Eroi per scelta (Do/Rd Congo 4) 

L’epoca
Mobutu è finita. Kabila ha ufficialmente inaugurato un paese che si dice
democratico. Ma la pace è ancora un sogno e tutta la regione dei Grandi Laghi,
alla cui periferia è l’Alto Uele dove ci sono i missionari della Consolata, è
i di milizie, ribelli, ladroni, sfruttatori vari.


Missionari in guerra: eroi per scelta

Ritorniamo a Doruma. L’avventura è
durata fino al 1999, a febbraio. Io sono stato per undici mesi l’ultimo parroco
della Consolata, e poi abbiamo dovuto chiudere, come ho già raccontato. Siamo
andati allora a Isiro, la capitale dell’Alto Uele, dove noi missionari abbiamo
il nostro centro. La guerra continuava, non c’era più comunicazione con
Kinshasa, il paese era diviso. Noi eravamo sotto gli ugandesi e ruandesi, a
Kinshasa erano sotto Kabila. Per questo abbiamo dovuto dividerci in due gruppi
indipendenti. I missionari della Consolatanella capitale avevano padre Stefano
Camerlengo come superiore e io sono stato eletto superiore del gruppo del
Nordest, e avevo la mia base a Isiro. Ho fatto questo servizio per sei anni.

A Isiro non c’era pace. Un giorno arrivava un gruppo di
ribelli che prendeva il controllo della città, poi arrivavano nuovi ribelli
contro quelli di prima, tutti contro Kabila, ma in lotta tra loro per avere il
controllo della città e soprattutto del suo aeroporto. I ribelli venivano
sempre in casa a chiedere la macchina, la moto… dovevamo sempre avere pronto
qualcosa per tenerli buoni. Nonostante la guerra ci sono stati degli italiani
che sono venuti a trovarci (via Uganda) per realizzare dei pozzi a Bayenga (MC
dicembre 2002, pag. 17
). Mentre erano là è scoppiata la guerra tra due
gruppi di ribelli e loro sono stati presi in mezzo. Sono andato a liberarli ed è
stata tutta un’avventura … veramente il Signore ci ha protetto.

Consolazione

In quel caos come missionari della Consolata abbiamo
fatto la scelta più ovvia: essere presenza di consolazione. Consolare
significava cercare di portare avanti le scuole, l’ospedale di Neisu, il centro
nutrizionale per bambini malnutriti, la pastorale degli studenti. «Prima o poi
la guerra finirà, ci siamo detti, cerchiamo quindi di aiutare i nostri giovani
a proseguire negli studi».

Stato disastroso della scuola

La scuola è stata una delle nostre priorità. Anche se
eravamo in guerra i responsabili della scuola e del ministero dell’educazione
continuavano a esserci. Il potere ugandese pensava solo al controllo e di
sfruttamento delle ricchezze, però tutto quello che era la vita normale: sanità,
scuola, burocrazia, continuavano a modo loro. Chiaramente dovevano dipendere
dal capo dei ribelli, a volte appoggiato dall’Uganda, altre volte dal Ruanda.
Le convenzioni tra Chiese e stato per la scuola erano sempre valide e quindi il
responsabile designato dal vescovo per l’educazione doveva far continuare le
nostre scuole elementari, medie e superiori.

Il finanziamento era un problema. Lì la scuola è sulle
spalle dei genitori da tanto tempo. Noi abbiamo puntato molto sulle adozioni a
distanza per far studiare bambini e giovani. E continuiamo ancora. Lo stato, da
quando è tornata la pace, ha cominciato a pagare alcuni maestri e professori
che sono stati riconosciuti. Però oggi come oggi a Isiro è ancora la famiglia
che paga la maggior parte dei maestri.

Uno dei problemi più gravi era la mancanza di testi. Il
maestro insegnava basandosi sugli appunti che lui aveva preso da studente. Li
scriveva sulla lavagna e i ragazzi li copiavano sui loro quadei.
I quadei arrivano in bicicletta dall’Uganda o dal Sudan. Questo ha creato una
situazione disastrosa. Da anni i maestri si passano gli appunti ricevuti dai
loro maestri, con una moltiplicazione di errori e imprecisioni. La situazione è
così, purtroppo. A Kinshasa so che il governo sta distribuendo dei libri grazie
agli aiuti inteazionali, ma al Nord è difficile vedere libri nelle scuole.
Noi abbiamo fatto dei progetti specifici, come a Neisu e Bayenga: se non un
libro per bambino, almeno uno per maestro, e libri nella biblioteca, così che i
ragazzi siano stimolati a studiare e conoscere. Durante la guerra era quasi
impossibile avere libri. Adesso che i rapporti con Kinshasa sono riaperti va
meglio, ma rimane il problema del costo. Da Kinshasa arriva tutto per aereo a
costi molto alti e questo rende i libri una merce rara e costosa.

Questo era ed è lo stato della scuola. Meglio non
parlare della sanità.

Evangelizzazione e/o sviluppo

Nel Nord del Congo abbiamo ancora quindici missionari in
quattro comunità (Isiro, Bayenga, Neisu e Somana). Anche se la situazione
sociale e politica è molto complicata e gran parte delle nostre energie sono
assorbite nell’affrontare problemi materiali, il centro della nostra azione
rimane l’annuncio del Vangelo. Costruire una scuola, mettere a posto un ponte,
una fontana, una strada sono tutte attività che si fanno insieme alle comunità
di base, al villaggio che si riunisce anzitutto nella chiesa, nella preghiera,
nella messa. L’impegno per migliorare la vita trova la sua radice dall’annuncio
del Vangelo. La nostra presenza è valida. Non siamo semplici operatori di una
Ong. Avessimo più personale… I vescovi ci chiedono di aprire altre missioni in
zone dove non ci sono ancora preti, ma non abbiamo personale. Mancano
missionari che vengano in Congo. È un problema. A dispetto delle difficoltà
economiche e strutturali, lo scopo della nostra presenza è essere in mezzo alla
gente, annunciare il Vangelo, celebrare l’eucarestia, far crescere le comunità
pian piano: questo è il nostro mandato, il nostro essere missionari.

Chiesa è
speranza

Una delle realtà belle di questi anni è stata la
crescita della Chiesa congolese, che – come laici, preti, suore, vescovo – è
stata davvero un’ancora di speranza per il nostro popolo. E continua a esserlo,
una chiesa impegnata nella società civile. Là dove c’è la Chiesa c’è ancora una
speranza.

Quando siamo arrivati nel ’72 non c’erano molti
sacerdoti locali. Adesso tutte le diocesi hanno i loro sacerdoti, e ci sono i
catechisti e le piccole comunità di base. Però è così esteso questo nostro
Congo, che ha ancora bisogno di missionari che collaborino con la chiesa
locale. Di fatto non facciamo più tutto noi da soli come un tempo. Oggi si
collabora strettamente col clero locale, coi vescovi, i catechisti, i laici.
Per questo la formazione dei laici è una delle nostre priorità.

Si pensi solo a un fatto. Quando ci sono state le prime
elezioni democratiche, chi era che arrivava nei paesini a spiegare perché e
come votare? Erano i nostri animatori di base, i nostri cristiani. Le comunità
di base, i catechisti, gli animatori sono la nostra forza. Ma anche le nostre
diocesi sono una forza che dà speranza alla nostra gente. Guai se non ci fosse
la Chiesa. Nonostante le difficoltà, malgrado le deficienze. Però il fatto che
i cristiani siano lì, che i sacerdoti siano lì, che i religiosi siano lì e noi
missionari della Consolata siamo ancora lì, è un segno della presenza del
Signore tra tanta miseria.

Quale futuro

Noi speriamo in un futuro. Il
problema è questa guerra che non finisce mai. Penso solo alla diocesi di Dungu:
c’è stata la presenza dell’Lra, ribelli che venivano dall’Uganda. Adesso non so
quanti gruppi di ribelli ci sono. Ogni tanto ne nasce uno nuovo. Per dominare e
sfruttare. Non hanno interesse per il popolo. Vogliono dominare e avere soldi.
Spesso sono militari mal pagati nell’esercito che disertano con le armi in
mano, diventano ribelli di un gruppo con un capo forte che controlla la
situazione. Ma sono più organizzazioni di ladri e banditi che gruppi politici.
Rubano i minerali (oro, diamanti, coltan) ma anche i raccolti della nostra
gente. E causano migliaia e migliaia di sfollati. Basta ricordare quel che
succede a Goma e Bukavu.

Noi, a Isiro, siamo abbastanza tranquilli. Abbiamo avuto
un po’ paura prima di Pasqua del 2013 perché abbiamo sentito che un gruppo di
ribelli era a circa 200 km, ma poi non sono arrivati. Purtroppo quando arrivano
è dura: applicano tasse, spillano soldi, controllano il commercio,
saccheggiano. Nelle zone di Isiro ci sono delle aree di diamanti e oro. I
nostri giovani, attratti da questo, abbandonano le loro case, il loro lavoro in
campagna e la scuola e vanno in quelle aree, ma non è che tornino poi con dei
soldi, perché chi guadagna non è il povero Cristo, il giovane o ragazzo che va
nelle gallerie o nell’acqua a scavare, sono solo i capi che incamerano tutto.

Il futuro della nostra zona non è nei minerali. Se
vogliamo dar futuro al Nordest del Congo occorrono strade per dare sbocco ai
prodotti agricoli, ché il terreno è fertile. Poi, avendo coltivazioni,
potrebebro anche venire delle fabbriche che diano lavoro… nel futuro. Si
coltiva riso, fagioli, banane, arachidi, olio di palma. Caffè e cotone
purtroppo sono stati completamente abbandonati per la solita cronica mancanza
di strade che ne impedisce il commercio. Una volta c’erano fiorenti piantagioni
di caffè, ora è un degrado completo, a cominciare ancora dai tempi di Mobutu,
quando ha voluto nazionalizzate tutto, comprese le piantagioni di caffè e di
olio di palma.

Avessero ascoltato anche solo il 50%

La Chiesa, come conferenza
episcopale, si raduna due o tre volte l’anno e prende sempre posizione sui
problemi del paese. Quante volte la Chiesa ha parlato contro questa guerra che
vuol balcanizzare il Congo, che è una guerra d’interessi contrapposti
maneggiati da fuori. Anche nel 2012 ad agosto si era fatta una grande
manifestazione in tutta la nazione contro la guerra che è scoppiata con l’M23
che intendeva separare le zone ricche, dividendo il paese.

La Chiesa si fa sentire a tutti i
livelli e con forza. Se i governanti avessero ascoltato anche solo il 50% di
quello che è scritto nei documenti della Chiesa! Perché se c’è una forza locale
che sa leggere la situazione dal punto di vista economico, sociale e politico,
questa è la Chiesa. Dal ’91 la Chiesa ha sempre denunciato questa situazione.
Ma chi l’ascolta?

Il jolly, missionario tappabuchi

Dall’agosto 2008 allo stesso mese del 2011 mi han
chiesto di fare il superiore di tutte le comunità, risiedevo a Kinshasa, ma ero
sempre in movimento anche per seguire il nostro gruppo di Isiro. Finito il mio
compito, ho passato tre anni, fino all’agosto 2013, a fare il tappabuchi.
Avendo esperienza sia del Nord che dell’Est, mi hanno fatto fare il jolly: ho
sostituito i confratelli che andavano in vacanza o avevano problemi di salute a
Kinshasa e a Isiro. Ultimamente ero a Somana, un quartiere popolosissimo di
Isiro che presto sarà parrocchia. È una comunità di periferia con qualche
cappella in piena campagna e nella foresta. Il mio lavoro è stato il solito:
scuola, salute, giovani e in più anche quello degli anziani.

Sì, questa degli anziani è una cosa che devo dire.
Quando studiavo da giovane missionario mi insegnavano che l’anziano africano è
rispettato e riverito. Purtroppo non è più così. Abbiamo tanti, tanti anziani
(a 60 anni sei già vecchio in Africa) che sono abbandonati da tutti, non nei
villaggi dove la vita tradizionale tiene ancora, ma nelle periferie dellà città.
Kinshasa è enorme, ma anche Isiro ha oltre duecentomila abitanti. Ci sono figli
che abbandonano i genitori anziani o li accusano di malocchio e stregoneria, e
questi sono costretti a vivere da soli, senza risorse. Non solo i bambini sono
accusati di stregoneria, ma anche gli anziani. E quindi sono abbandonati. E
quando li incontri, vedi il dolore di questi padri, di queste madri che hanno
allevato cinque o sei figli e si ritrovano lasciati a se stessi in solitudine.

Un missionario contento

Io sono contento di essere missionario in Congo, ormai
sono vent’anni. Rifarei tutto. E ho un sogno: che i nostri ragazzi possano
crescere, andare a una scuola normale, che i padri di famiglia possano lavorare
e possano avere una vita dignitosa. Non chiedo grandi cose: desidero solo la
normalità che invece non c’è. Il sogno che questo paese, così ricco in umanità,
in agricoltura, in foreste, in minerali sia della sua gente, sia un paese dove
si possa lavorare, avere una vita degna, umana. Invece si soffre. Siamo sotto
la soglia del livello di povertà, uno degli ultimi paesi nella graduatoria
mondiale. Eppure è un paese che potrebbe far vivere bene tutti e dae anche
agli altri, con tutte le ricchezze che ci sono. Ho il sogno della quotidianità
più normale dove la nostra gente possa lavorare, guadagnare, vivere con le cose
fondamentali: salute, acqua, lavoro, libertà, mezzi di comunicazione e
trasporto, strade. La quotidianità della pace.

Ai lettori di Missioni Consolata

Leggete Missioni Consolata perché è una porta aperta sul
mondo che ci fa sentire più universali. Il leggere cosa capita nel mondo aiuta
il cristiano italiano a essere più cristiano qui in Italia. Essere cristiani e
aiutare i missionari non è solo mandare dei soldi o pregare per noi, il che è
molto bello e di cui vi ringrazio, ma anche impegnarsi ad accogliere, a
conoscere, a salutare, a non aver paura dello straniero. Accogliere colui che
viene. Perché i nostri fratelli che vengono dall’Africa, dall’Asia o
dall’America Latina, eccetto qualcuno che viene per turismo o opportunismo, per
la gran parte arriva seguendo il sogno di una vita dignitosa. Io capisco i
giovani del Congo che scappano. Pensano di avere in Italia o in Europa un
futuro.

Ai giovani lettori di MC dico
siate contenti di essere lettori di MC e sappiate che l’annuncio del Vangelo
richiede ancora dei giovani capaci di dare tutto. Noi lavoriamo con dei laici,
ed è bellissimo, però abbiamo ancora bisogno di gente capace di lasciare tutto
per il Vangelo. Abbiamo ancora bisogno dei missionari e di missionari della
Consolata con cuore grande che sappiano amare in questo mondo pieno di miseria,
guerre e divisioni, e credere che il bene è sempre più grande. Sono convinto
che anche in Congo, malgrado la situazione, faccia più rumore un albero che
cade, le nostre guerre e la nostra sofferenza, che i mille alberi che stanno
crescendo.

Epilogo

Dopo questa lunga chiacchierata che risale al maggio
2013, padre Rinaldo Do è rientrato in Congo. Dopo alcuni mesi passati come
viceparroco nella parrocchia Mater Dei di Mont Ngafula a Kinshasa, dal marzo
2014 è parroco di Neisu, nel Nordest, dove c’è il grande ospedale fondato da
padre Oscar Goapper, che là è sepolto.

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MC ha pubblicato molto
sul Rd Congo. Leggendo questo articolo su www.rivistamissioniconsolata.it
trovate i collegamenti a molti degli articoli pubblicati dal 2000 in avanti.
Eccone alcuni:

E sul muro una scatola vuota
A scuola con una bottiglia d’olio
NEISU (CONGO, RD): QUASI UN DIARIO «IO SONO LUCA»
CONGO – L’amore grande di Anghele
CONGO – Dopo cena, sotto la “pailotte” e altrove
CONGO, RD – Con le mani nel fango
BAYENGA (R.D. CONGO): storia di ordinaria insicurezza
NEISU (R.D. Congo): emozioni di un viaggio attesa
NEISU (R.D. Congo): storica assemblea su una questione
scottante
Futuro… in costruzione
Piccoli uomini, grandi inquietudini
Congo-Rwanda: guerra infinita
Scomparsi due milioni di voti
Voci dal Congo

Il folle dell’Africa centrale
Nel cuore dell’Africa

Tags: Rd Congo, missionari, evangelizzazione, vita missionaria, guerra,
instabilità, decolonizzazione, Kabila, Doruma, povertà, rifugiati, Chiesa, scuola, educazione, riconciliazione, pace

Rinaldo do e Gigi Anataloni




Congo Rd. Un futuro a tinte fosche


Il 20 dicembre scorso contestate elezioni hanno mantenuto al potere Félix Tshisekedi. Le sfide che dovrà affrontare il presidente sono enormi: il conflitto nell’Est, l’economia che barcolla, le mire straniere sulle risorse del Paese, ma anche la corruzione a tutti i livelli. Le premesse non sono delle migliori.

Oltre 2.300 chilometri di strade, soprattutto sterrate e percorribili in almeno quaranta ore di auto, separano Kinshasa, capitale della Repubblica democratica del Congo (RdC), da Lubumbashi, capitale dell’Haut-Katanga, la provincia più meridionale. Per recarsi a Goma, capitale del Nord Kivu al confine orientale con il Rwanda, invece i chilometri diventano 2.700 e le ore di viaggio più di cinquanta.

Il tragitto su strada da Kinshasa verso Lubumbashi e Goma, interminabile e difficile, è metafora di quello che è la RdC oggi: un Paese immenso, dal potenziale enorme, ma estremamente fragile. La distanza tra la capitale e molte province non è solo geografica, ma anche politica, economica e sociale. I soli 200mila chilometri di strade – che attraversano uno Stato di 2,3 milioni di chilometri quadrati (7,8 volte l’Italia) – sono solo un esempio di questo scollamento.

Il territorio congolese è estremamente frammentato: non c’è un solido legame tra la capitale e il resto del territorio dilaniato da conflitti armati e in perenne crisi umanitaria, depredato delle proprie ricchezze e attraversato da una corruzione endemica. Molte sfide – alcune di lunga data, altre più recenti – attendono Félix Tshisekedi, riconfermato presidente a seguito delle caotiche e contestate elezioni del 20 dicembre scorso. Il presidente uscente ha ottenuto il 73% dei voti, e il secondo, Moise Katumbi, solo il 18%. Conflitti, economia e corruzione spiccano tra le sfide.

Campo di sfollati nei pressi di Goma, Nord Kivu. Foto Christophe Mutaka

La lunga guerra nell’Est

Da Nord a Sud, da Est a Ovest, la RdC è travolta da violenze. Conflitti diversi e causati da motivazioni differenti, ma riconducibili a un unico denominatore comune: la scarsa governance e la mancanza di istituzioni politiche, militari e sociali efficienti, affidabili e diffuse su tutto il territorio nazionale.

Movimenti secessionisti operano nell’Haut-Katanga che già nel luglio 1960, subito dopo l’indipendenza, aveva tentato di separarsi dal resto del Paese. A Nord, nell’Haut-Uélé e nel Bas-Uélé avvengono incursioni e saccheggi di ribelli coinvolti nella guerra civile centrafricana e negli scontri con il governo del Sud Sudan. Tensioni intercomunitarie per le terre sono diffuse su tutto il territorio nazionale. Mentre da inizio 2022, le province occidentali, storicamente le più stabili, sono messe a ferro e fuoco dalla milizia Mobondo, nata a causa di tensioni tra comunità per il pagamento di tasse sulla terra.

Nell’Est (Ituri, Nord e Sud Kivu), i conflitti si protraggono da tre decenni e sono profondamente legati al contesto regionale. Infatti, fin dalle due guerre del Congo, alcuni Paesi della regione dei Grandi Laghi – Rwanda, Uganda e Burundi – mirano a estendere la propria influenza sulle province orientali della Rdc, data la loro posizione strategica nel cuore dell’Africa e la ricchezza di risorse minerarie.

La moltitudine di attori, statali e non, coinvolti, l’intrecciarsi di differenti obiettivi, la fragilità delle alleanze e le interferenze degli altri Paesi della regione sono tutti fattori che hanno reso in passato e rendono ancora oggi difficile la pacificazione dell’area. In particolare, l’interventismo ruandese ha recentemente raggiunto livelli tali da causare una crisi diplomatica tra Kinshasa e Kigali e rischiare un conflitto aperto tra i due Paesi. Dalla primavera del 2022, truppe ruandesi sono infatti intervenute in territorio congolese a supporto del Movimento del 23 marzo (M23), il gruppo armato più violento del Nord Kivu, capace di giungere, a fine 2023, a pochi chilometri da Goma.

Disastro umanitario

«La guerra ha creato un incredibile disastro umanitario», dice Viateur, cooperante del Nord Kivu e analista dei processi di cambiamento nella regione dei Grandi Laghi. L’Unhcr (agenzia Onu per i rifugiati) conta sei milioni di sfollati interni, mentre un altro milione ha cercato rifugio nei Paesi vicini. Chi resta nei territori controllati dagli attori armati «vive ogni giorno le afflizioni della guerra come vessazioni, stupri, saccheggi e lavori forzati. I gruppi armati portano via tutto quello che i locali possiedono: cibo, denaro, bestiame e coltivazioni. I bambini non vanno più a scuola, gli agricoltori non lavorano più i campi, le attività economiche sono paralizzate», racconta Viateur.

Come prevedibile, la promessa di Tshisekedi di un intervento militare tale da porre fine alle violenze in tempo affinché le elezioni si potessero svolgere in tutto il Paese non è stata mantenuta: gli abitanti dei territori di Masisi e Rutshuru, occupati dall’M23 (oltre a Kwamouth, epicentro della violenza dei Mobondo), non hanno potuto votare.

Raramente le Forze armate della Rdc registrano successi contro i gruppi armati e lo stato d’assedio, introdotto a maggio 2021, non ha portato cambiamenti. La Missione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per la stabilizzazione del Congo (Monsuco), operativa dal 2000 per proteggere la popolazione, è costantemente accusata di inefficacia, data la frequenza di attacchi e uccisioni nei confronti dei civili, e il governo congolese ne ha chiesto il ritiro. Così come, dopo un solo anno, ha iniziato ad abbandonare il Paese anche la Forza regionale della Comunità dell’Africa orientale (Eac), criticata da Kinshasa per l’approccio poco aggressivo nei confronti dei gruppi armati.

Il costante fallimento delle operazioni militari evidenzia la necessità di rafforzare altre tipologie di interventi. Ne derivano azioni diverse, frutto dell’intersecarsi delle dimensioni politica, sociale ed economica: rafforzamento di governance e trasparenza delle istituzioni, sviluppo di programmi efficaci e duraturi per la smobilitazione e il reinserimento socioeconomico dei combattenti e realizzazione di dialoghi intercomunitari e piani per la ripartizione inclusiva delle risorse.

Economia fragile

Un’altra sfida che attende il presidente congolese è quella economica. Secondo la Banca mondiale, nel 2020, a causa della pandemia da Covid-19 che aveva paralizzato scambi e produzione, il Prodotto interno lordo (Pil) era crollato di quasi tre punti percentuali rispetto al +4,4% del 2019. Tuttavia, dall’anno successivo, la consistente domanda cinese di minerali ha trainato la ripresa del Pil, cresciuto del 6,2% nel 2021 e dell’8,9% nel 2022. L’economia congolese è però estremamente fragile: il 90% delle esportazioni è costituito da minerali e idrocarburi, e questo rende il Paese dipendente dalle fluttuazioni dei loro prezzi sul mercato internazionale.

L’analisi di un quadro socioeconomico più dettagliato mostra poi che la crescita del Pil, esaltata da Tshisekedi come risultato positivo delle sue politiche di rilancio post pandemia, è un dato isolato, non una tendenza. La guerra in Ucraina ha spinto l’inflazione dal 9% (2021) al 13,2% (2023) e l’incremento dei prezzi dei beni di base sta impattando soprattutto su quel 60% della popolazione che, secondo la Banca mondiale, vive con meno di 2,15 dollari al giorno. Tra essi, moltissimi giovani, il cui tasso di disoccupazione supera l’80%.

La carenza di reti stradali e ferroviarie ostacola lo sviluppo dei commerci su tutti i livelli: nazionale, regionale e internazionale. I conflitti armati nelle province orientali – le più ricche di risorse – costituiscono un pesante fardello per la crescita economica del Paese, mentre la diffusione di economia informale, illegale e corruzione riduce le risorse statali.

La transizione ecologica

La transizione ecologica globale passa anche per i minerali della RdC: le province meridionali producono il 70% del cobalto mondiale, le riserve congolesi di rame sono considerevoli e la metà del tantalio, contenuto nei telefoni e nei computer di tutto il mondo, proviene dai suoi territori. Dai primi anni Duemila, l’impennata della domanda globale di minerali per la transizione ecologica ha trainato la crescita della produzione congolese, esacerbando però anche gli aspetti negativi a essa connessi: conflitti armati, violazioni dei diritti umani e sfruttamento da parte delle multinazionali.

Per molti dei circa 120 movimenti armati attivi nelle province orientali «i minerali hanno un ruolo preponderante – dice Viateur -. Certi gruppi sfruttano direttamente o fanno sfruttare da altri per loro, le cave e i minerali ottenuti sono venduti attraverso negozianti che li portano oltre confine, in Rwanda e Uganda». Il contrabbando è infatti un’importante fonte di finanziamento per molti attori armati e, in questo modo, sebbene nella RdC siano applicate certificazioni che impediscono la vendita di minerali legati a conflitti e violazioni dei diritti umani, molti di essi entrano nel mercato internazionale. Buona parte della produzione è artigianale: i minatori estraggono senza tecnologie o macchinari e fronteggiano dure condizioni di vita. La crescente domanda mondiale non si traduce in un incremento dei guadagni per i lavoratori locali che «rimangono nella povertà e muoiono ogni giorno a causa di malattie respiratorie e frane, mentre molti bambini non vanno a scuola». Viateur ricorda quanto lo sfruttamento minorile sia diffuso, soprattutto nelle miniere di rame e cobalto dell’Haut-Katanga, nonostante sia proibito dalla legge.

Proteste anti Rwanda (Photo by Aubin Mukoni / AFP)

I minerali

Anche le multinazionali straniere, con un atteggiamento predatorio, contribuiscono a rendere ancora più difficili le precarie condizioni di vita dei congolesi, drenando dal Paese grandi quantità di risorse a fronte di compensazioni decisamente inadeguate.

L’accordo siglato nel 2008 dall’allora presidente Joseph Kabila con la Cina ne è un esempio. Le aziende di Pechino hanno ottenuto concessioni su giacimenti di rame e cobalto del valore di circa 90 miliardi di dollari a Kolwezi (Haut-Katanga). In cambio, la Cina si è impegnata a investire sei miliardi in progetti di sviluppo. Ma, di fatto, ancor meno – tre miliardi circa – sono stati realmente destinati alla costruzione di strade, scuole e ospedali, e gli interventi sono stati appaltati esclusivamente a compagnie cinesi, impedendo la creazione di posti di lavoro e crescita economica nella RdC. Anche se nel 2021 Tshisekedi ha annunciato la rinegoziazione dell’accordo, non sono mai stati rilasciati dettagli sulle nuove discussioni, facendo temere che la revisione non si traduca in miglioramenti tangibili per i congolesi.

I minerali estratti nella Rdc, quando sfuggono al contrabbando, sono esportati, soprattutto in Cina, dove vengono processati. In questo modo, il Paese perde la maggior parte delle proprie risorse ancora in forma grezza, traendone un guadagno limitato, e non beneficia della creazione di opportunità lavorative e della generazione di reddito derivanti da attività di lavorazione interne alla RdC. Un’evoluzione necessaria, quest’ultima, e che è stata timidamente avviata da Tshisekedi con l’istituzione del Consiglio congolese della batteria, cui è stato affidato il compito di creare una filiera per la produzione di batterie elettriche nel Paese. Un progetto che, se realizzato, permetterebbe alla RdC e ai suoi abitanti di trarre maggiori guadagni dalle proprie risorse, ma che deve avvenire al riparo dalla corruzione, imperante nel settore ed endemica nel Paese. Gécamines, la principale compagnia mineraria statale, è infatti ciclicamente coinvolta in scandali e accusata di essere un mezzo per l’accaparramento di risorse da parte dell’élite politica ed economica della Rdc.

Corruzione e potere

Con il giuramento di fine gennaio, Tshisekedi si è confermato alla guida di un Paese dilaniato da conflitti armati e in difficoltà economica. Ma fronteggia anche accuse di corruzione, scarsa trasparenza e manipolazione dei risultati elettorali al fine di soddisfare una sete personale di potere e assicurare favori alla propria cerchia di amici e familiari.

Nulla di nuovo nella RdC. Fin dalla cleptocrazia di Mobutu Sese Seko (1965-1997), corruzione e clientelismo si sono infiltrati a fondo nell’apparato statale, totalmente piegato alla volontà e ai desideri del dittatore e dei suoi alleati. Anche Laurent Désiré Kabila (1997-2001) e il figlio Joseph (2001-2018), sebbene avessero annunciato una cesura con la dittatura precedente, hanno contribuito a istituzionalizzare corruzione e clientelismo. È continuato l’accaparramento di risorse statali – Joseph Kabila è accusato di essersi appropriato, tra il 2013 e il 2018, di 138 milioni di dollari destinati alle casse nazionali – e familiari e amici sono stati posizionati alla guida di aziende pubbliche: nel 2018, secondo il Centro di ricerca sul Congo, 80 compagnie erano riconducibili alla cerchia di Kabila.

L’elezione nel 2018 di Tshisekedi – frutto di un accordo tra quest’ultimo e Kabila affinché l’ex presidente potesse continuare a influenzare la politica congolese dalle retrovie – non ha segnato un’inversione di tendenza. Ancora oggi, la Rdc resta uno dei paesi più corrotti al mondo, al 166esimo posto su 180 nell’Indice sulla percezione della corruzione di Transparency international (ente indipendente che monitora la corruzione globale).

Criticato per aver perpetuato un clima di impunità, Tshisekedi ha visto alcuni dei suoi collaboratori colpiti da accuse, come Vital Kamerhe incolpato di essersi appropriato di 48 milioni di dollari pubblici. Mentre, in vista del voto del 2023, ha posto l’alleato Denis Kadima alla guida della Commissione elettorale nazionale indipendente (Ceni), assicurandosi il controllo della macchina elettorale e la rielezione.

Conflitti, difficoltà economiche e corruzione continuano a segnare il presente e il futuro della Rdc, guidata da un’élite più interessata a mantenersi al potere e ad accrescere le proprie ricchezze che a soddisfare le reali esigenze della popolazione. Ancora una volta, un futuro fosco attende un Paese estremamente fragile.

Aurora Guainazzi

© Christophe Mutaka




Congo Rd. Padre Flavio, i Pigmei e i «verdi fratelli silenziosi»

«Qui davanti alla missione c’è la piccola piantagione di caffè che coltivo con i pigmei. È in piena fioritura, un esercito di api nella gioia e un profumo immenso. Come quello che si fa con il cuore e profuma la nostra vita». Flavio Pante, missionario della Consolata, ci manda le foto degli arbusti nel verde. Considera la natura una preziosa collaboratrice nel lavoro a Bayenga.

Le api ronzanti sui fiori a grappoli sono una benedizione. Per il miele? Quanto al miele, «ancora non ci siamo. I pigmei lo raccolgono in foresta sugli alberi e non pensano agli alveari. Con il tempo, troveremo un apicoltore che ci introduca un po’ alla volta. Ma la funzione di questi insetti è importantissima già di per sé: garantiscono l’impollinazione, delle papaie, degli avocado, di altre piante nutrienti».
Nell’ottica delle produzioni locali, la piantagione di caffè che qui chiameremmo «a chilometro zero» è una buona idea: «La bevanda serve alla missione, ma anche alla gente del posto. La tostatura è artigianale, su griglie con la brace sotto. Per i bantu il caffè mattutino, senza zucchero (non lo hanno), è normale. Anche i pigmei lo bevono, ma meno; forse per loro è un’usanza acquisita».

Alcuni Pigmei alle prese con il lavoro agricolo, a Bayenga, Rdc.

Padre Flavio precisa che le piantagioni commerciali in zona sono sparite: «Con tutte le guerre e invasioni degli ultimi decenni si è verificata una situazione di instabilità e insicurezza. Così gli investitori, soprattutto greci e ciprioti, che tenevano le piantagioni con la collaborazione di congolesi, hanno pensato che questo settore non fosse più sicuro. Aggiungiamo la svalutazione e altri fattori economici. Le piantagioni (di caffè e altro) non più curate, sono state “conquistate” dalla foresta. E le strade, cessato il traffico dei camion, si sono ristrette a piste».

Quale è il rapporto dei pigmei, popolo della foresta, con gli alberi, che padre Flavio chiama «verdi fratelli silenziosi che regalano frutti e ombra»? Ecco: «I pigmei non piantano gli alberi, non è nella loro cultura; è la foresta stessa che si rigenera. E allora, è importante avviarli (con un compenso per quanto piccolo) a queste attività. Per esempio, un vivaio in cui pianti i semi di caffè, poi li trapianti, e quando crescono gli arbusti devi togliere l’erba sottostante – sennò le piante ingialliscono e non producono. Coinvolgiamo le persone in tutte le fasi, nell’ottica della pedagogia del fare».

Fra le attività della missione, con le popolazioni bantu e i pigmei, padre Flavio spiega di aver introdotto un’altra pratica: «Procurare loro piccole piantine o semi, di papaie, di avocado che piantano non lontano dalla loro capanna per avere con il tempo i frutti. Anche solo due o tre alberi per famiglia. Ma è l’inizio di un cammino che magari ci porterà in futuro ad avere un frutteto in comune».
Padre Flavio illustra i numerosi altri servizi dei «grandi e silenziosi fratelli verdi»: «Per noi, almeno nella mia zona, dove non c’è la segnaletica, gli alberi secolari sono un riferimento negli spostamenti. C’è anche un’altra funzione. La nostra zona è molto soggetta a fulmini. Ebbene sono questi grandi alberi a proteggerci, sono loro che pagano e si bruciano sotto i fulmini…» Non solo: «Attenuano la forza del vento – qui la pioggia viene sempre portata dal vento – proteggendo i tetti delle nostre case e capanne. Ci aiutano veramente». Infine, «nella foresta i tronchi caduti possono fare da ponte sui torrenti tumultuosi e fangosi».

Marinella Correggia

Pubblichiamo questo articolo oggi, 16 gennaio, festa del beato Giuseppe Allamano, fondatore dei missionari e delle missionarie della Consolata.

Piante di caffè piantate dai pigmei di Bayenga. In questo periodo sono in piena fioritura.




Congo Rd. Elezioni o parodia?

Il 20 dicembre scorso i congolesi sono stati chiamati a eleggere il presidente della Repubblica, 500 deputati dell’Assemblea nazionale (Parlamento), quelli delle 26 Assemblee provinciali e, per la prima volta con la nuova Costituzione, i membri di circa 300 Consigli municipali. Gli elettori erano 44 milioni sui 100 milioni di abitanti. Queste cifre danno anche una misura di quanto giovane sia la popolazione.

I vescovi hanno incoraggiato i fedeli a partecipare al voto, chiedendo anche: «Diamo mandato ai nuovi leader che hanno dimostrato senso del bene comune, amore per la patria e generosità nei loro progetti sociali». I vescovi hanno a messo in guardia verso chi semina l’odio tribale e pure sulla compravendita dei voti. Coloro che usano pratiche simili «sono moralmente discutibili e vogliono prendere il potere tramite mezzi fraudolenti, non per servire, ma per servirsene, e continuare ad asservirci».
Il processo elettorale che doveva iniziare alle 6 del mattino del 20 e concludersi la sera, si è protratto ancora fino al giorno seguente giovedì 21, a tarda notte. Alcuni seggi nelle provincie del Bas-Uélé, Sud Kivu e Tanganyka, hanno addirittura aperto venerdì mattina, perché non avevano ricevuto i materiali. Ma anche nella capitale Kinshasa molti sono stati i casi problematici rilevati dagli osservatori elettorali.
Difficoltà logistiche per il raggiungimento dei seggi (ci sono ancora le piogge e molte strade sono impraticabili), ritardi nella consegna del materiale elettorale, ma anche problemi tecnici alle macchine per il voto (sono elettroniche e spesso le batterie risultavano scariche), hanno causato chiusure temporanee e lunghe code per il voto.
In alcune zone, inoltre, sono stati segnalati anche casi di violenze.

Secondo la Ceni (Commissione elettorale nazionale indipendente), i congolesi sono riusciti a votare nel 97% dei seggi, il che sarebbe, secondo loro, un ottimo risultato, viste le dimensioni e la cattiva rete di comunicazione del Paese. Gli osservatori, invece, ritoccano questo numero al ribasso.
La Ceni parla ufficialmente di un tasso di partecipazione elevato, e dichiara di voler presentare i primi risultati già oggi. In realtà per quelli definitivi si dovrà attendere almeno una settimana.
Il candidato di gran lunga favorito è il presidente uscente, Félix Tshisekedi, mentre altri nomi importanti sono Moise Katumbi (ricco uomo d’affari già governatore del Katanga), Martin Fayulu (politico influente, già deputato) e il premio Nobel per la pace Denis Mukewge.

«Queste elezioni sono una parodia», ci dice John Mpaliza, attivista congolese per i diritti umani. Gli altri candidati avrebbero potuto non presentarsi, ma in quel modo ci sarebbe stato un candidato unico (il presidente uscente, ndr), invece così hanno anche fatto vedere i brogli e i malfunzionamenti del sistema elettorale». Si riferisce alla Ceni guidata da Denis Kadima. In effetti
ci sono state irregolarità nella pubblicazione delle liste elettorali, sull’indicazione del seggio in cui votare, problemi con i documenti d’identità, cancellazione liste elettorali. Questioni denunciate da Fayulu, Mukewge e anche la Cenco (Conferenza episcopale nazionale del Congo).
Tra qualche giorno o settimana si conosceranno i risultati della consultazione elettorale, che per il presidente paiono scontati.

Marco Bello




Congo RD: Chi ha orecchie per intendere


Nel gennaio scorso il papa si è recato nel paese martoriato da una guerra lunga e dimenticata. Ha denunciato sfruttamento e indifferenza. Il racconto di un testimone.

Dal 31 gennaio al 3 febbraio il Papa è stato in Repubblica democratica del Congo (per poi andare in Sud Sudan dal 3 al 5 febbraio, ndr), una visita a lungo preparata e desiderata, segnata da momenti di grande partecipazione e altri più raccolti di ascolto. Un evento atteso dalle autorità locali che per l’occasione hanno «tirato a lucido» (si fa per dire) le strade della capitale Kinshasa. Notiamo però che ad andarsene non sono stati solo i rifiuti, ma anche i poveri che affollano quotidianamente le vie del centro: venditori ambulanti, bambini di strada, homeless. «Nelle zone centrali della città non si può più entrare – ci ha raccontato don Maurizio Canclini -, il centro è presidiato dalla Guardia repubblicana, agenti in borghese e polizia».

Dopo l’arrivo all’aeroporto internazionale N’djili di Kinshasa, il Papa ha dedicato il primo incontro alle autorità nel bellissimo Palais de Nation, un luogo immerso nel verde sulle sponde del fiume Congo, dove l’ansa del fiume dà allo spazio una geometria dolce, mentre le luci di Brazzaville, sulla sponda di fronte, lo rendono un piccolo paradiso.

Qui il Papa ha presentato il Congo «come un Paese che è quasi un continente nel grande continente africano. Sembra che la terra intera respiri. Ma se la geografia di questo polmone verde è tanto ricca e variegata, la storia non è stata altrettanto generosa: tormentata dalla guerra, la Repubblica democratica del Congo continua a patire entro i suoi confini conflitti e migrazioni forzate, e a soffrire terribili forme di sfruttamento, indegne dell’uomo e del creato. Questo Paese immenso e pieno di vita, questo diaframma d’Africa, colpito dalla violenza come da un pugno nello stomaco, sembra da tempo senza respiro». La platea piena di generali ed ex (forse) signori della guerra vestiti in abiti civili restava in silenzio.

In attesa di papa Francesco nello Stadio dei Martiri a Kinshasa. (Photo by Tiziana FABI / AFP)

Colonialismo economico

Il Papa ha poi ripreso, «è tragico che questi luoghi, e più in generale il continente africano, soffrano ancora varie forme di sfruttamento. Dopo quello politico, si è scatenato infatti un “colonialismo economico”, altrettanto schiavizzante. Così questo Paese, ampiamente depredato, non riesce a beneficiare a sufficienza delle sue immense risorse: si è giunti al paradosso che i frutti della sua terra lo rendono “straniero” ai suoi abitanti. Il veleno dell’avidità ha reso i suoi diamanti insanguinati. È un dramma davanti al quale il mondo economicamente più progredito chiude spesso gli occhi, le orecchie e la bocca […]. Si faccia largo una diplomazia dell’uomo per l’uomo, dei popoli per i popoli, dove al centro non vi siano il controllo delle aree e delle risorse, le mire di espansione e l’aumento dei profitti, ma le opportunità di crescita della gente […]. Non possiamo abituarci al sangue che in questo paese scorre ormai da decenni, mietendo milioni di morti all’insaputa di tanti».

Racconta un dottore nato nella regione dell’Ituri (Nord Est) che «qui le persone sono ammazzate come le bestie, in Congo non c’è più da sperare, i volti della gente sono spenti, atterriti, non c’è più la felicità tipica dei villaggi africani, l’entusiasmo per l’ospite, la gioia dell’altro. L’abitudine qui è vedere morti sparsi per le strade».

Messa all’aeroporto

Secondo giorno: messa all’aeroporto di Ndolo. Migliaia di giovani erano già sulla pista da giorni, ma la maggior parte delle persone si è messa in movimento di notte per essere sicurea di arrivare prima delle sei del mattino, dopodiché i cancelli sono stati chiusi. Quando il Papa è arrivato alle nove erano un milione e mezzo che attendevano sotto un sole splendente e caldissimo.

Anche per questa messa, in prima fila c’erano molte autorità e candidati alla presidenza della Repubblica che, al momento dello scambio della pace, hanno ritirato la mano.

La celebrazione è stata una sintesi tra una celebrazione eucaristica, un concerto e un momento di orgoglio nazionale. L’organizzazione ha retto e tutto si è svolto in modo ordinato. Il Papa ha commentato il Vangelo del Risorto ricordando che quelle tre parole, «pace a voi», per noi sono «una consegna, più che un saluto», e sottolineando che le sorgenti della pace, le «fonti per continuare ad alimentarla sono il perdono, la comunità e la missione».

Francesco ha concluso pronunciando alcune parole in lingala: moto azalí na matoi ma koyoka (chi ha orecchie per intendere) e la folla ha risposto ayoka (intenda).

Testimonianze dal Kivu

Nel pomeriggio del primo febbraio, alla nunziatura, il Papa ha ascoltato testimonianze dal Kivu (Nord Est del Paese), forse il momento più toccante della visita.

Una di esse era la sedicenne di Eringeti, nel territorio di Beni: «Sono un agricoltore. Mio fratello maggiore è stato ucciso in circostanze che ancora oggi non conosciamo. Mio padre è stato ucciso in mia presenza, da dove ero nascosto ho visto in che modo lo hanno fatto a pezzi e come hanno portato via mia madre. Siamo rimasti orfani, io e le mie due sorelline. Mamma non è più tornata e non sappiamo cosa ne abbiano fatto. Di notte non riesco a dormire».

La giovanissima Léonie Matumaini ha mostrato un coltello uguale a quello che ha ucciso tutti i membri della sua famiglia in sua presenza.

Kambale Kakombi Fiston, di soli 13 anni, ha raccontato di essere stato rapito per 9 mesi.

Poi è stata la volta di una diciassettenne della zona di Goma ridotta in condizioni di schiavitù sessuale da un comandante per 19 mesi, finché con un’amica è riuscita a scappare: «Ma a quel punto ho scoperto di essere incinta. Ho avuto due bambine gemelle, non conosceranno mai il loro padre». Poi ha proseguito dicendo che «le persone sono state sfollate più volte, i bambini sono rimasti senza genitori, sono sfruttati nelle miniere o negli eserciti ribelli».

Anche un’altra donna di Bukavu ha raccontato di essere «stata tenuta come schiava sessuale. Ci hanno fatto mangiare la pasta di mais e la carne degli uomini uccisi».

Da Bunia (Ituri) un testimone ha raccontato: «Sono sopravvissuto a un attacco al campo di sfollati di Bule, nel villaggio di Bahema Badjere, nel territorio di Djugu, nella provincia di Ituri. Questo campo è conosciuto come “Plaine Savo”. L’attacco è avvenuto la notte del primo febbraio 2022 da parte di un gruppo armato che ha ucciso 63 persone, tra cui 24 donne e 17 bambini. Viviamo in campi profughi senza speranza di tornare a casa».

Francesco, visibilmente commosso, ha detto: «Davanti alla violenza disumana che avete visto con i vostri occhi e provato sulla vostra pelle. Si resta scioccati e non ci sono parole, c’è solo da piangere, in silenzio. Il mio cuore è oggi nell’Est di questo immenso Paese».

In quella regione, ha proseguito il Papa, «si intrecciano dinamiche etniche, territoriali e di gruppo; conflitti che hanno a che fare con la proprietà terriera, con l’assenza o la debolezza delle istituzioni, odi in cui si infiltra la blasfemia della violenza in nome di un falso dio. Ma è, soprattutto, la guerra scatenata da un’insaziabile avidità di materie prime e di denaro, che alimenta un’economia armata, la quale esige instabilità e corruzione».

Il Papa ha poi ricordato l’ambasciatore Luca Attanasio, il carabiniere Vittorio Iacovacci e l’autista Mustapha Milambo, uccisi due anni fa nell’Est del paese: «Erano seminatori di speranza e il loro sacrificio non andrà perduto». Più che un secondo giorno di visita, un programma politico decennale.

Pope Francis (2nd R) blesses attendees as he meets with victims of the conflict in eastern Democratic Republic of Congo (DRC) at the Apostolic Nunciature in Kinshasa, DRC, on February 1, 2023. – Pope Francis arrived in the Democratic Republic of Congo on January 31, 2023, on the first leg of a six-day trip to Africa that will also include troubled South Sudan. (Photo by Tiziana FABI / AFP)

L’incontro con i giovani

Il terzo giorno, il Papa ha incontrato i giovani a cui ha ricordato l’esempio di Floribert Bwana Chui che, quando aveva «soli ventisei anni, venne ucciso a Goma per aver bloccato il passaggio di generi alimentari deteriorati che avrebbero danneggiato la salute della gente. Poteva lasciare andare, non lo avrebbero scoperto e ci avrebbe pure guadagnato».

In serata il Papa ha poi messo «le mani» nelle piaghe del Paese ascoltando le testimonianze di persone vulnerabili. Come i rappresentanti del gruppo Telema Ongenge: «Siamo portatori e portatrici di handicap. Molti di noi erano in ribellione aperta contro la società e pure contro Dio, soprattutto quando ci siamo resi conto che le nostre sofferenze potevano essere evitate, invece non hanno più rimedio e gridano nel deserto dell’impotenza e dell’indifferenza».

Anche Pierre Ngeleka Musangu, di 68 anni, ha raccontato che «da quando ne avevo quattro soffro di un handicap che poteva essere evitato. Per raddrizzare un piede storto dalla nascita, i miei genitori mi portarono all’ospedale di Luebo. Non c’erano medici così fui operato da un assistente, ma la situazione peggiorò perché l’intervento provocò un’infezione […] e ci fu anche la lesione di un nervo, che ha causato la deformazione di cui soffro ancora oggi. Nella mia vita ho incontrato decine di persone che soffrono, o addirittura sono morte, a causa di diagnosi sbagliate, oppure per l’assenza di medici, di medicine o di apparecchiature».

Tekadio Vangu Nolly, 40 anni, ha spiegato al Papa di aver contratto la lebbra quando aveva 21 anni: «iniziarono a venirmi delle macchie […] e mi sentivo sempre più debole, e per di più, poco a poco mi stavo anche trasformando in una persona che disturbava la tranquillità altrui. Piangevo e soffrivo, non solo nel corpo, ma soprattutto nel cuore […] la mia famiglia mi aveva ripudiato e, con la complicità di un guaritore, mi ero convinto di essere responsabile per quello che mi era capitato. Alcuni mi hanno accusato di essere uno stregone, ma come è possibile che uno stregone desideri il suo stesso male?».

Queste sono storie che, grazie a gruppi, associazioni, parrocchie, non sono finite nell’esclusione, perché vi sono anche «persone che non hanno girato la faccia dall’altra parte quando hanno attraversato la nostra strada».

Il Papa ha ripetuto: «Grazie per tutto quello che fate! In questo paese, dove c’è tanta violenza, che rimbomba come il tonfo fragoroso di un albero abbattuto, voi siete la foresta che cresce ogni giorno in silenzio e rende l’aria migliore, respirabile […]. Non mi avete fatto un elenco di problemi sociali, enumerato dati sulla povertà, ma mi avete fatto incontrare nomi e volti».

Poi, il Papa ha proseguito: «Mi sono chiesto: ma vale la pena impegnarsi di fronte a un oceano di bisogno in costante e drammatico aumento? Non è un darsi da fare vano, oltre che spesso sconfortante? Voi mi avete detto: ne vale la pena e c’è bisogno che soprattutto i giovani vedano questo. Volti che superano l’indifferenza guardando le persone negli occhi, mani che non imbracciano armi e non maneggiano soldi, ma si protendono verso chi sta a terra e lo rialzano alla sua dignità».

In tre giorni il Papa ha fatto il possibile. Purtroppo però le risorse e la classe dirigente continuano a essere una sfida per il Paese: nell’Assemblea nazionale (parlamento, ndr) sono presenti molti deputati condannati per corruzione e molti altri vengono da posizioni di comando in gruppi ribelli, gente in abiti civili, ma dalla mentalità incline all’uso della forza e della sopraffazione: «Schiacciare o comprare».

«A Kinshasa (e in Congo) la vita non è facile, ma – spiega il gesuita Olivier Mushamuka – abbiamo capito che se vogliamo fare una cosa la possiamo fare, siamo capaci». Alla fine, secondo alcuni commentatori, le parole del Papa «cadranno nel vuoto, i potenti sono impermeabili». Per altri «forse tra i grandi sarà così, ma per la gente il viaggio è stato importante e continuerà nel tempo a dare i suoi frutti».

Fabrizio Floris*

 *Laureato in economia, dottore di ricerca in sociologia, ha insegnato Antropologia economica presso la Facoltà di Lettere e filosofia dell’Università di Torino e Sociologia generale presso le Università di Milano e Betlemme. Tra le sue pubblicazioni: Periferie esistenziali. Da rispettare, superare, distruggere, Robin&Sons, 2018; Gino Filippini. Uomo per gli altri, Gabrielli, 2021 e Il traffico delle vite. La tratta, lo sfruttamento e le organizzazioni criminali, Franco Angeli, 2022.

 




Congo RD: Perché abbiano la vita


Fratel Domenico, missionario della Consolata, da 37 anni spende la sua vita per le popolazioni che vivono in una delle zone più martoriate del mondo, nel Nord del Congo. Tra malati, bimbi malnutriti, persone con disabilità, poveri, carcerati, studenti.

Fratel Domenico Bugatti, da 37 anni, esattamente la metà della sua vita, opera in una delle zone più martoriate del mondo. Si spende tra le popolazioni dell’Alto Uélé, provincia a Nord Est della Repubblica democratica del Congo, al confine con il Sud Sudan e il Centrafrica.

È stato prima a Neisu, poi a Doruma, infine, da 22 anni, a Isiro.

Tra le molte cose che racconta con tranquilla pacatezza, ci sono anche due fughe in foresta per sfuggire ai gruppi armati, e un assalto notturno di ribelli sudanesi, decisi a saccheggiare la missione e poi scacciati con le armi dalla gente del villaggio.

Incontriamo fratel Domenico a Torino, durante una sua «vacanza» obbligata per piccole questioni di salute. Scalpita per poter tornare nel suo Congo, dai «suoi» bambini del centro nutrizionale Gajen e delle scuole, dalle «sue» persone con disabilità per le quali costruisce speciali carrozzine inventate da lui, dai detenuti del carcere costretti a vivere in condizioni spaventose, dalle persone malate alle quali offre le sue competenze infermieristiche. Gli chiediamo di raccontarci di sé.

Tra Italia e Canada

Nato nella frazione Sant’Apollonio di Lumezzane, Brescia, il 5 ottobre 1947, fratel Domenico è entrato nel seminario dei Missionari della Consolata nel 1959.

«Cinquanta anni fa – racconta -, arrivavano nei nostri paesi i missionari. Facevano animazione, e chi voleva iscriversi, si iscriveva. Io mi sono legato a uno di loro, allora sono entrato nel seminario di Bevera. Lì ho fatto due anni».

Fratel Domenico porta sul viso due larghi occhiali con spesse lenti che mettono in risalto i suoi occhi timidi. Tra i bottoni chiusi della sua polo blu, sbuca una piccola croce di legno con un foro al centro a forma di cuore.

Sembra un po’ a disagio. Non sappiamo se per la mascherina alla quale forse non è molto abituato e che si aggiusta continuamente sul naso, o per il fatto stesso di dover parlare di sé, incalzato dalle nostre domande.

Appare un po’ schivo, benché di cose da raccontare ne abbia molte, e anche di avventurose.

«Quando avevo 14 anni, nel ’61, sono andato ad Alpignano (Torino) per fare la scuola di avviamento. Lì ho fatto i tre anni di formazione come falegname e calzolaio. Poi sono andato in noviziato alla Certosa di Pesio. Eravamo in tre. Uno era un laico che lavorava già da tempo in Kenya.

A 18 anni, nel 1965, sono andato a Milano per fare animazione missionaria. Sono rimasto lì fino al ‘70. Poi sono tornato ad Alpignano. Nel 1972, il superiore mi ha chiesto se ero disponibile ad andare in Canada, nel Québec. Io pensavo da sempre all’Africa, però ho detto di sì, e ci sono andato per lavorare nella procura (un ufficio che curava la raccolta e la spedizione di tutti gli aiuti alle missioni nei paesi più poveri, ndr). Allo stesso tempo seguivo gli studenti del seminario, che ai tempi erano 35-40.

Nel 1977 sono tornato in Italia, e ho fatto un corso di infermieristica. Ho dato una mano a padre Saverio Dalla Vecchia per iniziare la futura casa per anziani di Alpignano. In Casa Madre a Torino, infatti, c’erano già diversi missionari anziani e malati. Ci sono rimasto fino al 1984».

La scoperta del Congo

Quando finalmente i superiori hanno proposto a fratel Domenico di partire per l’Africa, aveva 37 anni. È stato inviato in Congo, allora Zaire, a Neisu, nella zona Nord orientale del paese, in una missione tra la popolazione di etnia mangbetu fondata nel 1981 nella foresta dai suoi confratelli padre Antonello Rossi a padre Oscar Goapper.

Quest’ultimo, morto prematuramente nel 1999, all’età di 47 anni, era un missionario della Consolata argentino con la passione per la medicina.

«A Neisu si trattava di aprire un ospedale – continua il suo racconto fratel Domenico -. Padre Oscar, infatti, si era trovato con tanti casi di malattia, e lui, con un medico, ha organizzato un ospedale. All’inizio era un insieme di case in fango.

Alla fine, Oscar è riuscito a fare dei corsi universitari a Milano, ed è diventato medico lui stesso.

Quando sono arrivato io, mi ha detto: “Qui infermieri ce ne sono già. Tu occupati della costruzione”. Allora ho iniziato a costruire, e ho fatto i padiglioni della parte centrale dell’ospedale. Chi è venuto dopo di me, ha aggiunto attorno altre costruzioni. Sono stato lì 8 anni».

Oggi, l’Ospedale Notre Dame de la Consolata, sviluppato partendo dal preesistente ambulatorio, è una struttura che dispone di 150 posti letto, punto di riferimento per l’assistenza sanitaria di tutta la zona, anche grazie alla sua rete di postazioni sanitarie distribuite in diversi villaggi nel folto della foresta (cfr. Amico nei n. 3 e 5 di MC 2021).

A Doruma nella guerra

Nel 1993, fratel Domenico si è spostato presso il popolo Zande, a Doruma, un grosso villaggio importante snodo per il commercio a tre chilometri dal confine con il Sudan, allora preso nella guerra civile che in seguito avrebbe portato alla nascita dell’attuale Sud Sudan.

«A Doruma c’erano molti profughi sudanesi assistiti dall’Unhcr. Noi eravamo in una missione costruita a inizio Novecento dai domenicani, dove noi della Consolata siamo arrivati nel 1973 – racconta il missionario -. Quando sono arrivato lì, mi occupavo dell’economia e della manutenzione. Ci sono stato cinque anni, prima che fossimo costretti a venire via. I primi tre sono stati abbastanza calmi. Poi, nel 1997, Mobutu (l’allora presidente dello Zaire, ndr.) è stato spodestato da Laurent Désiré Kabila, durante la cosiddetta prima guerra del Congo. Le frontiere non sono state più controllate, e i ribelli del Sudan hanno iniziato a entrare».

È uno dei molti risvolti della crisi dei Grandi Laghi che negli anni Novanta e seguenti avrebbe provocato milioni di morti in diversi paesi dell’area.

La missione di Doruma ha così vissuto momenti drammatici, venendo più volte saccheggiata, sia dall’esercito governativo che dalle forze ribelli del Sud Sudan (Spla).

«Un giorno sono arrivati: prima i militari congolesi che scappavano verso il Centrafrica. Poi i ruandesi e gli ugandesi che inseguivano i congolesi. Noi ci siamo rifugiati tre settimane nella foresta insieme alla gente. C’era con me padre Ferdinando Paladini, il padre congolese Honoré
Tsiditeta e le suore agostiniane.

Alla fine padre Stefano Camerlengo, che era il nostro superiore  in quegli anni, è riuscito a organizzare con altre congregazioni una piccola spedizione, e quindi siamo potuti a venire via. Siamo arrivati a Kinshasa passando da Isiro e Kisangani».

I fucili puntati addosso

«Era il 1998. Quando siamo arrivati a Kinshasa – continua fratel Domenico, sorridendo, come se stesse raccontando di una vacanza al mare -, la notte stessa siamo partiti per Madrid, perché le ambasciate avevano detto di evacuare. Sono tornato un po’ a casa e poi ad Alpignano».

Dopo tre mesi, le cose in Congo sembrava che stessero cambiando. Allora fratel Domenico e padre Rinaldo Do, che era superiore della missione di Doruma, sono rientrati in Congo. Ma la crisi era lontana dal finire: «Se prima c’erano i militari congolesi – continua il fratello missionario -, ora c’erano i ribelli sudanesi che arrivavano d’improvviso e prendevano quello che potevano.

Ci è toccato stare ancora un mese in foresta. Io e padre
Rinaldo abbiamo vissuto grazie ai cristiani che ci hanno dato una capanna e un po’ di cibo.

Dopo un mese, siamo rientrati alla missione. Era l’inizio del 1999. Poco tempo dopo, una sera, è arrivato da noi il nostro superiore provinciale che da mesi voleva venire. Ha parcheggiato la macchina piena di vettovaglie nella missione. Di notte sembrava tutto tranquillo, ma poi, alle 4 del mattino, ci siamo ritrovati circondati dai ribelli sudanesi.

Bussavano alle porte e ci facevano uscire puntandoci i fucili addosso. Ci hanno fatti sedere sui gradini della casa di fronte alla chiesa e hanno iniziato a portare via tutto quello che c’era.

Abbiamo passato più di un’ora così. A quel punto è arrivato qualcuno dal villaggio e ha incominciato a sparare. I ribelli hanno pensato che fossero i militari, allora hanno preso tutto quello che potevano e hanno iniziato a fuggire, tirando anche delle granate per proteggersi. Noi ci siamo nascosti dove potevamo, e siamo stati un’altra ora lì, senza sapere cosa fare. Poi siamo usciti dai nostri nascondigli e abbiamo visto che i ribelli non erano riusciti a prendere l’auto con cui era arrivato il superiore. Allora lui ci ha detto: “Qui bisogna partire, non c’è più sicurezza”. Ha lasciato la missione in mano alla catechista e a un prete diocesano che era arrivato lì per un po’ di vacanza, e noi siamo saliti sull’auto e siamo partiti, così come eravamo, cercando di non fare troppo rumore. Siamo arrivati a Isiro, a 300 km di strada sterrata, il giorno dopo».

Nuova vita a Isiro

Dopo quella fuga, fratel Domenico non è più tornato nella missione di Doruma, che adesso è gestita da sacerdoti locali, ed è stato assegnato alla comunità Imc di Isiro, cittadina che attualmente si stima conti più di 200mila abitanti, capitale del Distretto dell’Alto Uélé.

L’associazione Cuore Amico, che nel 2015 gli ha conferito il «premio Cuore Amico» come figura esemplare di missionario, descrive così il suo impegno nella nuova missione: «Da subito si occupa della realizzazione di un centro nutrizionale d’appoggio ai moltissimi bambini e giovani con gravi carenze alimentari che affollano le strade della cittadina, vittime degli effetti della guerra.

Partendo da un terreno con una costruzione non terminata, fratel Domenico realizza il Centro di alimentazione Gajen che oggi funziona a pieno ritmo: fornisce alimenti per bambini e malati, effettua visite mediche, attività di laboratorio e farmacia, dà gratuitamente medicine. Le attività del Centro non si fermano all’alimentazione e all’assistenza sanitaria: vi si organizzano corsi di igiene e formazione per le mamme, visite negli ospedali o centri di salute per aiutare piccoli e poveri, accoglienza e aiuto a bambini, ragazzi e giovani non scolarizzati, per i quali si paga la retta scolastica mensile; si realizzano attività sportive, vi si costruiscono biciclette per portatori di handicap, vi si organizzano corsi di alfabetizzazione e promozione della donna, vi si vendono pane e biscotti grazie alla costruzione di un piccolo forno.

Una volta la settimana, il Centro accoglie oltre 200 poveri, ai quali viene dato un po’ di riso, sapone, sale e qualche soldo […].

A partire dal 2005 costruisce e ristruttura la Maison père Oscar, una casa per studenti provenienti dalle missioni della Consolata che frequentano le scuole superiori e universitarie di Isiro. Sorge accanto alla clinica universitaria ed ha al suo interno una biblioteca, aperta a tutti gli studenti della città, e un auditorium. La Maison ospita il dipartimento di Scienze religiose per la formazione di insegnanti di religione, agenti di pastorale e diaconi permanenti. L’iniziativa vuole essere un contributo per elevare la situazione culturale della popolazione, un piccolo tassello per costruire la pace, il dono più desiderato dai congolesi».

Il centro Gajen

«Quando sono arrivato a Isiro – prosegue fratel Domenico -, c’era padre José Ariel Hoyos
Zuluaga, che sarebbe morto nel 2013. Con lui abbiamo cominciato ad accogliere i bambini malnutriti. A padre Ariel è succeduto padre Rinaldo Do. Abbiamo comprato dei terreni e, un po’ per volta, abbiamo organizzato il centro nutrizionale che abbiamo chiamato Gajen: Groupe d’appui aux jeunes et aux enfants nécessiteaux (Gruppo d’appoggio a giovani e bambini bisognosi)».

Fratel Domenico ha costruito poi il dispensario, una sala per l’osservazione con dei letti, il laboratorio, la farmacia, la cucina.

«All’inizio avevamo quattro infermieri, oggi abbiamo due infermieri e un pediatra. Abbiamo salvato qualche centinaio di bambini… forse qualche migliaio. E continuiamo. I bambini vengono con le mamme al mattino, tutti i giorni, per due o tre mesi, alcuni anche per quattro o cinque mesi. Fanno colazione, e un controllo. Una volta che hanno preso le medicine, verso mezzogiorno diamo loro un pasto abbondante. Ne mangiano una parte, e l’altra parte la portano a casa. Stanno da noi fino all’una, poi tornano a casa con le mamme».

Quando ci sono casi di bambini con altre malattie, ad esempio l’Aids, fratel Domenico li manda all’ospedale generale di Isiro o all’ospedale di Neisu, a 30 km.

Scuole, carrozzine, carcere

In questi 22 anni a Isiro, fratel Domenico ha espresso tutte le potenzialità dei suoi talenti. Oltre al centro Gajen, si è occupato di persone con disabilità, costruendo quasi 200 carrozzine con pezzi di biciclette e tubi reperibili sul mercato locale; si è preoccupato di offrire un alloggio agli studenti che arrivano dalle missioni Imc della zona. «Poi ho iniziato ad andare nelle prigioni: visitiamo i carcerati e portiamo cibo e medicine. È un carcere fatto come al tempo dei belgi: uno di quei capannoni che, quando c’era la colonia, servivano per le piantagioni di caffè e cotone. I carcerati stanno nel capannone così, senza letti, senza stanze, sdraiati a terra… una cosa impossibile. Se uno non vede, non ci può credere.

Io e padre Rinaldo, qualche tempo fa, abbiamo fatto una settantina di letti per portarli al carcere. Ma sono spariti tutti dopo poco tempo. Venduti: materassi e letti. A quel punto abbiamo continuato a portare solo gli alimenti e le medicine».

Un’altra delle cose di cui si occupa fratel Domenico è la conduzione della scuola materna e della scuola primaria per i bambini del centro nutrizionale. «Le scuole devono essere autosufficienti, quindi chiediamo una retta per i bambini. Lo stato dice di voler dare qualcosa, ma alla fine non dà niente. Le scuole si reggono con le rette degli studenti e gli aiuti dall’Italia. Il centro nutrizionale invece è un servizio completamente gratuito».

Il problema del Congo

Chiediamo a fratel Domenico come ha visto cambiare in questi 37 anni il Congo. «Il paese ha sofferto molto. Il suo problema è la sua ricchezza. Tutte queste guerre che ci sono, sono per il sottosuolo. I paesi limitrofi cercano di prendersene una parte: come il coltan, ad esempio, poi i diamanti, l’oro. A Isiro, nel sottosuolo, c’è molto ferro. Adesso non ci sono cave, ma il giorno che ci sarà bisogno di ferro, le faranno. Ci sono dappertutto compagnie straniere che estraggono minerali. La guerra in Nord Kivu è dovuta a questo, alla sua ricchezza. Cercano di eliminare la gente facendola partire o uccidendola. Ammazzano senza pietà. E la gente scappa».

Infine, gli chiediamo quali sono state le soddisfazioni e le difficoltà della sua missione: «La difficoltà, è quella di capire come andare avanti economicamente con la nostra opera. La soddisfazione, invece, è quella di poter vedere in giro i bambini che abbiamo salvato, che sono tanti, che magari erano arrivati al centro nutrizionale mezzi morti. Piano piano li abbiamo fatti riprendere. Alle volte sono figli di ragazze madri. La soddisfazione è questa: che lo scopo che ci siamo prefissi, cioè quello di aiutare, è realizzato».

Luca Lorusso




Con due anni di ritardo il Congo va al voto


Nella Repubblica democratica del Congo il mandato di Joseph Kabila è scaduto a dicembre 2016. Ma le elezioni sono state rimandate più volte. Finalmente la macchina organizzativa è in moto per realizzarle il 23 dicembre. Kabila ha deciso (a sorpresa) di rispettare la legge e non candidarsi alla presidenza. Però manda avanti un suo delfino e intanto ostacola gli oppositori. Sarà una tattica alla Putin?

Nessuno ci avrebbe scommesso. Si è dovuta attendere la sera dell’8 agosto (scadenza per la presentazione dei candidati alle presidenziali) per averne la certezza: Joseph Kabila non si è ricandidato. Dopo quasi due anni di balletti, slittamenti, bugie, sotterfugi e silenzi, tutto il paese temeva che il presidente, ancora assiso sullo scranno più alto nonostante il suo mandato sia scaduto nel dicembre 2016, avrebbe trovato qualche scappatornia legale, oppure avrebbe forzato le norme vigenti, pur di non abbandonare il potere. Del resto «così fan tutti» in Africa centrale. Dal Rwanda al Congo Brazzaville, passando per il Burundi e l’Uganda, i presidenti-padroni non mollano. E si temeva che Kabila, al potere dal 2001, non sarebbe stato da meno.

E invece no. Stavolta si andrà al voto senza di lui. Il suo partito, il Pprd (Parti du peuple pour la reconstruction et la democratie, partito del popolo per la ricostruzione e la democrazia), ha tenuto frenetiche riunioni fino all’ultimo giorno utile per presentare e registrare i candidati alle prossime elezioni presidenziali, fissate per il 23 dicembre. E alla fine dal cilindro è saltato fuori il nome del delfino designato: per la maggioranza presidenziale, a correre sarà Emmanuel Ramazani Shadary. Non a caso, forse (conoscendo un po’ le dietrologie di molti palazzi nella regione), tale candidatura è stata ufficializzata l’8 agosto 2018.

Emmanuel Ramazani Shadary / AFP PHOTO / Junior D. KANNAH

Il delfino del presidente

Cinquantasette anni, originario di Kabambare nella regione del Maniema (Est), da febbraio segretario permanente del Pprd, Shadary è stato ufficialmente designato candidato presidente per la coalizione Fcc (Front Commun pour le Congo, Fronte comune per il Congo), piattaforma elettorale di Kabila e dei suoi alleati. Come ricorda la rivista Jeune Afrique, Shadary è stato vice premier e ministro dell’Interno, ma soprattutto è stato colpito dalle sanzioni dell’Unione europea dal maggio 2017 per «ostacoli al processo elettorale e violazione dei diritti dell’uomo»: era infatti ministro dell’Interno e responsabile dei servizi di sicurezza durante la sanguinosa repressione delle manifestazioni anti Kabila e anti terzo mandato. A lui va attribuita anche la recente riforma elettorale, ritenuta favorevole al campo di Kabila, che autorizza in particolare l’uso delle «machines à voter» (macchine per votare), un esperimento che dovrebbe portare al voto elettronico sessanta milioni di abitanti spesso senza istruzione e senza alcun accesso a internet e ai moderni mezzi di comunicazione.

Ancora, Shadary era in carica durante la crisi nel Kasai, quando lo scorso anno la regione subì una fiammata di feroce violenza attribuita ai miliziani di Kamuina Nsapu, ma i cui contorni non sono mai stati chiariti e dove ha giocato un ruolo poco limpido l’esercito regolare, inviato a sedare la rivolta ma macchiatosi di esecuzioni sommarie. Ricordiamo fra gli altri il clamoroso e oscuro assassinio di due esperti delle Nazioni Unite, Zaida Catalan e Michael Sharp, che stavano investigando su numerose fosse comuni. Inchieste giornalistiche approfondite hanno portato all’evidenza elementi che mostrerebbero la complicità del governo nell’eliminazione dei due giovani internazionali.

Insomma, con un curriculum così, non c’è molto da stare tranquilli: il delfino di Kabila dimostra di essere «all’altezza» – si fa per dire – del suo predecessore e di volerne portare avanti lo «stile» di governo. Eppure, quando ne è stata ufficializzata la candidatura, tutti hanno tirato un sospiro di sollievo. Un paradosso, se vogliamo, che la dice lunga sulla situazione politica della Repubblica Democratica del Congo: gioire per la candidatura di un uomo colpito da sanzioni internazionali, semplicemente perché – quanto meno – la sua scelta ha garantito la non ricandidatura del suo capo.

Il presidente Joseph Kabila durante la  conferenza stampa del26 gennaio 2018 a Kinshasa. / AFP PHOTO / Thomas NICOLON / ALTERNATIVE CROP

Un candidato fantoccio?

Ora si apre tutta un’altra serie di valutazioni: quanta libertà di movimento avrà Shadary? Perché è stato scelto lui rispetto ad altri, più noti e più attesi, fra i fedelissimi di Kabila? Sarà una marionetta nelle mani di Kabila? Perché quest’ultimo, alla fine, ha accettato di non ripresentarsi? È presto per dirlo. Di certo, prima di giungere a questa mossa un po’ a sorpresa, Kabila ha agito per pararsi le spalle da conseguenze nefaste. Una volta tornato privato cittadino, infatti, nulla lo metterebbe al riparo da una denuncia alla Corte penale internazionale dell’Aja. Troppi i crimini a lui ascrivibili commessi negli anni che lo hanno visto padre padrone del Congo. All’interno del paese, tuttavia, non avrà problemi, poiché in base alla Costituzione diverrà automaticamente senatore a vita, con annessa immunità parlamentare. Non pago di ciò, a luglio ha fatto votare al parlamento una legge che gli garantisce anche tutta una serie di benefit e prebende.

Fedeli cattolici durante le proteste anti Kabila / AFP PHOTO / John WESSELS

Oppositori indesiderati

Dal canto suo, l’opposizione è ancora in fase di organizzazione.

L’ultima mossa dell’uscente Kabila è stata infatti quella di impedire la registrazione nell’elenco dei candidati presidenti a Moise Katumbi, quello che negli ultimi anni è stato il suo avversario numero uno. Ex governatore del Katanga, uomo ricchissimo, figlio di un greco ebreo sefardita e di una congolese, sposato con una burundo-ruandese tutsi (figlia di un ex ambasciatore ruandese in Belgio), Katumbi aveva già subìto tentativi di delegittimazione nel 2015, quando aveva lasciato la maggioranza presidenziale e il ruolo di governatore per predisporsi alla candidatura alle presidenziali. Nel 2016 fu prima aggredito da un poliziotto che tentò (pare) di avvelenarlo, poi condannato, in contumacia, a 36 mesi di detenzione «per la vendita di una casa non di sua proprietà», costringendolo a rimanere all’estero (dove era precipitosamente corso per farsi curare dal tentativo di avvelenamento) per evitare l’incarcerazione. Il 2 gennaio 2018 ufficializzò la sua candidatura alle presidenziali e il giorno dopo la sua residenza di Lubumbashi venne circondata dalla polizia, che lo accusava di arruolamento di mercenari. Katumbi ha sempre negato la fondatezza di questa accusa, sostenendo di aver semplicemente assunto una vigilanza privata per la sua sicurezza personale. Ma le accuse non erano finite: a maggio venne incolpato di sostenere la ribellione anti Kabila e addirittura di essere dietro l’epidemia di ebola scoppiata nella provincia dell’Equateur. A giugno le autorità congolesi gli revocarono il passaporto, causando il suo arresto a Bruxelles, mentre stava per prendere un aereo. Nel frattempo, in patria e nella diaspora circolavano le voci più disparate sulla sua nazionalità (addirittura dicevano che avesse un passaporto italiano). Insomma, una vera persecuzione mirata a indebolirlo e soprattutto a tenerlo lontano dal paese.

Fino al 3 agosto, quando, giunto in Zambia per entrare in Rdc e andare a registrarsi come candidato presidente, è stato bloccato alla frontiera per giorni, fino alla chiusura delle candidature. Una plateale scorrettezza, che lo ha per ora di fatto escluso dalla corsa, salvo sorprese.

Sul fiume Congo / foto Ennio Massignan

Il ritorno di Bemba

Una sorpresa, invece, è stato il (breve) ritorno in campo del rivale storico di Kabila, Jean-Pierre Bemba: nel 2006 era andato al ballottaggio contro il presidente uscente. La partita si era giocata anche a colpi di cannone. In quei giorni di settembre 2006 ero a Kinshasa e me lo ricordo bene: il centro città fu ostaggio delle truppe fedeli ai due, entrambi autodichiarati vincitori, che si fronteggiavano con armi pesanti e carri armati. Alla fine, Kabila ebbe la meglio. E Bemba cadde nelle maglie della giustizia internazionale, che lo portò a processo all’Aja per crimini contro l’umanità.

Bemba è figlio di un ricco industriale mobutista e per anni aveva avuto le sue truppe personali: un vero signore della guerra. Le sue milizie si erano macchiate di crimini orrendi nell’Est del Congo. Eppure, curiosamente, finì sotto accusa come responsabile per altri misfatti, che i suoi uomini avevano commesso in Repubblica Centrafricana. Bemba fu condannato in primo grado nel 2016 a 18 anni di carcere. Fino a che – a sorpresa – lo scorso 8 giugno la stessa corte lo assolse in appello. Una sorta di autorizzazione a rimettersi in gioco. Sta di fatto che Jean-Pierre Bemba è uscito dal carcere, ha potuto rientrare in Rdc e presentare la propria candidatura, insieme ad altre 24 persone. Fra i più noti, Félix Tshisekedi (figlio dell’eterno oppositore Etienne, deceduto un anno fa), Vital Kamerhe, Adolphe Muzito, Antornine Gizenga. Di Katumbi abbiamo detto. Per inciso, su 25 candidati, una sola è donna.

Ma mentre le opposizioni cercano la quadra per fare fronte comune e provare a sconfiggere la maggioranza presidenziale (la legge elettorale vigente, modificata da Kabila nel 2011 per garantirsi il secondo mandato, esclude infatti il ballottaggio: chi prende più voti al primo turno vince, anche con un venti per cento), ecco il nuovo colpo di scena: la Ceni (Commissione elettorale nazionale indipendente) boccia sei candidature, tra le quali proprio Bemba, che è stato sì prosciolto dall’accusa principale all’Aja, ma ha ancora pendente un giudizio secondario per corruzione di testimoni. Quindi, secondo la legge, non candidabile. E infatti, dopo la sua esclusione dalle liste elettorali, dall’Aja giunge il 17 settembre una condanna a 12 mesi per subornazione di testimoni.

E così, con una scusa o l’altra, gli avversari più temibili sono neutralizzati.

Giusy Baioni


Elezioni legislative

La macchina per il voto

Uno dei punti più discussi del programma elettorale riguarda la cosiddetta machine à voter: il 23 dicembre si dovrebbe infatti andare alle urne col voto elettronico. L’annuncio era stato dato il 31 dicembre 2017 da Corneille Nangaa, presidente della Commissione elettorale nazionale indipendente (Ceni). E aveva da subito creato scompiglio. Il timore di brogli è forte e ha portato le opposizioni e anche la Cenco (Conferenza episcopale nazionale congolese) a chiedere alla Ceni di rinunciarvi. Quest’ultima non cede, sostenendo che senza tale dispositivo elettronico non si farebbe in tempo a organizzare le elezioni per il 23 dicembre e che la macchina farebbe risparmiare denaro, oltre che tempo.

La nuova macchina per votare. / AFP PHOTO / John WESSELS

Prodotto dalla sudcoreana Miru Systems, è curioso che la stessa ambasciata sudcoreana a Kinshasa si sia presa la briga di sconsigliarne l’uso, per i rischi di irregolarità. Lo stesso dispositivo era stato preso in considerazione dal governo argentino per le elezioni del 2016, ma alcune organizzazioni della società civile si erano mobilitate contro tale ipotesi. Ingaggiando un hacker, avevano dimostrato che era possibile addirittura modificare il voto espresso dal singolo elettore mediante una semplice app sul cellulare. Le stesse associazioni (Fundación vía libre e Poder ciudadano) lo scorso aprile hanno scritto una lettera aperta alla società civile congolese, spiegando tutte le criticità del voto elettronico.

Ecco come funziona: sullo schermo touchscreen della machine à voter saranno visibili le foto dei candidati sia alla presidenza che alle elezioni legislative e provinciali. Il votante selezionerà una persona per ciascuna delle tre elezioni contemporanee e il dispositivo stamperà una scheda col relativo voto all’interno.

Per l’Argentina si trattava di un microchip inserito nella scheda (che l’hacker aveva potuto facilmente clonare e modificare), mentre nel caso congolese il presidente della Ceni Nangaa ha affermato che le schede non conterranno un microchip, troppo costoso, ma un più economico codice QR. Le associazioni argentine obiettano che il votante non è in grado di interpretare detto codice che – teoricamente – potrebbe anche corrispondere a tutt’altro, oppure permettere di identificare il votante. Insomma, nessuna garanzia di segretezza e validità. L’unica cosa certa è che tutte le opposizioni rigettano questo sistema di voto. E chi lo ha provato (fra gli altri, Bemba) ha impiegato parecchio tempo e ha affermato che è troppo complicato.

Ma non basta: una notizia del 14 luglio riportata dall’emittente nazionale Radio Okapi dà l’idea di quali e quanti rischi si stiano correndo. L’articolo titolava «Isangi: una baleniera immobilizzata dopo la scomparsa di una macchina per votare» e raccontava della collera dei commercianti bloccati con le loro merci su un mercantile fluviale, a causa della sparizione di una parte di un lotto che veniva inviato da Kisangani alla provincia della Tshopo per la sensibilizzazione pre voto. Non è dato sapere se sia stata ritrovata, quel che è certo è che il lotto viaggiava senza alcun controllo e che in un paese grande come l’Europa Occidentale tali episodi potrebbero ripetersi più e più volte.

Forte la preoccupazione espressa dall’Onu e secondo le opposizioni tale dispositivo potrebbe divenire fonte di contrasto anche post elettorale.

Giusy Baioni

Il Congo è in balia a una violenza diffusa / foto Irin




Congo RD: Denis Mukwege, il medico che ripara le donne

Testo di Mario Ghirardi |


È un medico africano, come tanti altri. Ma lui decide di restare nella sua terra, il Kivu, e di curare le donne vittime di violenze inaudite. Diventa il massimo esperto mondiale in materia. Rischia in prima persona, perde amici e stretti collaboratori in attentati. Si guadagna il soprannome di «medico che ripara le donne».

Denis Mukwege parla con ritmo cadenzato e con toni di voce pacati. Racconta della Repubblica Democratica del Congo (Congo Rd), di golpe militari, di mercenari senza scrupoli, di stupri elevati a sistematica arma di guerra, di minerali insanguinati, di coltan, di un’Europa spesso alla finestra, di bambini che muoiono in miniera perché noi possiamo lavorare o trastullarci con il telefonino. Mi viene voglia di scagliare lontano lo smartphone che pure in questo momento è il mio strumento di lavoro per registrare e fotografare. Ma sarebbe inutile e forse anche dannoso, visto che i telefonini andrebbero smaltiti ben diversamente.

Per capire l’accorato appello del dott. Mukwege, dobbiamo partire dal suo passato: laureato in medicina in Francia, è tornato in Africa, nella sua regione natale, il Kivu, attorno ai Grandi Laghi, per combattere una battaglia che è poi diventata bandiera di chi vuole scuotere l’opinione pubblica mondiale di fronte a un massacro che ha già coinvolto milioni di vite umane e che in quei luoghi, a cavallo dell’equatore, dura da decenni.

Il dottor Denis Mukwege (di Mario Ghirardi)

L’ostinazione premiata

La scintilla dell’impegno sociale a 360 gradi di questo cortese professionista, diventato oggi punto di riferimento anche politico, scattò quando si trovò, stesa sul tavolo operatorio del reparto di ginecologia dell’ospedale da campo da lui creato a Panzi, ai confini orientali della Congo Rd, una ragazza che aveva fatto nascere egli stesso una dozzina d’anni prima. Era stata orrendamente stuprata come centinaia di altre sue coetanee. Nel 1989 fece il suo primo tentativo di dare corpo a un reparto ospedaliero di maternità a Lemera. Distrutto dalla guerra. Ne fece un altro a Bukavu, sua città natale. Distrutto anch’esso. Infine ne mise in piedi uno a Panzi, dove dal 1999 ha curato ben 50mila donne. Un numero enorme, vittime di stupri e di violenze sessuali di ogni genere, la gran parte con ferite di arma da fuoco ai genitali.

«Identifico ognuna di loro con mia moglie», commenta. In questo trova la forza morale di proseguire nella sua opera, anche oggi che ha compiuto il giro di boa dei 60 anni.

Ormai il dottor Mukwege, soprannominato «l’uomo che ripara le donne», è riconosciuto come uno dei più grandi esperti a livello internazionale nel trattamento dei danni patologici e psicosociali provocati dalla violenza sessuale praticata in Congo Rd in modo sistematico. Un’arma di guerra per colpire le donne nell’intimo del loro essere, distruggere simbolicamente il futuro mutilando gli organi genitali con ogni tipo di oggetti inseriti nella vagina, anche di bimbe di pochi mesi, e praticando tagli ai seni. Squartare donne incinte e seppellirle ancora vive è un altro atto ricorrente durante le incursioni delle bande armate. Tanta crudeltà ha lo scopo preciso e immediato di annientare sul nascere qualsiasi tentativo di ribellione dei villaggi, facendo sprofondare anche gli uomini in uno stato di sudditanza.

Miniera di cobalto (CC Fairphone)

Impunità totale

Pochissimi denunciano le violenze, non solo per la paura delle ritorsioni e dello stigma sociale, ma anche perché i casi in cui i tribunali hanno fatto giustizia sono sinora rari, visto che queste soldataglie senza volto aggrediscono i villaggi sconfinando dagli stati vicini e si spostano senza sosta. Un dato: a fronte di 15mila accuse formali, le condanne sono state 12. «Il silenzio è alleato degli stupratori – afferma Mukwege -. La vittima tace per vergogna e per paura di essere discriminata. Io devo combattere al loro fianco perché le donne sono forti, sono capaci di vivere per gli altri. Ho curato 50mila donne, ma pensiamo sempre che dietro a un numero c’è un essere umano, è questa consapevolezza che deve farci reagire. Avevo un successore, Gildo Byamungu Magaju, direttore dell’ospedale di Kasenga, l’hanno assassinato a fine aprile dell’anno scorso. Tuttavia non mi fermerò».

Oltre la medicina

Con mariti e figli traumatizzati, le donne, che in Africa continuano a essere il perno su cui ruota la vita sociale, sono costrette ad abbandonare famiglia e lavoro, portando con sé quelle profonde ferite che soltanto un personaggio come Mukwege è in grado di lenire.

Il suo aiuto oggi sta andando persino oltre, affiancandole nella ricerca di nuove competenze lavorative, offrendo l’opportunità alle più giovani di tornare a scuola e dando loro appoggio se intendono rivolgersi alla giustizia. Scelte pagate letteralmente sulla propria pelle. Mukwege è stato vittima di attentati, tra cui quello in cui è stata assassinata la sua guardia del corpo, e amico, Joseph Bizimana, e di irruzioni armate nella sua casa con minacce di morte e il rapimento della figlia. Costretto a fuggire in Scandinavia, è ritornato a Panzi non appena un gruppo di donne, che peraltro vivono con meno di un dollaro al giorno, hanno racimolato con una colletta i soldi per pagargli il viaggio aereo. È questo un comportamento che gli è valso il «Premio Sacharov per la libertà di pensiero», voluto trent’anni fa dall’Unione europea per celebrare il ricordo del fisico nucleare russo e assegnato ogni anno in riconoscimento di chi combatte la sua personale battaglia a favore dei diritti dell’uomo. E non è un caso se il primo a riceverlo fu Nelson Mandela.

Miniera a Kalimbi (CC Fairphone)

Radici storiche

Il motivo fondamentale per cui il Congo Rd è squassato da tanta violenza lo ha denunciato lo stesso Mukwege durante il suo discorso alle Nazioni Unite già nel 2012, poco prima dell’attentato: lo sfruttamento delle sue risorse minerarie. Fenomeno che risale almeno alla metà dell’800, quando il Congo fu acquisito come proprietà personale dal re del Belgio Leopoldo II. Sfruttamento che è costato almeno dieci milioni di morti. «Se il Congo è ormai da 25 anni una polveriera – commenta l’antropologo Luca Jourdan che abbiamo incontrato a fianco di Mukwege durante un suo tour italiano di sensibilizzazione dell’opinione pubblica organizzato dal torinese Centro di Studi Africani (Csa) – le cause risalgono proprio all’epoca coloniale, quando prima i traffici di schiavi e avorio, e poi quelli della gomma favorirono gli interessi sfrenati dei signori della guerra, che già allora terrorizzavano i villaggi mozzando le mani a chi non produceva i quantitativi stabiliti, come punizione e monito». I belgi non portarono civiltà. «I primi ammutinamenti dell’esercito – prosegue Jourdan – produssero il tentativo di secessione della regione del Katanga, poi la presa del potere da parte di Mobutu nel ’65, con l’esercito che fornisce quadri e ministri, ma senza che il dittatore si fidi dei suoi generali perché non li controlla. Oggi è il tempo di Joseph Kabila, delle elezioni promesse ma rinviate (la presidenza di Kabila è scaduta il 19 dicembre 2016, ma lui resta capo di stato)». L’esercito congolese è in realtà un attore della crisi, poiché non esiste una sola catena di comando. È un esercito integrato con le fazioni ribelli, però i gruppi non si mescolano, ognuno risponde ad un proprio capo. Il risultato è che i «warlords» spadroneggiano ognuno nel suo ambito, controllando, in accordo col governo, l’estrazione del coltan e degli altri minerali indispensabili all’industria dell’elettronica, che costano alla popolazione le violenze combattute da Mukwege.

Mario Ghirardi

 

Minatori a Kalimbi, Congo RD (CC Fairphone)


Miniere, eserciti e interessi globali

Stupri, figli del coltan

In Congo Rd permane una situazione di grande instabilità. In uno dei paesi con il sottosuolo più riccho al mondo, il 60% della popolazione vive nell’indigenza. Mentre nell’Est le milizie usano la violenza sulle donne come arma di guerra.

La regione congolese dei Grandi Laghi vive un conflitto internazionale tra i più complessi dell’Africa, aggravato dal precipitare della situazione nel confinante Burundi nel 2015, dai massacri nelle regioni del Kasai nel 2017 e dalla permanenza al potere in Congo Rd del presidente Joseph Kabila, ancora oggi, nonostante il suo mandato presidenziale sia scaduto nel 2016. La presa di posizione del dittatore nel far slittare le elezioni è tesa a voler accedere al suo terzo mandato presidenziale contro i dettami della Costituzione vigente che ha fatto saltare nell’anno anche la preannunciata visita di papa Francesco. Le ondate di profughi hanno alimentato ulteriori tensioni e conflitti tra gruppi armati ribelli per il controllo delle miniere superficiali. In esse uomini e bambini sono ridotti in schiavitù per l’estrazione del coltan, preziosissimo materiale, straordinariamente resistente al calore, senza il quale gli smartphone non potrebbero esistere e che qui si trova nelle maggiori concentrazioni al mondo (cfr. MC luglio 2015 e giugno 2016).

(CC Fairphone)

Il coltan, fondamentale anche per l’industria aerospaziale, fa gola a tutti, con i cinesi in prima linea alla ricerca di accordi commerciali, insieme a Stati Uniti ed Europa, per accaparrarsi quelli che sono ormai conosciuti come i «minerali insanguinati». La posta in gioco è altissima e nessuno vuole farsela scappare, ma il prezzo da pagare in termini di diritti umani è pure enorme, con vittime principali le donne e i bimbi anche di pochi mesi. Il Congo Rd ha arrestato la sua crescita economica, ma non demografica. È uno dei paesi più povero del pianeta con oltre 6 persone su 10 che vivono sotto la soglia di indigenza assoluta. I delitti sono in costante aumento, il numero di donne violentate supera il mezzo milione, con gli stupri usati come strumento per far nascere i figli dei vincitori oppure al contrario per rendere impossibile la nascita di una successiva generazione delle etnie sottomesse. Una situazione terribile attorno alla quale resta moltissimo da fare anche in termini di consapevolezza dell’opinione pubblica occidentale. Lo stupro di guerra come quello praticato in Kivu è stato riconosciuto infatti ufficialmente come crimine contro l’umanità e concausa di genocidio soltanto nel 2008, elaborando a livello legislativo con un ritardo smisurato quanto successe nel 1992, a danno dei bosniaci musulmani nell’allora Jugoslavia.

Chi estrae il coltan non gode di alcun diritto in cambio di un lavoro massacrante retribuito con spiccioli di dollaro. Bambini e uomini trasportano i secchi sulla testa sotto il sole a picco o sotto le piogge torrenziali, come schiavi di una società che non offre alcuna alternativa di sopravvivenza e nemmeno possibilità di scolarizzazione. I livelli di sicurezza sul lavoro sono infimi e si muore con facilità in quelle voragini della montagna, che diventano tombe, da cui i signori della guerra non si degnano nemmeno di portare alla luce i cadaveri per restituirli alle famiglie. La beffa sono i cartelli pubblicitari nei villaggi confinanti che promettono l’accesso gratuito a Facebook per tutti.

La tracciabilità dei materiali potrebbe essere un primo modo per limitare gli abusi. L’Unione europea nell’aprile scorso ha finalmente approvato un regolamento comunitario in questo senso, che però non sarà applicato prima del 2021. La normativa obbligherà tutti gli importatori europei di stagno, tungsteno, tantalio e oro a dichiarare le loro fonti di approvvigionamento con l’istituzione di un apposito registro e sistematici controlli sul rispetto degli obblighi di responsabilità, la cosiddetta «due diligence», in modo da mantenere elevati standard e garantire che non ci siano punti di contatto tra l’origine dei minerali e le bande armate. Dal patto però Bruxelles sembra aver escluso i minerali di cobalto, nonché il divieto di importazione di prodotti finiti che contengano il minerale, lasciando aperta la strada ai telefonini cinesi. Intanto contemporaneamente il presidente Usa Trump smantella il Dodd-Frank Act, un provvedimento per una volta in sintonia con quello adottato dalla Ue e promulgato dal predecessore Barack Obama nel 2010.

Mario Ghirardi

(CC Fairphone)

 Archivio MC:
Enrico Casale, Dossier: Minerali insanguinati, luglio 2015

Marco Bello, La lunga marcia per la pace, giugno 2016




BAYENGA (R.D. CONGO): storia di ordinaria insicurezza

DIARIO… DI GUERRA

Il Movimento per la liberazione del Congo di Pierre Bemba e l’Unione congolese per la democrazia di Mbusa Nyamwisi si combattono per il controllo del nord-est del Congo (ex Zaire) e alcuni missionari della Consolata si trovano tra i fuochi incrociati, come è capitato nell’agosto e settembre scorsi.

Lunedì 5 agosto. Atterro a Isiro sano e salvo, grazie a un aereo di fortuna proveniente da Kampala. Insieme a me ci sono il vice superiore generale, padre Antonio Bellagamba, venuto per dettare un corso di esercizi spirituali, e quattro volontari brianzoli del gruppo «i gabbiani», destinati a Bayenga per montare una pompa d’acqua.

L’indomani ripartiamo per Wamba, dove lasciamo il vice superiore; arriviamo a destinazione accolti festosamente dalla gente per la strada e alla missione.

Mercoledì 7 agosto. Senza un giorno di riposo, «i gabbiani» iniziano a piazzare la pompa al pozzo scavato sul terreno dove sorgerà la nuova missione, un paio di chilometri dagli attuali edifici provvisori.

Verso le 10,30 si sentono scoppi isolati di fucile. Col vecchio capo locale, venuto a salutarmi, pensiamo che si tratti di esercitazioni o di militari che puliscono le armi. Un nutrito scambio di raffiche di mitragliatrici ci toglie ogni illusione: è uno scontro tra soldati in piena regola.

Due donne che stanno preparando il pranzo sono spaventate: rimettono tutto in magazzino e ci esortano a scappare e metterci al riparo. Non c’è tempo da perdere. Dico a Marina, una dei volontari:

– Prendi un cappello e seguimi. È la guerra.

– Stai scherzando?

– No, non scherzo! Quelli sparano sul serio: andiamo.

Non ho tempo di chiudere la casa e corriamo verso il pozzo. Ci seguono il direttore della scuola con sua figlia e una donna malata aiutata dal marito. Camminando tra le erbe, scivolo in un pantano con molta acqua, essendo questa la stagione delle piogge. Con difficoltà riesco a recuperare le scarpe dal fango. Ci fermiamo ai bordi di un campo di riso e ci sediamo ai margini della foresta.
Capiamo subito che il nascondiglio non è troppo segreto: ci raggiunge un soldato in fuga; ci fornisce la sua versione dei fatti: i militari di Bemba, che controllano il nord del Congo, sono stati attaccati da quelli di Nyamwisi; non potendo resistere, sono scappati. Il soldato ci chiede informazioni sulla strada per Wamba, per ricongiungersi ai suoi commilitoni.
Mentre aspettiamo l’evolversi della situazione, arriva il confratello congolese Clément Balu Futi insieme ai tre volontari impegnati nel montaggio della pompa. Sentiti gli spari e le pallottole fischiare sopra la testa, si erano rifugiati tra gli alberi. Diminuita l’intensità della sparatoria, erano venuti a cercarci.

Arriva anche un ragazzo di 18 anni. Padre Clément lo conosce: è un soldato. Il giovane si mette a piangere; dice che si è tolta la divisa per scappare senza dare nell’occhio.

Finalmente le armi tacciono. Ma ecco avanzare i soldati di Nyamwisi. Padre Clément esce dal bosco, rischiando forte, e va incontro ai militari: alcuni di essi vengono dalla sua stessa regione. Cerca di frateizzare; parla col comandante; poi ci invita a uscire dalla foresta per salutare i capi.

L’incontro è pacifico, ma ci si guarda con sospetto: noi non sappiamo cosa ci chiederanno; essi s’informano se stiamo in quel luogo per cercare l’oro. Padre Clément spiega che i bianchi non sono dei commercianti, ma persone venute ad aiutare la missione e quindi la popolazione.

Possiamo rientrare a casa. I militari ci seguono. Padre Clément cerca di capire le loro intenzioni: vogliono l’auto e la radio trasmittente. Ce l’aspettavamo. Resistiamo, anche perché i soldati di Bemba, nella loro ritirata, si sono portati via la motocicletta. A interrompere le trattative intervengono le tenebre.

Giovedì 8 agosto. La notte è stata tranquilla. Appena celebrata la messa, «i gabbiani» partono per lavorare alla sorgente; i militari tornano per prendere la Land Rover: il loro sguardo è minaccioso; il giorno prima hanno avuto qualche morto; è difficile farli ragionare. Dopo un po’ di resistenza, ci rassegniamo, per non mettere in pericolo la vita.

Ma non c’è l’autista. Gli avevamo detto di sparire e lui si è nascosto e non sappiamo dove sia. Il comandante obbliga padre Clément a portare alcuni soldati al quartiere 51, un villaggio a 40 km da Bayenga. Il padre si sacrifica: indossa la veste bianca; mi dice di pregare e si mette al volante della Land Rover. Il comandante assicura che andrà tutto bene e saranno di ritorno la sera, appena avranno procurato da mangiare per la truppa.

Passa qualche ora ed ecco arrivare da Wamba padre Rinaldo Do: ha fatto il tragitto in bicicletta, con un fazzoletto bianco legato a un bastoncino, issato sul manubrio. È venuto per stare vicino ai «gabbiani», rendersi conto della situazione e parlare con i capi militari: spera di poter evacuare i quattro italiani e portarli a Wamba, appena padre Clément sarà rientrato.

Dal villaggio di Niania arrivano 16 ragazzine dirette a Wamba, per una settimana di formazione: sono in viaggio da lunedì e peotteranno a Bayenga, senza sapere se potranno riprendere il viaggio.

Venerdì 9 agosto. Padre Clément non è ancora rientrato. Speriamo che arrivi almeno oggi. Padre Rinaldo è riuscito a ottenere il permesso di usare la radiotrasmittente, ieri alle 15 e oggi alle 7, per parlare con i padri di Wamba e Isiro e chiedere una macchina per far partire gli italiani.

Alle 11,30 padre Clément non si vede ancora. Piove. I volontari italiani rientrano: non hanno terminato il lavoro, ma hanno impostato l’essenziale; altri potranno terminarlo.

Nel collegamento radio delle 12,30 padre Baruffi promette di mandare l’abbé Raymond con un mezzo di trasporto per prelevare i quattro ospiti. Scende la sera; ma nessuna delle due auto arriva alla missione.

Siamo preoccupati per padre Clément. Italiani e ragazze di Niania devono peottare a Bayenga.

Sabato 10 agosto. Da Wamba l’auto non è potuta arrivare, perché i soldati hanno messo un posto di blocco a una decina di chilometri da Bayenga. I laici italiani riprendono il lavoro. Forse riusciranno a terminarlo.

Alle 9,20 si sentono nuovi spari; sembrano provenire da Benga.

Al pomeriggio rientra finalmente padre Clément con i soldati: è visibilmente molto stanco. Grandi abbracci, ma poca comunicazione: i militari restano vicino.

Poco dopo arriva il vescovo con l’abbé Kakeane per prendere gli italiani. Devo partire anch’io: ordine del vescovo. Ci prepariamo in fretta e partiamo. Padre Clément ci segue con i militari fino a Wamba; arriva poco dopo di noi. Alla missione di Bayenga resta padre Rinaldo.

Intanto vengo a conoscenza di come stanno le cose: Wamba è stata presa dai soldati di Nyamwisi dopo due ore e mezzo di combattimento. Essendo ormai Bayenga e Wamba nelle mani della stessa fazione, il vescovo ne aveva approfittato per venire a prenderci.

Lunedì 12 agosto. Le forze militari di Bemba sferrano il contrattacco e, in poche ore, Wamba è nuovamente nelle loro mani. Viviamo in apprensione; le fucilate sono molto vicine.

Poiché la medesima fazione controlla la zona di Wamba e Isiro, si approfitta per portare fino a quest’ultima città i quattro italiani e padre Bellagamba, per imbarcarli alla prima occasione per Kampala, mandando a monte il corso di esercizi.

Insieme a loro lascia Wamba anche padre Clément; ormai per lui la zona scotta: corrono voci che sia accusato di avere aiutato i nemici con la macchina. Tali voci lo consigliano ad anticipare la partenza per Nairobi, dove parteciperà a un corso di aggioamento e formazione.

Intanto io rimango a Wamba per parecchi giorni. La situazione è calma. Ma non si è mai sicuri: non ci sono state dichiarazioni ufficiali. Non c’è sicurezza e abbiamo paura di viaggiare in auto, tanto più che sono senza mezzo di trasporto: la Land Rover è stata requisita dai nuovi padroni e l’hanno messa definitivamente fuori uso.

Padre Rinaldo continua a fare la spola tra Bayenga e Wamba in bicicletta, per dare e ricevere notizie. Ma i programmi sono sospesi; si attende con pazienza: la virtù più grande che deve coltivare chi lavora in Congo.

Venerdì 6 settembre. Da una settimana sono rientrato a Bayenga con padre Giuseppe Fiore; padre Do può ritornare alla casa regionale di Isiro.

Ma non mi sento bene. Domenica scorsa, verso la fine della messa, capogiro e nausea mi hanno costretto a lasciare l’altare; padre Fiore ha portato a termine la celebrazione. Non so che cosa sia stato, debolezza o malaria: sono stato costretto a letto per una settimana e non mi sono ancora ripreso totalmente.

Per quanto riguarda la guerra, tutta la zona di Isiro, Wamba e Bayenga continua ad essere in mano ai militari di Bemba. Al momento tutto è calmo. Sembra che il fronte si sia spostato sulla strada Niania-Mambasa-Bunia.

Non possiamo fare molto, perché non c’è sicurezza; i militari continuano a passare e requisire le biciclette della gente; non ci sono altri mezzi di trasporto; tutto resta sospeso in attesa di tempi migliori.

Mercoledì 11 settembre. Di salute mi sento meglio. Aspettiamo l’arrivo di padre Rinaldo da Isiro, che ci porta qualche rifoimento.

Ma arriva pure l’ordine di ritornare in Italia, per sottopormi ad analisi ed eventuali cure mediche.

Con tanta tristezza mi preparo per un’altra partenza, con la speranza, insieme, di ritornare presto tra la gente, nonostante spari e difficoltà di vario genere.

CALVARIO… IN BICICLETTA

Due giovani di Bayenga descrivono il viaggio da Kisangani a Isiro e relative insicurezze e seccature.

Per un povero congolese come me, viaggiare all’interno del mio paese è un’impresa difficile, se non impossibile: si parte con seri dubbi di arrivare a destinazione. Tale inquietudine ha una sola causa: l’occupazione della Repubblica democratica del Congo da parte di vari gruppi di ribelli, che si combattono a vicenda e stanno distruggendo quel poco che rimane del paese.

Unico mezzo di spostamento, sia per le condizioni delle strade che per ragioni di sicurezza, è la bicicletta. Da Kisangani a Isiro, per esempio, la strada si snoda per circa 500 km nella foresta tropicale e da alcuni anni è impraticabile per qualsiasi automezzo. La si può percorrere solo a piedi o pedalando su due ruote.

Non è l’oscurità della foresta a mettere paura, ma le centinaia di soldati che la infestano e rendono il viaggio un autentico calvario, quando non finisce in tragedia.

Per qualche tratto si può avere la fortuna di non fare brutti incontri; ma non se ne trovano neppure di piacevoli. I villaggi lungo la strada sono deserti: gli abitanti si sono rifugiati nelle malende, abitazioni provvisorie nella foresta, per evitare di trovarsi nel fuoco incrociato dei combattimenti.

Hanno ragione di fuggire: le rovine testimoniano massacri, saccheggi e malversazioni d’ogni genere. In alcuni villaggi si sono istallati i militari; in altri i soldati vanno e vengono: sono armati fino ai denti con fucili, machete, baionette, corde, asce, lancia bombe, granate fissate alla cintura. Incontrarli è una disgrazia. La prima parola che dicono è: «Soldi». Il tono non lascia scampo.

La chiamano mabonza (offerta) e non si sa per quali ragioni bisogna fare tali «offerte» ai militari. Ma non sempre si accontentano del denaro, ma controllano sistematicamente i bagagli e, se trovano qualche cosa di interessante o di valore, se la prendono automaticamente, senza che il proprietario possa fiatare: potrebbe rischiare la morte.

Talvolta si passa alle perquisizioni corporali. Guardano perfino le mutande, nella speranza di trovarci nascosta qualche somma di denaro.

A volte qualche militare deve spostarsi e approfitta del viandante per farsi portare a destinazione sulla canna della bici. Anche in questi casi non esistono ragioni da opporre: chi rifiuta di prestare il faticoso servizio, potrebbe perdere la bicicletta o, peggio, la vita.

Q uando lungo la strada le opposte fazioni si affrontano a distanza ravvicinata, questa rimane chiusa per alcuni giorni; chi si trova a percorrerla in tali circostanze sono vittime dei trattamenti più inumani.

È capitato a un gruppo di ragazzi che, sempre in bicicletta, dopo aver percorso 260 km, a metà strada tra Kisangani e Isiro, sono caduti in un’imboscata di mayi-mayi, un gruppo di ribelli che, tra l’altro, credono di essere invulnerabili.

Terribilmente armati, essi pretendevano che ogni giovane sborsasse 10 mila franchi congolesi: una somma enorme per quei poveretti che, non potendo pagare, furono minacciati e spogliati di tutto.

Per di più, gli sfortunati ragazzi non potevano proseguire, poiché sarebbero caduti sotto le pallottole della fazione opposta, a due chilometri di distanza; né potevano tornare indietro, per non tradire la presenza dei mayi-mayi; e furono costretti a rifugiarsi nelle malende, nel cuore della foresta, dove rimasero per alcuni giorni senza cibo.

I ragazzi cercarono il modo di sopravvivere; dopo alcuni giorni, ripresero il viaggio attraverso la foresta, raggiunsero la strada in un punto dove non c’erano soldati e riuscirono a tornare a Kisangani.

L a strada Kisangani-Isiro è l’esempio più eloquente dell’insicurezza per chi deve spostarsi in Congo. Situazioni analoghe si verificano in molte regioni del paese, dove truppe armate continuano a combattersi.

Ma anche per chi non deve viaggiare e vive in città e villaggi, insicurezza e pericoli sono sempre in agguato. La guerra continua a seminare dappertutto distruzioni e sofferenze d’ogni genere. Noi congolesi siamo stufi di guerra e violenza; reclamiamo a gran voce la pace. Non vogliamo nient’altro: solo un po’ di pace.

Pietro Manca




Congo, rd: guerra e vulcano

Carissimi amici,
non c’è proprio pace per il
Congo. Il 6 gennaio ad Isiro
ci sono state sparatorie
fino all’una di notte. I soldati
di Nyamwuisi (sostenuti
dall’Uganda) scappando
hanno saccheggiato
alcuni negozi con poche
mercanzie e rubato qualche
moto (altro non c’è in
città). Da noi, missionari,
non sono venuti (avevamo
pronti un po’ di soldi, per
evitare il peggio).
Stamattina per strada
c’era molta gente per accogliere
i soldati (liberatori?)
di Bemba. Ora il caos
è immane. Le autorità locali
si sono nascoste; di
poliziotti neppur l’ombra.
Sono le 16,30 e si spara
attorno all’aeroporto. In
città non c’è anima viva; si
attende la notte sperando
che non ci siano militari
nascosti e che i ladri non
approfittino della situazione.
La paura è tanta…
Ore 17,30: sono entrati
in gloria i soldati di Bemba.
Noi siamo preoccupati
per il futuro… Piove. Una
benedizione? Potesse la
pioggia lavare anche le idee
di tanti!
p. Rinaldo Do
Isiro (Congo, rd)

Il Congo è in guerra
dall’agosto 1998: un conflitto
interafricano tra
Angola, Zimbabwe e Namibia
da una parte e, dall’altra,
Uganda, Rwanda
e Burundi (con l’avallo di
Stati Uniti e Francia). La
guerra ha già seminato
due milioni di vittime.
E ci si è messo pure il
vulcano Nyiaragongo, al
confine con il Rwanda, le
cui eruzioni hanno aggiunto
distruzioni a distruzioni
(17 gennaio).

p. Rinaldo Do