Rd Congo: Ripartire dalle donne (vittime di violenza)

testo di Luca Salvatore Pistone |


L’Est di uno dei paesi più ricchi d’Africa non trova pace. Nonostante la presenza delle Nazioni unite, decine di milizie imperversano. I civili subiscono ogni sorta di vessazione. Mentre il mondo sta a guardare o, meglio, si gira dall’altra parte.

La guerra nel Nord della Repubblica democratica del Congo (Rdc) è un abominio. Covava da lungo tempo, ma è con il genocidio ruandese del 1994 che, nell’immenso stato dell’Africa centrale, si è scatenata la catastrofe. Vertiginosa diffusione di gruppi armati, negligenza delle autorità, saccheggio di risorse naturali sono solo alcuni degli ingredienti di quello che gli esperti definiscono «conflitto a bassa intensità». Una barbarie, che si protrae da oltre due decenni (di cui MC ha più volte parlato, ndr).

La prima vittima di tanta violenza? La donna. Seni amputati, clitoridi tagliati e ani sventrati sono le firme dei macellai. In Congo il corpo della donna è diventato un campo di battaglia la quale è lecito infliggere dolore, umiliazione, terrore.

Goma

Raggiungiamo Goma, il capoluogo della provincia del Nord Kivu, via terra dal Ruanda. Lasciati i bagagli in albergo, la prima cosa che facciamo è recarci al comando regionale della Monusco (Missione dell’Onu per la stabilizzazione nella Repubblica democratica del Congo). Bisogna muoversi per tempo per trovare posto a bordo di uno dei suoi aerei diretti a Bunia, capoluogo della provincia di Ituri, prima meta del nostro viaggio.

Sbrigata la burocrazia dell’Onu e strappata a un funzionario indiano la promessa che saremo inseriti al più presto nella lista dei passeggeri, ci rechiamo all’appuntamento con Caleb in un bar con terrazza sul lago Kivu. Il tramonto contribuisce a rendere il paesaggio ancora più mozzafiato.

«Finalmente ci conosciamo!». Quarantacinque anni, alto, pochi denti in bocca, Caleb è un simpaticone. Giornalista, ha collaborato con prestigiose testate internazionali. È lui il nostro fixer (la persona che negli scenari di guerra o di crisi, assiste il giornalista che si muove sul campo). «Fidati di me, per capire come le cose vanno in Congo bisogna parlare con le donne».

La casa delle donne

La mattina seguente Caleb passa a prendermi con il suo fuoristrada. In meno di mezz’ora raggiungiamo il villaggio di Bulengo. Continuiamo per un paio di chilometri di strada sterrata e, nascosta da una fittissima vegetazione, troviamo un’enorme villa. Siamo alla Maison des femmes. Ci accolgono una ventina di donne con altrettanti bambini. Terminati i convenevoli, tutte tornano alle loro attività. C’è chi si dedica alla tintura di stoffe per abiti femminili, chi all’intreccio di cestini di plastica riciclata e chi all’allevamento di polli e maiali.

Justine Masika è la presidente di Synergie des femmes pour les victimes des violences sexuelles (Sfvs), una piattaforma nata nel 2002 che raggruppa 35 piccole Ong locali con sede a Goma. «Sfvs gestisce il progetto Maison des femmes. Teniamo dei corsi di formazione professionale e, grazie al microcredito, contribuiamo all’avvio di piccoli esercizi commerciali. Qui le nostre assistite parlano dei traumi che hanno vissuto. Capiscono di non essere sole e che si può andare avanti. Operiamo sulle conseguenze dello stupro, ma ci siamo rese conto che è necessario intervenire alla base di questo male, e cioè lavorare sulle cause che rendono la violenza sessuale un fenomeno così diffuso».

Justine ha un bel da fare. Alla porta del suo ufficio bussano in continuazione le sue collaboratrici per farle firmare pile di scartoffie. «Per porre un freno a questo crimine bisogna combattere l’impunità di cui godono gli stupratori, coinvolgere maggiormente i politici e gli investitori stranieri per mettere fine al saccheggio delle materie prime e, quindi, ai conflitti per il sottosuolo che dilaniano il nostro Congo. Occorre anche capire che gli stupri non distruggono solo il fisico di chi li subisce, ma l’intera società. Le donne, dopo essere state abusate, vengono considerate colpevoli per ciò che è successo loro: vengono ripudiate dai mariti e i figli restano abbandonati a se stessi».

Sfvs si assume le spese per la riparazione chirurgica di fistole retto-vaginali, dei test per l’Hiv e dei trattamenti per malattie sessualmente trasmissibili. Ha istituito venti consultori dove vengono invitate sia le vittime che i loro familiari, allo scopo di far capire a questi ultimi che la «gogna» perpetrata anche da loro non è la via giusta. La sezione per la difesa legale fa pressioni presso le Corti, dinanzi alle quali vengono portati i casi delle donne stuprate, e ha avviato un’intensa campagna per la creazione di tribunali che si occupino esclusivamente di violenze sessuali.

Il dolore

È mezzogiorno. Può avere inizio il douleur (dolore), come Justine chiama l’orario dei colloqui dello psicologo del centro con le vittime di violenza sessuale.

Provengono tutte dalla zona di Masisi, una città del Nord Kivu nota per essere il centro di conflitti che vedono coinvolti almeno 140 piccoli gruppi armati irregolari. «Mettetevi comodi. Vedrete quanto in basso può arrivare l’uomo», ci annuncia Justine.

La prima a entrare è Judithe, di 57 anni. Dieci anni fa dovette assistere all’assassinio del marito e dei due figli, fatti a pezzi col machete. «Il nostro villaggio fu attaccato dai miliziani Mai Mai. Piangevo e quelli mi violentarono uno dopo l’altro, picchiandomi a sangue. La mia comunità mi ripudiò».

È il turno di Mamy, di 35 anni, madre di tre bambini: «Ero andata al pozzo per prendere dell’acqua e ho incontrato degli uomini armati. Mi hanno detto che potevo scegliere tra la vita e lo stupro. Quando vieni stuprata vieni marchiata a vita. Il tuo uomo si sente umiliato e ti caccia via di casa. Per l’intero villaggio sei come morta o una prostituta. Io invece nella disgrazia sono stata fortunata perché mio marito ha capito la situazione e mi ha tenuta con sé».

Therèse ha da poco compiuto 15 anni ed è al settimo mese di gravidanza. Sorride solo quando pensa a Julie, il nome che ha scelto per sua figlia. Per più di un mese è rimasta nelle mani di criminali nella foresta. «Quando mi volevano venivano nella capanna in cui mi avevano rinchiusa. Lo facevano a turno, anche in due, per più volte al giorno. Ero la donna di tutti. Mi costringevano pure a cucinare per loro. Poi un giorno all’improvviso mi bendarono e mi riportarono all’ingresso del mio villaggio».

Chantal ha 19 anni e tra un mese partorirà: «Al mio villaggio non c’è una sola famiglia che non abbia una donna violentata. Io ho tre cugine che sono state abusate. La mia famiglia è in ginocchio, nessuno ci rivolge più la parola».

Secondo le stime delle Nazioni unite, nella regione si verifica uno stupro ogni trenta minuti. Una pratica che non accenna a placarsi.

Ringraziamo la Maison des Femmes e torniamo alla macchina. Regna il silenzio. A infrangerlo, una volta immessi sulla strada asfaltata, è Caleb: «Adesso capisci come siamo messi? In Congo la donna è il campo di battaglia». Mi squilla il cellulare e sul display compare il nome del funzionario della Monusco. È stato di parola: tra un paio di giorni potremo volare su Bunia.

Bunia

Un’enorme distesa bianca e blu. È così che Bunia appare dall’alto. Poi, a mano a mano che l’aereo plana, ci si rende conto di come migliaia di teli di plastica dei colori dell’Onu abbiano inghiottito l’intera città. Sono le tende degli sfollati provenienti da tutto l’Ituri, la martoriata provincia di cui Bunia è capoluogo.

Ituri, un vasto territorio di circa 65mila chilometri quadrati nel Congo Nord orientale, è da lungo tempo teatro di abominevoli scontri tra due etnie, gli Hema e i Lendu. I primi storicamente pastori, i secondi agricoltori. Le rivalità tra i due gruppi risalgono al periodo coloniale, quando i belgi favorirono gli Hema, creando non poche disparità che i governi succedutisi fino ai nostri giorni non hanno voluto e saputo limare.

Le dispute vere, quelle sfociate nel sangue, sono iniziate negli anni Settanta in concomitanza della promulgazione di leggi sulla distribuzione delle terre che avevano avvantaggiato gli Hema. Picchi di violenza si sono registrati nel 1972, 1985, 1996, 2001 e 2003, mentre scontri minori si sono protratti fino al 2007. Negli anni Novanta gli sfollati raggiunsero la cifra record di 400mila. Le varie missioni di stabilizzazione dell’Onu nella Rdc non sono riuscite a fermare i massacri, registrando peraltro un alto numero di morti tra i propri militari. Negli ultimi mesi hanno avuto luogo nuovi scontri con almeno una ventina di morti tra i civili, e le rappresaglie, fomentate da gruppi armati vicini alle due etnie interessati dalle ricchezze del posto, sembrano non avere fine.

Un mare di sfollati

L’Onu ritiene che gli sfollati dovuti a quest’ennesimo incidente, sparsi in campi ufficiali e irregolari soprattutto a Bunia, o rifugiatisi nel vicino Uganda, siano 340mila, circa l’8% dell’intera popolazione della provincia.

Per motivi di sicurezza dobbiamo alloggiare a Bunia, dove ha sede una base della Monusco, gestita dai contingenti marocchino e bengalese. Il responsabile dell’ufficio stampa della missione, un sergente marocchino, ci dà un lasciapassare per raggiungere autonomamente Djugu, la terza città per estensione di Ituri, divenuta uno degli epicentri delle violenze, a patto di tornare a Bunia prima di sera. Un percorso di 70 chilometri su strada sterrata con buche che inghiottirebbero una jeep. Caleb scorre la rubrica di uno dei suoi tre Iphone e contatta Richard, un autista locale. «Tutto ok, domattina alle 4 in punto ci passa a prendere con un pick up».

Richard spacca il minuto. Lasciamo Bunia e a ogni curva rimaniamo a bocca aperta per la bellezza del territorio. Colline verde smeraldo, cascate azzurrissime, fiori mai visti prima. Il viaggio procede liscio e in meno di tre ore siamo alle porte di Djugu.

La città bruciata

Il colore che domina in città è il nero: non c’è un solo edificio o catapecchia che non sia stato incendiato. La cenere è ovunque. Per la loro opera di devastazione sia gli Hema che i Lendu si servono di «serbatoi incendiari», ovvero serbatoi di motociclette lanciati a come molotov contro le case di quelli che ritengono nemici.

Pochissime le persone che incontriamo per strada. Nessuno ha voglia di parlare con noi e così decidiamo di proseguire per un’altra ventina di chilometri fino a Fataki, una piccola località sotto l’amministrazione di Djugu dove è attivo l’unico ospedale del circondario.

Da una stanza provengono urla strazianti di una giovane. Yvonne sta per dare alla luce il suo primogenito. Il dottor Bavi, il giovane direttore dell’Ospedale di Fataki, ci chiede se vogliamo assistere ma decliniamo l’offerta, rimanendo al di qua della tenda che delimita la sala parto. Ephala, la madre della ragazza, è seduta su una sedia in un angolino. Quella che tra pochi minuti diverrà nonna ha appena trent’anni. «Prima è toccato a me, adesso a lei. A sedici anni fui violentata, Yvonne a quattordici. Mia figlia nacque in seguito a quello stupro, come il figlio che ora sta partorendo. Spero sia un maschio, così non potrà essere violentato come noi».

Prendiamo la direzione per Bunia e siamo in hotel prima di sera, come promesso al sergente marocchino.

I campi profughi

Il giorno seguente ci viene assegnata una scorta di caschi blu bengalesi per visitare il Site1 e il Site2, i due campi ufficiali per sfollati di Bunia, uno a poche centinaia di metri dall’altro. Gli chiedo il perché di una simile misura di sicurezza, apparentemente eccessiva, e lui non mi lascia diritto di replica: «Un poliziotto è stato ucciso all’interno del Site1. Tranquillo, avrete massima libertà di movimento».

Il Site1 è il campo più grande della regione. Sorto lungo la recinzione dell’Ospedale Generale di Bunia, ospita circa diecimila sfollati in stragrande maggioranza di etnia Hema. Nel Site2, nato poco dopo su un terreno messo a disposizione dalla Diocesi di Bunia, ce ne sono quasi novemila.

È la Ong congolese Lasi (Ligue anti-sida en Ituri), diretta dal pastore Ignaci Bingi, ad aver ricevuto dal governo provinciale l’incarico di gestire gli aiuti al Site1 elargiti dal Pam (Programma alimentare mondiale) e Oxam (Oxford committee for famine relief). Per distribuire meglio le derrate alimentari, il pastore ha personalmente diviso il campo in dieci blocchi, facendo eleggere dalla comunità un rappresentante per ogni blocco. «Gli sfollati mi riferiscono tutto ciò che non va nel campo in modo che io possa portare le loro rimostranze a chi di dovere. È gente esausta, che ha perso tutto ciò che aveva, incattivita. Una bomba a orologeria insomma».

A occuparsi invece del Site2 sono Caritas Congo e Unicef (Fondo delle Nazioni unite per l’infanzia). Di scuole non ce ne sono e così l’unico spazio aggregativo che i bambini possono frequentare è un piccolo centro costituito da quattro pareti di legno all’interno delle quali alcuni animatori li intrattengono con balli e canti. «Tantissimi dei nostri sfollati sono minori – dice Clementine Pelosi, funzionaria Unicef – e tantissimi sono orfani perché i loro genitori sono stati uccisi durante gli scontri».

I due campi sono un distillato di atrocità. Testimonianze verbali e testimonianze visibili sulla loro pelle. La storia di Grace e Rachel appartiene a queste ultime. Non lascia molto spazio alla fantasia. Due bambine, sorelle, rispettivamente di undici e due anni. Da pochi giorni sono uscite dal reparto di chirurgia dell’Ospedale generale di Bunia, dove erano state condotte due mesi prima in fin di vita.

A raccontarcela è loro zia Charlotte: «I Lendu hanno attaccato Tchee, il nostro villaggio. Hanno violentato davanti agli occhi di Grace e Rachel la loro madre, mia sorella. Sempre davanti ai loro occhi hanno ucciso i loro genitori e i tre fratelli più grandi. I Lendu, non soddisfatti, si sono divertiti coi machete. Hanno tagliato parte del braccio sinistro di Grace e l’hanno ferita alla nuca. Poi sono passati a Rachel. L’hanno squarciata da guancia a guancia e da orecchio a orecchio. Io ho già i miei figli a cui badare, come posso sfamarle? Sapete che nessuno le sposerà in queste condizioni?». Grace è appoggiata alla sua spalla mentre Rachel dorme tranquillamente tra le sue braccia.

Accanto a me un casco blu bengalese. Ha gli occhi lucidi. Infila in tasca a Grace una merendina. Si è fatto buio, dobbiamo andare.

Luca Salvatore Pistone


Dieci anni dal «Rapporto Mapping»

Il genocidio senza storia

Il primo ottobre 2020 ricorrevano i 10 anni dalla pubblicazione del «Rapporto Mapping» dell’Alto commissariato delle Nazioni unite per i diritti umani (Unhchr) sulla Repubblica democratica del Congo.

Per capire meglio di cosa si tratta, occorre fare un passo indietro. Nel 1994, al termine del genocidio in Ruanda, durato 100 giorni senza che la comunità internazionale intervenisse, il Fronte patriottico ruandese (Fpr) di Paul Kagame assunse il controllo del paese (milizia a maggioranza Tutsi anglofona, ndr). Nella speranza di salvarsi dalle violenze dell’Fpr, deciso a vendicarsi del genocidio subito dagli Hutu, circa due milioni di ruandesi di etnia Hutu si rifugiarono nell’allora Zaire di Mobutu. Questi era malato, stanco e ormai abbandonato dagli alleati.

Con il genocidio in Ruanda, l’invasione dello Zaire da parte di quest’ultimo era solo questione di tempo e, con la scusa di inseguire i genocidari hutu, si è concretizzata con la «Prima guerra del Congo» che si è combattuta fra il 1996 e il 1997 e che ha messo fine al regime di Mobutu. Per non destare sospetti durante l’invasione, è stato messo a capo dell’avanzata un cittadino zairese, Laurent-Désiré Kabila che è diventato presidente nel paese nel 1997. Nel 1998 Kabila ha intimato ai ruandesi di ritornare a casa loro e così è iniziata la «Seconda guerra del Congo», detta anche Guerra mondiale africana, che, con milioni di vittime, si è conclusa nel 2003 con un governo di transizione guidato da Joseph Kabila, al potere dal 2001, dopo l’assassinio di Laurent-Désiré Kabila.

In seguito alla scoperta di molte fosse comuni nel 2005, l’Unhchr decise di investigare, e mandò i suoi esperti che indagarono sul decennio 1993-2003 producendo il Rapporto Mapping, uno studio molto dettagliato che sarà pubblicato il 1 ottobre 2010, ma subito messo nel cassetto, in seguito a pressioni di Paul Kagame e dei suoi alleati. Questo rapporto denunciava la morte di 6 milioni di persone e individuava 617 massacri classificabili come crimini di guerra, crimini contro l’umanità e, alcuni, come crimini di genocidio. Tutti crimini imprescrittibili.

Oggi sono in tanti, congolesi e amici del Congo, a chiedere la verità su questo dramma. Nel decimo anniversario del Rapporto Mapping, il dottor Denis Mukwege (cfr. Mc aprile 2018), Premio Nobel per la Pace 2018, ha lanciato, insieme alla società civile congolese ed esponenti della diaspora, una campagna di sensibilizzazione per chiedere alle Nazioni unite l’applicazione delle raccomandazioni di quel rapporto. In particolare, la creazione di un Tribunale penale internazionale ad hoc per giudicare i crimini commessi nella Rd Congo negli ultimi decenni, crimini, lo ricordiamo, che avvengono tuttora nel silenzio, seppure sotto gli occhi della comunità internazionale. Nessuno si illuda però. La strada per arrivare alla verità e alla giustizia è davvero molto lunga e piena di insidie. Ricordiamoci che le responsabilità non si limitano al solo Ruanda ma toccano potenze mondiali ed esponenti della politica congolese. E soprattutto, non dimentichiamoci i troppi interessi economici in ballo.

John Mpaliza*

*Attivista per i diritti umani e per la pace
FB: facebook.com/johnmpaliza/ (ospite di MC giugno 2016)




RD Congo: Pigmei. Sempre nomadi, ma fino a quando?

Testo di Marco Bello | foto Archivio fotografico MC


I pigmei bambuti sono il popolo originario delle foreste nell’Est del Congo. All’arrivo di altre popolazioni si sono inoltrati sempre più nella selva. Ma da alcuni anni i cercatori d’oro invadono il loro territorio, portando molte problematiche. Intanto anche lo sfruttamento del legname e la deforestazione stanno distruggendo il loro habitat. Ai missionari la grande sfida di come salvare la loro cultura.

«I pigmei non sono guerrieri, ecco perché all’arrivo di altre popolazioni nella loro terra, hanno adottato la politica di ritirarsi nella foresta più folta. Purtroppo oggi assistiamo a un’invasione della selva, operata dai cercatori d’oro alla ricerca di nuovi siti». Chi parla è padre Flavio Pante, missionario della Consolata con una ventennale esperienza di lavoro tra le popolazioni pigmee del Congo, oltre che con esperienze in Costa d’Avorio e Italia.

Parla del Nord Est della Repubblica democratica del Congo (Rdc), del distretto dell’Alto Uele, diocesi di Wamba: «I pigmei sono stati i primi abitanti di questa zona, tutti gli altri, quelli che chiamiamo genericamente bantu, sono arrivati in un secondo tempo». I missionari della Consolata lavorano da venti anni nell’area di Bayenga, dove c’è un’alta concentrazione di pigmei, in particolare la popolazione dei Bambuti. «La parrocchia lavora sulla realtà pigmea, e sulla realtà dei bantu e delle altre popolazioni».

Il «nuovo» flagello

La foresta è ricca di oro e altri minerali preziosi, che si trovano, in particolare, lungo i fiumi, un po’ ovunque. Così il popolo dei cercatori d’oro si inoltra sempre più nella foresta e costruisce vere e proprie città provvisorie di baracche nei pressi dei siti auriferi più promettenti. Dato che questi siti cambiano in continuazione, i villaggi di oggi potrebbero scomparire una volta esaurita la vena mineraria. Il risultato è una penetrazione della foresta sempre maggiore.

«Qualcuno paga la licenza di estrazione – racconta padre Flavio – e manda i più disperati a cercare l’oro. Questi sono i cercatori artigianali, lavorano manualmente e nessuno assicura loro il minimo di sicurezza. Si può dire che stanno peggio dei pigmei. Quello che trovano lo vendono per pochi soldi all’intermediario, che poi lo porterà al comptoir (ufficio di esportatori, ndr) in città dove sarà acquistato a un prezzo nettamente superiore.

Tutto quello che i cercatori d’oro consumano, come il cibo, gli attrezzi, viene da lontano, dalle città, e arriva con grossi camion. Per questo è molto costoso. In questi agglomerati di baracche circolano soldi, prostituzione, malattie, violenza. Tutti gli affari, in quest’area, seguono i siti di estrazione dell’oro».

Un fenomeno, che, pure se esisteva già 30 anni fa, come conferma padre Flavio che era in missione in Congo (all’epoca Zaire) nel 1978, negli ultimi dieci anni ha assunto una dimensione enorme, e tutto questo a scapito del territorio dei pigmei.

Legname pregiato

«Un altro fatto che sta contribuendo alla distruzione dell’habitat del pigmeo è il taglio degli alberi per il legname. I camion che portano mercanzie di ogni genere per i cercatori d’oro, ripartono carichi di tronchi. Spesso i pigmei stessi sono assoldati per trasportare gli alberi sezionati fuori dalla foresta, nei luoghi raggiungibili dai camion. I mezzi poi partono per l’Uganda, dove il legname sarà venduto e lavorato». Una foresta invasa dalle motoseghe, vuol dire non solo eliminare gli alberi, ma anche far fuggire la selvaggina, il principale sostentamento del pigmeo.

Si tratta anche di una invasione culturale, oltre che fisica: «Il pigmeo è entrato in contatto con un’altra realtà. Ha visto il mercato del villaggio bantu, ascoltato la radio, sperimentato gli alcolici. Ormai non riesce più a staccarsi da queste cose penetrando di più nel folto della foresta. Si avvicina alla popolazione di origine bantu e si accampa. Però è rimasto per indole raccoglitore e cacciatore, per cui può capitare che vada in un campo e raccolga del cibo: ma in questo modo, per la società bantu, diventa un ladro. Un comportamento dell’altro, non puoi criticarlo se non lo conosci. Devi cercare di metterti nei suoi panni. Il pigmeo ha rubato, o piuttosto, ha preso per fame?».

Il pigmeo che con la sua famiglia è uscito dalla foresta profonda e si è accampato nei pressi delle città, ha perso il suo habitat ed è a un passo dal perdere la sua identità.

«Una questione fondamentale – continua padre Flavio – è che le persone di altre etnie considerano i pigmei esseri inferiori. A causa di questo preconcetto si è creata una dipendenza perversa. Il bantu dice al pigmeo: “Io ti prendo come protetto. Tu coltiva il tuo campo e poi vieni a lavorare nel mio come mio servo”. Si crea una dipendenza servile che spesso è suggellata dal patto della circoncisione: “Io circoincido mio figlio con il tuo, per questo siamo quasi parenti”».

Ma nella mentalità del pigmeo coltivare è assurdo. Da cacciatore, lui si procura da mangiare nella giornata, abbastanza per quel giorno. Seminare, innaffiare e pensare di avere cibo dopo settimane o mesi è impensabile per la sua concezione. Occorre un cambiamento di mentalità, ma ci vuole tempo.

La scuola «inculturata»

Un aspetto che ha interrogato molto i missionari è stato quello dell’educazione. «Il contatto con le altre popolazioni impone che i pigmei imparino a leggere e scrivere – sostiene padre Flavio -. Dobbiamo però tenere sempre presente che vogliamo valorizzare quello che loro danno per scontato, ma che stanno per perdere, ovvero la loro cultura. Per questo occorre prepararli in modo che siano in grado di conservare le loro tradizioni».

I bantu si sono adeguati allo stile e ai costumi europei. Questo anche a livello di scuola, che è strutturata come quella dei paesi colonialisti. Ma se, ad esempio, per i belgi ci sono quattro stagioni, per i pigmei ce ne sono solo due, ovvero la stagione secca e quella delle piogge. Inoltre per loro non ci sono i mesi, ma le lune. Per la scuola del bambino pigmeo bisogna tenere in conto di tutto questo. Se da settembre a novembre può venire a lezione, da gennaio in poi è stagione secca, deve andare in foresta a cacciare e raccogliere il miele. Quindi partirà con i suoi genitori, tornando magari dopo tre mesi. Inoltre, quando frequenta, il bambino pigmeo non riesce a stare fermo tutta la mattina. La scuola deve essere diversa anche come tempistiche. Ecco perché i missionari della Consolata si sono inventati la «scuola itinerante».

Così la descrive padre Flavio: «È una scuola che si adatta ai periodi dell’anno e alla periodicità dei giorni. L’insegnante passa nell’accampamento dei pigmei e inizia a dare nozioni di base. Poi si integra con un cosiddetto “esperto” dell’accampamento, ovvero un adulto che tiene lezioni su elementi specifici, come la caccia, la tessitura, e tutti gli altri aspetti della vita pigmea».

Un’altra difficoltà nell’insegnare ai pigmei è il fatto che sono molto concreti e hanno difficoltà con l’astrazione. «È piuttosto complesso ad esempio insegnare i numeri. Per spiegare il numero 8, ad esempio, prendo otto pietre, otto unità. Ma non c’è il concetto di una entità che si chiama “8”. Quindi il calcolo resta molto difficile per loro. Così come per insegnare l’alfabeto occorre associare un suono a ogni lettera. Sono categorie che devono acquisire, non sono spontanee.

Noi ci prepariamo le lezioni in lingua kibutu, che è una lingua bantu parlata anche dai pigmei, simile al kiswahili. A volte proiettiamo qualcosa su un panno bianco. Abbiamo visto anche molto interesse da parte degli adulti, che lasciano le loro occupazioni per venire a vedere cosa stiamo facendo».

Il villaggio mobile

Il pigmeo non ha un villaggio stabile. La sua capanna si può costruire in un giorno e, normalmente, è un incarico delle donne. I gruppi sono composti da una trentina di persone, senza contare i bambini, e sono entità che si spostano.

Inoltre, tradizionalmente, fino a pochi anni fa, non c’era un capo. C’erano dei referenti, responsabili di alcuni ambiti della vita della comunità: chi per la caccia, chi per far nascere i bambini, chi per la tessitura, ecc. Adesso, che hanno contatti con i bantu, è nata l’esigenza di avere un capo, perché occorre un referente unico per il gruppo.

Un altro effetto della contaminazione è quello legato alla monogamia. «I pigmei sono tradizionalmente monogami, perché in foresta non puoi permetterti due mogli e tanti figli. Oggi, con il contatto con i bantu, stanno assumendo altre usanze. Anche per la dote. Il matrimonio veniva fatto tra due gruppi con scambio di ragazze. Se si porta carne è per la festa comune, ma una ragazza vale una ragazza. Per i bantu, invece, se tua figlia si sposa devi chiedere dei beni all’altra famiglia. Diventa quasi una vendita.

Tra i pigmei al servizio dei bantu iniziano a entrare le abitudini dei bantu».

Anche dare uno stipendio a un pigmeo è difficile: «Si pagano tutte le settimane, perché una volta al mese non riescono a tenere i soldi. Un funzionario si trova ad avere un salario, ma non sa gestirlo. Spesso beve. Oppure paga anche per gli altri, condivide, come se nel  giorno di paga avesse cacciato un grosso animale. Ci sono stati maestri elementari pigmei, ma sono stati un fallimento. È una perdita di identità al 100%: dicono di non essere più pigmei, però si accorgono di non essere nemmeno bantu, perché vengono discriminati. Rifiutano i loro fratelli e sono rifiutati da quelli con cui si identificano».

Il lavoro dei missionari

«Ci sono villaggi bantu nei pressi dei quali sorgono due, tre accampamenti pigmei. Noi andiamo al villaggio, lasciamo la moto e poi entriamo in foresta a piedi, fino all’accampamento.

Tre anni fa, si era creato un accampamento grosso, fusione di due gruppi. Lì mi avevano fatto una capanna e io vivevo con loro tre giorni alla settimana.

Per preservare la loro cultura cerchiamo di raccogliere e conservare tutto quello che è il loro mondo, sia a livello di medicina tradizionale, sia di narrazioni. Ma è un lavoro agli inizi. Quello che manca, guardando altri casi simili, come il popolo Yanomami in Amazzonia, è la mancanza di una sensibilità al riguardo. Penso sia frutto di un lavoro, ma forse anche di una sensibilità latinoamericana diversa. I pigmei non dicono “la nostra tradizione, i nostri costumi”. Devi essere tu che indichi loro: “I vostri costumi”. A volte il pigmeo ha vergogna dei suoi costumi. Questo perché quando sei considerato inferiore, dopo un po’ ti convinci di esserlo».

Padre Flavio Pante sostiene che occorre anche lavorare sulla popolazione bantu per un cambiamento di mentalità nei confronti dei pigmei. Ma si tratta di un lavoro molto difficile, «perché i bantu si sentono i padroni della gente». Inoltre il missionario è sempre uno straniero, e i bantu hanno troppi interessi da difendere. Noi cerchiamo di fare un discorso con i cristiani: non possiamo accettare questa logica.

«Per i sacramenti e la preghiera, cerchiamo di celebrare con la comunità unita, ovvero insieme bantu e pigmei. I pigmei vengono a messa. La partecipazione nel canto e nella danza è più difficile: i bantu ridono dei pigmei che danzano. Inoltre la musica pigmea non ha parole, ha suoni anche con la bocca».

E conclude: «C’è in noi la volontà di continuare ad occuparci delle popolazioni pigmee. Ma gli africani, in genere, non sono molto attirati a lavorare con loro».

Marco Bello


Archivio MC


Dalle elezioni alla formazione di un nuovo governo

Alternanza? Sì, no, forse

Le elezioni del dicembre 2018 hanno dato al Congo un nuovo presidente, dal cognome famoso, ma senza maggioranza parlamentare. Da allora sono passati otto mesi alla ricerca di un difficile consenso tra gruppi politici, per governare uno dei paesi più ricchi di materie prime del continente.

Forse ci siamo. La Repubblica democratica del Congo avrà, infine, il suo nuovo governo. La lista dei suoi 65 membri è stata resa pubblica il 26 agosto. Da ormai sette mesi, dal suo insediamento, il 25 gennaio scorso (in seguito a elezioni presidenziali, legislative e amministrative), il nuovo presidente della repubblica Félix Tshisekedi, tenta di costituire il governo (l’Rdc è una repubblica presidenziale). Tshisekedi è il figlio di Etienne, l’eterno oppositore che non è mai riuscito a conquistare il potere, se non per alcune brevi esperienze di governo come primo ministro. Etienne dopo aver perso l’ultima sfida nel 2011 contro Kabila, è morto il primo febbraio del 2017.

Félix ha vinto a sorpresa le elezioni presidenziali, molto contestate in realtà, alla testa del partito fondato da suo padre, l’Unione per la Democrazia e il Progresso Sociale (Udps), facente parte del più vasto gruppo politico Cap pour le changement (Cach). Nel frattempo il Fronte comune per il Congo (Fcc), la coalizione dell’ormai ex presidente Joseph Kabila, ha vinto massicciamente le legislative e le amministrative, assicurandosi una maggioranza confortevole all’Assemblea nazionale e al Senato (le due camere del parlamento congolese).

Tshisekedi ha dunque dovuto intavolare un negoziato con gli ex padroni del paese per tentare di creare un governo.

«Il contesto politico è cambiato in Rdc – scrive il Gruppo di studio sul Congo dell’Università di New York -. Joseph Kabila anche se è ancora potente, con una maggioranza parlamentare schiacciante, non è più l’uomo forte di Kinshasa. L’ex presidente non ha più l’ultima parola su tutto».

Joseph Kabila era salito al potere il 26 gennaio del 2001, alla morte di suo padre Laurent-Désiré Kabila, ucciso da una sua guardia del corpo in circostanze ancora da chiarire. Era in corso la cosiddetta Seconda guerra del Congo (1998-2003). Laurent-Désiré aveva guidato una ribellione appoggiata da Burundi, Rwanda e Uganda, che aveva portato a rovesciare il presidente-padrone del paese Mobutu Sese Seko nel maggio del 1997, durante la Prima guerra del Congo (1996-1997). In questa occasione Kabila padre aveva cambiato il nome dello Zaire nell’attuale Repubblica democratica del Congo.

Joseph ha quindi mantenuto il potere, conquistato con la forza, confermandolo con due elezioni successive (2006 e 2011). Il suo ultimo mandato, non rinnovabile, sarebbe scaduto nel dicembre del 2016, ma lui ha rinviato progressivamente le elezioni, eliminando anche i potenziali oppositori, come Moise Katumbi, costretto all’esilio in Belgio, e limitando la libertà di stampa.

Una deriva anticostituzionale che ha causato reazioni della società civile che, a più riprese, ha chiesto al leader di lasciare il potere. In particolare la chiesa cattolica si è posta inizialmente come mediatrice, tra il presidente e l’opposizione, ottenendo la promessa di Kabila di organizzare elezioni a fine 2017. In seguito, visto che l’impegno non veniva mantenuto, la chiesa ha organizzato manifestazioni pacifiche a cui hanno aderito molti cristiani e i leader dell’opposizione, per chiedere il rispetto degli accordi.

Il 31 dicembre 2017 una di queste manifestazioni è stata prima ostacolata e poi repressa dalle forze dell’ordine. Si sono registrati 6 morti, 57 feriti e 111 arrestati, secondo la Monusco (Missione della Nazioni Unite in Congo). Il confronto tra il potere di Kinshasa e la chiesa cattolica congolese si era fatto duro.

Finalmente, con molte difficoltà, anche logistiche, in un paese di 2,5 milioni di km2 scarsamente collegato e con 45 milioni di elettori, le consultazioni si sono svolte nel dicembre del 2018. Le urne, come detto, hanno restituito una situazione complessa e le due coalizioni hanno faticato a trovare un accordo. Nel maggio scorso il presidente ha nominato Sylvestre Ilunga Ilunkamba primo ministro, e questi ha lavorato per produrre una lista di ministri gradita a entrambi i gruppi politici. Su 65 posti ministeriali (ministri e sottosegretari), 23 vanno alla coalizione di Tshisekedi, Cach, e 42 a quella di Kabila, Fcc. Alla prima vanno i dicasteri dell’Interno e Affari esteri, alla seconda Giustizia, Difesa e Finanze. Intanto la società civile denunica un incremento di casi di appropriazione indebita di fondi a livello dei ministeri, negli ultimi otto mesi.

Ma.Bel.

Felix Tshisekedi, nuovo presidente del RD Congo / Photo by ANDREW CABALLERO-REYNOLDS / AFP




RD Congo. Pigmei, scuola, foresta: un momento difficile


Dagli anni Novanta i missionari della Consolata sono presenti fra i Pigmei Bambuti di Bayenga, nella Repubblica Democratica del Congo. Dal 2007 l’équipe missionaria può contare su padre Andrés García Fernández, missionario della Consolata di origine spagnola. Nell’inverno scorso è stato in Camerun a osservare il lavoro che i Fratelli delle scuole cristiane portano avanti nel paese con i Pigmei Baka nel campo dell’istruzione.

Mezzo milione di persone distribuite fra Repubblica Democratica del Congo, Repubblica Centrafricana, Camerun, Rwanda, Burundi e Uganda: queste le dimensioni della comunità pigmea secondo le stime riportate da Survival International, organizzazione che si occupa della difesa dei diritti dei popoli indigeni in tutto il mondo. Si tratta di un popolo che vive a stretto contatto con la foresta, spesso al suo interno, vivendo di caccia e raccolta. Il rapporto con le vicine popolazioni bantu, maggioritarie, è difficile: un po’ per lo scontro antico fra chi, come i Pigmei, la foresta la vive come casa, rifugio e riserva di cibo e chi, invece, la taglia per ottenerne terreni da coltivare, come è il caso dei Bantu, agricoltori. E un po’ per i pregiudizi che quasi sempre accompagnano i conflitti per le risorse: i Bantu vedono nei Pigmei degli esseri inferiori, dei selvaggi da sfruttare o isolare, mentre per i Pigmei i loro vicini sono i padroni violenti che rubano loro la foresta e li costringono con la forza a fare da servi per sopravvivere.

Oggi, la speranza di vita di un Pigmeo è fra i 40 e i 45 anni contro una media dei Bantu di 59. La mortalità infantile nei bambini fino a cinque anni, che fra i Bantu è al 20%, raddoppia fra i Pigmei.

Cambiare questa situazione è un lavoro lungo, delicato e costantemente a rischio. Ma in Camerun il metodo applicato dai Fratelli delle scuole cristiane (detti anche Lasalliani dal nome del loro fondatore, Jean-Baptiste de La Salle) sta lentamente provando a creare le condizioni perché i Pigmei escano dal misto di vergogna e rassegnazione in cui anni di discriminazioni li hanno confinati. Abbaimo fatto alcune domande a padre Andrés che con padre Flavio Pante è nella missione di Bayenga e lavora con i Pigmei da 10 anni e recentemente è stato in Camerun.

Andrés, perché questo viaggio-studio in Camerun?

«Per studiare il metodo O.R.A., che i Fratelli applicano nell’istruzione prescolare dei Pigmei Baka. Anche qui in Congo lo conoscevamo, ma in Camerun lo usano da più tempo e in maniera più organizzata. Guidato da fratel Gilbert Ouilabegue, ho visitato le tredici scuole fondate da fratel Antornine Huysmans nella zona di Lomié, regione dell’Est. Le chiamano Centri di Educazione di Base per evitare che siano classificate come scuole ufficiali e, per questo, tenute a rispettare programmi, calendari e metodi ufficiali che sarebbero del tutto inadeguati per i Pigmei».

Che cosa significa O.R.A.?

«È l’acronimo di Osservare-Riflettere-Agire. Il metodo si applica negli anni precedenti la scuola primaria con bambini fra i cinque e gli otto anni. Fratel Antornine, ideatore di O.R.A., pensava che fosse inutile tentare di chiudere in un’aula scolastica dei bambini abituati a vivere liberi nella foresta, senza muri né orari, e formati fino ad allora alla «scuola della vita», dove i maestri erano i loro genitori e fratelli maggiori e le materie l’uso dell’arco o le tecniche per pescare.

Così, un po’ alla volta e con l’aiuto anche di alcuni Bantu della zona, Antornine cominciò a ideare una pedagogia dinamica, che si adattasse ai ritmi, alla lingua e alla cultura dei Baka invece che mirare alla completa omologazione di questi ai Bantu. Il metodo si basa su questi tre principi: osservare, riflettere, agire, perché sono il più vicino possibile al modo in cui i bambini pigmei sono abituati ad imparare, cioè per osservazione ed emulazione degli adulti».

Come funziona in concreto?

«Innanzitutto, bisogna considerare che la funzione di questa pre-scuola è anche quella di liberare i bambini dalla paura della classe, del maestro, della lavagna e del parlare in pubblico. Si cerca sempre di coinvolgerli con canti, racconti, giochi di ruolo. Come punto di partenza si usa un disegno, che poi resta lì come per invogliare ad ascoltare la storia che segue. Ogni lezione, infatti, si apre con una piccola storia che introduce la parola, il numero, il concetto che si vuole insegnare».

E quanto ai contenuti?

«Nel primo anno, i bambini cominciano parlando nella lingua baka. Il punto di partenza, dicevo, sono i disegni che rappresentano scene quotidiane del campement (accampamento) pigmeo. Da qui si passa a nozioni di base come grande/piccolo, uguale/diverso, lungo/corto, poi ai primi segni grafici, alle cinque vocali e ai numeri da uno a sei, sempre partendo dalla lingua baka per poi tradurre in francese. Verso la metà del primo anno i bambini imparano qualche consonante, incominciano a formare delle sillabe, a fare qualche operazione aritmetica. Al termine del secondo anno, sono in grado di fare addizioni, sottrazioni e moltiplicazioni con i numeri da zero a venti e di parlare francese con una fluidità che mi stupisce ancora oggi, se penso che non sono ancora alla scuola primaria».

Che cosa ti sembra che funzioni particolarmente bene nel metodo O.R.A.?

«Te lo dico con un esempio. Ricordo la dinamica di una classe con un’insegnante, Souzanne, che era davvero splendida: non ha mai sgridato nessuno, non è stata quasi mai alla lavagna. Quello era il posto dei bambini che, uno alla volta, ci andavano spontaneamente per partecipare, scrivere, cantare, mostrare un oggetto, un frutto. Lei è davvero una formidabile narratrice di storie che fa «sognare» chi la ascolta. Gli allievi vengono sempre incoraggiati, non sono giudicati o valutati per il risultato ma per lo sforzo. Ho visto in quei bambini la voglia di venire a scuola, di scoprire, d’imparare, di essere… protagonisti».

A questo punto i bambini sono pronti per la scuola elementare ufficiale?

«Sì, e nei primi anni si distinguono rispetto ai loro pari per il livello di scrittura e lettura. Poi, però, in Camerun come da noi, cominciano i problemi. I pregiudizi, che i bambini bantu «assorbono» dai loro genitori, cominciano a farsi strada e i Pigmei – che spesso non hanno l’uniforme, le scarpe o il sapone per lavarsi prima di andare a scuola – diventano l’oggetto di beffe e dispetti. Questa stigmatizzazione a poco a poco umilia e scoraggia i Pigmei, che finiscono per lasciare la scuola. Qui a Bayenga, su cento che iniziano la scuola primaria solo cinque o sei arrivano a concluderla (alle volte neanche uno)».

Per chi ce la fa, la vita cambia in meglio?

«Non direi. A scuola, i ragazzi pigmei hanno preso coscienza dell’immagine che i Bantu hanno di loro, hanno visto le differenze e capito perché gli altri hanno certi atteggiamenti al loro riguardo: per questo vivono il ritornare al campement come una sorta di arretramento. D’altra parte, inserirsi nel villaggio assieme ai Bantu è come piantare un albero senza radici, fra persone che non li accettano come propri pari e che tendono a imporre loro delle relazioni verticali, gerarchiche. Per molti si apre la strada di quella che noi chiamiamo la destrutturazione, dove alcol e cannabis diventano i mezzi con cui tenere a bada, nell’immediato, la frustrazione e la depressione e portano presto all’abbrutimento».

Arriviamo così a parlare del rapporto fra Pigmei e Bantu che piano piano, anche grazie a strumenti come il metodo O.R.A., state cercando di rendere meno conflittuale.

«Sì, ma non sarà un processo breve né semplice. La relazione fra i due gruppi nel territorio della nostra parrocchia qui a Bayenga è assai complessa: alcuni Pigmei erano già qui quando i Bantu arrivarono nella grande foresta che copriva la zona; altri sono arrivati con i loro padroni bantu da diverse zone del Congo per cercare lavoro nelle piantagioni belghe e greche, ai tempi della colonizzazione. In generale, si può dire che ci sono famiglie bantu che sono proprietarie di gruppi di Pigmei, e succede che un proprietario si riferisca ai Bambuti come ai «miei Pigmei, i Pigmei che mi ha lasciato mio padre quando è morto». Questi Pigmei sono in qualche modo parte della famiglia, ma come servi, non come membri alla pari degli altri (per maggiori dettagli sul rapporto fra Bantu e Pigmei vedi articolo Echi dalla foresta, di M. Bello, MC ottobre 2012).Invece ora, già per il fatto di sentirsi accompagnati e voluti bene da noi così come sono, incoraggia alcuni Pigmei a relazionarsi con dei Bantu su basi più paritarie. Ci sono anche dei Bantu che già s’avvicinano ai Pigmei con altro approccio, con una nuova maniera di relazionarsi che non è più quella del padrone con lo schiavo».

Di recente è apparso in Italia un articolo che parla del conflitto fra Pigmei e Bantu nella regione del Tanganika, nel Congo orientale. Lì, dall’estate 2016 ci sono stati quasi 500 morti, 2.500 feriti e 70 mila sfollati prevalentemente Bantu. I Pigmei si sono armati e combattono, bruciano villaggi, uccidono chi non scappa.

«Non conosco la situazione di quella regione, ma mi pare che quel che avviene qui a Bayenga sia piuttosto il contrario: i Pigmei, pacifici abitanti della foresta, hanno accolto senza condizioni i Bantu al loro arrivo. Poi si sono create relazioni di sfruttamento (soprattutto nei lavori dei campi) ma anche di «simbiosi»: i Pigmei sentono il bisogno di ritornare dai padroni bantu per vendere la selvaggina, il miele, i frutti presi nella foresta. Ci sono conflitti, sì, ad esempio quando i Bantu non pagano i Pigmei e questi rubano nel campo del padrone, o gli sottraggono una gallina. Ma lo fanno per sopravvivere, non per lucrare, e senza usare la violenza. Di solito queste scaramucce vengono regolate in «famiglia» o dal giudice di pace locale. Purtroppo, però, non posso escludere che la situazione si evolva nella direzione che l’articolo descrive per il Tanganika».

Che cosa potrebbe portare al conflitto?

«Nella nostra missione ci sono circa tremila Pigmei e quattordicimila Bantu. Le attività economiche che la maggioranza bantu svolge – agricoltura, taglio e commercio del legno, sfruttamento minerario – fanno precipitare in fretta la foresta e i suoi biomi verso una situazione non sostenibile dal punto di vista ambientale e sociale, e non solo per i Pigmei. Ci sono molti interessi in gioco e molto poca formazione per affrontarli: è grande l’ignoranza che si rallegra del profitto veloce delle miniere e dell’esportazione del legno. Nella quasi totale assenza dello stato, la foresta diviene piazza aperta per quanti hanno un po’ di forza fisica o economica per sfruttarla».

Okapi nella Okapi Wildlife Reserve (© Kim S. Gjerstad)

La vecchia storia del Congo supermercato a cielo aperto alla mercé di chiunque abbia abbastanza armi o soldi.In un rapporto del 2015 dal significativo titolo Exploiter (dans) le désordre, la Caritas e la Commissione giustizia e pace della diocesi di Wamba spiegano la situazione della Riserva Forestale degli okapi (Rfo), a una manciata di chilometri da Bayenga. Secondo il rapporto, nel parco ci sarebbero una settantina di cantieri artigianali – uno di questi sarebbe in grado di produrre oro per 300 mila dollari settimanali – dove lavorano decine di migliaia di minatori informali. Sempre secondo il documento, a questi cantieri si aggiungono poi quelli semi industriali e industriali nei dintorni della Rfo:  a competere per la corsa all’oro ci sono proprio tutti, dai minatori artigianali alle grandi compagnie minerarie come la Kilo Goldmines, passando per le Fardc (l’esercito congolese) e le milizie ribelli.

«Esattamente. Fra la Rfo e la foresta intorno a Bayenga non c’è praticamente soluzione di continuità e i Pigmei Bambuti da sempre hanno cacciato in quest’area. Non l’okapi, però, visto che si concentrano su prede più piccole. Eppure, ora è proibito a tutti l’accesso alla riserva, i cui limiti sono stati fissati senza interpellare né i Pigmei né i Bantu. L’ente responsabile della vigilanza al parco dice che l’interdizione riguarda qualche specie soltanto, ma visto che non ha mezzi e personale sufficienti per fare i controlli, il risultato è il divieto assoluto di caccia e, addirittura, di passaggio nella riserva. Questa interdizione è rafforzata dalle attività dei ribelli e dei cacciatori di frodo, che invece nella Rfo ci sono e non gradiscono la presenza di possibili testimoni delle loro attività. Sì, come vedi c’è molto di più in ballo che non la convivenza fra due gruppi umani che faticano ad accettare l’uno lo stile di vita dell’altro».

Quello che racconti ricorda molto le difficoltà che i nostri missionari hanno affrontato e affrontano in Amazzonia.

«Ci sono molte somiglianze, sì, ma anche molte differenze. Qui non c’è mai stata una demarcazione delle terre indigene né un riconoscimento giuridico dei diritti dei Pigmei. Quello che noi cerchiamo di fare è accompagnare tanto i Bambuti quanto i Bantu in un cammino di reciproca conoscenza e comprensione che, se da un lato probabilmente dovrà passare per un adattamento dei Pigmei al contesto circostante, cerca però anche di evitare l’omologazione e valorizzare e difendere le caratteristiche dei Bambuti e della foresta che esso abita. Foresta che, vale la pena di ricordarlo, è un patrimonio per tutto il pianeta».

Chiara Giovetti




RD Congo: Le pietre che danno il pane


A Kinshasa una cava di pietre fa vivere decine di persone. Ma è un lavoro durissimo, svolto anche da donne e bambini. Il sito è sorvegliato da militari ed è impossibile accedervi. Un giovane giornalista congolese è riuscito a penetrarvi e ci ha affidato questo strabiliante reportage.

Kinshasa. Non solo coltan, oro e minerali preziosi. In Repubblica Democratica del Congo, anche la semplice pietra è oggetto di sfruttamento artigianale. Anche dove meno te l’aspetti: ad esempio in una una cava di ghiaia in piena capitale. E non in qualche periferia degradata, ma nel cuore di Kinshasa, nel quartiere Ngaliema, uno dei più antichi, a poca distanza dal palazzo presidenziale. Siamo sul fiume Congo: qui si trova la lussuosa residenza di Joseph Kabila, il presidente «scaduto» che non vuole lasciare la poltrona (il 19 dicembre 2016 Kabila ha terminato il suo mandato, ndr), poco oltre, un inferno di ghiaia bianca, dove la miseria spinge disperati di ogni età a un lavoro durissimo, senza alcuna tutela, solo per guadagnare i pochi spiccioli necessari a sbarcare il lunario. Da un lato chi ha in sedici anni di potere ammassato una fortuna stimata in 15 miliardi di dollari, dall’altro una massa di miserabili che paiono usciti da un racconto ottocentesco. La cava è sorvegliata da militari e accedervi non è possibile, salvo alcune rare eccezioni.

Un popolo di clochard

Parliamo di un popolo «clochardisé» (ovvero: reso clochard o barbone, ndr), le cui condizioni di vita continuano a deteriorarsi. Alla ricerca del pane quotidiano, alcuni congolesi si lanciano in una attività piena di potenziali rischi: la produzione di pietre e ghiaia per l’edilizia. In un paese che non offre opportunità e in cui il tasso di disoccupazione cresce ogni giorno, l’80% dei congolesi sono esposti alla mancanza di lavoro. Abbandonati a se stessi, migliaia di persone vengono qui nella cava a cercare lavoro, a volte anche a rischio della vita.

La Repubblica Democratica del Congo non ha solo ingenti ricchezze nel sottosuolo, ma offre anche enormi rocciosi, persino all’interno della capitale. Ogni categoria di persone si ritrova qui con un solo obiettivo: tagliare pietre. Uomini, donne, giovani, vecchi e anche bambini. Nessuna età è risparmiata. Se la convenzione internazionale dei diritti del bambino, istituita dall’Onu nel 1989, all’art. 32 stabilisce che «il bambino ha il diritto di essere protetto da ogni tipo di lavoro che metta in pericolo la sua salute, la sua educazione e il suo sviluppo», in questo luogo accade il contrario: i bambini sono esposti a ogni genere di rischi, privati della loro educazione, dei loro diritti sociali e sono presi nella trappola della miseria. Un futuro compromesso che non offre speranza di riscatto.

In questo luogo, anche le donne prendono parte attiva per nutrire la famiglia. Malgrado sia un lavoro esercitato normalmente da uomini, a causa della forza fisica richiesta, anche le donne, per necessità si ritrovano a svolgerlo, in un universo nel quale la povertà rovina la popolazione. Tutti sono alla ricerca della sopravvivenza, non importa il prezzo da pagare. Per ottenere una buona quantità di ghiaia alla fine della giornata, le donne sono infatti esposte a ogni tipo di rischio.

Finita la fatica fatta per spaccare le pietre, resta poi la difficoltà di trovare un compratore, tappa cruciale che fa parte della penitenza di questa attività. E il prezzo è irrisorio: 700 franchi congolesi, mezzo euro, a secchio. Le donne sono obbligate a lavorare anche tutta la giornata per arrivare a raccogliere una media di cinque secchi e portare così a casa 3500 franchi, il minimo necessario per la sopravvivenza.

La maggioranza di queste donne vive sotto la soglia della povertà, a volte sono senza marito oppure vedove. Sotto un caldo torrido, a rischio di malattie trasmesse dall’acqua e di pesanti infortuni.

Jacobo, il giovane

Nessuna età è esclusa da questa attività. Jacobo Cédrick è un giovane di 28 anni: aveva lasciato la Rdc per cercare lavoro in Congo Brazzaville, ma il suo sogno si è trasformato nel peggiore degli incubi. Espulso da Brazzaville, si è ritrovato in questo sito a spaccare pietre e produrre ghiaia, producendo da 10 a 20 secchi al giorno, per guadagnare dai 5 ai 10 euro. Ha un figlio a carico ma nessuna moglie. Copre i suoi bisogni e quelli del bambino con questa attività. Anziché darsi alla criminalità o alle rapine, fenomeno in crescita a Kinshasa e spesso praticato dai giovani kinois (nome degli abitanti della capitale) espulsi da Brazzaville, Jacobo lavora ogni giorno, domeniche comprese, per mantenersi. «Sono fiero di questo lavoro – dice a testa alta – malgrado il governo non si occupi di noi. Ciò che deploriamo sono le cattive condizioni di sicurezza nella nostra attività».

Christine, la madre

Maman Christine, madre di 9 bambini, fa questo lavoro dal 2001. Tutti i figli sono stati allevati e scolarizzati grazie alla sua fatica quotidiana nella cava. Con un marito disoccupato, Christine si batte quotidianamente per la sopravvivenza. «Siamo molto esposti in questo lavoro e i rischi sono ingenti. Malgrado ciò, non abbiamo altra scelta. Mio marito non lavora da oltre 15 anni e la vita con i bambini diventa dolorosa, sono obbligata a fare qualcosa. Gli inizi sono stati molto complicati, ma alla fine…», sospira, senza terminare la frase. «Molte ragazze sono esposte a causa della povertà», conclude.

Papy, il padre di famiglia

Papy lavora in questo luogo da due anni. Sposato e padre di quattro bambini, ogni settimana riesce a produrre l’equivalente di 100 dollari di pietre. Martello, scalpello e ferri vecchi, sono questi gli attrezzi del mestiere che Papy utilizza per ridurre quantità di pietra in ghiaia. Per mancanza di un minimo di struttura e organizzazione nella cava, spesso questi artigiani perdono pure quel minimo che spetterebbe loro a causa dei «commissionnaires», agenti che si propongono come mediatori fra venditore e acquirente e che lucrano impietosamente sui guadagni di Papy e degli altri.

L’appropriazione indebita avviene regolarmente in complicità con le autorità municipali. Le proteste degli artigiani della cava restano sempre inascoltate, in un paese in cui il livello di corruzione ha ormai raggiunto il grado di metastasi. «L’unico vantaggio in questa attività – sottolinea Papy – è che posso sfamare e mantenere i miei figli».

Isaac, il Robot

Isaac, detto «Robot», è un ragazzo molto dinamico. Cinque anni d’esperienza, Robot si è conquistato il suo personale successo nella cava. La sua forza, la sua determinazione, la sua motivazione lo portano a dimenticare il tempo che passa e a continuare a lavorare indefessamente. Se all’epoca si utilizzavano dinamite ed esplosivi per rompere le pietre, oggi tutto è vietato e la forza manuale resta l’unica che permette la produzione e decide la quantità di merce prodotta e ciò che si può sperare di guadagnare. Per inciso, che gli esplosivi siano stati vietati non è stata una misura a tutela dei lavoratori, ma una decisione imposta da un senatore che abita nel quartiere, probabilmente disturbato dal rumore delle esplosioni.

La vita in questo luogo non è per nulla facile. Serve forza, coraggio, determinazione e accettare ogni rischio che può arrivare. «Siamo pronti e sappiamo molto bene che ci sono rischi permanenti in questa attività senza protezione, siamo esposti anche a pericolo di vita, a volte. Ma se incrociamo le braccia, la manna non scenderà mai dal cielo, è il nostro destino».

Jean, l’anziano

Jean Ndota Kiwuta è tra i pionieri di questa attività. Responsabile di una spazio da sfruttare in questo sito dal 1972, coi suoi 4 figli, questo anziano lavoratore della cava si rallegra di aver retto per anni in questa attività così pericolosa. Oggi, con la vecchiaia incombente, pensa di lasciare il lavoro, fiero di aver scolarizzato i suoi figli con dura fatica.

Hyppolite

Un sorriso che contiene molte pene e angosce: lui è Hyppolite, 37 anni e 5 figli, fa questo lavoro da 10 anni. «Ciò che è già tuo vale di più di ciò che potresti avere in futuro», afferma, riassumendo la sua ragion d’essere in questo sito con la citazione di un adagio di La Fontaine.

Esther e Deborah

Di 13 e 14 anni, Esther e Deborah lavorano nella cava con la madre già da due anni, aiutandola a racimolare una buona quantità di ghiaia per trovare qualcosa da mangiare. La miseria in Congo porta molti minori a esporsi a qualunque attività.

Eternel, l’uomo vampiro

Una dimostrazione di forza: Eternel, soprannome dovuto alla sua forza incredibile, può sollevare ogni giorno fino a una cinquantina di pietre che pesano da 70 a 100 kg. Soprannominato anche l’uomo vampiro. Per questo, il suo ruolo è il caricamento delle pietre nei camion, altra tappa fondamentale e pericolosa del lavoro nella cava. Quando un compratore arriva, massi e ghiaia vanno caricati sui mezzi. È il momento più atteso dagli lavoratori, la risposta a tutti gli sforzi della giornata. Se i veicoli arrivano al sito, significa che la vendita è fruttuosa e l’energia impiegata troverà ricompensa.

La cava di Ngaliema, sulla riva del fiume Congo, è a suo modo un ambiente di lavoro conviviale, molto solidale, che ricorda un formicaio dove ognuno ha il suo compito: gli uni tagliano le pietre, gli altri le trasportano e le caricano su camion.

La Rdc è un paese potenzialmente ricco, ma di tale ricchezza beneficia una minoranza dei dirigenti al potere. Oggi, la fortuna dell’attuale presidente uscente Joseph Kabila è stimata in oltre 15 miliardi di dollari e la sua famiglia detiene più di 70 imprese, secondo un’inchiesta pubblicata recentemente1. Mentre la popolazione continua a vivere nella miseria. E la pesante crisi politica in corso non agevola certo la vita quotidiana dei congolesi: nulla assicura la speranza in un avvenire migliore.

Grevisse Musema*
(tradotto e adattato da Giusy Baioni)
* Grevisse Musema è un giornalista congolese indipendente, specializzato in questioni umanitarie e in zone di conflitto. Appassionato di ambiente ha lavorato alla Televisione nazionale congolese (Rtnc2).

Nota (1): Bloomberg.com, With his family’s fortune at stake, president Kabila digs in, 15 dicembre 2016.




Rd Congo Kinshasa la bella


Kinshasa è un paese nel paese. Vi si trovano grandi bidonville e città super lusso. Case di latta e grattacieli. Aumenta al ritmo 390mila abitanti all’anno. Mentre mancano i servizi di base, come l’acqua potabile e le fogne. Viaggio nei quartieri simbolo della capitale congolese.

Kinshasa. Da oltre 25 anni, Christian si prende cura sia dei vivi che dei morti. Ai primi taglia i capelli, ai secondi scava la fossa. La sua sede di lavoro è sempre la stessa: il cimitero di Kinsuka, all’estrema periferia occidentale di Kinshasa, la capitale della Repubblica democratica del Congo (Rdc). Kinsuka in lingala, la principale lingua del paese, significa letteralmente «la fine di Kinshasa»: un nome apparentemente calzante per un quartiere noto per il suo cimitero.

Le donne stendono i panni tra i rami degli alberi del cimitero, o trascinano i secchi colmi d’acqua raccolta dai pozzi. Dicono che quell’acqua abbia un sapore stranamente acido. Eppure a ispirare ansia non è né il rischio di contaminazione della falda acquifera né lo spirito dei morti. Ben più oscura e minacciosa è la burocrazia congolese. Soprattutto in uno spazio conteso come il cimitero di Kinsuka.

Baracche di lamiera spuntano accanto alle tombe. Alcune sono fantasmi di case in muratura che esistevano a poca distanza. I proprietari conservano gelosamente gli atti di proprietà, per i quali hanno pagato i funzionari locali. Il likasu è un piccolo frutto dal sapore dolciastro, ma anche il nome usato in Congo per il denaro fatto scivolare furtivamente nelle mani di ufficiali e amministratori per aprire porte o ottenere permessi.

È così che centinaia di famiglie hanno avuto l’autorizzazione per costruire nel cimitero. Ma con nuovi arrivi ogni giorno, il valore dello spazio del cimitero continua a salire e i likasu non sono mai abbastanza. Delle case vengono demolite, altre vengono erette, mentre nuove tombe si aggiungono alle precedenti.

Il cimitero di Kinsuka è lo specchio di una città in cui la crescita vertiginosa di popolazione travolge anche i muri tra i vivi e i morti.

Inurbamento selvaggio

I nuovi kinois, come sono chiamati gli abitanti di Kinshasa, arrivano dalle province orientali lacerate da una miriade di guerriglie, dalle province centrali, dove le miniere traboccanti di diamanti sono ormai solo un ricordo, dal Nord, dove il recente conflitto nella Repubblica Centrafricana ha costretto alla fuga i profughi di guerre precedenti. Dal Kivu, dal Kasai, dall’Equateur: in migliaia, ogni settimana, discendono la corrente del fiume Congo viaggiando per giorni su barconi che assomigliano a villaggi galleggianti, finché il corso d’acqua si allarga in un’ansa e, sulla riva meridionale, appaiono, velati da un sipario di vapore acqueo, gli svettanti edifici di Gombe, il distretto degli affari che nell’era coloniale era interdetto ai nativi.

Secondo le stime di Un-Habitat, l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di sviluppo urbano sostenibile, 390mila persone, ogni anno, si riversano a Kinshasa, per sfuggire alla guerra o alla povertà, ma anche per studiare o inseguire una speranza.

È come se, ogni anno, la capitale congolese fagocitasse una città di medie dimensioni, digerendola nel suo tessuto urbano che pulsa al momento di oltre 12 milioni di anime.

Nell’annuale rapporto The State of African Cities, Kinshasa è entrata proprio quest’anno nella tea delle megacittà africane, dopo il Cairo (Egitto) e Lagos (Nigeria), al di sopra della media di un continente che pure rappresenta la regione al mondo col maggior tasso di urbanizzazione. Secondo le previsioni, entro il 2035 la metà della popolazione africana vivrà in aree urbane. Eppure, ancora oggi, nelle città africane due abitanti su tre vivono in baraccopoli. Una situazione a cui l’agenda d’azione redatta nella conferenza di Addis Abeba per i finanziamenti allo sviluppo del 2015 dedica ampio spazio: un boom demografico troppo rapido può avere effetti devastanti su spazi urbani particolarmente fragili, soprattutto sulle infrastrutture idriche e i servizi di gestione dei rifiuti, aumentando il rischio di epidemie.

Nel 2012, WaterAid, una Ong britannica che si occupa di progetti sull’acqua, ha avviato un programma per studiare soluzioni sostenibili per le infrastrutture idriche di Maputo, in Mozambico, Lusaka, in Zambia, Lagos, in Nigeria, e, per l’appunto, Kinshasa. Secondo John Garrett, analista di WaterAid che si occupa dell’iniziativa, il caso di Kinshasa è particolarmente drammatico. «La città manca di una rete fognaria pubblica e solo i quartieri benestanti dispongono di fosse settiche», dice. «In alcune zone esistono latrine comuni di cui si occupa la Ratpk, la società pubblica che gestisce la distribuzione idrica, alcune Ong e operatori privati. Ma la massa di rifiuti organici prodotti quotidianamente è talmente elevata che la maggior parte viene dispersa nell’ambiente».

Un grande immondezzaio

Un tempo la chiamavano Kin la Belle; oggi, per i kinois, è Kin la Poubelle, ovvero l’immondizia in francese, per l’enorme quantità di rifiuti prodotti e l’incapacità del governo di gestirli.

L’Unione europea, l’agenzia statunitense per la cooperazione Usaid e alcune altre, soprattutto francese e giapponese, hanno avviato dei programmi d’intervento sulle infrastrutture urbane. Ma per la maggior parte delle organizzazioni inteazionali Kinshasa è solo una base d’appoggio per le operazioni nell’Est del paese, dove la guerra civile continua ad uccidere.

I maggiori partner economici della Repubblica democratica del Congo, la Cina su tutti, hanno rimesso in sesto le principali strade della capitale in cambio di concessioni minerarie, ma rimangono ampie zone d’ombra anche a pochi chilometri dal palazzo in cui il presidente Joseph Kabila governa dal 2001, e dal quale sembra di non volersene andare (vedi Box).

Assenti all’interno delle baraccopoli, le forze di sicurezza ne controllano però l’accesso. «Gli stranieri potrebbero dare un’immagine negativa del paese», ci dice un funzionario di polizia, riferendosi a Pakadjuma, un insediamento illegale che si snoda lungo la ferrovia che unisce Kinshasa a Matadi, il maggiore porto fluviale del sud del Congo, a ridosso del bacino in cui vengono riversati gli scarichi delle fosse settiche della città.

Il torrente Kaluma taglia la baraccopoli, attraversa il bacino e prosegue oltre per affluire nel fiume Congo. Pur essendo un agglomerato di baracche, Pakadjuma è una delle aree di Kinshasa abitate ininterrottamente da più tempo.

La posizione strategica lungo la ferrovia e a poca distanza dalle rive del fiume ne ha fatto fin dall’inizio del ventesimo secolo uno snodo cruciale per i sudditi del Congo belga prima, e quindi per i cittadini dello Zaire e della Rdc che confluivano nella capitale per lavorare e commerciare, anche nel mercato del sesso. Fattori scatenanti, secondo uno studio delle università di Oxford e di Lovanio, della «tempesta perfetta» da cui probabilmente prese il via negli anni ‘20 l’epidema globale di Hiv esplosa poi negli anni ‘80.

Quando si riesce ad accedere al quartiere, ci si rende conto che la situazione non è molto diversa da quella di un secolo fa. Pakadjuma resta il distretto della prostituzione a basso costo, praticata nei cosiddetti kuzu, postriboli dove ci si prostituisce anche per mezzo dollaro o in cambio del pesce che i pescatori del quartiere non riescono a vendere al mercato.

Come racconta Nicolas Muembe, l’infermiere che gestisce l’unico presidio sanitario della baraccopoli, un terzo degli utenti dell’ambulatorio è sieropositivo. La maggior parte dei suoi pazienti sono donne. Il virus si propaga rapidamente in corpi già debilitati. «Molti dei sieropositivi che abbiamo in cura hanno già avuto il colera in passato e sono esposti a dissenteria cronica e a nuove infezioni che si diffondono a causa delle condizioni igieniche precarie».

Ci sono solo due latrine in muratura per una popolazione di diverse migliaia di abitanti. Le fogne sono un reticolato di rivoli d’acqua nera che strabordano nella stagione delle piogge, facilitando la diffusione di diarrea e vermi intestinali. Sui pochi letti dell’ambulatorio creato da Nicolas con l’aiuto dei Caschi Blu tunisini del contingente internazionale Monusco (Missione delle Nazioni Unite per la stabilizzazione del Congo, nrd) si alternano partorienti e malati gravi. Il materiale sanitario è fornito da una Ong statunitense. Solo dopo l’epidemia di colera che nel 2013 ha fatto centinaia di vittime, il ministero della Salute congolese ha stabilito un altro presidio sanitario nella zona. Al momento, però, la struttura è dedicata alle decine di migliaia di nuovi arrivati nell’ultimo anno dal vicino Congo Brazzaville: anche loro congolesi, ma rifugiati di un conflitto mai finito.

I veterani di Pakadjuma arrivarono a Kinshasa dalla provincia settentrionale di Equateur lungo il fiume ai tempi dell’ex dittatore Mobuto Sese Seko, salito al potere con un colpo di stato nel 1965 e deposto solo nel 1997 da Laurent-Désiré Kabila, padre dell’attuale presidente. I nuovi arrivano perché l’Equateur continua a essere una delle province più emarginate del paese. Molti abitanti di Pakadjuma sono Ngbandi, il gruppo etnico maggioritario nel Nord della Rdc, da dove proveniva Mobuto, e leggono la mancanza di infrastrutture attraverso una lente politica: l’abbandono da parte dello stato sarebbe una punizione verso i sostenitori del regime precedente, dicono in tanti.

Un’enorme disuguaglianza

Non esistono dati certi sulla popolazione delle baraccopoli, gli unici spazi in cui i nuovi arrivati possono permettersi un tetto in una megalopoli che, secondo Mercer, un’agenzia di consulting, è la 13ª città più cara del mondo, subito dopo Londra. È un paradosso nel paradosso, quello di un paese in cui lo stato, come ha detto recentemente l’esperto di Congo Pierre Englebert, è troppo debole per fornire servizi ai propri cittadini ma abbastanza forte per tenerli soggiogati. L’élite congolese e i dipendenti stranieri di multinazionali godono di servizi di standard internazionale in quartieri fortificati che si stanno moltiplicando qui come in altre aree urbane in Africa e America Latina, prefigurando un futuro di disuguaglianze crescenti.

A Kinshasa, questa distopia sta prendendo forma sulle rive del fiume che ha plasmato la storia del paese. Cité du Fleuve, quartiere di lusso, è la vetrina della Kinshasa di domani, un’area residenziale tuttora in fase di completamento su una penisola affacciata sul Congo. Dietro il progetto c’è la Hawkwood Properties, una società d’investimenti con sede a Lusaka, in Zambia, che ha dato forma ai sogni di un’alta borghesia che si ritrova alla «settimana della moda di Kinshasa» o nei ristoranti di lusso di Gombe. Condomini e case unifamiliari dagli stili più diversi si affacciano su ampi viali con lampioni. Un Hummer limousine bianco è parcheggiato in uno dei viali principali. Affittarlo per un’ora costa 350 dollari e un meccanico che ne sta revisionando il motore ci informa che le prenotazioni sono complete per i mesi a venire. Molte abitazioni sono ancora vuote, ma le previsioni sono rosee, e presto apriranno anche negozi e supermercati. L’idea alla base di Citè du Fleuve è fae una comunità autonoma dal resto di Kinshasa, un frammento di Europa sul fiume Congo, lontano dalle immagini stereotipate di miseria e malattie del paese.

Eppure queste immagini incombono a poche centinaia di metri, al di là della ringhiera di protezione e di un ramo del fiume su cui le piroghe scivolano lentamente. Migliaia di pescatori risiedono in un agglomerato di baracche concentrate in un fazzoletto di terra sul livello dell’acqua, esposto alle periodiche esondazioni. Non possono allontanarsi perché dalla pesca ricavano l’unica forma di sostentamento ma, dicono, dall’inizio della costruzione di Cité du Fleuve, nel 2008, la loro situazione è peggiorata: «I sistemi di sbarramento per proteggere il quartiere residenziale impediscono il riflusso del fiume», dice Vincent, un leader comunitario del villaggio dei pescatori. «L’acqua ristagna. E così il colera ritorna regolarmente».

Il sito web di Cité du Fleuve specifica che la costruzione del quartiere è stata preceduta da un accurato studio idrogeologico, ma la nostra richiesta alla società finanziatrice di un commento alle accuse dei pescatori non ha ricevuto risposta. Intanto, gli abitanti del villaggio si proteggono dalle esondazioni del fiume come possono, costruendo su palafitte o creando degli argini. Non abbastanza, secondo Florence, una madre di quattro figli che ha sistemato sacchi di sabbia attorno alla propria abitazione, per impedire che l’acqua entri in casa, trasportando con sé feci e rifiuti organici. Lei è uno dei pochi abitanti ad avere costruito una latrina, e spera che altri seguano il suo esempio. La latrina sorge proprio sulla sponda del fiume, sul lato opposto di Cité du Fleuve, la Kinshasa del futuro.

Ma, a Kinshasa, il futuro, come i servizi igienici, è un lusso che non tutti possono permettersi.

Gianluca Iazzolino

Questo reportage è parte del progetto «Toilet for all» realizzato con il contributo dell’Innovation in Development Reporting Grant programme dello European Joualism Centre. La prima parte «India. A mani nude», è stato pubblicato su MC marzo 2016.


Il presidente Kabila tenta di mantenersi al potere

Per seguire le orme di Mobutu

Si preannuncia un autunno caldo per la Repubblica democratica del Congo. Il secondo, e ultimo, secondo la Costituzione congolese, mandato del presidente Joseph Kabila termina quest’anno, ma la situazione politica in atto sembra ricalcare tristemente un copione comune a tanti stati africani: il tentativo del presidente in carica di estendere il proprio mandato, cambiando la Costituzione o rinviando le elezioni a data da destinarsi. Joseph Kabila ha preso in mano le redini del Congo nel 2001, subito dopo l’assassinio del padre, Laurent-Désiré, il leader guerrigliero d’ispirazione marxista (negli anni Sessanta ricevette anche l’aiuto di Che Guevara, che però, nei sui scritti, ne lascia un ricordo poco lusinghiero1) che, nel 1997, mise fine al governo trentennale di Mobutu Sese Seko per poi replicarne gli aspetti più autoritari, incluso il culto della personalità. Secondo le teorie più accreditate, dietro l’assassinio di Kabila padre, organizzato da uomini d’affari libanesi e portato a termine da una delle sue guardie del corpo, ci sarebbe stato il Rwanda, piccola ma aggressiva potenza regionale e precedente sponsor della scalata al potere dello stesso Désiré Kabila.

Il figlio ereditò un paese impelagato in una guerra sanguinosa, la cosiddetta «seconda guerra del Congo», o anche «guerra mondiale africana», che almeno nove stati e diverse decine di gruppi guerriglieri contribuirono a rendere il conflitto il più sanguinoso dalla fine della Seconda guerra mondiale, facendo oltre cinque milioni di morti. A capo del governo di transizione Joseph negoziò la ritirata, perlomeno ufficiale, delle truppe ruandesi di Paul Kagame dalle regioni dell’Est e fece incetta di voti alle elezioni del 2006, la prima consultazione elettorale nel paese in 41 anni. Replicò il successo nel 2011, nonostante le numerose accuse di brogli da parte sia di oppositori interni che di osservatori inteazionali, e puntellò il suo governo comprando la fedeltà delle élite locali grazie al boom delle esportazioni di materie prime. Ma la fame di minerali della Cina ha rimpinguato i conti personali, più che le casse dello stato, e i risultati sono evidenti a Kinshasa.

Alleato chiave di Joseph Kabila, in questo periodo di crescita tumultuosa, è stato Moïse Katumbi Chapwe, uomo d’affari nel settore minerario e soprattutto a lungo governatore del Katanga, la regione più ricca del paese grazie alle abbondanti riserve di rame e uranio. Figlio di un ebreo greco e di una congolese, e proprietario del TP Mazembe, la principale squadra di calcio congolese e una delle più premiate d’Africa, questo politico e imprenditore ha abilmente usato i proventi delle concessioni minerarie per dotare il Katanga di infrastrutture inesistenti nel resto del Congo, e così costruire il proprio consenso tra la popolazione e conquistarsi le simpatie delle compagnie straniere nella zona.

Il rallentamento della domanda cinese e la flessione nel prezzo delle materie prime, però, ha coinciso con la fine dell’alleanza tra Kabila e Katumbi. Il primo ha fatto capire sempre più chiaramente di non avere alcuna intenzione di lasciare il suo posto, tagliando i fondi alla commissione elettorale, e così rendendo inevitabile che la Corte suprema giudicasse irrealistica la prospettiva di andare alle ue a novembre 2016, come precedentemente stabilito, e inasprendo la repressione dell’opposizione. Il secondo è ufficialmente entrato nell’agone politico nazionale a marzo, assurgendo immediatamente a leader incontrastato dell’opposizione e perciò finendo nel mirino del presidente. La risposta di Kabila non si è fatta attendere: a maggio, Katumbi è stato accusato di aver assunto dei mercenari per organizzare un colpo di stato. Pochi giorni dopo, Katumbi è stato ricoverato in un ospedale di Lumunbashi, la capitale del Katanga, e da lì è fuggito in Sudafrica. L’ultimo colpo di scena in una saga che si annuncia lunga e complessa.

Gianluca Iazzolino

  1. 1. «L’anno in cui non siamo stati da nessuna parte. Il diario di Eesto “Che” Guevara in Africa», P. I. Taibo II, F. Escobar, F. Guerra, Il ponte delle Grazie, 1994.



Rd Congo massacri nel Beni


I territori di Beni, Butembo e Lubero nella provincia del Nord-Kivu all’est della Repubblica democratica del Congo sono da decenni vittimi di massacri di civili. Una lettera aperta del 14 maggio 2016 mandata dai cornordinatori locali dei gruppi della società civile di Beni, Lubero e Butembo al presidente della Repubblica, Kabila, riporta che solo negli ultimi due anni sono stati registrati più di 1116 persone ammazzate e altre 1470 rapite; più di 1750 case incendiate (molto spesso con dentro i loro abitanti), 13 centri di salute incendiati (anche in questo caso con malati e personale sanitario all’interno); 27 scuole distrutte, altre abbandonate, altre ancora occupate o da rifugiati, o da “dipendenti” militari, o dagli stessi gruppi armati; ci sono villaggi interi completamente assediati e occupati da gruppi ribelli, e si tratta di Kyoto, Katundula, Ivombo, Mwekwe, Mukeberwa, Fungulamacho, ecc. (http://www.rfi.fr/afrique/20160517-rdc-kabila-adf-massacres-beni-lettre-ouverte-gilbert-kambale , http://www.radiookapi.net/2016/05/09/actualite/securite/massacre-de-beni-le-commandement-de-loperation-sokola-i-delocalise )

In queste zone la popolazione spesso si ritrova abbandonata a sé stessa, la polizia o le forze armate nazionali essendo quasi inesistenti. L’insicurezza è totale, e la situazione profondamente drammatica.

I gruppi armati all’est della RDC sono numerosi. I principali registrati negli ultimi 20 anni sono: M23, Fdlr, Fdlr-Soki, Fdlr-Rud, Fdlr-Soka, Fdlr Mandevu, Raia Mutomboki, Mai Mai Sheka, Mai Mai Kifuafua, Fdl, Fdc, Upcp/Fpc, Mac, Mpa, Mai Mai Morgan, Mai Mai Simba, Adf-Nalu, Lra, Fnl, Mai Mai Yakutumba, Mai Mai Nyatura, Fdipc, Apcls, Cogai/ Mrpc, Frpi, Kata Katanga, Fdn, M18, M26. (http://www.irinnews.org/fr/report/99057/briefing-les-groupes-armés-dans-l’est-de-la-rdc)

Ben una trentina di gruppi armati che l’esercito regolare e le truppe dell’Onu non riescono a controllare e contrastare, e continuano a seminare terrore in mezzo alla popolazione di questa parte del paese.

Gli ultimi orrori riportati sono stati le uccisioni del martedì 3 maggio nelle località di Minibo e di Mutsonge attribuiti ai ribelli islamici ugandesi appartenenti al gruppo ADF-NALU. Decine di persone sono state freddamente uccise con macete, coltelli e asce. Minimbo e Mutsonge sono due quartieri situati a Nord-Est della citta di Beni nel Nord-Kivu, poco lontano da dove l’esercito nazionale (Fardc) e le truppe dell’Onu (Monusco) hanno le loro basi. L’Adf-Nalu è un gruppo ribelle di origine ugandese che opera a ovest della catena del Ruvenzori nel Beni. È stato fondato nel 1995 e ha come scopo l’instaurazione di uno stato islamico in Uganda. È legato al gruppo somalo di Al-Shabab.

(per un tristissimi catalogo di immagini basta digitare “massacres de Beni RDC”)




RD Congo: si riparte dalle donne

Volge alla conclusione una parte del progetto che la Fondazione Misna, attraverso
Missioni Consolata Onlus, sta realizzando in Repubblica Democratica del Congo grazie al programma di contributi a progetti di cooperazione decentrata e solidarietà̀ Internazionale del Comune di Roma.

Dall’alfabeto alla micro-imprenditoria il passo non è breve, specialmente se a tentare di farlo sono donne congolesi che vivono in situazioni di difficoltà a volte estrema e portano sulle spalle l’intero peso di una famiglia o, peggio, il trauma di una violenza subita durante una guerra che, nelle zone orientali della RD Congo, sembra non voler finire mai.
Eppure, pole pole, come si dice in swahili, o malembe malembe (in lingala, la lingua franca più diffusa del Congo), anche in una quotidianità fatta di espedienti e di sfiducia può prendere forma un progetto di vita dove la dignità di un intero Paese si ricostruisce a partire da quella delle sue donne. è il progetto bi/triennale Empowerment delle donne vulnerabili e delle ragazze madri di Kinshasa e Isiro attraverso la formazione di base e professionale per l’acquisizione di life skills, di conoscenze igienico–sanitarie e il microcredito, che la Fondazione Misna ha realizzato attraverso i missionari della Consolata e con fondi del Comune di Roma, che mira proprio a questo: ricostruire un’architettura sociale devastata rafforzando per prima cosa le donne, che di essa sono le colonne portanti.
Il contesto del progetto:
la situazione delle donne in RDC
La Repubblica Democratica del Congo è ufficialmente uscita nel 2002 da una guerra devastante – da molti osservatori definita la prima guerra mondiale africana – che ha provocato oltre cinque milioni di vittime. Durante quegli anni di guerra si sono registrate atrocità e violenze fra le peggiori mai perpetrate nella storia dell’umanità; casi di cannibalismo, eccidi di massa e torture sono stati all’ordine del giorno e lo stupro è stato utilizzato regolarmente come strumento di guerra.
Nonostante la cessazione ufficiale delle ostilità e le elezioni politiche che – dopo ripetuti rinvii e interminabili negoziazioni – hanno avuto luogo nel 2006 confermando Joseph Kabila alla presidenza, la RDC, a quasi dieci anni dalla fine del conflitto, appare ancora un paese smembrato. è praticamente privo di infrastrutture e ostaggio di interessi stranieri che ne prosciugano le pur ingenti risorse naturali, escludendo la stragrande maggioranza della popolazione dai benefici che dovrebbero derivare dall’essere cittadini di uno dei Paesi con il sottosuolo più ricco del mondo.
In alcune zone, specialmente nella parte orientale del Paese, il conflitto è lungi dall’essere concluso. Le schermaglie e le violenze interetniche fra esercito e milizie irregolari terrorizzano le province del Nord e Sud Kivu, mentre i ribelli dell’ugandese Lord’s Resistance Army con le loro incursioni, e i massacri che ne derivano, provocano fughe e spostamenti in massa delle popolazioni dell’Alto Uele. Anche qui lo stupro è utilizzato come arma o come semplice strumento di umiliazione e affermazione del potere e il numero di donne stuprate è ormai impossibile da stimare. Nel 2009, l’agenzia delle Nazioni Unite, Unfpa (United Nation Population Fund), denunciava oltre quindicimila casi, ma le segnalazioni di stupri di massa sono state sistematiche e ricorrenti anche nel corso dei successivi due anni.
Per sfuggire a questa situazione di terrore e incertezza, la popolazione civile è spesso costretta ad abbandonare i propri villaggi e cercare nelle città un rifugio e un’occupazione, andando a ingrossare le fila dei cosiddetti exoderirales, centinaia di migliaia di uomini e donne che partecipano all’esodo verso le città.
Saint Hilaire
Saint Hilaire, alla periferia della capitale Kinshasa, è uno dei luoghi nei quali trovano una meta tanto questi esuli provenienti da tutto il Paese quanto altri abitanti della capitale alla ricerca di un quartiere con un costo di vita più abbordabile. Sebbene non abbia l’aspetto di una vera e propria baraccopoli, è pur sempre un quartiere fortemente disagiato. Costruito su una piattaforma sabbiosa che diventa del tutto impraticabile durante la stagione delle piogge, è privo di acqua corrente ed è servito dalla rete elettrica solo per un decimo degli utenti. La mortalità infantile colpisce il 14% dei bambini e il virus dell’HIV si sta diffondendo a ritmi allarmanti. Un quarto dei giovani non ha mai frequentato la scuola.
La situazione delle donne è drammatica: più della metà sono ragazze madri, costrette a vivere di espedienti per sostenere se stesse e le proprie famiglie. La prostituzione occasionale è uno dei mezzi a cui più spesso le giovani ricorrono, esponendosi così all’infezione da HIV. «L’urbanizzazione accelerata, coniugata al declino dell’educazione comunitaria propria dei villaggi – spiega padre Santino Zanchetta, da dieci anni attivo nel quartiere –, provoca un rilassamento del controllo parentale sui figli. La mancanza di mezzi finanziari paralizza l’autorità̀ dei genitori che assistono impotenti alla prostituzione precoce delle loro figlie con tutte le conseguenti difficoltà̀ che ne derivano, dalla necessità di provvedere ai bisogni del neonato alla stigmatizzazione e marginalizzazione delle ragazze stesse».
Isiro
Queste dinamiche sono in parte all’opera anche a Isiro, cittadina di 250 mila abitanti immersa nella foresta pluviale nel distretto nordorientale dell’Alto Uélé, del quale è capoluogo distrettuale. «La presenza nella zona settentrionale di Isiro di miniere di diamanti artigianalmente sfruttate – racconta padre Daniel Lorunguyia – ha come conseguenze un’alta incidenza di malattie polmonari e una promiscuità sessuale cha aumenta il rischio di contagio da HIV. Inoltre, nel caso delle donne, alle difficoltà legate alla sopravvivenza e alle precarie condizioni sanitarie si aggiungono spesso i traumi derivanti dalle violenze subite. Vista la quantità di soldati e di miliziani, la violenza perpetrata nei confronti delle donne è una triste costante della zona e Isiro chè è stata varie volte segnalata nei rapporti OCHA (Office for the Coordination of Humanitarian Affairs delle Nazioni Unite) per l’elevato numero di stupri».
Il progetto:
formazione e autostima
è chiaro che in contesti come questi il lavoro da fare non si limita alla formazione e all’organizzazione dei corsi, ma deve abbracciare una pluralità di aspetti legati anche alla dimensione psicologica delle donne e al recupero dell’autostima che la loro condizione di ragazze-madri spesso vittime di violenza ha minato profondamente.
Ecco perché il progetto si è dato come obiettivo quello di coinvolgere 225 donne a Kinshasa e 100 a Isiro in un percorso di un anno che parte dall’alfabetizzazione per approdare alla formazione professionale passando per l’acquisizione di conoscenze igienico-sanitarie e dei cosiddetti life skills. Essi sono un insieme di abilità che hanno a che sviluppano il senso critico, la consapevolezza di sé, la capacità di prendere decisioni, la gestione delle emozioni, la creatività e la conoscenza dei diritti umani e dei diritti della donna in particolare.
I padri Santino Zanchetta e Daniel Lorunguyia, responsabili del progetto rispettivamente a Saint Hilaire e a Isiro, sono d’accordo nel sostenere l’importanza di far crescere l’autostima nelle donne per evitare che si espongano alle frustrazioni e ai rischi derivanti da attività degradanti o male organizzate e per questo votate al fallimento. Ma questo aspetto, che viene affrontato fin dal primo anno di progetto nella fase dell’alfabetizzazione, continua per tutto l’arco dell’iniziativa e si nutre dei risultati che le donne ottengono grazie agli effetti della formazione professionale.
A Kinshasa, quest’ultima riguarda ambiti come la sartoria, l’informatica, l’estetica, mentre a Isiro introduce, accanto alla sartoria, anche attività legate all’agricoltura e alla gastronomia, in linea con le caratteristiche più rurali della zona dell’Alto Uele.
Formazione e lavoro
La formazione professionale viene offerta alle donne sulla base di un’attenta analisi preliminare del mercato del lavoro locale. Per quanto riguarda la sartoria, infatti, il progetto mira a mettere le donne in condizione di rispondere alla domanda di abiti confezionati per varie occasioni. «Ci sono le richieste di vestiti per matrimoni, funerali e ricorrenze varie – dice padre Santino – oppure per chi vuole semplicemente rinnovare il guardaroba; un’altra opportunità è poi quella che viene dal confezionamento di uniformi scolastiche». Le uniformi per le scuole sono una delle commissioni per le donne anche a Isiro, come conferma p. Daniel, e a queste si aggiungono anche quelle per il personale sanitario che opera nei dispensari pubblici o nelle strutture private, spesso gestite proprio da missionari.
Le ragazze affrontano anche un periodo di apprendistato presso degli ateliers con i quali i padri, sia a Saint Hilaire che a Isiro, hanno rapporti regolari e accordi precisi. Spesso, le giovani formate finiscono per venire assunte presso gli ateliers dove hanno effettuato lo stage.
Altri sbocchi professionali vengono dal lavoro in proprio: diverse ragazze formate si trovano presto a ricevere richieste di confezionamento abiti da parte di privati oppure, nel caso della gastronomia, aprono piccoli ristoranti dove cucinano e vendono cibo. Per incentivare questa parte, è stato attivato il programma di microcredito che permette a quaranta donne all’anno a Isiro e ottanta a Kinshasa di accedere a un fondo di rotazione grazie al quale cominciare un’attività in proprio con un prestito che deve poi essere restituito in rate mensili, in modo da poter includere ulteriori donne nella tornata successiva.
«Salvo disgrazie familiari o situazioni veramente gravi – che sono però rare – i microcrediti vengono di solito restituiti; quel che è certo è che, rispetto ai primi esperimenti avviati già anni fa dalla parrocchia, la formazione successiva è stata determinante nel migliorare il funzionamento del microcredito e nell’accrescere la cultura del risparmio», aggiunge p. Santino. «Oggi, il programma di microcredito è anche molto più strutturato: la scelta delle beneficiarie deriva da una valutazione fatta da un’apposita commissione della parrocchia e tenendo conto delle tendenze del mercato locale. La stessa commissione si occupa poi di monitorare costantemente “sul campo” l’evolversi delle micro-attività avviate dalle donne».
Sia a Saint Hilaire che a Isiro, i corsi terminano con un esame ufficiale che dà alle ragazze un titolo di studio riconosciuto dalle autorità pubbliche e spendibile non necessariamente nelle immediate vicinanze della località dove hanno frequentato il corso, ma anche in altre zone del Paese. «Il certificato – precisa padre Daniel – è riconosciuto dal Ministero dell’Istruzione e la valutazione finale viene sempre effettuata mediante l’ispezione di una commissione scolastica».
Il progetto, compresa la valutazione finale dei risultati, si concluderà entro la fine del 2011, e presto ne saranno illustrati i dettagli durante un evento pubblico congiuntamente organizzato a Roma dalla Fondazione Misna e Missioni Consolata Onlus.

di Chiara Giovetti

Chiara Giovetti




E fu subito insicurezza (Do/Rd Congo 1)

Scegliere l’Africa e ritrovarsi in Congo


Lasciata la Spagna dove faceva una tranquilla vita da animatore
missionario, nel 1991 padre Rinaldo Do arriva a Kinshasa, la capitale dello
Zaire, futura Repubblica Democratica del Congo (Congo RD). Mobutu è ancora al
potere. Sono tempi turbolenti di violenze, disordini e saccheggi. Un
eccezionale battesimo alla vita missionaria. In questa lunga chiacchierata
padre Rinaldo ci rende partecipi di oltre venti anni di emozioni, fatiche,
giornie e speranza. Un’avventura che non è ancora finita.

Era
il 1986 quando sono andato in Congo per la prima volta. Si chiamava ancora
Zaire. È stato un contentino. Ero animatore missionario in Spagna, e mi hanno
permesso di fare un viaggio di tre mesi, per caricarmi.

Ho due ricordi di quel viaggio. Uno negativo: mi ero
messo a fare fotografie nell’aeroporto di Kinshasa dove era proibitissimo.
Quasi mi facevo cacciare ancora prima di entrare! L’altro ricordo è invece
bellissimo: la gioia, la festa delle messe, i canti e le danze, gli incontri
con i confratelli, lo splendido lavoro che stavano facendo a Doruma e a Wamba,
il cantiere per la costruzione della parrocchia di San Mukasa a Kinshasa. Il
Congo mi aveva preso il cuore.

Ma la vera partenza è stata nel 1991. Nell’86 avevo
visitato le missioni. Avevo avuto la possibilità di conoscere un po’ un paese
di missione, una Chiesa giovane. Poi finalmente nel 1991 mi hanno lasciato
partire. Avevo chiesto «Africa» in generale e mi hanno mandato proprio in Zaire
dove mi hanno accolto veramente bene.

Gli anni di Kinshasa

Sono arrivato con l’idea di andare
verso il Nord Est, in mezzo alla foresta, là dove i nostri missionari sono più
isolati. Invece il superiore mi ha proposto di diventare viceparroco a
Kinshasa, proprio nella parrocchia di San Mukasa che avevo visto in costruzione
nell’86. è sembrato un sogno
infranto, invece l’obbedienza si è rivelata una benedizione. Fino allora avevo
vissuto un’esperienza di animazione missionaria senza una responsabilità
diretta in una comunità e l’entrare nella pastorale (comunità di base, gruppi,
giovani, catechesi, scuole…) mi è servito molto. Kinshasa è una diocesi ben
organizzata, dove la presenza dei laici è veramente l’anima della Chiesa. La
forza della nostra enorme parrocchia (che qualche anno dopo è stata consegnata
alla diocesi) erano i laici e padre Santino Zanchetta, che era il parroco,
lavorava molto bene. Sono rimasto là dal ’91 al ’98.

San Mukasa è in un quartiere di
periferia della grande città di Kinshasa che ha oltre dieci milioni di
abitanti. Il quartiere non aveva strade vere e proprie e quella che conduceva
alla parrocchia era orribile, soprattutto durante le piogge. Spesso, come
comunità cristiana, abbiamo cercato di ripararla. Oltre la strada mancavano
l’elettricità, l’acqua potabile, le scuole e i servizi medici e sanitari. La
zona, però, non era il classico slum o bidonville, con case poste
una sull’altra, senza verde e senza ordine. Era una tipica zona di periferia,
con tanto verde, dove ogni famiglia aveva la sua «parcel», un pezzo di terreno
regolarmente assegnato, con la sua casetta. Case e non baracche, frutto del
boom degli anni ’70. Però molte erano incompiute o semi abbandonate perché poi
era arrivata la crisi. La dittatura di Mobutu era in declino e nel ’91, quando
sono arrivato, c’era stata una Conferenza nazionale per cercare di fare una
revisione di tutti quegli anni e prospettare un cammino di democrazia per il
paese.


Tra paura e saccheggi

È stato un periodo duro e turbolento, di saccheggi e
ladri in casa. Ci han preso la macchina e siamo stati fortunati a recuperarla,
dato che per noi era essenziale. La gente faceva la fame perché c’era poco
lavoro, e quello che c’era era poco remunerato. Migliaia erano i disoccupati.
In parrocchia, con l’aiuto di un organismo della Comunità europea, avevamo
trovato un canale per comprare mais e arachidi da rivendere a un prezzo
accessibile e nello stesso tempo sufficiente per darci un piccolo guadagno da
usare in aiuto ai più poveri delle varie comunità di base. La macchina ci
permetteva di rifoirci di cibo, di andare a cercare medicine, di fare tanti
servizi importanti per tutti. Per ben due volte siamo stati attaccati in casa
da gente armata, forse militari, forse no, pericolosi comunque. Grazie a Dio è
andata sempre bene. Tanta paura, certo…

Questo è stato il mio battesimo alla vita missionaria.
Sono arrivato a giugno del ’91 e a settembre c’è stato il grande saccheggio di
Kinshasa che ha lasciato la città in rovina. Non è stato un colpo di stato. A
proposito ci sono diverse teorie. Una dice che i militari non pagati si sono
rivoltati e hanno cominciato a saccheggiare negozi, fabbriche, banche, case di
ricchi e, dietro i militari, naturalmente, c’era anche il popolino, la gente
affamata. È durato per due o tre giorni. Poi Mobutu ha mandato la sua guardia
presidenziale e tutto è finito, come per dire: «Vedete, se c’è qualcuno che può
tenere calmo e sotto controllo lo Zaire, quello sono io». Un’altra teoria dice
che sia stato lo stesso Mobutu a dire ai militari: «Di soldi per pagarvi non ce
ne sono, trovateveli». Ma cambiando i fattori, il risultato è lo stesso. Ho
visto la città distrutta. I nostri ambasciatori avevano messo a disposizione
gli aerei, e chi voleva poteva andare via. Però noi missionari abbiamo deciso
di rimanere. Abbiamo firmato e siamo rimasti per ben due volte.

Rimanere: una presenza che conta

Mi ricordo che era il ’93 quando c’è
stato il secondo saccheggio. L’ambasciatore italiano mi ha detto: «Perché non
andate in altri paesi dove lo stato vi aiuta, dove se dovete costruire una
scuola vi dà un pezzo di terreno, dove non vi mette delle tasse? Qui non solo
non vi aiutano, ma vi rubano e vi saccheggiano». Io ho risposto: «Guardi, sig.
ambasciatore, se fossimo degli impresari come gli altri stranieri che sono
andati via, lei avrebbe perfettamente ragione, perché non conviene investire in
un paese dove non c’è sicurezza. Ma il fatto è che il nostro Capo (e gli facevo
il segno in su!) non la pensa così». Dove c’è miseria, sofferenza, difficoltà,
guerra, e dove la gente soffre, lì il missionario è presente.

E in quegli anni la nostra presenza
era proprio «solo presenza». Come missionari non avevamo grosse possibilità,
non essendo uno di quegli organismi che possono fare grandi cose perché
ricevono sostanziosi aiuti da governi o dall’Onu. Negli anni della guerra, a
Kinshasa o nel ’98 quando ero a Doruma, quel che contava era la presenza: le
persone vedevano che il missionario, il loro sacerdote, il loro prete era in
mezzo a loro. Il semplice fatto di non essere scappati, di restare con la
gente, dava tanta serenità e coraggio.

Tags: Rd Congo, missionari, evangelizzazione, vita missionaria, guerra, decolonizzazione, Kabila, Zaire, Mobutu

Tre giorni di fuoco

Il 2 agosto 1998 cominciò l’offensiva. La gente del
quartiere era terrorizzata e non sapeva cosa fare. Gli uomini erano fuggiti per
paura di essere presi dai soldati. Donne e bambini, rimasti soli, si
rifugiarono nella nostra casa. Condividemmo quel po’ di riso e quant’altro
rimaneva delle scorte del seminario. Un gesto di solidarietà che è stato
ampiamente ripagato: in seguito la gente ci ha aiutato, soprattutto vigilando
sulla nostra casa, affinché non diventasse oggetto di rapine e saccheggi.

Per tre giorni, tappati in casa, sentivamo le pallottole
fischiare senza interruzione e senza sapere cosa capitasse fuori. Nessuno
fiatava. La notte, poi, senza luce elettrica, tensione e paura diventavano
palpabili. Quando si sparse la notizia
che i soldati di Kabila avrebbero bombardato Mont Ngafula, la gente cominciò a
fuggire all’impazzata verso il fondovalle. Una fiumana di persone scendeva la
collina, ciascuno tirandosi dietro i bambini, una pentola, due stracci, in una
fuga frenetica e disordinata, per arrestarsi di fronte ai blocchi militari.

Ad ogni barriera mi sentivo nell’occhio del ciclone: fui
minacciato e molestato più degli altri. […] A uno di quei blocchi non ricordo
cosa sia successo: mi trovai inginocchiato per terra, con un mitra puntato alla
testa. Un soldato urlava contro i bianchi, colpevoli di avere alloggiato i
ribelli. Col mitra puntato alle tempie, dapprima rimasi muto per l’incredulità;
poi stordito e pieno di paura; infine chiusi gli occhi e mi sentii pervaso da
una grande pace. Non so quanto tempo restai in quella posizione: un minuto o
un’eternità. Ricordo solo che, quando riaprii gli occhi, non vidi più nessuno
attorno a me. Mi alzai di scatto e rincorsi la gente, sentendomi risuscitato.

Rimasi nel fondovalle per tre giorni. Avrei potuto
raggiungere il seminario teologico verso il centro città, ma preferii restare
con la gente, accampata sulla strada, senza acqua né cibo, con i bambini che
piangevano.

I cannoni sparavano contro la collina. […] La
domenica, cessato il bombardamento, sperimentai uno dei momenti più commoventi
della vita. La gente mi circondò per dirmi: «Grazie, padre, perché sei rimasto
con noi» e tante parole piene di amicizia e solidarietà. Poi arrivarono i
confratelli che in quei giorni mi avevano cercato, pieni di apprensione per la
mia sorte. È stato bellissimo riabbracciarsi.

 

Padre Stefano
Camerlengo

(Da MC febbraio 2000, pag.
22-23)

Rinaldo Do e Gigi Anataloni




Da Zaire a RD Congo  Cronostoria (Do/Rd Congo 2)

1960, 30 giugno. La colonia Congo Belga diventa Congo, nazione
indipendente. Ne è presidente Kasavubu, primo ministro Patrice Lumumba e capo
di stato maggiore Joseph Désiré Mobutu. L’11 luglio Moise Tshombe dichiara la
secessione del Katanga.

1961, 18 gennaio. Assassinio di Lumumba. Due anni dopo, le forze delle
Nazioni Unite sconfiggono i secessionisti della ricca regione del Katanga, che
si chiamerà Shaba.

1964, gennaio. I guerrieri simba di Mulele occupano il Nordest
del paese; fra i militanti c’è Laurent Désiré Kabila. Ma l’avventura fallisce:
Mulele è fucilato e Kabila fugge.

1966, 6 gennaio. Deposto con un golpe Kasavubu, Mobutu assume pieni
poteri, e nel 1967 instaura un regime a partito unico (Movimento popolare
rivoluzionario). Il 30 ottobre 1970 Mobutu, unico candidato in lizza, diventa
presidente.

1971, 21 ottobre. Il Congo diventa Zaire. Sull’onda dell’«autenticità»,
Mobutu rinnega il proprio nome cristiano, sostituendolo con Sese Seko.

1975-1990. Tempo di corruzione, mentre il presidente dittatore si
arricchisce. Sono pure anni di guerra e repressione: nel 1977 scoppia il
conflitto dello Shaba, nel quale intervengono Francia e Marocco; nel 1978 un massacro
di europei nello Shaba richiama i parà francesi; l’11 maggio 1990 a Lubumbashi
cadono decine di universitari.

1991, 7 agosto. Mobutu, costretto al multipartitismo, subisce la
Conferenza nazionale, presieduta dal vescovo Laurent Monsengwo, deputata a
scrivere una nuova Costituzione. Il 2 ottobre Etienne Tshisekedi, capo
dell’opposizione, è primo ministro; il giorno 10 viene destituito. Belgi e
francesi, vista la resistenza di Mobutu alla democrazia, interrompono (a
parole) la cooperazione militare e civile.

1992, 15 agosto. La Conferenza nazionale nomina Tshisekedi primo ministro
di un governo unitario «ombra». Il 6 dicembre nasce il Consiglio della
repubblica, sempre per redigere la Costituzione; lo presiede mons. Monsengwo.

1993-95.
Saccheggi di militari non pagati, diatribe fra Mobutu e Tshisekedi. È disastro
economico. La gente ha esaurito ogni sopportazione. Intanto, nel luglio 1994,
circa due milioni di profughi rwandesi si accampano nello Zaire.

>  1996, Febbraio. Poiché lo Zaire è allo sfascio, il «leopardo» (Mobutu) è
costretto a promettere libere elezioni. Ma in ottobre l’Alleanza delle forze
democratiche, capitanate da Kabila e sostenute da Rwanda, Burundi, Uganda,
Stati Uniti e da mercenari vari, inizia da Uvira la conquista militare della
nazione. Sono i Banyamulenge, ossia Tutsi del Rwanda e del Burundi
presenti nel paese da due secoli.

1997, 6 gennaio. Mobutu sfida i ribelli: l’integrità territoriale del
paese non si discute. Però i soldati di Kabila avanzano, trovando scarsa
resistenza nelle Forze armate zairesi di Mobutu. Contemporaneamente circa 300
mila profughi hutu ritornano in Rwanda fra indicibili sofferenze.
17 maggio. Dopo aver percorso a piedi centinaia di chilometri, le
truppe dell’Alleanza entrano vittoriose a Kinshasa. Kabila si autoproclama capo
dello stato. Dallo Zaire si passa alla Repubblica democratica del Congo.
Vietate le attività dei partiti.
16 giugno.
Organismi umanitari sostengono che i soldati di Kabila, durante la conquista
del paese, abbiano sistematicamente massacrato numerosi profughi rwandesi.
7 settembre. Mobutu,
con un cancro alla prostata, muore in Marocco: lascia ai famigliari
(all’estero) un’eredità di 6 miliardi di dollari. Ha tenuto in pugno lo Zaire
per 32 anni, indebitandolo per 14 miliardi di dollari. Kabila sarà migliore?

1998, 27 luglio. Kabila, dopo aver ringraziato Uganda e Rwanda, li invita
a lasciare il paese. Ma gli ex alleati dichiarano la seconda guerra in Congo
(la prima fu contro Mobutu). Kabila resiste, sostenuto da Zimbabwe, Angola e
Namibia. I paesi stranieri, presenti in Congo, mirano alle sue risorse agricole
e minerarie.

1999, luglio. A Lusaka (Zambia) le parti coinvolte nel conflitto in
Congo firmano un accordo di pace che prevede: ritiro delle truppe straniere dal
paese, rispetto della sua integrità nazionale, instaurazione della democrazia.
Il «cessate il fuoco» non regge. Intanto gli Stati Uniti simpatizzano per
l’Uganda e il Rwanda (che però si combattono), mentre la Francia ammicca a
Kabila. Gruppi di ribelli congolesi fanno sapere che, se il paese verrà diviso
(come si dice), sceglieranno la strada della guerriglia.

2000, 14 aprile. Ancora un «cessate il fuoco»,
firmato a Kampala (Uganda) da tutti i contendenti. Però il 5 maggio, alla
periferia di Kisangani, soldati rwandesi e ugandesi si danno battaglia. I
combattimenti proseguono nelle settimane successive; viene colpita anche la
cattedrale: mille morti, migliaia di feriti e numerosi abitanti senza tetto in
balia della fame e delle epidemie.
17 giugno. Il
Consiglio di sicurezza dell’Onu intima l’ennesimo «stop» ai due belligeranti e
il ritiro di tutte le forze. Ma l’anarchia politico-militare continua.

2001, gennaio. Il presidente Laurent-Désiré Kabila, 62 anni, è
assassinato da una delle sue guardie del corpo (secondo la versione ufficiale).
Dieci giorni dopo, Joseph Kabila, non ancora trentenne, succede al padre. Febbraio:
Joseph Kabila incontra il presidente rwandese Paul Kagame a Washington (Uganda,
Rwanda e le forze ribelli accettano di ritirare le loro truppe dalla linea del
fronte). Maggio: l’agenzia Onu per i rifugiati dice che la guerra, dal
1998, ha ucciso 2,5 milioni di persone. Ottobre: inizia ad Addis Abeba
(Etiopia) il dialogo intercongolese; l’Onu dispiega i primi caschi blu (Monuc).

2002, gennaio. Un’eruzione del vulcano Nyiaragono devasta gran parte
della città di Goma (nell’Est del paese). Dopo due pre-accordi, nei colloqui di
pace in Sudafrica (aprile e luglio) si stabilisce che gli eserciti di Rwanda e
Uganda si ritirino dal territorio congolese; si decide anche il disimpegno
delle truppe di Zimbabwe e Angola. Settembre-ottobre: Uganda e Rwanda
dichiarano di aver ritirato gran parte delle loro truppe dal paese. Dicembre:
a Pretoria è firmato un accordo globale e inclusivo, che prevede due anni di
transizione alla democrazia e, alla fine, elezioni presidenziali e legislative.
Continuano i combattimenti nella regione di Uvira tra i guerriglieri Mayi-Mayi
e le truppe ruandesi. La Monuc schiera 8.700 caschi blu.

2003, aprile. Prende il via il processo di transizione con governo
(presieduto da Kabila con 4 vicepresidenti) e parlamento; è creato un Comitato
internazionale di accompagnamento alla transizione (Ciat); inizia il processo
di disarmo, smobilitazione e reinserimento nella vita dei combattenti (i morti
della guerra sono saliti a oltre 3 milioni, in gran parte civili). Maggio:
le ultime truppe ugandesi lasciano il Congo. Luglio: gli effettivi della
Monuc sono 10.800; i leader dei principali ex gruppi ribelli giurano come
vicepresidenti del paese. Agosto: inaugurato il parlamento ad interim. Fine
anno
: i donatori inteazionali, riuniti a Parigi, promettono 3,9 miliardi
di dollari per la ricostruzione.

2004, gennaio-giugno. Inizia la formazione della prima brigata dell’esercito
nazionale integrato. Marzo: fallisce un colpo di stato attribuito a
mobutisti. Giugno: uomini della guardia presidenziale tentano di
rovesciare Kabila; militari Banyamulenge, con il supporto di truppe di
Laurent Nkunda (generale tutsi congolese), occupano la città di Bukavu per una
settimana; la Monuc (16.000 uomini) è contestata per non aver saputo difendere
Bukavu; un rapporto Onu afferma che «il Rwanda destabilizza l’Rd Congo», ma
Kigali rigetta l’accusa.

2005, maggio. Il parlamento adotta la nuova Costituzione. Settembre:
l’Uganda afferma che potrebbe rientrare nell’Rd Congo per inseguire i ribelli
dell’Esercito di resistenza del Signore (Lra), gruppo ribelle guidato da Joseph
Kony. Dicembre: la nuova Costituzione, già approvata dal parlamento,
supera la prova del referendum.

2006, febbraio. La nuova Costituzione entra in vigore; è adottata una
nuova bandiera; decine di migliaia di donne e ragazze vengono stuprate
dall’esercito e dalle milizie. Luglio: dalle elezioni politiche e
presidenziali (le prime libere in 40 anni) non esce alcun chiaro vincitore:
Joseph Kabila e il candidato dell’opposizione Jean-Pierre Bemba si contendono
il secondo tuo a fine ottobre; forze leali ai due candidati si scontrano
nella capitale. Novembre: Kabila è dichiarato vincitore del secondo
tuo. Dicembre: le forze del generale Laurent Nkunda si scontrano con
l’esercito regolare (sostenuto dalle forze dell’Onu) nel Nord Kivu (50mila
persone costrette a fuggire).

2007, marzo. Nuovi scontri a Kinshasa tra truppe governative e
soldati leali a Bemba. Aprile: Rd Congo, Rwanda e Burundi rilanciano la
Comunità economica delle nazioni dei Grandi Laghi (nell’acronimo francese:
Cepgl); Bemba parte per il Portogallo, dopo essersi rifugiato per tre settimane
nell’ambasciata sudafricana; Serge Maheshe, giornalista della Radio Okapi, è
assassinato (è il terzo giornalista ucciso nell’Rd Congo dal 2005). Agosto:
Uganda e Rd Congo dicono di volere allentare le tensioni dovute a una disputa
sui confini; aumenta il numero dei rifugiati e sfollati nel Nord Kivu, a causa
della instabilità dovuta alle operazioni del generale dissidente Nkunda. Settembre:
scoppia un’epidemia di ebola.

2008, gennaio. Il governo e le milizie dei ribelli firmano un patto per
porre fine al conflitto nell’Est del paese. Aprile: scontri tra
l’esercito regolare e le milizie hutu (rwandesi). Agosto: nuovi scontri
tra esercito e soldati di Nkunda. Ottobre: le truppe ribelli catturano
la base di Rumangabo; gli scontri si intensificano; l’avanzare delle forze di
Nkunda crea il caos a Goma; le forze dell’Onu ingaggiano scontri diretti con le
forze ribelli, a sostegno dell’esercito regolare. Novembre: nuovo
attacco dei ribelli di Laurent Nkunda; il Consiglio di sicurezza dell’Onu
approva l’aumento temporaneo delle truppe Monuc. Dicembre: operazione
congiunta di Uganda, Sud Sudan e Rd Congo contro le basi dell’Lra nel Nordest
del paese, centinaia di civili uccisi durante gli scontri.

2009, gennaio. Offensiva congiunta (Rd Congo e Rwanda) contro le forze
di Nkunda; Nkunda è arrestato in Rwanda e rimpiazzato da Bosco Ntaganda. Aprile:
riemergono le milizie hutu nell’Est, causando la fuga di decine di migliaia di
persone. Maggio: Kabila concede l’amnistia ai vari gruppi armati, come
tentativo di terminare la guerra. Giugno: la Corte penale internazionale
cita in tribunale l’ex vicepresidente Jean-Pierre Bemba per crimini di guerra;
ammutinamenti di truppe regolari nell’Est per mancanza di paga. Luglio:
una corte svizzera restituisce i conti bancari (congelati) di Mobutu Sese Seko
alla famiglia. Dicembre: l’Onu estende il mandato della Monuc di 5 mesi.

2010, maggio. Il governo preme per il ritiro delle forze dell’Onu. Giugno:
il Consiglio di sicurezza modifica il mandato della Monuc e, avviando una
riduzione del personale, lo proroga fino al 30 giugno 2011. 30 giugno:
celebrazioni per il 50° anniversario dell’indipendenza. Luglio:
offensiva anti-ribelli dell’esercito nel Kivu; creata la nuova commissione
elettorale per preparare le elezioni del 2011; «Operazione Rwenzori» contro i
ribelli filo-ugandesi nel Nord Kivu. Novembre: stupri sistematici
durante le espulsioni in massa di immigrati illegali dall’Angola verso l’Rd
Congo; l’ex vicepresidente dell’Rd Congo, Jean-Pierre Bemba è condotto davanti
alla Corte internazionale dell’Aia; il Club di Parigi cancella metà del debito
estero dell’Rd Congo.

2011, gennaio. Viene cambiata la costituzione. Febbraio: una
corte condanna il colonnello Kibibi Mutware a 20 anni di carcere per stupri di
massa nelle zone orientali del paese. Maggio: il ribelle hutu Ignace
Murwanashyaka è portato davanti a un tribunale in Germania. Luglio: il
colonnello Nyiragire Kulimushi, accusato di aver ordinato stupri di massa
nell’Est del paese, si consegna alle autorità. Settembre: il leader
delle milizie Mai Mai, Gideon Muanga, fugge dalla prigione con 1.000 detenuti. Novembre:
elezioni presidenziali, Kabila ottiene un nuovo mandato.

2012, maggio. Le Nazioni Unite accusano il Rwanda di addestrare
ribelli nell’Est dell’Rd Congo. Luglio: il «signore della guerra» Thomas
Lubanga è condannato dalla Corte penale internazionale. Ottobre: il
Consiglio di sicurezza dell’Onu annuncia l’intenzione di imporre sanzioni
contro i leader del Movimento ribelle 23 Marzo (M23) e contro i violatori
dell’embargo delle armi contro l’Rd Congo; una commissione Onu rivela che
Rwanda e Uganda foiscono l’M23 di armi e supporto logistico.

>  2013, febbraio. In Etiopia firmato un accordo per porre fine al
conflitto nell’Rd Congo; il gruppo ribelle M23 dichiara il cessate il fuoco
alla vigilia dell’accordo. Marzo: il supposto fondatore di M23, Bosco
Ntaganda, si arrende all’ambasciata rwandese ed è trasferito alla Corte penale
internazionale dell’Aia. Agosto: le forze dell’Onu liberano 82 bambini
soldato, arruolati a forza dalla milizia Mai-Mai Bakata-Katanga; intensi
scontri armati tra l’esercito e le milizie del M23. Settembre: oltre 550
bambini lasciano le file dei gruppi armati in Katanga, liberati dalle forze
dell’Onu.

(fonte: MC e
Nigrizia)

 
 
 
tags: Rd Congo, guerra, instabilità, decolonizzazione, Kabila, Zaire, Mobutu, M23, Rwanda, Uganda, Lumumba
 
 
 
 
RD Congo

Superficie:
2.345.409 kmq. Capitale: Kinshasa.
Abitanti
: 72
milioni.
Speranza di vita
:
52 anni.
Adulti alfabetizzati
:
67%.
Crescita demografica
:
3%.
Lingua
: francese
(ufficiale); inoltre: swahili, lingala, chiluba, kikongo.
Ordinamento dello
stato
: repubblica semipresidenziale con Joseph Kabila presidente, al
secondo mandato (novembre 2011).

Risorse economiche:
ingenti sia nel settore agricolo (mais, manioca, patate, arachidi, riso, caffè,
ecc.) sia in quello minerario (rame, stagno, petrolio, argento, diamanti,
ecc.). Ma le infrastrutture (specie le strade) sono quasi tutte in stato di
collasso. Cospicue risorse sono sfruttate da compagnie straniere: Lonrho,
Anglo-American e De Beers (sudafricane), Cluff Resources (inglese), American
Mineral Fields (statunitense), Barrick Gold e Lundin Group (canadesi), ecc.

Religione:
cattolici 48%, protestanti 29%. Seguono le religioni tradizionali e l’islam
(1,4%).

Tags: Rd Congo, guerra, decolonizzazione, Kabila, Zaire, Mobutu, Uganda, Rwanda, Lumumba, M23, sfruttamento minerario, violenze, massacri

MC e Nigrizia




Solo la «Parola» (Do/Rd Congo 3)

Al Centro dell’Africa:


Nel
1998 il desiderio di andare nelle più difficili missioni dell’Alto Uele, su al
Nord, ai confini con Uganda, Sudan e Centrafrica, si realizza. Oltre ogni
aspettativa.

Nel
’98 finalmente mi hanno mandato al Nord, nel centro dell’Africa. Mi è piaciuto
moltissimo. Sono andato a Doruma, vicino al Sudan (vedi MC 4/2014, pag. 57).
Doruma è stata la nostra prima missione nel 1972, insieme a Wamba. Era sede di
diocesi, ma poi, per ragioni di sicurezza e di maggior facilità di
comunicazione, il vescovo ha spostato la sua sede a Dungu. Era una parrocchia
con 75 cappelle disseminate nella foresta, in mezzo agli Azande, un popolo
sparso in tre stati – Centrafrica, Sudan e Congo – dalle spartizioni coloniali
del tempo del congresso di Berlino, quando le potenze hanno diviso l’Africa
senza tener conto dei popoli che ci vivevano.

Mi trovavo finalmente nella missione che avevo sempre
sognato: nella foresta, lontano da tutto, dedito solo ad annunciare il Vangelo.
Invece… in quello stesso anno gli eserciti stranieri che avevano aiutato
Kabila ad arrivare al potere, quando hanno visto che non c’era stata né la
ripartizione di potere né la ricompensa economica che si aspettavano, hanno
ripreso la guerra. Una cosa sporca, in cui erano coinvolte diverse nazioni
africane e, ovviamente, i grandi poteri economici. Kabila ha avuto la meglio.
Ritirandosi verso le loro basi, i militari della Spla (Sudan People
Liberation Army
), ex alleati di Kabila, si sono rifatti saccheggiando anche
tutte le missioni che hanno trovato sulla loro strada.

La foresta, la bicicletta e la Parola

Quando hanno assalito Doruma, non ce lo aspettavamo. Poi
approfittando della loro disattenzione, siamo scappati in foresta con l’aiuto
dei nostri cristiani. Nella giungla, malgrado la paura, siamo stati abbastanza
tranquilli perché i catechisti e giovani vigilavano sulla nostra capanna, una
di quelle che loro usano quando vanno a coltivare nella foresta. Ci siamo stati
un mese. A 7-8 chilometri erano nascoste le suore (agostiniane) che si erano
organizzate meglio di noi uomini e ci hanno mandato dei materassi.

È stata un’esperienza molto bella. Non avevamo niente
perché abbiamo dovuto scappare in fretta e furia. Avevo un paio di ciabatte, i
vestiti che indossavo e la veste bianca che mi ero messo la mattina quando i
sudanesi erano arrivati e mi avevano obbligato ad andare a recuperare nella
foresta dei fusti di benzina che avevamo nascosto. Mi ero messo la veste per
suscitare in loro un po’ di timor di Dio. Anzi, nel tragitto, quando ho
scoperto che erano cattolici, li ho fatti pregare. Ma non è servito a niente,
perché se la preghiera non nasce dal cuore sono solo parole vuote. Infatti poi
hanno saccheggiato e distrutto tutto, portando via ogni cosa. E volevano
portare via anche noi. La gente locale era scappata, ma i guerriglieri hanno
preso i rifugiati sudanesi e, dopo aver bruciato i due campi delle Nazioni
Unite, li hanno forzati a portare il bottino e a rientrare in Sudan. Giunti
alla frontiera hanno obbligato i giovani ad arruolarsi nelle loro file.

Noi siamo ritornati in missione solo dopo un mese. Era
la festa di Tutti i Santi, una domenica. Sono arrivato dalla foresta, nessuno
sapeva del nostro ritorno eccetto qualche catechista. Il paese portava i segni
evidenti del saccheggio fatto dai «fratelli» sudanesi, appartenenti alla stessa
tribù. Ho celebrato la messa. È stata una messa lunga. E ho pianto nel vedere
la gente che, avendo sentito la campana, era venuta fuori dai rifugi nella
foresta e nei campi per riprendere una vita normale.

L’esperienza più bella in quei giorni è stata quella di
girare in bicicletta per visitare le oltre settanta cappelle. Prima, con la
macchina, viaggiavamo sempre con quadei, medicine e merce varia da dare o da
vendere nei villaggi. No, non eravamo commercianti e neppure approfittavamo
della miseria della gente, ma avendo una catena di rifoimento organizzata dai
nostri confratelli di Isiro, riuscivano a procurare provvigioni essenziali
altrimenti introvabili.

Mi sono sentito prete davvero perché con la bicicletta
giravo solo con la Parola di Dio, il pane e il vino per l’eucarestia (si erano
salvati perché i sudanesi non avevano saccheggiato la chiesa), e la gente era
contenta di accogliermi. Mi fermavo due o tre giorni in un villaggio, vivevo in
mezzo a loro, mangiavo come loro, condividevo la loro insicurezza e la gente mi
vedeva proprio per quello che noi dovremmo sempre davvero essere: uomini di
Dio. Non avevo niente, eppure portavo quel che davvero conta: speranza in mezzo
a tanta desolazione, vicinanza a chi è abbandonato da tutti e dimenticato. La
consapevolezza che la Chiesa è lì, con loro. Questo è importante.

Abbiamo ricominciato. Ma a febbraio del ’99 sono tornati
a saccheggiare. La nostra vita là era diventata troppo rischiosa. Bastava che
qualcuno ci facesse avere qualche rifoimento, che un mezzo qualsiasi
arrivasse da Isiro, che subito eravamo assaliti. Così, d’accordo col vescovo,
abbiamo consegnato quella missione alla diocesi e ce ne siamo andati per
sempre, dopo quasi trent’anni di presenza.

Povertà,
forza della missione

Certo quell’esperienza mi ha fatto riflettere. Per una
volta non ero il missionario bianco pieno di soldi cui si può chiedere tutto.
Ero solo un missionario, uomo di Dio, e basta. Probabilmente questa situazione,
unita alla crisi internazionale, fa bene alla missione. In più, le nostre
comunità missionarie sono diventate inteazionali, multietniche e
multiculturali, e i nostri cristiani del Congo vedono che abbiamo già
sacerdoti, fratelli e seminaristi africani e quindi pian piano si sta
abbandonando l’idea che il missionario è solo il bianco e  che essere bianco significa avere potere e
soldi. I nostri cristiani stanno cominciando a capire che devono aiutare i
sacerdoti e prendersi carico di loro. È vero, noi missionari dobbiamo
ringraziare i benefattori e l’istituto, che non ci abbandonano mai. Però il
fatto di non avere più la disponibilità economica di un tempo, aiuta anche la
gente a capire e a crescere nella propria responsabilità.

Certo va anche detto che molti dei progetti di sviluppo
che la Chiesa ha fatto in Congo, li ha dovuti fare perché lo stato era assente,
perché se ci fosse uno stato che fa scuole, ospedali, centri di salute, non ci
fossero ribellioni, ci fosse una vita normale, chiaramente come missionari
saremmo più dedicati alla Parola di Dio, alla comunità, alla formazione, alla
pastorale diretta. Invece il missionario ancora oggi, almeno qui in Congo, deve
continuare a pensare alla scuola, all’ospedale, al pozzo, all’acqua, alla
strada, al ponte perché le autorità locali non si muovono.

Missione e soldi, che fatica

A volte provo frustrazione al pensiero di essere
prigioniero di un meccanismo perverso di «missione – povertà – soldi», di «missionario
– soldi e soluzione a tutti i problemi». Tante volte è difficile far capire
alla nostra gente che se siamo lì insieme dobbiamo camminare insieme, senza
delegare tutto al missionario, restando degli eterni bambini. Però,
onestamente, ci sono delle situazioni di fronte alle quali non puoi stare con
le mani in mano. Per esempio, i nostri giovani che devono andare all’università,
alle volte mancano loro quei 200 o 300 dollari per finire di pagare le tasse;
oppure per l’ospedale: quando non hanno i soldi per pagare le cure e le
medicine e non c’è alcuna assistenza sanitaria, che fai? Li lasci morire così?

Tutti sanno che il Congo è ricchissimo e potrebbe essere
una nazione prospera. Ma tutti rubano; a tutti fa comodo un paese fuori
controllo. Basta guardare la situazione dei Grandi Laghi (*). Chi approfitta
del caos per rapinare le risorse? E così noi missionari continuiamo a chiedere
alla nostra Chiesa d’Europa di aiutarci per portare avanti tanti programmi di
pastorale, educazione, sanità e sviluppo. Veramente ho un po’ di rabbia e di
vergogna nel cuore. Però devo accettare anche questo, perché so bene che quel
che sto chiedendo non è per me, è per la nostra gente, è per aiutare i nostri
giovani che vogliono uscire dall’ignoranza, dalla dipendenza, dalla spirale
della violenza e della povertà per essere, un giorno, responsabili della loro
vita e del loro paese, il Congo.

 (*) A questo proposito è
sempre valido il numero monografico di MC, «Le mani sul Congo»,
pubblicato nell’ottobre-novembre 2004.

tags: Rd Congo, guerra, decolonizzazione, Kabila, violenze, massacri, Spla, profughi, saccheggi, missione, povertà, annuncio

Rinaldo do e Gigi Anataloni