglienza, invece, ti danno vitto, alloggio, assistenza legale e quando hai i documenti ti sbattono fuori. Ma se non hai la certezza di avere un tetto sulla testa mentre impari l’italiano e cerchi un posto di lavoro, non ce la fai. Ognuno ha i suoi tempi», continua Nicolò infervorato. «Non abbiamo creato un modello di accoglienza. Il modello sta nella modalità con la quale abbiamo affrontato la situazione concreta. E si sa che mettere al centro le persone ti crea un mare di problemi, bisogna avere una pazienza infinita».

L’antropologa Laura specifica: «Gli abitanti della Salette non sono un gruppo coeso, ma una somma di individualità e piccoli gruppi. La convivenza è un obiettivo che si costruisce nelle pratiche quotidiane, attorno alle quali nascono tanto collaborazioni, quanto tensioni». Uno degli abitanti, S., fa parte del comitato di gestione della Salette. Dal 2015 coltiva un orto in giardino dove crescono pomodori, insalata e zucche. «Io porto fuori la spazzatura tutte le sere, dò il bianco quando serve, taglio l’erba. Ma non tutti si interessano della casa. Al quarto piano, ci sono due stanze sovraffollate dove vivono in dieci, ma nessuno li butta fuori. Anche se questa è casa nostra, appena qualcuno ha le possibilità economiche se ne va di qui».

All’interno della Salette, la Cooperativa Orso avvia percorsi di accompagnamento per sostenere processi di autonomia lavorativa, abitativa e sociale, con un’équipe composta da tre persone. Silvia aiuta i ragazzi a conoscere e a usare i servizi che la città offre. «Il primo anno di lavoro, in modo informale, abbiamo cercato di conoscere le persone e di farci conoscere. Non è stato facile. Non si fidavano, erano usciti dai progetti con un bagaglio enorme di delusioni. Il nostro ruolo è quello di dare loro degli strumenti, offrire dei tirocini, dei percorsi di orientamento al lavoro e di specializzazione. Noi offriamo le opportunità che troviamo, poi sta alle persone decidere. La difficoltà principale è che molti fanno fatica a crearsi un percorso lavorativo stabile, a investire in un tirocinio, per esempio. Magari fanno poche ore e guadagnano poco, e visto che sono mossi dalla necessità di guadagno, perché in Africa hanno le famiglie da mantenere, preferiscono lavori che danno subito un reddito, come quelli stagionali».

Il lockdown della Salette

Con l’arrivo del coronavirus, il Comitato di gestione ha stabilito alcune regole: accesso proibito ai non residenti e distanziamento sociale. Misure che hanno creato molte tensioni tra gli abitanti che hanno dovuto impedire l’ingresso ad amici o parenti. Inoltre, la cooperativa Orso ha provveduto a creare una rete di solidarietà con la Caritas per la distribuzione di cibo e mascherine di cotone. D. è un giovane senegalese e da cinque anni vive alla Salette. Grazie alla diocesi, nel suo frigo non è mai mancato il cibo. Quando hanno imposto le misure di contenimento, la borsa lavoro di D. è stata sospesa. «Lavoravo come carpentiere per fare scale in legno. Lavoravo solo quattro ore al giorno, ma ero contento. Prima ancora facevo l’ambulante ma era un lavoro pericoloso. Compravo giubbotti e scarpe contraffatte a Napoli e li rivendevo a Nichelino, Trofarello, Moncalieri. Un giorno un poliziotto in borghese mi ha fermato e ha detto: “Se vendi poca roba, non ti diciamo niente”. Però, mi sono spaventato e allora ho provato a cercare un “capo” (datore di lavoro) a Saluzzo, ma non l’ho trovato. Allora sono andato in Francia, a Cannes, a vendere occhiali da sole, cappelli, orecchini sulla spiaggia».

K., un ragazzo maliano, ha avuto una storia più fortunata. Quando è arrivato il lockdown, aveva appena festeggiato la firma del contratto di apprendistato di tre anni che gli aveva fatto un’azienda edile di Grugliasco. L’hanno messo in cassa integrazione, ma non sa come avrebbe fatto, senza l’aiuto alimentare dato alla Salette. I soldi sono arrivati solo mesi dopo. K. voleva andare a trovare la sua famiglia in Mali, ma senza il passaporto non può farlo. Durante l’emergenza, fino al 18 maggio era impossibile accedere alle questure. «È da 10 anni che non torno a casa. Sono partito dal Mali quando avevo 15 anni, sono scappato alle 4 di mattina quando i miei dormivano. Da noi in alcuni villaggi non c’è neanche l’acqua per bere e così la vita è troppo complicata».

Tornare a casa

Nel caso di D., un giovane del Ghana residente alla Salette dai tempi dell’occupazione, l’emergenza coronavirus ha rafforzato la sua decisione di tornare a casa. «Mi alzo alle 4 del mattino, vado in giro e mi mandano a quel paese, mi chiamano negro. Tutti i giorni esce un nuovo decreto sugli immigrati. Per quanto tempo dobbiamo continuare a essere immigrati e non persone?». Da qualche anno, D. prepara il suo ritorno e fa coltivare un campo di anacardi e cacao che ha comprato a Kokooa, per vendere i prodotti sul posto.  «Non dipendere da nessuno è una grande libertà umana. Io sarei tornato in Ghana nel 2013, sedendomi sulla sedia col mio sacco di dollari guadagnati in Libia. Ma mi hanno obbligato a venire in Italia».

W. è della Guinea-Bissau. «Ho sempre lavorato nell’agricoltura. In Italia, per tre anni ho raccolto la verdura a Foggia. Il capo era cattivo, mi segnava sei ore quando ne avevo fatte nove. Poi nel 2014 sono arrivato a Torino, ho lavorato due anni a Saluzzo e lì raccoglievo pere, pesche. Nel 2019 sono arrivato alle Salette e ho lavorato in un’azienda per raccogliere la menta senza contratto. Adesso volevo tornare a Saluzzo, ma con questa emergenza, se non hai un contratto non ti puoi muovere».

W. è da cinque mesi che aspetta il rinnovo del permesso di soggiorno che vuole convertire da umanitario in lavorativo subordinato. Nei mesi precedenti al coronavirus avendo con sé solo la ricevuta della domanda di conversione, i datori di lavoro non si fidavano ad assumerlo. Inoltre, a marzo voleva andare a Saluzzo, ma il progetto Pas (Prima accoglienza stagionali) era chiuso per l’emergenza e senza un posto letto certificato non gli facevano il contratto.

«Durante l’emergenza coronavirus, le persone più vulnerabili erano quelle senza documenti e quelle che lavoravano in nero», racconta Eleonora Celoria, avvocata e socia Asgi (Associazione studi giuridici dell’immigrazione) che ha svolto un lungo periodo di volontariato alla Salette. «Loro non potevano spostarsi e, senza documenti, non potevano essere assunti, né dimostrare che si muovevano per esigenze di lavoro. Anche per quanto riguarda gli stranieri in regola con i documenti, la situazione non era facile: dal momento che molti svolgevano lavori precari, alcuni sono stati licenziati, ad altri non hanno rinnovato i contratti e anche chi era stato messo in cassa integrazione non aveva la sicurezza di poter tornare a lavorare a emergenza finita. Chi era titolare di permesso di soggiorno per motivi umanitari e voleva convertirlo in permesso per motivi di lavoro si trovava in difficoltà: per farlo bisogna presentare la documentazione legata all’attività lavorativa e, se avevi perso o, a causa del virus, non potevi trovare un lavoro, veniva meno la possibilità di chiedere la conversione».

I vantaggi del lockdown

«Per lo meno, le norme introdotte per affrontare l’emergenza hanno disposto l’estensione della validità dei permessi di soggiorno fino al 31 agosto, e questo ha consentito alle persone che avevano il permesso in scadenza durante questi mesi, di continuare a lavorare e di avere accesso ai servizi. Anche la proroga della carta di identità e della tessera sanitaria devono valutarsi in questo senso con favore. È fondamentale però che i migranti siano informati di questa estensione, per poter far valere i propri diritti».

M. è marocchino. Durante il confinamento, assieme agli altri ha creato una palestra sul terrazzo. «Su 70 persone, solo sette lavoravano durante l’emergenza. È stato difficile. Io lavoro in nero, mi chiamano per fare dei lavoretti in casa. Ma, per me, i veri problemi sono cominciati nel 2002. Quell’anno avevo fatto una manifestazione per il partito comunista davanti all’ambasciata marocchina a Parigi in difesa del popolo sarahawi. Per punirmi mi hanno tolto il passaporto. Da lì non ho più potuto rinnovare i documenti». M. è arrivato alle Salette dal Moi. «Volevamo creare una realtà autogestita dai migranti, era il mio sogno. Ma non ci siamo ancora riusciti. Quest’occupazione ci ha dato lavoro, dignità, tranquillità, un curriculum, una chiave, ma non siamo autonomi. Siamo quattro responsabili di piano, ma partecipiamo solo in due. Essere responsabili non vuol dire essere un libico (come un carabiniere che controlla le regole, ndr) o un ruffiano (che fa quello che vuole la cooperativa pur di mantenere un potere, ndr), solo voler mettere le cose a posto». Con la sanatoria Cura Italia Bis per regolarizzare i braccianti in agricoltura e in altri settori chiave, la sua clandestinità è terminata. «Ci regolarizzano solo per sfruttare il nostro lavoro. Noi immigrati siamo essenziali e questo è riconosciuto solo in un momento di crisi come questo».

Amarilli Varesio

 




Dalla Cina all’Italia, rifugiati per religione

Testo di Luca Lorusso


Quella cinese è la terza comunità extra Unione europea in Italia: 277mila a fine 2017. Tra questi, i rifugiati e richiedenti asilo sono sempre stati poche decine. Fino al 2015, quando il loro numero è cresciuto d’improvviso. Motivo: le persecuzioni religiose in patria. In Italia nove domande d’asilo su dieci vengono rigettate, a volte per semplice incomprensione del fenomeno.
Ne abbiamo parlato con l’associazione A buon diritto e con Massimo Introvigne, esperto di nuovi movimenti religiosi e di persecuzioni in Cina.

«Sia la mia religione, sia le chiese domestiche sono proibite [in Cina] e le persone vengono arrestate e picchiate», dice Quian (nome di fantasia), donna cinese di 49 anni, al funzionario italiano che la interroga per valutare la sua richiesta di protezione internazionale in Italia. «Nel 2009 mi sono ammalata, una parente mi ha fatto avvicinare alla religione del Quan Neng Shen, mi ha dato il testo sacro, da lì ho scoperto che l’uomo è stato creato da Dio, e ho cominciato a credere. Tutte le malattie che avevo sono passate […], ho cominciato a parlare della Bibbia ai miei parenti e agli amici. Dal dicembre 2012 […] il governo ha cominciato a perseguitarci […]. Quando hanno scoperto che appartenevo a questa religione hanno iniziato a fare una cattiva propaganda negativa, dicendo che appartenevo a una setta. Mio marito […] mi ha picchiata e non mi ha più creduto, abbiamo litigato, abbiamo divorziato […]. Sono andata in una casa di accoglienza che riuniva persone dello stesso credo; ci riunivamo e recitavamo il nostro testo sacro. Un giorno, insieme a una sorella, sono stata arrestata. […] Ci hanno portate in cella, il mattino dopo sono venuti e ci hanno chiesto a che religione appartenessimo, noi non abbiamo risposto, ci hanno picchiato sul volto e sulle gambe. Nel pomeriggio del secondo giorno hanno pagato la cauzione di mille yuan e siamo state scarcerate. […] Ho pagato e mi hanno fatta uscire, quei poliziotti erano corrotti».

Il 4 luglio 2016, quando Quian affronta il colloquio con la Commissione territoriale che giudicherà la fondatezza della sua richiesta d’asilo, la donna è in Italia da quasi un anno. Le tre ore di domande in italiano e di risposte in mandarino, mediate da un interprete, condurranno la commissione a rigettare la sua richiesta.

Il successivo 8 novembre Quian viene informata dell’esito. Esattamente come succede a 9 richiedenti asilo cinesi su 10, entro 30 giorni dovrà ricorrere in tribunale, altrimenti verrà espulsa.

Incense Jing’An Temple (Shanghai). / www.flickr.com/photos/onourtravels/6322706753/

Fenomeno nuovo

Il 2016 è l’anno del picco: ben 870 nuove domande d’asilo di persone cinesi. Il numero non è elevato, ma impressiona se confrontato a quelli degli anni precedenti: 355 nel 2015, 85 nel 2014 e mai sopra le 45 prima del 2014. Mentre nel 2017 e nel 2018 saranno rispettivamente 315 e 365.

Di questo aumento improvviso si rendono conto alcuni soggetti che operano nell’ambito del diritto d’asilo. Tra questi l’associazione A buon diritto (www.abuondiritto.it) con sede a Roma che, non solo registra l’aumento dei richiedenti asilo cinesi, ma sottolinea la specificità del fenomeno in un rapporto del 2017 intitolato Manicomio religioso.

Di persone provenienti dalla Cina ce ne sono molte in Italia. È una comunità straniera «antica», registrata fin da inizio ‘900. Oggi è la terza comunità extra Ue, dopo Marocco (391.388) e Albania (382.829), per numero di permessi di soggiorno rilasciati: 277mila a fine 2017 (ultimo dato Istat disponibile). I richiedenti asilo cinesi però sono sempre stati pochissimi.

https://www.flickr.com/photos/roel1943/33079021915/

«Manicomio religioso»

«A buon diritto ha una serie di sportelli legali su Roma. La responsabile dell’area legale aveva iniziato a notare l’aumento del numero di persone di nazionalità cinese che venivano a chiedere consulenza. Parliamo del 2015-16. Erano soprattutto ragazze che facevano il passa parola e venivano a informarsi su che cosa fosse la domanda di protezione internazionale, come potessero farla e quali fossero i loro diritti», ci dice Francesco Portoghese, uno degli estensori del rapporto pubblicato nel giugno 2017, operatore legale che si occupa di diritto d’immigrazione e d’asilo per A buon diritto.

«L’arrivo di due donne cinesi nel 2015 è stata un’assoluta novità – è scritto nell’introduzione del report -, fino a quel momento per noi l’Asia era rappresentata dai pakistani, dagli afghani e dai bengalesi. […] Da subito lo strumento utilizzato fu google traduttore senza il quale sarebbe stato impossibile anche solo immaginare la loro richiesta. […] La sorpresa arrivò quando sullo schermo apparve in italiano la frase da loro digitata in cinese, che diceva letteralmente “chiediamo un manicomio religioso”. […] probabilmente la parola era stata tradotta dal cinese in asylum e da qui in italiano in manicomio». Le due ragazze chiedevano protezione internazionale per motivi religiosi.

«Con questa sorta di equivoco linguistico abbiamo poi giocato per fare il titolo del report – aggiunge Portoghese -. Quando chiedevamo quali fossero i motivi della domanda di protezione, loro ci rispondevano sempre “motivi religiosi”».

Todenhoff-Uyghur girl https://www.flickr.com/photos/90987386@N05/8266389125/

Culti vietati e perseguitati

Tutti i casi seguiti dall’associazione di Roma riguardano persone perseguitate per il loro credo. «Non c’è un riconoscimento sostanziale della libertà di religione in Cina – continua Francesco Portoghese -. Nonostante nella sua Costituzione sia prevista, vi è un articolo del codice penale cinese, il 300, che mette al bando diversi culti ritenuti pericolosi». Quando una persona è indiziata di fare parte di un credo religioso vietato «possono scattare anche misure restrittive della libertà personale, come ad esempio l’arresto, e, nel cento per cento dei casi delle persone che ci hanno raccontato le loro storie, non c’è stata la possibilità per loro di vedere un avvocato, di comparire davanti a un giudice. Venivano prese e portate dentro prigioni o strutture per limitare la loro libertà. Alcune hanno riferito anche di essere state percosse in maniera molto violenta».

Portoghese ci racconta che dalle storie riportate dai cinesi richiedenti asilo, emergono due forme di persecuzione subite: «Una fisica: la violenza perpetrata da parte delle forze dell’ordine. E una psicologica: perché una volta che il tuo nome si conosce, non puoi più stare tranquillo, sai che in un modo o nell’altro potranno arrivare a te o alla tua famiglia. Ed è anche questo il motivo per cui a volte queste persone tranciano di netto i legami famigliari e abbandonano il paese».

Muslim Market in Xi’an China https://www.flickr.com/photos/bryonlippincott/41695069100/

I «mercati» religiosi in Cina

Per capire meglio la questione delle religioni perseguitate in Cina, abbiamo parlato con Massimo Introvigne, considerato uno dei maggiori conoscitori a livello internazionale di quelli che lui chiama «nuovi movimenti religiosi»: «Mi occupo della questione tutti i giorni. Ho recentemente scritto un libro per Elledici sulla Chiesa di Dio onnipotente: la chiesa cinese che attualmente conta il maggior numero di richiedenti asilo in Italia». L’avvocato torinese, fondatore del Cesnur (Centro studi sulle nuove religioni, www.cesnur.org), ci spiega che i culti professati in Cina si possono suddividere in tre gruppi, chiamati dal sociologo Fenggang Yang «mercato rosso, grigio e nero». Del «mercato rosso» fanno parte le cinque associazioni patriottiche alle quali è consentito operare pubblicamente sotto il controllo del Pcc, il partito comunista cinese: la Chiesa delle tre autonomie (che raggruppa i cristiani protestanti), l’associazione buddista, quella islamica, quella taoista e la chiesa cattolica patriottica (della quale abbiamo parlato recentemente nel dossier MC marzo 2019, ndr).

Le religioni del «mercato nero» sono quelle presenti nella lista dei cosiddetti xie jiao (cioè degli «insegnamenti non ortodossi», tradotto spesso con «sette malvagie»), considerate pericolose per il governo ed esplicitamente vietate e perseguitate.

I culti del «mercato grigio» sono tutti gli altri, tra cui, ad esempio, la chiesa cattolica sotterranea.

Se i membri di un xie jiao rischiano il carcere, oltre a torture e vessazioni arbitrarie da parte delle autorità, anche i fedeli del «mercato grigio», da poco più di un anno subiscono limitazioni sempre più frequenti alla loro libertà di culto: chiese, templi, moschee non riconosciuti, che erano sopravvissuti per la tolleranza di alcune autorità locali, ora vengono chiusi in gran numero.

Massimo Introvigne, tra le altre cose, ha fondato nel maggio 2018 un quotidiano online sulla libertà religiosa in Cina: bitterwinter.org. In esso sono frequenti i resoconti di chiese, templi, moschee distrutti, di arresti di massa e detenzioni arbitrarie, di torture subite da membri dei culti xie jiao. Anche a causa del comprensibile uso di pseudonimi da parte degli articolisti (una quarantina dei quali – ci informa Introvigne – sono stati arrestati), la verificabilità delle notizie è difficile, ma la lettura di diversi rapporti di Amnesty international, Human right watch, Pew research center e altri, nonché del Report on international religious freedom 2018 del Dipartimento di stato Usa, uscito a fine giugno, che cita tra le fonti proprio Bitter Winter, affiancata all’opacità che circonda la vita del paese asiatico, rendono credibili molti di quei racconti.

Rifugiati cinesi nel mondo

L’aumento del numero di cinesi richiedenti asilo per motivi religiosi non è un fenomeno solo italiano, ma mondiale.

«Nel 2018, i cinesi che nel mondo hanno chiesto asilo per ragioni religiose è stato di 2.571 – ci informa Introvigne, citando dati dell’Unhcr, l’agenzia Onu per i rifugiati -. Il numero complessivo di nuovi richiedenti asilo cinesi è stato di 21.754». Circa un cinese su dieci che l’anno scorso ha fatto richiesta di protezione internazionale nel mondo, quindi, non aveva motivi di persecuzione etnica o politica, ma religiosa.

Questi dati, che riguardano le nuove richieste d’asilo del solo 2018, non sono da confondere con i dati complessivi che riguardano anche i rifugiati già riconosciuti e tutti i richiedenti asilo in attesa già da prima. A fine 2018, infatti, i cinesi rifugiati nel mondo erano in totale 212.050, quelli richiedenti asilo 94.367.

«Ho tenuto la relazione introduttiva a un incontro alle Nazioni Unite, qualche settimana fa a Ginevra, sui rifugiati provenienti dalla Cina in tutto il mondo. Il fenomeno è esploso negli ultimi anni, in particolare dopo il 2014, con un picco nel 2018. L’anno scorso, la Cina è diventata il nono paese al mondo per numero complessivo di rifugiati, e questa è una novità, perché per molti anni non figurava tra primi venti».

Pare che nel 2019 il numero di persone in fuga stia scendendo. Questo, per Introvigne, probabilmente a causa dell’avanzamento delle tecnologie usate dal governo per impedire, ad esempio, il rilascio tramite la corruzione di passaporti regolari.

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Accoglienza schizofrenica

In Italia e in Europa, viene accolta in prima istanza circa una richiesta d’asilo su dieci, mentre in altri paesi l’accoglimento è maggiore.

«L’atteggiamento nei confronti dei rifugiati per motivi religiosi, nel mondo, è abbastanza schizofrenico – afferma Introvigne -, nel senso che vari paesi hanno atteggiamenti diversi. Canada e Usa hanno una percentuale di accoglimento delle domande dell’80 per cento, la Nuova Zelanda si avvicina al 100 per cento. Giappone e Corea, invece, non accolgono quasi nessuno. Il Giappone, su 20mila domande negli ultimi cinque anni, ne ha accolte 19. Non dalla Cina, ma da tutto il mondo. La Corea tende ad accogliere solo quelli della Corea del Nord. L’Europa è un po’ nel mezzo».

Ma perché allora i 6.095 cinesi che hanno fatto domanda d’asilo politico in Europa nel 2018, non sono andati in Canada, negli Usa o in Nuova Zelanda, dove è più facile ottenere asilo? «Negli Usa è più facile ottenere asilo – risponde Introvigne -, ma è molto più difficile ottenere il visto».

Per quanto riguarda il picco di richieste del 2016 in Italia, in effetti, un elemento importante da tenere in conto è quello che il nostro paese nel 2015 rilasciava il visto turistico con molta facilità in occasione del Giubileo straordinario e dell’Expo di Milano.

«Non escludo – aggiunge Introvigne – che nel caso della Chiesa di Dio onnipotente ci sia anche un’idea di distribuirsi nel mondo per fare attività missionaria, benché al momento essa non abbia dato grandi risultati».

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Insufficienza d’informazioni

Il caso dei richiedenti asilo cinesi in Italia può essere un punto di osservazione interessante per capire qualcosa di più su come vengono valutate le domande di protezione internazionale. Al netto delle storie di persecuzione palesemente false, infatti, molti dinieghi sembra siano dipesi più dalle informazioni parziali in possesso delle commissioni territoriali, e dalle traduzioni cinese-italiano, a volte molto carenti, che dalle storie personali dei richiedenti.

A giudicare dagli atti di diniego, come quello consegnato a Quian nel novembre 2016, in alcuni casi l’asilo pare essere stato negato anche a causa delle informazioni parziali o vecchie in possesso dei funzionari sulla Cina e sui movimenti religiosi perseguitati: «La riunione a Ginevra di cui ho parlato, aveva anche lo scopo di migliorare le banche dati di informazioni sulle minoranze religiose in Cina usate dalle commissioni. Erano, infatti, molto vecchie – conferma Introvigne -. Per esempio sulla Chiesa di Dio onnipotente e sugli Uiguri (minoranza musulmana perseguitata dal Pcc, – vedi i link a fine articolondr) dicono cose che erano vere dieci anni fa, se lo erano».

Un altro problema è poi quello della lingua: «L’asilo viene negato in parte per difficoltà di comunicazione – prosegue lo studioso torinese -. Per esempio, abbiamo notato che la qualità degli interpreti utilizzati dalle commissioni è molto bassa. In Italia è un problema particolare, perché sono pagati poco. Io conosco una ragazza a Torino che lo fa molto bene, per passione. Ma se uno non lo fa per passione, è chiaro che preferisce fare l’interprete per una multinazionale cinese.

C’è poi anche un problema culturale, nel senso che queste persone spesso non sanno come raccontare la loro storia in un modo coerente e credibile a chi non è abbastanza informato. Questo è un problema che riguarda tutti i rifugiati. Nel caso dei cinesi che, in Italia, sono in gran parte della Chiesa di Dio onnipotente, fino a qualche tempo fa nessuno sapeva di cosa si trattasse. Si andava su internet e si trovavano informazioni derivate dalla propaganda cinese. Questa cosa è migliorata con la comparsa, ad esempio, del mio libro, che ho depositato in parecchie cause».

La questione dei passaporti

Un altro problema, legato al tema delle informazioni sulla Cina, è quello del passaporto. Come mai, si domandano i funzionari italiani, e lo domandano in modo insistito ai richiedenti asilo, le autorità cinesi hanno rilasciato un regolare passaporto a un perseguitato?

«La questione del passaporto va studiata molto attentamente – risponde Introvigne -. Possiamo provare a dare delle risposte. La prima è che molti scappano prima di essere scoperti e quindi è chiaro che non figurano in nessun data base di ricercati. Qui si pone un problema di interpretazione delle leggi sui rifugiati: il perseguitato non è solo quello che è già stato arrestato, ma anche quello che, se fosse scoperto, sarebbe arrestato. L’altro fattore è che in Cina ci sono milioni di casi di corruzione ogni anno. Comperarsi un passaporto credibile non è difficile. È vero che il riconoscimento facciale, che le impronte digitali, rendono la cosa ogni anno un po’ più difficile, ma è anche vero che, pagando, tutto si può alterare. Si può acquistare, ad esempio, la complicità di uno che a una certa ora all’aeroporto non ti controlla.

Quello che secondo me spiega la questione passaporti è la massiccia corruzione. Pagando il giusto a un poliziotto corrotto, non c’è tecnologia che tenga».

Il terrore della delazione

Secondo gli ultimi dati analizzati dal Pew research centre risalenti al 2016, la Cina è il paese al mondo nel quale sono maggiori le restrizioni alla libertà religiosa da parte del governo, mentre l’ostilità sociale, da parte dei privati cittadini, è tra le più basse. Non si registra un numero elevato di episodi di intolleranza o violenza privata nei confronti dei membri delle minoranze religiose. Per questo forse il governo deve ricorrere a incentivi economici per indurre le persone a denunciare i membri delle religioni vietate: «Ci sono delle taglie economicamente interessanti per chi denuncia un appartenente a uno xie jiao. Sono più alte per i leader, ma esistono anche per i semplici fedeli», conferma Introvigne.

Quando i cinesi fuggono dal loro paese per timore di essere arrestati e arrivano in Italia, sono generalmente molto spaventati e vivono nel costante timore della delazione. «È chiaro che quando uno arriva – ci dice Introvigne -, ha molta paura e una tendenza un po’ paranoica a vedere agenti cinesi dappertutto che “mi spiano, mi vogliono rimandare in Cina, metteranno in pericolo i miei famigliari”. Dopo un po’ che vive in Italia, però, e dice qualche parola in italiano, comincia a prendere un po’ di sicurezza».

Praticanti del Falun Gong che dirigono l’attenzione ai problemi dei diritti umani in Cina https://www.flickr.com/photos/infomatique/3741254945/in/photostream/

La rete comunitaria

Normalmente, comunque, fanno in fretta a inserirsi nella comunità dei loro concittadini. Dice Francesco Portoghese: «La comunità cinese presenta molte peculiarità, prima di tutto perché c’è una forte componente di persone cinesi arrivate in Italia per lavoro. C’è una rete etnica molto presente. Le persone, anche prima di ottenere la protezione, erano già in contatto con altri connazionali, tanto è vero che in alcuni casi rifiutavano anche di entrare nel sistema di accoglienza per richiedenti asilo, preferendo dimorare da amici. Questo da un certo punto di vista ha rischiato di creare una sorta di ghettizzazione perché erano persone terrorizzate che si fidavano, ma neanche tanto, solo dei loro connazionali, e avevano molte difficoltà a rapportarsi con le forze dell’ordine per il semplice fatto di vedere una persona in divisa, e quindi era molto difficile approcciarle». Introvigne, sulla vita dei richiedenti asilo cinesi in Italia, aggiunge: «Diciamo che i richiedenti asilo cinesi un lavoro lo trovano, magari non completamente regolare. Perché poi, nella comunità cinese, c’è quello dello stesso paese o della stessa etnia che ti dà un lavoro in nero. È evidente però che, anche se possono vivere in Italia in modo irregolare, si battono per ottenere almeno una protezione sussidiaria. Tra l’altro i membri della Chiesa di Dio onnipotente e anche degli Shouters (altro movimento religioso cinese, ndr), hanno una morale tradizionale protestante fondamentalista, per cui a loro non piace violare la legge. Se potessero avere un lavoro regolare, non clandestino, sicuramente preferirebbero. E poi è una comunità che non pesa sullo stato, che ha delle forme di aiuto interne, nella quale chi è benestante aiuta gli altri. Sono comunità autosufficienti. E da questo punto di vista sono dei buoni cittadini».

Rompere i legami famigliari

Nei loro racconti, i richiedenti asilo cinesi spesso parlano della necessità di rompere tutti i legami con le loro famiglie rimaste in Cina. Nel report di A buon diritto viene raccontato di una donna che, per mantenere la propria fede, è scappata dalla Cina lasciando in patria il figlio tredicenne senza nemmeno avvisarlo, e troncando ogni contatto.

«Questo è un tasto doloroso – afferma Introvigne -. Spesso cercano di evitare i contatti per paura di mettere nei pasticci i propri famigliari. C’è chi telefona ma cerca di evitare qualunque argomento sensibile perché sa che esiste una sorveglianza, e c’è chi non telefona neppure.

Di tornare, naturalmente, non se ne parla. Primo perché in Italia, con il decreto sicurezza, se uno torna anche per una breve visita dopo aver ottenuto asilo, glielo tolgono, ma poi perché ci sono diversi casi di persone che pensavano di non essere note al Pcc come membri della Chiesa di Dio onnipotente o di un altro gruppo, e che, invece, tornati in Cina, magari per un’operazione chirurgica che lì costa meno, sono stati arrestati. Il che conferma che una sorveglianza della Cina sui profughi all’estero c’è».

La religione è un pretesto?

Leifeng Pagoda in Hangzhou. /  https://www.flickr.com/photos/onourtravels/6322741761/in/photostream/

Nel report di A buon diritto si esprime il dubbio che la persecuzione religiosa, a volte, possa essere falsa e che venga usata come pretesto per ottenere lo status di rifugiato e aggirare così la chiusura degli ingressi in Italia stabiliti con il decreto flussi, oppure per nascondere un fenomeno di tratta di persone: «Sì, ci sono stati anche dei casi di prostituzione – afferma Introvigne -. Prostitute che sono entrate con false storie di persecuzione religiosa. Questo è sempre possibile. Quindi, il consiglio che, da una parte, si può dare alle commissioni territoriali e, dall’altra, si può dare ai movimenti religiosi, è di affinare un sistema di certificazione di chi è membro del movimento e di chi non lo è. Ci sono stati casi, ad esempio in Australia, in cui la stessa Chiesa di Dio onnipotente ha smascherato dei falsi rifugiati che dicevano di essere suoi membri».

Quando le commissioni che devono verificare se il richiedente è veramente membro di un movimento religioso perseguitato, fanno domande sulla sua teologia, ma basandosi su informazioni spesso vecchie o parziali, il rischio di sbagliare è alto. Sono diversi i casi nei quali le risposte dei cinesi richiedenti asilo erano giuste, ma non combaciavano con le informazioni a disposizione della commissione.

L’obbligo di proteggere

Nel clima di aspra propaganda sui migranti che si respira in Italia, può essere utile soffermarsi su una tipologia così particolare di persona: il rifugiato per motivi religiosi. Se non altro per constatare che il fenomeno «immigrazione» è complesso e vario, almeno quanto sono complesse a varie le singole storie personali di quelli che chiamiamo «immigrati».

«Sappiamo che in Italia, nei confronti dei rifugiati non c’è un atteggiamento di accoglienza, e nell’opinione pubblica vi è una grandissima confusione tra rifugiati e immigrati, mentre è chiaro che sono due categorie giuridiche diverse – afferma Introvigne -. Esiste il problema, come ci ricorda papa Francesco, di accogliere gli immigrati, però, mentre accogliere gli immigrati è una questione politica, accogliere i rifugiati è un obbligo che deriva dai trattati internazionali che abbiamo sottoscritto».

Luca Lorusso


Su Cina e cristianesimo

Sugli Uiguri, vedi su MC




I paradossi di una politica escludente

Comunicato dei missionari italiani riuniti nella Fesmi, nella Cimi e nel Suam


In questi giorni abbiamo assistito con tristezza al modo irresponsabile in cui l’odissea di 42 persone salvate nel Mediterraneo è stata nuovamente trasformata in una vicenda che banalizza la questione epocale e globale delle migrazioni, di cui noi missionari e missionarie siamo quotidianamente testimoni oculari nei Paesi dove ci troviamo ad operare.

Piuttosto che cercare soluzioni, in Italia si preferisce giocare alla battaglia navale esasperando toni e situazioni, con l’epilogo che tutti abbiamo visto in queste ore.

Sbaglia chi si scaglia contro la comandante della nave Sea Watch 3, Carola Rackete, accusandola di aver intenzionalmente speronato la motovedetta della Guardia di Finanza che impediva l’attracco della nave. Sarà la magistratura a stabilire come sono andate le cose e chi davvero abbia forzato la mano in tutta questa vicenda.

Come istituti e testate missionarie continuiamo a raccontare i drammi da cui origina l’odissea di chi parte in cerca di un futuro oggi negato in troppe parti del mondo, ed esprimiamo viva preoccupazione per il clima di forte ostilità contro il soccorso in mare di ogni migrante, soprattutto se proveniente dall’Africa.

Ma soprattutto non si può accettare che venga proposto a modello di gestione efficiente della questione migratoria l’indifferenza di fronte alla disperazione di persone soccorse in mare e lasciate per due settimane senza un porto sicuro d’approdo. Persone che avevano già iniziato a commettere atti di autolesionismo. Mettere il loro destino prima del proprio, accettando anche di pagarne le conseguenze, è l’essenza del Vangelo di Gesù di Nazareth, che noi missionari e missionarie cerchiamo di portare a ogni popolo.

Carola ha disobbedito al decreto sicurezza per obbedire alla sua coscienza e alla legge del mare: è la legge internazionale del “soccorso da non omettere” a chi rischia di morire.

Ancora una volta la vicenda della Sea Watch 3 rivela i paradossi di una politica che trasforma le migrazioni in un argomento su cui gridare anziché provare a elaborare risposte realiste. Una politica che sbandiera la ricetta dei porti chiusi, ma li lascia aperti per chi, senza naufragare, li raggiunge grazie a trafficanti di persone che continuano a fare affari con nuovi metodi e nuove rotte.

L’unica risposta seria è una politica che dall’Italia ricominci a guardare il fenomeno nella sua complessità, sapendo che nei prossimi anni diventerà ancora più intenso, anche per gli effetti del cambiamento climatico. E occorre collaborare con il resto del mondo. Il 10 dicembre 2018 ben 192 Paesi hanno firmato un “Patto globale” promosso dall’Onu per gestire le migrazioni in modo sicuro e ordinato, e dissolvere così il traffico di persone. L’Italia non lo ha ancora sottoscritto. Perché?

E quali alternative propone il governo italiano al di là degli slogan sulla “difesa dei confini”?

E chi, in risposta alle migrazioni, tanto aveva a cuore lo slogan “aiutiamoli a casa loro”, cosa sta facendo in questo senso oggi che è al governo di questo Paese?

Di questo l’Italia deve tornare urgentemente a parlare. Se non vogliamo ritrovarci presto a tirare fuori ancora una volta il peggio intorno a una nave bloccata al largo di Lampedusa.

FESMI – CIMI – SUAM & GPIC
(Federazione Stampa Missionaria Italiana;
Conferenza Istituti Missionari Italiani;
Segretariato Unitario Animazione Missionaria e sua commissione Giustizia e pace)

 

1° luglio 2019

 


P.S.  Il 30 giugno 2019 è circolato un messaggio a firma di padre Alex Zanotelli: si riferisce alla notte del 29 giugno e smentisce lo speronamento della motovedetta della Guardia di Finanza nel porto di Lampedusa. Ma in quelle ore padre Alex era a Verona. Chi gli ha attribuito questa notizia falsa?

Hanno pubblicato questo comunicato:

  • ComboniFem, la rivista delle Missionarie Comboniane



Libri: Restare umani


Testi di Chiara Brivio


Tre libri, tre punti di vista diversi, un obiettivo comune: riportare un po’ di equilibrio e di spessore nella
narrazione pubblica dell’immigrazione. Il primo ci accompagna dal chiasso della piazza mediatica al silenzio del lavoro di un medico forense che tenta di restituire un’identità a corpi senza nome recuperati nel Mediterraneo. Il secondo tra le mura della casa di una famiglia semplice che ospita sei ragazzi rifugiati (in mezzo a intolleranza, insulti social, ma anche tanta solidarietà). Il terzo tra le pieghe della vicenda personale di Kaled, prima miliziano anti Gheddafi, poi trafficante di uomini in Libia.

«Ero straniero e mi avete accolto» (Mt 25,35). Una frase che per molti risuonerà come uno dei principi fondamentali della dottrina cristiana: accogliere lo straniero, il migrante, il senzatetto, il pellegrino.

Oggi, purtroppo, l’accoglienza, una delle questioni fondamentali del nostro tempo, si trova al centro di un infervorato (quando non inferocito) dibattito pubblico e politico. Tre libri di recente pubblicazione affrontano il tema con grande sensibilità e compostezza, e con un pregio comune: dare voce a chi non ce l’ha.

Tre volumi, opera di tre scrittrici che, offrendo una riflessione seria e pacata sulla questione migranti, interpellano le coscienze di tutti, credenti e non.


Naufraghi senza volto

Impegnata da anni nell’identificazione e nel riconoscimento delle vittime dei naufragi nel Mediterraneo, in particolar modo quelli del 3 ottobre 2013 (che fece 366 vittime) e del 18 aprile 2015 (quasi 1000), Cristina Cattaneo, medico legale e direttrice del Labanof (Laboratorio di antropologia e odontologia forense) dell’Università statale di Milano, ci parla della sua esperienza.

«Naufraghi senza volto» è il racconto del viaggio, fisico e simbolico, che porta le identità degli scomparsi dal fondo del mare alla terra ferma – tra Milano, Roma e Melilli -, attraverso la minuziosa ricerca e identificazione di oggetti, vestiti, corpi, ossa.

Succede che, nel descrivere il suo lavoro, la studiosa racconti del ritrovamento di una lettera dell’Unhcr che attesta l’«autentico» status di rifugiata politica di una vittima, della pagella scolastica di un ragazzino di 14 anni del Mali cucita ai vestiti (protagonista della vignetta di Makkox successivamente divenuta virale), di un sacchetto di terra conservato in una tasca, di un rosario buddista, una croce e un corano insieme. Tutti segni di una disperazione che supera ogni barriera ideologica e religiosa.

Succede anche che il racconto della missione di ridare un’identità e una storia a chi l’ha persa, passi dai volti e dai ricordi di quei parenti che mai si sono rassegnati, che mai hanno smesso di cercare i loro cari, in barba a ogni «ma chi vuoi che li cerchi questi morti?».

Prima di ogni cosa, però, il libro di Cristina Cattaneo è un monito contro l’indifferenza e contro le logiche campanilistiche del «ma con tutti i problemi che abbiamo in Italia siamo pazzi a occuparci anche di questo?».

Come sottolinea l’autrice, le tragiche storie delle vittime che ha incontrato, scolpite indelebilmente sui loro corpi e le loro ossa, ci ricordano come sia fondamentale per noi «pensare ai loro morti» come se fossero nostri, per comprendere che siamo tutti esseri umani.

Un monito che l’autrice lancia ai singoli, ma anche alle istituzioni, puntualizzando come soltanto attraverso la cooperazione e la collaborazione tra i governi si potrà affrontare efficacemente il problema.

«Naufraghi senza volto» è un libro dallo stile sobrio e pacato, nonché ben scritto. Un vero antidoto al chiasso che oggi circonda la questione migranti.


A casa nostra

Nicoletta Ferrara e il marito Antonio Calò, insieme ai loro quattro figli, dopo il naufragio nel Mediterraneo del 18 aprile 2015 che provoca quasi mille morti, decidono di accogliere in casa sei ragazzi africani, tutti musulmani: Ibrahim, Tidjane, Sahiou, Mohamed, Saeed e Siaka.

«A casa nostra» è il diario che Nicoletta, maestra di scuola primaria di Treviso, ha tenuto negli anni. Vi racconta una «straordinaria» avventura che sin dal principio sembra figlia di un «disegno più ampio». Come i Calò, tra lingue che si mescolano, una pastasciutta e un piatto africano, stentati racconti delle torture subite in Libia, sono diventati una vera e propria famiglia «allargata» che tuttoggi vive unita e affiatata.

Quelle di Nicoletta Ferrara sono pagine profonde, che rispecchiano la fede granitica della sua famiglia che non vacilla mai, nemmeno davanti all’ennesimo rifiuto di una protezione umanitaria, all’ennesimo insulto sui social, alla diffidenza di amici e vicini.

Oggi i ragazzi lavorano tutti, parlano la nostra lingua, si stanno costruendo una vita in Italia. Sono sei volti, sei nomi, sei storie che ritrovano dignità attraverso la voce dell’autrice: «Ho pensato alle immagini degli sbarchi e a come ciascuno nella massa si confonda, mentre invece ciascuno porta su di sé una storia, degli affetti lasciati, una mamma e un papà che aspettano un ritorno, una moglie in attesa, delle speranze e una voglia di vita che nessuno ha il diritto di negare. Nessuno».

Il libro, scritto con grande sensibilità, dolcezza e una buona dose di ironia, è soprattutto il racconto della sua personale vicenda di madre di dieci figli. Un punto di vista inedito che forse ancora mancava nell’ampia letteratura disponibile oggi sul tema dell’immigrazione.

«A casa nostra» è un inno alla solidarietà, che richiama tutti a farsi artefici di una società migliore.

Io Khaled vendo uomini e sono innocente

Khaled è un ex combattente delle milizie di Misurata che hanno partecipato alla rivoluzione contro Gheddafi. Nel caos della Libia del dopo regime, dove non ci sono né vinti né vincitori, si ritrova a diventare trafficante di esseri umani. A volte stupra, a volte uccide. «Io Khaled vendo uomini e sono innocente», romanzo d’esordio di Francesca Mannocchi, giornalista, documentarista ed esperta di migrazioni, è uno sconvolgente viaggio nella mente del suo protagonista, nel quale il confine tra il bene e il male, tra vittima e carnefice, tra innocente e colpevole si fa poroso.

Ingegnere mancato, ribelle tradito dalla rivoluzione, perseguitato dalla morte in battaglia dell’amato fratello Murad, Khaled non ha mai assaporato il gusto della «libertà», perché la «guerra non è mai davvero finita».

Con una prosa asciutta e scarna, l’autrice descrive in prima persona un personaggio che si ritrova sempre al «limite» in un paese che «puzza» come la corruzione dei ministeri, come «i negri» nelle stive dei barconi («il vero oro della nostra Libia»).

I migranti che Khaled traffica non hanno volti né nomi, sono quasi una massa indistinta, la merce che gli serve per raggiungere il suo obiettivo: una vita comoda e tranquilla a Istanbul. L’unica a lasciare un segno è Fouzieh, la siriana di Homs annegata insieme al piccolo Bilal perché priva del denaro necessario per pagare i salvagenti. Fouzieh lo perseguita nelle sue notti agitate, forse simbolo di una pietas dalla quale Khaled pensava di essersi «salvato».

«Io Khaled vendo uomini e sono innocente» è un libro coinvolgente, a tratti inquietante, nel quale la vera protagonista è l’ambiguità, quella di Khaled e quella della stessa Libia, dilaniata da guerre intestine, mai veramente liberata, né dai vecchi colonialisti né dalla feroce dittatura del rais. È un profondo chiaroscuro, dove tutti, in qualche modo, sono complici del male – «siamo tutti piccoli Satana (Gheddafi), tutti piccoli dittatori di noi stessi», conclude Khaled -, e dove nessuno può sentirsi davvero libero e innocente.




Esseri umani respinti da un’Europa disumana


Da quando nel 2017 il governo ungherese ha ultimato la recinzione metallica alta 3,5 metri e lunga circa 175 km, sigillando il confine con la Serbia, la rotta migratoria balcanica si è spostata a Ovest, in quel lembo di Bosnia che si incunea nell’Unione europea, il cantone di Una-Sana. È da quell’angolo di mondo che nasce questo reportage.

Testo e foto di. Alberto Sachero

I rifugiati provenienti dalla Grecia, attraverso le rotte di Albania e Montenegro o Macedonia e Serbia, giungono alla porta d’ingresso dell’Unione, il confine con la Croazia, il 28° e ultimo paese, in ordine cronologico, a entrare in Ue nel 2013.

Si stima che più di 25.000 persone siano transitate in Bosnia nel 2018, ma nessuna di queste si vuole fermare in uno stato dove povertà e disoccupazione spingono gli stessi suoi abitanti ad emigrare altrove. Tentano di entrare nell’Ue per raggiungere i paesi tanto sognati: Germania, Olanda, Belgio, Francia, Spagna, Italia e Inghilterra.

Nei pressi del confine bosniaco-croato le cittadine di Velika Kladuša e Bihać, a partire da marzo 2018, si sono trovate a gestire una situazione di emergenza. Migliaia di migranti si sono concentrati nel campo «palude» vicino al canile municipale di Kladuša, e a Bihać all’interno del «Dom», un fatiscente stabile nel parco del centro cittadino. Nel primo, le persone dormivano in tende improvvisate, fatte di rami d’albero e teli di plastica; nel secondo in una struttura senza infissi, senza luce elettrica e con pericolosi buchi nei pavimenti dei suoi tre piani.

Le organizzazioni internazionali Oim (Organizzazione internazionale per le migrazioni) e Unhcr (Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati) si sono dimostrate da subito inadeguate a gestire tale emergenza. I migranti erano (e sono tutt’ora) sostenuti da una parte della popolazione bosniaca, reduce dalla guerra nell’ex Jugoslavia (1991-2001), e dalle associazioni di volontariato. I volontari di Croce Rossa, Medici senza frontiere, Ipsia, No Name Kitchen, Sos Team Kladuša e altri lavorano senza sosta per tamponare una situazione sempre più drammatica che l’Europa per il momento non vuole risolvere.

Per la maggior parte giovani uomini, più raramente donne e famiglie con bambini, provengono da quell’area geografica che dal Medio Oriente arriva fino alla Cina: Siria, Iraq, Iran, Afghanistan e Pakistan. Popoli che fuggono da guerre, persecuzioni politiche e fame. Popoli che cercano rifugio politico in Europa, ma ai quali l’Europa non concede il diritto di richiederlo, contravvenendo alle proprie leggi.

La maggioranza di loro ha provato più volte il «Game» senza vincerlo. «Game» (il gioco) è termine con cui i profughi ironicamente chiamano il tentativo di entrare nell’Unione europea. Partono in genere di notte, in piccoli gruppi. Spesso la polizia croata li intercetta con droni, cani e rilevatori di calore, e li respinge in Bosnia. Vengono picchiati, umiliati e derubati dei pochi soldi che hanno, mentre i loro telefonini, indispensabili per orientarsi col Gps nella fitta foresta, sono distrutti a manganellate.

I ragazzi raramente vincono, più spesso perdono il «Game» e, dopo giorni e giorni di cammino nei boschi e nei fiumi gelati, tornano a Kladuša o Bihać con il corpo martoriato, ferite sugli arti e piedi macerati. Qualcuno è morto annegato o per ipotermia nel tentativo di fuggire dalla polizia.

Perché i confini sono chiusi?

Alcuni, in alternativa al «Game», acquistano documenti contraffatti o pagano (i pochi che se lo possono permettere) qualche migliaio di euro ai trafficanti per farsi trasportare in furgone in Slovenia. Qui però spesso vengono scovati, consegnati alla polizia croata e deportati nuovamente in Bosnia. Il cerchio è così chiuso.

Nizar, giovane siriano di Aleppo: «Io non sono qui per scelta, in Siria stavo bene, ma ora è un paese completamente distrutto. Vorrei tornare, ma forse non ci tornerò mai».

Amhed, iracheno di Baghdad: «Ho camminato due anni con mia moglie e i miei due figli per arrivare in Grecia, lì ci siamo fermati altri due anni. Le condizioni nei campi erano terribili e quindi siamo ripartiti e arrivati in Bosnia, sempre a piedi. Ora vogliamo entrare in Europa e raggiungere i nostri parenti in Germania. In Iraq non possiamo tornare. Perché il confine è chiuso?».

Questa è la domanda che tutti fanno: «Why is the border closed?».

L’Europa continua a ignorare questo fatto e mantiene i rifugiati in un limbo: a casa non torni, ma in Europa non entri.

Manganelli e spray

Alla fine di ottobre 2018 i rifugiati hanno manifestato per una settimana intera al valico di Maljevac, al confine tra Bosnia e Croazia, costruendo un nuovo campo di tende con rami e plastica. I poliziotti croati hanno costituito un blocco per respingerli, ma alcuni hanno cercato di forzarlo. Si sono verificati scontri e la polizia ha usato manganelli e spray al peperoncino per farli indietreggiare. Anche donne, bambini e poliziotti bosniaci (che spesso proteggono i migranti dalla polizia croata) sono stati curati per asfissia e bruciori agli occhi nel furgone di Medici senza frontiere.

Il nuovo campo profughi distava trecento metri dalla dogana, ma il confine è stato chiuso allo scopo di fomentare il malcontento della popolazione locale, che vive di scambi economici tra i due paesi. L’Oim, che distribuiva cibo tre volte al giorno nel campo originario, si è rifiutata di portarlo al nuovo campo. I rifugiati, per mangiare, doverano tornare al vecchio campo o facevano spesa in paese, ma più spesso erano le stesse famiglie bosniache e i volontari stranieri a portare cibo e acqua per sostenerli.

Le autorità hanno bloccato le strade adiacenti la frontiera e dopo cinque giorni hanno comunicato ai profughi che se non fossero tornati al campo originario (a tre km dal confine), avrebbero bloccato l’unico sentiero utile per rifornirsi. I migranti si sono rifiutati, ma dopo due giorni, stremati, hanno dovuto cedere e sono stati trasferiti con cinque bus al nuovo campo: il «Miral». Questa struttura, gestita dalla Oim, è una ex fabbrica dotata di riscaldamento fuori dall’abitato di Kladuša.

Confinati e ignorati

La stessa cosa si è verificata a Bihać, dove dal fatiscente «Dom» sono stati trasportati al «Bira», ex fabbrica di frigoriferi. A gennaio 2019 ci vivevano circa 2.300 persone.

Un servizio privato di sicurezza nega l’accesso a chiunque non lavori all’interno. Non è quindi possibile verificare le condizioni di vita dei migranti, ma le testimonianze di volontari e rifugiati riportano che sono terribili. Nonostante la grande disponibilità di fondi delle agenzie Oim e Unhcr, mancano un’adeguata assistenza sanitaria e psicologica, per alleviare le sofferenze delle persone. A ottobre 2018 è morto all’interno del «Bira» un giovane ragazzo in circostanze poco chiare. Le organizzazioni internazionali, invece di garantire a chi ne ha diritto la richiesta di asilo politico, forniscono a malapena vitto e alloggio in ghetti prefabbricati. La convivenza forzata di più di 2.000 uomini provenienti da paesi diversi, sommata alle pessime condizioni, scatena spesso risse. Le associazioni indipendenti di volontari svolgono un lavoro straordinario fornendo assistenza sanitaria di base, scarpe e indumenti, servizio docce, pasti caldi e tanta comprensione umana.

L’Europa ha così «confinato» migliaia di esseri umani in due ex fabbriche bosniache, in modo da allontanare la minaccia di «invasione» da parte di questa povera gente. Un atto disumano contro ogni legge del diritto internazionale.

Oggi in pieno inverno, tra freddo, neve e respingimenti, i profughi continuano a tentare il «Game», che spesso perdono. Esseri umani respinti da una Europa disumana.

Alberto Sachero




Si chiamava Moussa Ba

Si chiamava Moussa Ba. Era
Senegalese. Aveva 28 anni. È morto, arso vivo nell’incendio scoppiato la notte
del 15 Febbraio nella baraccopoli di San Ferdinando in Calabria. È la terza
vittima in un anno in questa zona di braccianti.

Il “ghetto” di San Ferdinando non
è degno di un paese civile, non è degno delle persone che sono costrette ad
abitarlo!

La Conferenza Instituti Missionari Italiani (CIMI) esprime cordoglio
ai famigliari della vittima, chiede che prontamente sia fatta luce sulle
circostanze che hanno portato al rogo e alla morte di Moussa Ba.

Moussa Ba e tanti altri sono oggi
i nuovi schiavi invisibili nelle campagne insieme ai contadini e come loro
vengono affamati, schiacciati e ghettizzati dalla logica del profitto e dal
controllo delle mafie.

Tra le autorità c’è chi in queste ora sta paventando lo sgombero di San Ferdinando. Crediamo che la soluzione non sia quella dell’invisibilizzazione del problema ma quella di trovare soluzioni e misure che favoriscano l’accoglienza diffusa e la integrazione dei lavoratori.

Commissione Giustizia e padre Della CIMI
17/02/2019