LAVORARE INSIEME, LAVORARE BENE

L’obiettivo numero otto tira le fila dell’impegno del millennio. Se ciascuno non compie la sua parte, nessuna meta viene raggiunta.

Se i primi sette obiettivi di sviluppo del millennio non fossero bastati per sentirsi chiamati in causa in prima persona a difesa dei diritti per tutti, l’ottava meta richiede nero su bianco l’impegno dei paesi più sviluppati nei confronti di quelli più poveri. Lo sviluppo dell’economia, della salute, dell’istruzione, della distribuzione di servizi e opportunità uguali per tutti dipende dal lavoro dei governi dei paesi poveri, con l’aiuto e il sostegno di quelli dei più ricchi. L’obiettivo numero otto rappresenta il sigillo degli impegni presi all’inizio del millennio, come a dire che il raggiungimento dei primi sette dipende dall’impegno di tutto il mondo, ciascuno per la sua parte.

Impegno e sostegno

Le nazioni più e meno sviluppate stringono dunque una sorta d’alleanza, perché la strada verso i primi sette obiettivi del millennio sia percorribile da tutti. I paesi poveri lavoreranno per sostenere le economie, per assicurare lo sviluppo e sostenere le necessità umane e sociali.
Dal canto loro, le nazioni più ricche sosterranno questo sforzo e questo lavoro, con diverse azioni. Viene richiesto loro di aumentare gli aiuti allo sviluppo e a ridurre con rapidità il debito estero dei paesi poveri. Nel settore dell’economia e delle esportazioni, si domanda una maggiore attenzione alle difficoltà di chi ha un’economia meno sviluppata a proporsi, garantendo regole commerciali più eque. Le nazioni ricche sono chiamate anche a cornoperare nel risolvere la questione dell’impiego dei più giovani e dell’accesso ai farmaci essenziali, oltre che a migliorare la disponibilità di nuove tecnologie, con un loro trasferimento nelle zone più povere.
Questi alcuni esempi dei passi indicati, per dare la possibilità alle nazioni meno sviluppate di costruirsi un’economia e un commercio, di avere uno sviluppo autonomo, di offrire un futuro alla popolazione, adulti e bambini, maschi e femmine. Soffermandosi per esempio sulla questione dell’occupazione dei giovani, non può essere dimezzata la povertà entro il 2015 (primo obiettivo), se non si sostiene il mondo del lavoro e non si offrono possibilità di impiego.
Fra il 2003 e il 2015 ci si aspetta che entrino nel mondo del lavoro circa 514 milioni di persone in più. La capacità di assorbire questo aumento dipende dagli sforzi compiuti per una politica di impiego, per la formazione di opportunità lavorative per i giovani: nei paesi più poveri la probabilità di un giovane di essere disoccupato è tripla rispetto a un lavoratore più anziano.

buone intenzioni
sulla carta

Secondo un rapporto 2003 del Programma di sviluppo delle Nazioni Unite (Undp), i paesi che potrebbero sostenere finanziariamente lo sviluppo delle nazioni più povere sono più ricchi ora di un tempo; nonostante questo, i fondi destinati alla cooperazione internazionale si sono ridotti. Eppure, per ottenere gli obiettivi del millennio, sarebbe sufficiente lo 0,5% del prodotto interno lordo (Pil) dei 22 paesi più ricchi, pari a 100 miliardi di euro l’anno.
Nel lontano 1970 le nazioni ricche si erano prese l’impegno (ribadito a Monterrey nel 2002) di destinare lo 0,7% del loro Pil alla cooperazione internazionale: a oggi la percentuale raggiunta viaggia intorno allo 0,2%.

Difficile commercio

Sul tema degli scambi commerciali fra paesi ricchi e poveri, la perdita annuale di questi ultimi dovuta alle barriere doganali supera i 100 miliardi. Per esempio, i dazi sull’esportazione di Africa, Asia e America Latina nell’Unione Europea arrivano al 162% del prezzo del grano.
Un altro ostacolo alle esportazioni è rappresentato dai sussidi, che diminuiscono la competitività dei prodotti dei paesi poveri: nell’Unione Europea una mucca riceve oltre 2 euro di sussidi al giorno, più di quanto guadagna la metà della popolazione mondiale.
Se Africa, Asia e America Latina potessero aumentare anche solo dell’1% la percentuale di esportazioni, sempre secondo il rapporto dell’Undp, quasi 130 milioni di persone non sarebbero più povere. Infatti, per il solo continente africano questo incremento del commercio porterebbe con sé 70 miliardi di euro, pari a cinque volte gli aiuti inteazionali che riceve.

Cancellazione dei debiti

Altro tema caldo riguarda il condono, o quanto meno la riduzione, del debito estero, per il quale i paesi poveri versano ogni mese circa 12 miliardi di euro: questa cifra basterebbe per far seguire le scuole primarie a tutti i bambini di ambo i sessi. Sempre pensando all’infanzia, secondo l’Unicef le politiche messe in atto dai governi per restituire gli interessi sul debito sono causa della morte di mezzo milione di bambini.
Per fortuna qualche buona notizia c’è. È stato calcolato che le iniziative finora prese per la riduzione del debito hanno permesso in alcuni paesi di investire risorse finanziarie nel settore dell’educazione (in Uganda quasi tutti i bambini si iscrivono alle elementari) e della sanità (Mali, Mozambico e Senegal hanno potuto investire nella lotta all’Hiv/Aids).
Alla fine del 2005, il Fondo monetario internazionale (Fmi) ha annunciato una riduzione del debito di 3,3 miliardi di euro per Benin, Bolivia, Burkina Faso, Cambogia, Etiopia, Ghana, Guyana, Honduras, Madagascar, Mali, Mozambico, Nicaragua, Niger, Rwanda, Senegal, Tagikistan, Tanzania, Uganda e Zambia. Questa riduzione ha risvolti positivi e negativi. I paesi beneficiari non dovranno restituire quanto ricevuto e non dovranno più pagare gli interessi periodici.
È anche vero però che corruzione, instabilità politica, guerre, barriere doganali ostacolano comunque il crescere dell’economia e quindi l’equazione meno debito più investimenti non si realizza automaticamente.
Vi è poi un altro aspetto del condono del debito da tenere presente, che riduce almeno in parte l’ottimismo: i paesi beneficiari restano segnati come inadempienti nei confronti dell’impegno di restituzione preso. Considerato che sono paesi poveri e che verosimilmente avranno bisogno di prestiti in futuro, potrebbe essere più difficile per loro ottenerli, perché considerati inaffidabili, oppure, verranno chiesti loro interessi ancora più alti.

Collaborazione
senza scadenza

L’obiettivo di sviluppo del millennio numero otto è l’unico per il quale non sia stata prevista una scadenza, né indicatori precisi che ne possano segnalare i progressi compiuti. Solo un generico impegno dei 189 stati firmatari degli obiettivi del millennio a promuovere interventi entro il 2015 su: cooperazione allo sviluppo, debito estero, commercio internazionale, trasferimento delle tecnologie. Non ci sono dunque sistemi di controllo dell’impegno assunto dai paesi ricchi e poveri, ciascuno per la sua parte, nei confronti degli abitanti del pianeta, se non indirettamente, sulla base dei risultati ottenuti negli altri sette obiettivi.
Questa particolarità si presta a una duplice lettura. Una pessimista: nessun controllo possibile, nessun numero preciso con il quale inchiodare di fronte alle sue responsabilità chi non rispetta l’impegno. L’altra ottimista: è un impegno per sempre, senza scadenza, che mantiene il suo valore e la sua importanza al di là del raggiungimento di un termine temporale o di risultati quantificabili.
Una cooperazione senza tempo fra tutti i paesi per un futuro comune da costruire insieme. Si può provare a pensarla così, tenendo d’occhio tuttavia la realtà che ci circonda, vicina e lontana, per verificare ogni giorno gli impegni assunti nei confronti del mondo.

Valeria Confalonieri




L’uomo protegga il pianeta

Il 20% della popolazione del Nord del mondo consuma l’86% delle risorse mondiali. Questo squilibrio non è una novità: non è la prima volta che viene sottolineato. Ma il legame fra uomo e ambiente, fra sfruttamento delle risorse e degrado degli ecosistemi naturali è oggetto di uno degli obiettivi del millennio, che getta un ponte fra la consapevolezza della situazione e l’assoluta necessità di passare all’azione.
I paesi ricchi hanno una bella responsabilità sulle spalle. Ai numeri appena citati si può aggiungere che il Nord del mondo è responsabile della produzione del 95% dei rifiuti tossici, nonché del 65% dei gas che contribuiscono all’effetto serra e all’aumento della temperatura della terra: un italiano, per fare un esempio, produce in media 455 chili di rifiuti ogni anno. Cambiare il corso delle cose, prima di tutto, richiede all’umanità intera la conoscenza del danno che sta arrecando all’ambiente, e quindi al suo stesso presente e futuro.

Regno vegetale e animale
Una prima meta è quindi far sì che ogni paese integri nella propria politica programmi di tutela dell’ambiente e di sfruttamento equilibrato delle risorse naturali che il pianeta offre. Basti pensare che, nel campo della pesca, il 70% delle riserve è sfruttato completamente o ipersfruttato, o ancora che il degrado del suolo coinvolge quasi 2 miliardi di ettari di terra, con ripercussioni sulla vita di un miliardo di persone.
Ancora, la superficie terrestre ricoperta da foreste sta riducendosi sempre più, nonostante gli alberi contribuiscano al sostentamento di 1,2 miliardi di soggetti che vivono in miseria e al 90% della biodiversità terrestre.
Se la perdita di parte del patrimonio in foreste appare inevitabile per lo sviluppo economico, vi è spesso una loro distruzione ingiustificata dal punto di vista sia economico sia ambientale. Ne è un esempio la denuncia di novembre 2005 di Global Witness, organizzazione ambientalista, su quanto accade in Myanmar: nello stato birmano del Kachin, al confine con la Cina, migliaia di operai stanno distruggendo una delle foreste più rigogliose e ad alta biodiversità al mondo; ogni 7 minuti 15 tonnellate di legname attraversano illegalmente il confine tra Myanmar e Cina, quantità cui si aggiunge quella che passa la frontiera legalmente.
In altri casi, accanto al taglio indiscriminato degli alberi, si aggiunge la capacità distruttiva del fuoco, come nello stato amazzonico dell’Acre (Brasile), dove gli incendi hanno imperversato per settimane nell’autunno del 2005.
Benché le foreste rappresentino una delle maggiori ricchezze dell’ecosistema, sono bastati 10 anni (fra il 1990 e il 2000), perché la superficie da loro ricoperta venisse ridotta di 940 mila chilometri quadrati, un’area grande quanto il Venezuela. Il motivo? La conversione del territorio boschivo in terreno agricolo o destinato ad altri usi.
Vi sono tuttavia alcuni segnali positivi: oltre il 13% del suolo terrestre, pari a 19 milioni di kmq, è area protetta, con un aumento di superficie del 15% dal 1994; minore fortuna ha invece il patrimonio marino, di cui al momento risulta protetto soltanto l’1%.
La responsabilità dell’uomo è grave anche sulla perdita della biodiversità, frutto di milioni di anni di evoluzione, accelerata di 50-100 volte rispetto a quanto accadrebbe in assenza del genere umano. A dicembre 2005, un gruppo di ricercatori della Alliance for Zero Extinction ha lanciato un allarme in proposito, segnalando ben 794 specie animali e vegetali a rischio di estinzione, se non verranno protette.

Calore e gas
Un altro punto cruciale nel rapporto fra uomo e ambiente è l’aumento della temperatura terrestre, cui le attività umane hanno contribuito. E a patire maggiormente il cambio climatico sono i paesi poveri, più dipendenti dal clima per le loro attività lavorative (agricoltura e pesca), oltre che con minori possibilità di contrastare tali cambi climatici.
Negli ultimi decenni, poi, l’utilizzo di combustibili fossili ha aumentato la produzione di anidride carbonica, che contribuisce all’innalzamento della temperatura. Ogni persona produce annualmente 6-7 milioni di tonnellate di CO2: 2 milioni di tonnellate sono assorbiti dall’oceano, 1,5-2,5 milioni dalle piante, il resto è rilasciato nell’atmosfera.
L’altra faccia della questione, con ricadute immediate sull’uomo, è rappresentata dall’utilizzo dei combustibili solidi (legno, sterco, carbone) nei paesi poveri. Il loro utilizzo domestico, ad es. per cucinare, provoca inquinamento degli ambienti chiusi, responsabile di oltre 1,6 milioni di morti, soprattutto bambini e donne. Nelle abitazioni si diffonderebbero i prodotti nocivi di combustione: per l’Organizzazione mondiale della sanità, il fumo causato dall’uso di combustibili solidi in casa è una delle quattro cause principali di morte e malattia nei paesi in via di sviluppo.
La rivista medica The Lancet ha riportato che l’esposizione per tutto il giorno delle donne a stufe e fornelli quadruplica loro il rischio di sviluppare malattie polmonari croniche ostruttive, con progressiva difficoltà nella respirazione; inoltre, pur essendo necessarie ancora ricerche, sono stati segnalati collegamenti anche tra inquinamento domestico e basso peso dei bambini alla nascita, mortalità infantile, cataratta e cancro.

Acqua disponibile
e sicura
Dimezzare entro il 2015 il numero di persone prive di accesso ad acqua sicura e di un sistema fognario che garantisca livelli igienici di base è il secondo traguardo delineato dal settimo obiettivo del millennio. La necessità di acqua pulita è sottolineata dalla diffusione di malattie e morte ove essa manca: nel 1990 la diarrea ha causato 3 milioni di morti, di cui l’85% bambini. Fra il 1990 e il 2002 circa 400 milioni di persone hanno ottenuto l’accesso all’acqua pulita, ma oltre un miliardo è ancora in attesa dell’acqua potabile, di cui il 42% nell’Africa subsahariana e il 22% nell’Asia dell’Est e nel Pacifico. Le situazioni peggiori si rilevano nelle zone rurali dell’Africa e nelle periferie povere delle città.
I progressi sul versante delle misure igieniche sono poi ancora più lenti: 2,6 miliardi di persone non hanno servizi fognari e sanitari adeguati; se le cose proseguono come è stato fra il 1990 e il 2002, questa cifra scenderà soltanto a 2,4 miliardi nel 2015. Le conseguenze della mancanza di acqua pulita e di fognature sono un numero di bambini uccisi dalla diarrea negli anni ‘90 superiore ai morti in tutti i conflitti armati dalla seconda guerra mondiale.
L’acqua è un bene prezioso, tanto da essere definita «oro blu» e diventare causa di conflitti fra popolazioni: eppure spesso è sprecata da chi ne ha in abbondanza. Se ne sono accorti anche alcuni bambini messicani, che proprio perché vivono costantemente con la paura, un giorno, di non avere più accesso al prezioso liquido, combattono contro gli sprechi. Hanno creato un gruppo chiamato Guardianes del Agua, per sensibilizzare la popolazione e stimolare un utilizzo razionale dell’oro blu. I guardiani dell’acqua, più di 5 mila bambini, si preoccupano di preservare questa risorsa naturale, cercando anche di favorire la formazione di una coscienza sociale su questo problema.

I quartieri poveri
La vita nei bassifondi è l’ultimo tema toccato dal settimo obiettivo. La rapida urbanizzazione dei paesi poveri ha portato circa un miliardo di persone a vivere nelle periferie degradate delle città, rappresentandone un terzo della popolazione totale. Fra il 1990 e il 2001 vi è stato un aumento del 28% degli abitanti dei bassifondi, pari a circa 200 milioni di persone arrivate nelle periferie povere, dove le condizioni di vita aumentano il rischio di malattia, morte e disgrazie.
Il 94% di loro si trova nei paesi poveri, ovvero in quelle regioni dove si è assistito a una rapida crescita della popolazione urbana senza un aumento delle possibilità di accoglienza da parte delle città stesse: ne conseguono scenari di povertà e privazioni fisiche e ambientali. Senza un intervento significativo per migliorare l’accesso all’acqua, il sistema fognario e l’alloggio, nei prossimi 15 anni, il numero di persone che vive in queste drammatiche condizioni potrebbe salire a un miliardo e mezzo.

Valeria Confalonieri




PREVENIRE, CURARE… OVUNQUE

N el mondo, circa 1,7 miliardi di persone non hanno accesso a farmaci salva vita: l’80% di questi malati vive nei paesi poveri. Basterebbe questo dato per far comprendere il sesto obiettivo del millennio: migliorare la salute della popolazione mondiale, intensificando gli sforzi contro le malattie infettive, in particolare Hiv/Aids, tubercolosi e malaria, che tolgono la vita a circa 6 milioni di persone ogni anno. Accanto a questa triade, vi sono poi le malattie «dimenticate»: tripanosomiasi, schistosomiasi, parassitosi intestinali, lebbra, leishmaniosi e altre ancora.
Un intervento sanitario efficace non solo ridurrebbe il numero di morti, ma avrebbe un effetto benefico sull’economia dei paesi più poveri, dove il prezzo pagato è il più alto. Sono malattie che potrebbero essere curate se vi fosse la disponibilità di farmaci, ma anche di strutture e di operatori sanitari.

Il virus dell’Aids
Ormai dagli anni ’80 la Sindrome da immunodeficienza acquisita (Aids) fa parlare di sé, seminando morte e malattia ovunque. Ancora una volta, però, il carico maggiore è sulle spalle delle zone più povere del mondo, dove l’assistenza sanitaria, i programmi di prevenzione e i trattamenti non riescono a contenere l’epidemia.
I numeri parlano chiaro: 3 milioni di morti ogni anno nel mondo, 8 mila al giorno. Tutto questo nonostante le possibilità offerte dai farmaci antiretrovirali: alla fine del 2003 nei paesi in via di sviluppo la terapia era disponibile solo per 400 mila dei 5-6 milioni di persone in stadio avanzato di malattia.
In base ai dati del 2004 (quelli del 2005 non sono ancora disponibili al momento della scrittura di questo articolo), 37 milioni di adulti e 2 milioni di bambini vivono con l’Hiv/Aids: il 96% di questi si trova nei paesi in via di sviluppo e il 64% nell’Africa subsahariana; ma c’è stato anche un milione di nuove infezioni nel Sud e nell’Est dell’Asia.
Sempre nel 2004, dei quasi 5 milioni i nuovi casi registrati, 640 mila erano bambini. Proprio all’infanzia si riferisce il quadro drammatico delineato, alla fine di ottobre del 2005, dall’Unicef (agenzia delle Nazioni Unite per l’infanzia), insieme con l’Unaids (agenzia delle Nazioni Unite per la lotta all’Aids): ogni minuto un bimbo viene infettato dall’Hiv, un altro muore per cause correlabili alla malattia e quattro giovani fra i 15 e i 24 anni diventano sieropositivi.
Le previsioni per il 2010 parlano di 18 milioni di orfani nella sola Africa subsahariana per colpa del virus. Nel frattempo, solo il 5% dei piccoli sieropositivi riceve assistenza medica e meno del 10% degli orfani da Aids ha un sostegno economico. La maggior parte del mezzo milione di bambini che muore per cause correlate alla Sindrome da immunodeficienza acquisita ha preso l’infezione dalla mamma: al momento, meno del 10% delle donne ha accesso a servizi per la prevenzione della trasmissione del virus ai loro figli.
L’impegno per arrestare la diffusione dell’Hiv deve fare i conti anche con ostacoli come la discriminazione e il marchio negativo ancora collegati alla diagnosi di Aids.
In Sudafrica, per esempio, una revisione delle cause di morte fra il 1996 e il 2001 ha mostrato come la percentuale di decessi attribuibile all’Aids sarebbe il triplo di quanto riportato ufficialmente. Secondo i ricercatori responsabili dello studio, gli errori di classificazione delle cause di morte sono collegati allo stigma sociale che questa diagnosi ancora rappresenta nel paese: i pazienti chiedono al medico di non fare parola del loro stato, come pure i familiari in caso di morte, perché molte polizze assicurative sulla vita e sui servizi funerari non coprono se il decesso è per l’Aids.

Altro che scomparsa
La tubercolosi uccide 2 milioni di persone ogni anno (soprattutto fra i 15 e i 45 anni di età) e ne infetta 8 milioni. Il 95% delle infezioni e il 99% dei decessi si verificano nei paesi poveri e la zona più colpita è il Sud-Est dell’Asia. La malattia conclamata non si sviluppa in tutte le persone infettate: il sistema immunitario di difesa dell’organismo può riuscire a tenere a bada il bacillo tubercolare. Ecco perché 2 miliardi di persone, circa un terzo della popolazione mondiale, sono infettati dal bacillo tubercolare, ma solo 8-9 milioni si ammalano: l’infezione si manifesta infatti quando le difese immunitarie si riducono o vengono meno. Ne è un esempio il virus dell’Aids, che indebolisce il sistema immunitario, facilitando il compito del bacillo tubercolare: una persona su tre infettata dall’Hiv si ammala anche di tubercolosi e circa il 13% dei morti per Hiv nel mondo è causato dal bacillo tubercolare.
Le questioni più delicate nell’impegno contro questa malattia infettiva riguardano la comparsa di resistenze ai farmaci finora utilizzati, la contemporanea diffusione dell’Hiv/Aids e la crescita del numero di rifugiati e profughi, che favoriscono la diffusione della tubercolosi.
Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), il numero di nuove infezioni tubercolari è in crescita, ma non la prevalenza (cioè il numero complessivo di casi sulla popolazione generale) e la mortalità: questo perché sta aumentando il numero di pazienti trattati con successo con le terapie a disposizione.
Vi sono, però, casi resistenti alla terapia. Infatti il trattamento necessario per guarire, seppur più breve rispetto a una volta, è ancora lungo (6-8 mesi con controlli giornalieri per i primi due): per questo molti pazienti nei paesi poveri hanno interrotto la cura, portando all’insorgenza di bacilli resistenti ai farmaci. In questi casi si deve passare ad altri schemi terapeutici, più lunghi e con medicine meno efficaci, più costose e con effetti collaterali più gravi.
Da qui l’importanza di ricerche su nuovi trattamenti applicabili nelle diverse realtà sociali in cui la malattia è diffusa. Un esempio di incontro fra le esigenze della terapia e dei malati lo ha dato Annalena Tonelli, missionaria di Forlì, uccisa a Borama (Somaliland) il 5 ottobre del 2003. Annalena ha dedicato la sua vita al popolo somalo e, negli anni ’70, è stata una pioniera della terapia breve (quella di 6 mesi seguita anche oggi) contro la tubercolosi. Prima di allora i trattamenti duravano almeno un anno e la probabilità di interruzione era molto alta.
Annalena, diventata responsabile per l’Oms della cura dell’infezione fra i nomadi, è riuscita a convincere i malati ad accamparsi per tutti i mesi necessari fuori dal suo Centro, arrivando a seguire fino a 400 pazienti ogni giorno. Terminata la cura, gli ex malati si ricongiungevano al loro gruppo o alla loro famiglia.

Sconfiggere la malaria
Le cifre della malaria seguono a ruota Aids e tubercolosi, con 300-500 milioni di casi e 1 milione di morti ogni anno, 3 mila bambini ogni giorno: la maggior parte dei decessi si verifica infatti prima dei 5 anni di vita, uno ogni 30 secondi, quando i piccoli sono più vulnerabili all’infezione.
In Africa la malaria è infatti la causa principale di morte sotto i cinque anni di vita. Eppure, anche in questo caso, gli strumenti per impedire l’infezione o per curarla in caso di malattia ci sono. Sulla strada della prevenzione, accanto alle ricerche in laboratorio che mirano a impedire il passaggio del plasmodio della malaria dalla zanzara all’uomo, ci sono per esempio le zanzariere, il cui maggiore utilizzo ridurrebbe la trasmissione della malattia.
Ma solo un bambino su sette sotto i 5 anni dorme sotto le zanzariere, e addirittura uno su trenta ha il privilegio di avere quelle trattate con insetticida, più efficaci: il solo utilizzo di queste ultime potrebbe ridurre la mortalità infantile per malaria del 17%. L’Oms sottolinea come la malaria sia la malattia con il legame maggiore alla povertà. Bambini, donne in gravidanza, persone che vivono in situazioni di emergenza, persone con Hiv/Aids sono le categorie più a rischio. Come le altre malattie, porta con sé danni economici non indifferenti nei paesi in cui è diffusa. Si calcola che 9 pazienti su 10 con la malaria vivano in Africa, dove ogni anno la malattia costa 12 miliardi di dollari: basterebbe una piccola parte di questi soldi per tenere sotto controllo l’infezione, che sottrae a famiglie già in difficoltà un quarto dei loro guadagni per la prevenzione e il trattamento.
Infine, sul versante terapia, negli ultimi 20 anni il plasmodio della malaria è diventato resistente ai farmaci comunemente utilizzati. Per questo sin dal 2001, l’Oms ha consigliato, in caso di resistenza, il trattamento combinato con derivati dell’artemisinina (Act): dopo 4 anni da tale indicazione la terapia non è ancora disponibile per tutti i paesi che ne avrebbero bisogno.

Ruxin J., Emerging consensus in HIV/AIDS, malaria, tuberculosis, and access to essential medicines. Lancet 2005; 365: 618-21.
Groenewald P., Identifying death from Aids in South Africa. Aids 2005; 19: 193-201.

Siti Inteet:
www.dfid.gov.uk/mdg/hivaids.asp
www.millenniumcampaign.it
www.peacereporter.net
www.unicef.org
www.unmillenniumproject.org
www.who.int

Valeria Confalonieri