Uniti per … trasformare il mondo

«Trasformazione» è stata la parola d’ordine risuonata nell’Assemblea del Consiglio mondiale delle chiese (Cmc), tenuta a Porto Alegre (Brasile) dal 14 al 23 febbraio scorso. Vi hanno partecipato quasi 4 mila persone, provenienti da tutto il mondo, rappresentanti di 348 chiese membro. Era presente, come membro della delegazione vaticana, anche padre Piero Trabucco, che condivide con noi la sua esperienza.

Con scadenza settennale, il Consiglio mondiale delle chiese (Cmc) celebra la sua assemblea generale. Essa costituisce un momento importante di incontro per i rappresentanti di varie comunità cristiane, nell’intento di costruire nuovi ponti fra le innumerevoli chiese cristiane, fare un consuntivo del cammino compiuto verso l’unità dei cristiani e per programmare ulteriori tappe verso la realizzazione dell’ideale voluto da Gesù stesso, che tutti i credenti «siano una cosa sola» (Gv 17, 21).
Nel mese di febbraio 2006, per 10 giorni, in Porto Alegre (Brasile), si sono dati appuntamento 3.838 rappresentanti di chiese cristiane, di cui 691 erano delegati ufficiali e con diritto al voto, mentre i restanti 3.147 partecipavano a vari titoli, quali osservatori ufficiali, giornalisti, rappresentanti dei giovani o di altre categorie all’interno del popolo cristiano.
Tra questi osservatori ufficiali c’erano i membri della delegazione del Vaticano, comprendenti vari rappresentanti del «Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani» e altri invitati, come religiosi e religiose, membri di movimenti ecclesiali, vescovi e sacerdoti.
Come segretario dell’Unione superiori generali, ho avuto il privilegio di essere invitato a fare parte della delegazione vaticana e così di poter vivere all’interno e in maniera molto intensa questo evento. Ho potuto così scoprire, poco a poco, cosa significa per la chiesa cattolica, oggi, vivere l’impegno di lavorare per l’unità dei cristiani nel grande movimento ecumenico.

Un po’ di storia

Per comprendere meglio l’importanza di questo evento, è forse opportuno ricordare come è nato e come si è sviluppato il Consiglio mondiale delle chiese.
La prima Conferenza mondiale della missione, tenutasi a Edimburgo, viene celebrata nel 1910 ed evidenzia con molta forza il bisogno di lavorare per l’unità della chiesa, se si vuole essere efficaci annunciatori del vangelo ai popoli. Da quella assise nascono il «Consiglio internazionale della missione», «Fede e costituzione» e «Vita e lavoro».
Alla vigilia della seconda guerra mondiale, alcuni capi delle chiese cristiane «storiche» propongono di costituire il Consiglio mondiale delle chiese. L’idea si potrà concretizzare soltanto nel 1948, quando i rappresentanti di 147 chiese si riuniscono in Amsterdam e danno vita al Cmc.
In seguito le assemblee verranno celebrate in varie parti del mondo, con tematiche specifiche e per affrontare questioni particolarmente sentite dalle varie chiese.
L’Assemblea di Nuova Delhi, nel 1962, offre al Consiglio una struttura solida e un’apertura a tutti i continenti. In quell’occasione un buon numero di chiese ortodosse decide di aderire al Consiglio mondiale delle chiese.
Negli anni ‘70 e ‘80, si affrontano temi teologici quali l’eucaristia, il battesimo e i ministeri della chiesa. Negli anni ‘90, si presta una particolare attenzione ai temi della pace e della giustizia.
Ad Harare, nel 1998, si fa una seria riflessione sulla tensione ecumenica del Consiglio stesso. Viene dato voce a un diffuso malessere delle chiese ortodosse, a causa dell’eccessivo frazionamento dei rappresentanti delle chiese membri.

La chiesa cattolica non ne è membro: perché?

La domanda è stata ripetutamente posta a noi, membri della delegazione vaticana, nel corso dell’Assemblea di Porto Alegre. Il Pontificio consiglio per l’unità delle chiese ha voluto allora ricordare i motivi principali per cui la chiesa cattolica, pur essendo un attivo partner, non ne fa giuridicamente parte.
Fin dalla sua nascita nel 1948, nel Cmc predomina una ecclesiologia prevalentemente protestante. Gli ortodossi sono sempre stati una minoranza e la loro posizione teologica non viene presa molto in considerazione. L’auspicio che anche la chiesa cattolica entri a far parte del Cmc viene ripetutamente ribadito. La chiesa cattolica si troverebbe molto a disagio con l’ecclesiologia vigente oggi nel Consiglio.
Secondo l’attuale costituzione del Cmc, le chiese membri sono le chiese nazionali. Esse si presentano all’assemblea a titolo individuale, per cui all’interno della stessa chiesa (es. anglicana) le posizioni possono essere molto diversificate. La chiesa cattolica, come chiesa universale, non può essere accettata dall’attuale struttura del Cmc.
La costituzione attuale del Cmc prevede che il numero complessivo dei fedeli di una chiesa determini il numero dei delegati all’Assemblea. Se la chiesa cattolica dovesse entrare nel Consiglio, essa avrebbe il numero doppio di delegati di tutte le altre chiese assommate assieme, che è invece di 560 milioni.
Il tema dell’autorità è centrale nella chiesa cattolica. Senza dubbio, il modo di intenderla costituirebbe un ostacolo non indifferente alle chiese protestanti e anche a quelle ortodosse.
Per questi e altri motivi, la chiesa cattolica, pur essendo presente nel Cmc attraverso una viva collaborazione con le sue attività e soprattutto negli approfondimenti teologici, in vista di un cammino comune verso l’unità, non ne fa parte giuridica.
Il suo ruolo nel Cmc, sebbene discreto, resta un punto di riferimento per tutte le chiese cristiane, senza però avere un’autorità decisionale. In altre parole, essa mira a condividere gli impegni piuttosto che avere un’appartenenza a pieno titolo.

Svolgimento dell’assemblea

Attoo al tema scelto per la nona Assemblea («Dio, nella tua grazia, trasforma il mondo»), hanno preso vita una miriade di attività. Più che un incontro di specialisti che riflettono attorno a temi importanti, l’Assemblea ha avuto invece il carattere di una festa. Il segretario generale, dott. Samuel Kobia (kenyano), l’ha voluta chiamare in portoghese: «A festa da vida» (la festa della vita).
L’organizzazione, sebbene molto elaborata e complessa, è stata perfetta. L’accoglienza cordiale e festosa, ha riflettuto bene il calore latinoamericano. Molto viva e attiva nell’organizzazione di tutta l’assemblea è stata la chiesa cattolica, nella persona dell’arcivescovo di Porto Alegre e di tanti laici e membri di movimenti ecclesiali.
I lavori di assemblea occuparono quasi tutte le giornate dei delegati ufficiali e nostre, quali delegati ufficialmente invitati. Qui venivano affrontati temi precedentemente discussi ed elaborati da commissioni ad hoc.
Il grande numero di partecipanti ha reso particolarmente impegnativo il lavoro e difficile la moderazione. Per la prima volta si è voluto procedere, non per votazione, ma per mezzo del «consenso», per venire così incontro allo scontento manifestato ripetutamente dagli ortodossi nella precedente Assemblea di Harare.
Questo metodo ha forse penalizzato il dibattito in aula, ma ha reso più spediti i lavori. D’altronde, come si avrebbe potuto prendere in considerazione e approvare vari documenti in un’assemblea di 700 persone?
Momenti di culto e di preghiera si svolgevano all’inizio delle attività della giornata e alla sera, sotto una grande tenda capace di contenere 3.000 persone. Non è stato possibile celebrare un’eucaristia assieme, data la grande disparità di posizioni teologiche all’interno delle chiese membri del Cmc.
Altro momento particolarmente significativo di riflessione e preghiera è stato lo studio biblico, fatto a gruppi misti di 10-12 persone, ogni mattina, dopo la preghiera nella grande tenda. È qui che ognuno ha potuto sentire forte il richiamo a lavorare per l’unità della chiesa e anche il dolore per le divisioni.
Nel mio gruppo, una signora luterana della Namibia ha ripetutamente detto: «Se attorno alla parola di Dio ci sentiamo in questo momento così uniti, sebbene appartenenti a ben 9 chiese diverse, perché non lo possono essere tutte le nostre chiese?».
Tre mattinate sono state dedicate alle conversazioni ecumeniche attorno a 23 temi diversi. Ognuno poteva scegliere il tema che considerava di maggiore interesse. Purtroppo i risultati di tali conversazioni, ricche di spunti e suggerimenti, non hanno potuto essere presentati a tutta l’Assemblea. Si spera ora in una efficace divulgazione dei risultati di tali conversazioni ecumeniche.
La parola portoghese mutirão designava gli innumerevoli incontri, variegati nei temi e nello svolgimento, portati avanti dai numerosissimi partecipanti non delegati. Essi avevano un carattere informativo sopra temi importanti o realtà particolari, che toccavano la vita delle chiese cristiane nelle varie parti del mondo. Particolarmente evidenziati sono stati i temi riguardanti la pace, la giustizia, la salvaguardia del creato, i malati di Aids, le minoranze emarginate.
Non mancarono visite importanti. Il presidente Luis Inácio Lula da Silva è venuto appositamente a Porto Alegre a salutare l’assemblea. Il card. Walter Kasper ha letto un messaggio speciale del papa. L’arcivescovo di Canterbury, Rowan Williams, ha esortato con parole forti le chiese a prendere a cuore l’ecumenismo. L’arcivescovo Desmond Tutu del Sudafrica ha ribadito a sua volta che «l’unità delle chiese non è un’opzione extra, ma è indispensabile per la salvezza del mondo».

Sentimenti e impressioni

Le due settimane vissute a Porto Alegre hanno generato in me molteplici sentimenti. Di gratitudine, innanzitutto, per l’opportunità di fare una forte esperienza di riflessione, di preghiera e comunione con tanti fratelli di fede attorno al tema dell’unità della chiesa.
Ho condiviso in maniera profonda un tempo prolungato di convivenza con la delegazione della Santa Sede, composta da vescovi, sacerdoti, religiosi e membri di movimenti ecclesiali: è stato un arricchimento grande e abbiamo potuto creare tra noi un clima molto bello di frateità, ascolto e dialogo.
Ho potuto pure condividere con tante persone di differenti denominazioni cristiane la sofferenza nel constatare come l’obiettivo dell’unità della chiesa si allontani sempre più, a causa della crescita esponenziale, nel sud del mondo, di nuove chiese, soprattutto pentecostali ed evangeliche, che paiono avere poca sensibilità verso il movimento ecumenico.
Il Cmc stesso sembra attraversare un momento cruciale. Le sue attività si sono moltiplicate eccessivamente, al punto da oscurare la finalità prima e fondamentale per cui il Consiglio stesso è nato, cioè l’unità di tutte le chiese cristiane. Forse esso ha dato troppo spazio ad attività parallele, soprattutto nel campo della giustizia e della pace, a scapito forse di una seria indagine teologica, o di un cammino unitario di fede delle varie chiese.
Porto Alegre ha percepito l’urgenza di una inversione di rotta, ma sembra che non sia riuscito a compiere delle scelte, tali da imprimere un andamento diverso al movimento ecumenico.
Apprezzamenti per l’«ecumenismo della vita» sono risuonati più volte in aula e nei gruppi di lavoro e menzione esplicita è stata fatta per gruppi e movimenti particolarmente attivi in quest’area (es. Focolari, Sant’Egidio).
Quest’ecumenismo viene visto non in opposizione ad altre iniziative e non è considerato una scelta alternativa. Esso mira piuttosto a creare un clima di amore reciproco, di frateità, di collaborazione tra tutti i cristiani, dove la figura di Cristo emerge come fermo e costante punto di riferimento. Partendo dall’amore fraterno, dove la presenza di Cristo è fortemente sentita, qualsiasi iniziativa ecumenica porterà allora risultati positivi.

Un bilancio del lavoro e della presenza della chiesa cattolica nell’assemblea è stato fatto da Samuel Kobia, segretario generale del Cmc: incontrando un gruppo di 200 cattolici, ebbe parole di encomio per il servizio offerto dalla chiesa cattolica nella preparazione e durante tutta la celebrazione dell’evento. Diceva loro: «Le relazioni con la chiesa cattolica avranno ora una nuova qualità e profondità. In questi giorni ci siamo accorti veramente chi era cattolico e chi non lo era».
Mi viene spontaneo ripetere ancora una volta la preghiera-tema dell’Assemblea: «Dio, nella tua grazia, trasforma il mondo».

di Piero Trabucco

Piero Trabucco




«Tu non adorearai le pietre»

Mentre gli estremisti delle opposte fazioni continuano a confrontarsi e la diplomazia finge dialoghi che preludono più alla guerra che alla pace, numerosi movimenti e gruppi israeliani nonviolenti, dentro e fuori d’Israele-Palestina, si oppongono all’occupazione israeliana di terre palestinesi, difendono i diritti umani e lavorano concretamente alla costruzione di una pacifica convivenza fra i due popoli. Tali movimenti, purtroppo, raramente sono portati a conoscenza dell’opinione pubblica.

Paola Canarutto è un medico torinese, ma è anche la rappresentante per l’Italia dell’organizzazione del Ejjp (European Jews for a Just Peace). Ad aprile era tra i candidati alla Camera, all’interno di un partito che ha assunto posizioni coraggiose a favore del popolo palestinese e contro la politica di oppressione di Israele. E lei vi ha aderito anche per questo.
L’abbiamo incontrata subito dopo il suo viaggio di solidarietà con la popolazione palestinese di Bi’lin, a febbraio 2006.

Dottoressa Canarutto, quando è nata la Ejjp e perché?
La Ejjp, che rappresenta una sorta di «ombrello» di organizzazioni ebraiche contro l’occupazione israeliana dei Territori palestinesi, è stata creata ad Amsterdam, nel 2002, per iniziativa di tre anziane signore ebree olandesi, che fanno parte dell’associazione «Un’altra voce ebraica». In quell’occasione, hanno invitato nella capitale olandese rappresentanti di organismi ebraici europei ed è stata siglata la «Dichiarazione di Amsterdam».
L’obiettivo era quello di promuovere una pace tra Israele e la Palestina, che prevedesse il ritiro israeliano entro i confini del ‘67. Teniamo conto che questa riunione è avvenuta due anni dopo lo scoppio della «seconda intifada».

Un obiettivo coraggioso, tenuto conto del silenzio internazionale sui diritti palestinesi violati quotidianamente…
(Ride) Coraggioso… Quindi, noi esistiamo da allora. La Dichiarazione di Amsterdam è la base su cui altre associazioni possono dare la propria adesione.

Concretamente cosa fate?
Quest’anno, a febbraio, abbiamo organizzato un viaggio di solidarietà in Palestina, che vorremmo ripetere.
In Ejjp c’è un comitato esecutivo, formato da sette persone, che si riunisce periodicamente nei vari paesi europei. Questa volta abbiamo deciso di portare concretamente la nostra solidarietà agli abitanti di Bi’lin e alla loro lotta nonviolenta contro l’occupazione israeliana. Ci siamo riuniti il 17, dopo la manifestazione a sostegno della popolazione palestinese. Il 21 si è svolta una conferenza internazionale: hanno partecipato i movimenti pacifisti Gush Shalom (lett.: blocco della pace), Rabbis for Human Rights (rabbini per i diritti umani) e altri gruppi.

Come mai avete scelto di sostenere la popolazione di Bi’lin?
Perché loro portano avanti una lotta nonviolenta. Tuttavia, noi non ci permettiamo di dire che non vada bene anche quella armata contro l’occupante, perché questo è un diritto riconosciuto dalle dichiarazioni inteazionali. La mia idea è che con la lotta armata, in questo caso specifico, non si ottiene nulla. Non significa che essa non sia utile in assoluto. Dobbiamo infatti ricordarci che la nostra resistenza è stata armata, dunque, lungi da me giudicare.
È necessario tenere in considerazione che i palestinesi sono soli e che l’effetto di tirare una pietra o di farsi saltare in aria in un autobus si ripercuote solo su di loro, al di là del giudizio morale che possiamo dare. L’unica possibilità concreta è quella di ricevere il sostegno dell’opinione pubblica internazionale. Quindi, abbracciare una battaglia nonviolenta.
Parliamoci chiaro, con la caduta del blocco sovietico, i palestinesi non hanno più sostegni. Sono stati abbandonati. Il risvolto pratico di quel poco di resistenza armata che riescono a organizzare è controproducente. È un boomerang.
In ogni caso, attaccare i civili non va bene: sia che ad organizzare attentati siano i movimenti islamici, sia che si tratti di quelli laici o di sinistra.
Inoltre, lo squilibrio delle forze è tale che non ottengono nulla: Israele li colpisce quattro volte tanto. Ha altri mezzi e i giornali stanno quasi tutti dalla sua parte.

Dunque, l’interlocutore palestinese è scelto in base alle modalità di lotta.
Sì, deve essere pacifica e nonviolenta, proprio per stimolare lo sviluppo di questa linea. Bi’lin resiste da mesi.

La popolazione locale come vi ha accolti?
Era felicissima. Anche quando siamo andati a piantare gli alberi di ulivo, che poi gli israeliani hanno sradicato quasi subito. Alla conferenza del 20-21 ci hanno addirittura offerto da mangiare e da dormire, tutto a spese del villaggio, su cui pesa una disoccupazione altissima. La riunione del nostro Comitato esecutivo è stata ospitata nella loro sala consiliare. Anche questo è significativo.

Non ci sono state diffidenze nei vostri confronti, dunque?
Assolutamente no. Nel linguaggio comune, i palestinesi identificano i soldati israeliani con gli ebrei, poi, nella pratica, sanno distinguere un aspetto dall’altro e son felici di riceverci. E questo non è scontato.

Quanti aderenti a Ejjp ci sono in Italia?
Pochi.

Come siete visti dalle comunità ebraiche?
Male, come dei traditori della patria. Ma io non sono più iscritta alla comunità già da tempo.

È praticante?
No. Dal ’98 sono fuori dalla comunità. Frequento quella di Agàpe, nelle valli pinerolesi, in provincia di Torino.
Ho studiato per sette anni nella scuola ebraica e ho capito che quello che mi avevano raccontato non corrisponde al vero. Dunque, mi sono sentita presa in giro.

Il suo legame con l’ebraismo è culturale soltanto?
Il legame è obbligatorio nel momento in cui ci si vuole dissociare dalle politiche israeliane. Si dice che quello è lo stato degli ebrei e così a me tocca prendere le distanze e dire: «Scusate, ma mi avete chiesto in cosa mi riconosco?».
Il problema n.1 è questa identificazione tra l’ebraismo e lo stato israeliano. Il problema n.2 è che chi condanna le pratiche israeliane contro la popolazione palestinese è accusato di essere antisemita. Dunque spetta a noi ebrei parlare, opporci a queste politiche.

Si tratta di una strumentalizzazione, perché il rispetto dell’ebraismo, come religione e cultura, non comporta automaticamente l’accettazione delle scelte dello stato israeliano. Ultimamente i due aspetti vengono associati…
Infatti. Perché, in realtà, la storia di quel luogo è molto semplice: il gruppo A ha deciso di espellere il gruppo B dal paese dove abitava per viverci lui. È accaduto nel 1947-48, nel 1967 e sta accadendo oggi. Però i sionisti nascondono l’evidenza dei fatti e della storia, prendendo come scusa e giustificazione la necessità dell’esistenza dello Stato degli ebrei.
Su questo discorso non c’è unanimità in Ejjp, ma ciò su cui siamo tutti d’accordo è che Israele deve ritirarsi dai confini del 1967. Certamente, la maggior parte del Comitato esecutivo è anti-sionista.

Qualcuno di voi è contrario all’esistenza dello Stato di Israele?
È contrario al sionismo, cioè a uno stato costituito su base religiosa, in cui gli appartenenti all’ebraismo abbiano più diritti degli altri.

Quale sarebbe, allora, la soluzione migliore?
Ci sono alcuni che sono favorevoli allo stato binazionale, e questa è una posizione rispettata; altri sostengono che debbano scegliere gli abitanti il tipo di stato da creare, basato però sull’idea del «un uomo, un voto».
Poi c’è l’opzione «due popoli e due stati». Una di queste soluzioni deve essere accolta: adesso la situazione è di apartheid, e non può essere condivisa. Così non è democratico.

La storia dei due popoli non è in contrasto: sono entrambe religioni abramitiche, con un lungo passato in comune…
Mi sono laureata in Lettere a ottobre e la mia tesi aveva come argomento il giudeo-cristianesimo in Transgiordania e Siria: gli ebrei che arrivano lì sono cugini dei palestinesi che buttano fuori ora. Tito, nel 70 d.C., non li aveva espulsi tutti: aveva mandato via i capi. Tant’è che il vangelo di Matteo è giudaico-cristiano ed è stato scritto nel 90, in Galilea; la Mishnà, sempre in Galilea, nel 200; il Talmud palestinese è del 400. Gli ebrei sono sempre stati lì e in parte si sono convertiti al cristianesimo, in parte all’islam, altri sono rimasti tali.
Questa vicenda è ancora più brutta di quella dei pellirossa: perché lì, coloro che i bianchi mettevano nelle riserve non erano i «propri cugini». Qui sì.

Però nessuno ha il coraggio di dire queste cose pubblicamente…
Si tenta di fare quello che si può. Cerchiamo di tessere relazioni con associazioni palestinesi. A Torino lavoriamo con il Comitato di solidarietà con il popolo palestinese. A Roma hanno fondato il gruppo Kidma, che organizza un cineforum dal titolo «Al cinema con il nemico».

Mi pare di capire che i vostri interlocutori palestinesi in Italia sono laici?
Certo. In Palestina, no. Il viaggio di febbraio era organizzato da un’associazione ebraica, la nostra, e non poteva avere un interlocutore solo: abbiamo incontrato il Fronte popolare di liberazione della Palestina (Fplp), Fatah e Hamas.
Con Hamas, la simpatia reciproca è scarsa, perché noi siamo laici. Dopo di che, riconosciamo che le elezioni sono state democratiche, ci congratuliamo con la popolazione e ci auguriamo che Hamas continui su questa linea e che non imponga la shari‘a.

Per concludere, possiamo affermare che esiste una via non-sionista all’ebraismo?
Sì. Il sionismo ha fatto fallire anche uno dei principi dell’ebraismo, che è la non idolatria. La santificazione del muro del pianto, dei luoghi sacri ebraici, della tomba di Rachele, ecc. sono idolatria allo stato puro. Una delle raccomandazioni che gli ebrei si sono ripetuti per 2400 è: «Tu non adorerai le pietre». Ma guarda un po’, invece, cosa è successo!

a cura di Angela Lano*
*Da gennaio 2006 Angela Lano è responsabile del sito web www.infopal.it che si occupa di Palestina

Angela Lano




Quando disobbedire

Continua il viaggio alla scoperta della pace e della non violenza nelle più grandi religioni del mondo. Per il cristianesimo, tra le innumerevoli figure più rappresentative, abbiamo scelto don Lorenzo Milani. Profeta controcorrente, di fronte alle violenze che si commettono in guerra, pronunciò una frase rivoluzionaria: «L’obbedienza ormai non è più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni». Incompreso e osteggiato in vita, a quasi 40 anni dalla scomparsa, la sua voce è più attuale che mai

Da secoli, millenni, Dio è strattonato (quasi avesse braccia da tirare) di qua e di là per avallare questa o quella guerra fratricida.
Per questo abominio inventato dall’avidità e dall’aggressività umane si sono trovate sempre giustificazioni «nobili», fino ad arrivare alla manipolazione semantica odiea: «guerra preventiva», «guerra umanitaria», «guerra tecnologica», peace keeping che camuffa il war keeping, «intervento chirurgico», e così via. L’ipocrisia si spreca e il sangue scorre a fiumi.
«Beati i miti, perché erediteranno la terra… Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio». Il Sermone della montagna di Gesù, riportato in Matteo 5, 1-12, non lascia spazio a interpretazioni: tra le beatitudini non si trova alcuna esaltazione della violenza o della guerra.
Ma c’è chi, di queste, ha fatto un mestiere: soldati, mercenari, body-guards, contractors della sicurezza privata in paesi con situazioni belliche, terroristi al soldo di quella o quell’altra organizzazione. E i cappellani militari.

N el febbraio del 1965 fece scalpore la lettera scritta da un prete, don Lorenzo Milani (Firenze 1923-1967), quasi integralista nel suo costante e continuo riferirsi all’insegnamento del suo Maestro:
«Non discuterò qui l’idea di Patria in sé. Non mi piacciono queste divisioni. Se voi, però, avete diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri, allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni son la mia Patria, gli altri i miei stranieri.
E se voi avete il diritto, senza essere richiamati dalla curia, di insegnare che italiani e stranieri possono lecitamente, anzi eroicamente squartarsi a vicenda, allora io reclamo il diritto di dire che anche i poveri possono e debbono combattere i ricchi. E almeno nella scelta dei mezzi sono migliore di voi: le armi che voi approvate sono orribili macchine per uccidere, mutilare, distruggere, far orfani e vedove. Le uniche armi che approvo io sono nobili e incruente: lo sciopero e il voto.
Abbiamo dunque idee molto diverse. Posso rispettare le vostre, se le giustificherete alla luce del vangelo o della Costituzione. Ma rispettate anche voi le idee degli altri. Soprattutto se sono uomini che per le loro idee pagano di persona.
Certo, ammetterete che la parola Patria è stata usata male molte volte. Spesso essa non è che una scusa per credersi dispensati dal pensare, dallo studiare la storia, dallo scegliere, quando occorra, tra la Patria e valori ben più alti di lei.
Non voglio in questa lettera riferirmi al vangelo. È troppo facile dimostrare che Gesù era contrario alla violenza e che per sé non accettò nemmeno la legittima difesa. Mi riferirò piuttosto alla Costituzione.
Art. 11: L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli… Art. 52: La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino.
Misuriamo con questo metro le guerre cui è stato chiamato il popolo italiano in un secolo di storia.
Se vedremo che la storia del nostro esercito è tutta intessuta di offese alle Patrie degli altri, dovrete chiarirci se in quei casi i soldati dovevano obbedire o obiettare quel che dettava la loro coscienza. E poi dovrete spiegarci chi difese più la Patria e l’onore della Patria: quelli che obiettarono o quelli che, obbedendo, resero odiosa la nostra Patria a tutto il mondo civile?
Basta coi discorsi altisonanti e generici. Scendete nel pratico. Diteci esattamente cosa avete insegnato ai soldati. L’obbedienza a ogni costo? E se l’ordine era il bombardamento dei civili, un’azione di rappresaglia su un villaggio inerme, l’esecuzione sommaria dei partigiani, l’uso delle armi atomiche, batteriologiche, chimiche, la tortura, l’esecuzione d’ostaggi, i processi sommari per semplici sospetti, le decimazioni (scegliere a sorte qualche soldato della Patria e fucilarlo per incutere terrore negli altri soldati della Patria), una guerra di evidente aggressione, l’ordine d’un ufficiale ribelle al popolo sovrano, la repressione di manifestazioni popolari?
Eppure queste cose e molte altre sono il pane quotidiano di ogni guerra. Quando ve ne sono capitate davanti agli occhi o avete mentito o avete taciuto. O volete farci credere che avete volta a volta detto la verità in faccia ai vostri “superiori“, sfidando la prigione o la morte? Se siete ancora vivi e graduati è segno che non avete mai obiettato a nulla…
Se ci dite che avete scelto la missione di cappellani per assistere feriti e moribondi, possiamo rispettare la vostra idea. Perfino Gandhi da giovane l’ha fatto. Più maturo, condannò duramente questo suo errore giovanile. Avete letto la sua vita?
Ma se ci dite che il rifiuto di difendere se stesso e i suoi, secondo l’esempio e il comandamento del Signore, è “estraneo al comandamento cristiano dell’amore” allora non sapete di che Spirito siete! Che lingua parlate? Come potremo intendervi, se usate le parole senza pesarle? Se non volete onorare la sofferenza degli obiettori, almeno tacete!
Auspichiamo dunque tutto il contrario di quel che voi auspicate: auspichiamo che abbia termine finalmente ogni discriminazione e ogni divisione di Patria di fronte ai soldati di tutti i fronti e di tutte le divise, che morendo si son sacrificati per i sacri ideali di giustizia, libertà, verità.
Rispettiamo la sofferenza e la morte, ma davanti ai giovani che ci guardano non facciamo pericolose confusioni fra il bene e il male, la verità e l’errore, la morte di un aggressore e quella della sua vittima.
Se volete diciamo: preghiamo per quegli infelici che, avvelenati senza loro colpa da una propaganda d’odio, si son sacrificati per il solo malinteso ideale di Patria calpestando senza avvedersene ogni altro nobile ideale umano»2.

Q uanto siano al di là del tempo cronologico e sempre attuali le parole e le azioni del priore di Barbiana, questa lettera lo dimostra in modo piuttosto evidente. Alcuni passaggi, in particolare, ci possono far riflettere sulla presenza dei nostri militari in Iraq, dove svolgono azioni di guerra (come ha rivelato il video girato dalla troupe di Rai News 24 a Nassiriya e recentemente mandato in onda), in palese violazione dell’art.11 della nostra Costituzione. E, a meno di non voler credere che lo «scontro di civiltà», costruito a tavolino dalle multinazionali del petrolio e della guerra, abbia esteso i confini dell’Italia fino al Medio Oriente, in un discutibile concetto di «patria globalizzata»: qui l’amor patrio e la sicurezza nazionale c’entrano per nulla.
Come un tempo, la Patria è una nozione che allarga e restringe i propri confini: nel primo caso, quando si tratta di dar giustificazioni etico-politiche a guerre inique e lesive del diritto altrui; nel secondo, quando rifiuta di accogliere popolazioni devastate da queste stesse guerre o dalla povertà creata da uno «stile di vita» che non si vuole mettere in discussione.

Don Milani e la pace

Una pace che affonda solide radici in quei vangeli che Lorenzo, rampollo di una famiglia di ebrei laici, borghesi e coltissimi, ha imparato ad amare fino a scegliere la strada della conversione (era stato battezzato a 10 anni, per risparmiargli le discriminazioni razziali fasciste), del sacerdozio e della dedizione agli ultimi.
Ce ne parla il professor Bruno Becchi, storico e presidente del Centro di Studi milaniani di Vicchio Mugello, nonché autore del saggio Lassù a Barbiana, ieri e oggi 3.
«A don Lorenzo erano particolarmente cari alcuni temi, da lui ritenuti di importanza fondamentale, e che si possono sintetizzare in tre sostantivi: la chiesa, la scuola, la pace. Si tratta di tre grandi questioni che hanno un minimo comune denominatore: l’uomo con le sue prospettive di vita presente e futura.
La riflessione sul tema della pace si concentra soprattutto nell’ultimo segmento della breve esistenza del priore di Barbiana. Al riguardo c’è subito da sottolineare un aspetto che nell’immediato non può non apparire singolare: don Milani usa pochissimo il termine “pace” e praticamente mai l’espressione “educazione alla pace”. Il vocabolo “educazione” ha nel suo etimo il significato di “aiutare l’individuo a crescere intellettualmente e moralmente” E se per “morale” noi intendiamo il presupposto che presiede al comportamento dell’uomo in relazione al concetto di bene e di male, è chiaro che di fronte al dilemma “guerra-pace” un’educazione degna di essere considerata tale non potrà che indurre a scegliere la seconda delle due opzioni. “Educare alla pace” è dunque una sorta di ripetizione, una tautologia, usando un termine del lessico filosofico.
Un altro aspetto da sottolineare, parlando di don Milani e la pace, è che questa non assuma mai in lui il carattere di un concetto astratto, bensì quello di un fine da perseguire. Pertanto lavorare per la pace significa per il priore di Barbiana adoperarsi per individuare gli strumenti, affinché si possano creare le condizioni per un mondo senza conflitti. E ciò partendo dalla piena consapevolezza – per utilizzare le parole di don Milani – che le guerre sono il frutto non solo degli ordini di qualche ufficiale paranoico, ma anche dell’obbedienza di chi quegli ordini accetta passivamente».

In un brano della Lettera ai giudici si legge: «A Norimberga e a Gerusalemme sono stati condannati uomini che avevano obbedito. L’umanità intera consente che essi non dovevano obbedire, perché c’è una legge che gli uomini non hanno forse ancora ben scritta nei loro codici, ma che è scritta nel loro cuore. Buona parte dell’umanità la chiama legge di Dio, l’altra parte la chiama legge della Coscienza. Quelli che non credono né nell’una né nell’altra non sono che un’infima minoranza malata. Sono i cultori dell’obbedienza cieca». È un passaggio forte…
«Sì, è un passaggio forte, ma di importanza fondamentale. Infatti la Risposta ai cappellani militari e la Lettera ai giudici – i due scritti in cui più organicamente don Milani affronta il problema della pace – sono documenti non tanto sull’obiezione di coscienza, quanto sull’obbedienza e sulla responsabilità individuale. Io non posso uccidere una persona perché me l’ha ordinato qualcuno, sia esso anche un superiore, e pensare al tempo stesso di sottrarmi al peso della responsabilità.
Ci sono studi importanti sul rapporto tra obbedienza e responsabilità: penso al Fromm di Fuga dalla libertà o alla Arendt de La banalità del male, per citare due nomi fra gli studiosi più significativi che si sono occupati del tema.
Ma torniamo a don Milani, per dire che il richiamo costante al primato della coscienza e al principio della responsabilità individuale assume in lui uno spiccato valore pacifista. Prima di compiere qualunque atto di rilevanza morale l’individuo deve sempre interrogare la propria coscienza e, nel caso di un credente, tener conto della legge di Dio. Ma affinché il richiamo alla responsabilità individuale e alla coscienza non finisca per rimanere un’indicazione puramente astratta, la persona deve essere in grado di rispondere in concreto a tale richiamo. In termini milaniani, l’individuo deve essere sovrano nelle proprie scelte. Ed ecco il ruolo fondamentale rivestito dalla scuola, quale strumento privilegiato – per i poveri, esclusivo – di educazione. È infatti soprattutto grazie ad essa che si potrà sviluppare nell’individuo la capacità di compiere scelte consapevoli.
Pertanto di fronte al binomio “guerra-pace” una persona, cosciente del potenziale di sofferenza e morte di cui la prima dispone, non potrà che optare per il secondo corno del dilemma. Riuscire ad emancipare uomini e donne dalla condizione di sudditi e farli diventare realmente sovrani significa fare di loro dei convinti assertori di un mondo di pace».
Attualmente siamo in un contesto di guerre inteazionali, definite umanitarie, di civiltà. È chiaro che non possiamo chiedere a don Lorenzo, morto nel 1967, che cosa pensi del conflitto in Iraq, ma qualche insegnamento possiamo desumerlo. Anche oggi ci sono i cappellani militari, e lo stesso Bush, che si definisce cristiano, ha dichiarato che questa guerra è nel nome di Dio…
«Premesso che non sarebbe storicamente corretto “far prendere posizione” su un problema specifico e attuale a una persona morta ormai quasi 40 anni fa, quindi in un contesto assai diverso, non possiamo non ricordare che don Milani sul problema della responsabilità in un contesto di guerra è stato di una chiarezza indiscutibile. Ha scritto nella Lettera ai giudici che chiunque contribuisca in qualche modo a un atto di guerra non potrà chiamarsi fuori rispetto alle responsabilità. A maggior ragione “il cristiano non potrà partecipare [ad un conflitto] nemmeno come cuciniere” perché anche in questo modo se ne farebbe promotore. Ma anche allargando il campo all’intero mondo cattolico, come non ricordare il capitolo 5° della costituzione pastorale Gaudium et Spes del Concilio Vaticano ii, significativamente intitolato “La promozione della pace e la comunità dei popoli”, o l’enciclica Pacem in terris di Giovanni xxiii. Questa, a mio avviso, mostra due importanti elementi: a) si rivolge non solo ai cristiani, ma “a tutti gli uomini di buona volontà”; b) afferma che “non esistono guerre giuste”. Non c’è dubbio che le tesi presenti nei documenti conciliari e in quello giovanneo siano ancor oggi di grande attualità».

Dunque, sembra di capire che, se i cattolici vogliono attenersi alle direttive emanate dalle encicliche papali, non possono che scegliere la pace e ripudiare la guerra.
«Certo. Storicamente dovremmo ricordare anche la definizione della prima guerra mondiale come “inutile strage” fatta da papa Benedetto xv. L’incompatibilità netta tra guerra e messaggio evangelico, ancor prima che nei documenti ecclesiastici, è presente ovviamente nelle scritture bibliche, sia vetero che neotestamentarie. Ma don Milani non si limita a questo, sostanzia le sue posizioni sul tema della pace anche di una componente civile, facendo esplicito riferimento naturalmente all’art. 11 della Costituzione italiana».

Sulla base di quanto fin qui sostenuto, verrebbe da aggiungere che l’Italia si trova in guerra contro l’Iraq nonostante la Costituzione lo vieti e, da paese che in più occasioni ha rivendicato le proprie radici cristiane, nonostante gli insegnamenti di Cristo e le encicliche papali.
«Direi di sì. Don Milani si spinse fino a proporre un nuovo e originale concetto di patria, in contrapposizione a quello storicamente consolidato, la cui difesa o velleità di espansione sono state fonte di inenarrabili sequele di lutti e sofferenze. Un concetto di natura trasversale, che pone confini tra diseredati e oppressi da una parte e privilegiati e oppressori dall’altra. Altro che principio di “esportazione della democrazia”».

Molti attualmente avvertono una sorta di involuzione rispetto ai decenni passati: gli stessi concetti di «patria» e di «eroe» sono stati rispolverati ad uso e consumo dei sostenitori delle «guerre umanitarie». Lei cosa ne pensa?
«Credo che si sia ritornati a un’idea di patria assai anacronistica rispetto alla visione di don Milani che, a 40 anni di distanza, mostra ancora tutta la sua lungimiranza».

Chi sono ora, secondo lei, gli eredi ideali di don Milani?
«Anche a questo riguardo, sarei molto cauto ad attribuire eredi a don Milani. Egli mi appare una figura che fuoriesce da qualunque catalogazione in ambiti più o meno ristretti. Molti sono coloro che, tra uomini di chiesa, di scuola, del mondo del lavoro, della società in genere, attraverso la lettura dei suoi scritti e lo studio del suo pensiero e della sua opera, hanno ricevuto qualcosa in eredità da don Lorenzo. A prescindere da “questioni di successione” o meno, se, proprio le devo fare qualche nome tra coloro che oggi si distinguono in molti campi che sono stati di interesse di don Milani, mi vengono in mente, così su due piedi, padre Alex Zanotelli, monsignor Luigi Bettazzi e il mio carissimo amico don Renzo Rossi, per 30 anni missionario nelle favelas del Brasile nel periodo della dittatura militare. In effetti, a guardarmi intorno, oggi, mi sembra di non vedee molte di persone carismatiche ed esemplari nel campo della politica o in quello sociale, spirituale o culturale in genere. Il panorama mi appare assai sconfortante, soprattutto ora che sono rimasto “orfano” del prof. Giorgio Spini, un maestro di storia, di fede, di vita. Parlando di panorama sconfortante, però, mi rendo conto di fare un torto a tutte quelle persone (sacerdoti, medici, insegnanti, gente comune), che in mezzo a inenarrabili difficoltà e grandissimi rischi hanno scelto di dedicarsi completamente agli altri in qualche landa sperduta del nostro pianeta. Persone alle quali, invece, va tutta la mia ammirazione».

Angela Lano




RELIGIONI STRUMENTO DI PACESulla via di Allah (3)

Per capire gli elementi di pace e non violenza presenti nell’islam, è fondamentale comprendere il concetto del jihad (sforzo). Esso non implica la guerra, tanto meno la «guerra santa», ma non la esclude, a certe condizioni.

«O voi che credete! Entrate tutti nella Pace. Non seguite le tracce di Satana. In verità, egli è il vostro dichiarato nemico» (Corano xi,208); «Con essi Allah guida sulla via della salvezza quelli che tendono al suo compiacimento. Dalle tenebre li trae alla luce, per volontà sua li guida sulla retta via» (Cor v,16); «Allah chiama alla dimora della pace e guida chi egli vuole sulla retta via» (Cor x,25); «Fu detto: “O Noè, sbarca, sbarca con la nostra pace, e siate benedetti tu e le comunità (che discenderanno) da coloro che sono con te”» (Cor xi,48); «Colà la loro invocazione sarà: “Gloria a Te, Allah”; il loro saluto: “Pace”» (Cor x,10); «Coloro che invece credono e operano il bene li faremo entrare nei Giardini dove scorrono i ruscelli e vi rimarranno in perpetuo con il permesso del loro Signore. Colà il loro saluto sarà: Pace» (Cor xiv,23).
Non possiamo affermare tout-court che l’islam sia una religione pacifista o pacifica, ma neanche il contrario, che sia, cioè, basata sulla guerra, il qital o il harb (il jihad, in realtà, significa «sforzo» e non guerra).
Invero, il dibattito sulla natura violenta o nonviolenta dell’islam è tuttora in corso e coinvolge molti studiosi musulmani, in Oriente come in Occidente. E, in questo dibattito, fondamentale è affrontare il complesso significato di jihad.

AL JIHA FI SABILI-LLAH
SFORZO SULLA VIA DI ALLAH

«Il jihad si distingue in base all’orientamento (verso l’interiorità o verso l’esterno) e al metodo (violento o nonviolento). Il jihad esteriore può essere inteso come la lotta per eliminare il male all’interno della ummah (la comunità dei credenti, ndr); jihad è il comando di Allah onnipotente e gli insegnamenti del profeta Muhammad, i quali impongono al credente una continua verifica della propria idoneità a combattere la tirannia e l’oppressione – il continuo adeguamento dei mezzi all’obiettivo di realizzare la pace e inculcare la responsabilità etica»1.
Satha-Anand, docente presso la facoltà di scienze politiche all’università di Bangkok, in Thailandia, pacifista, musulmano, seguace di Gandhi, impegnato nella nonviolenza, analizza i concetti di salam, pace, e di jihad, sforzo, nel Corano giungendo alla convinzione che quest’ultimo significhi «lottare contro oppressione, dispotismo, ingiustizia nel nome degli oppressi, qualunque essi siano».
A sostegno della sua tesi cita le sure ii,190: «Combattete per la causa di Allah contro coloro che vi combattono, ma senza eccessi, che Allah non ama coloro che eccedono»; ii,191: «Uccideteli ovunque li incontriate, e scacciateli da dove vi hanno scacciati: la persecuzione è peggiore dell’omicidio. Ma non attaccateli vicino alla santa moschea, fino a che essi non vi abbiano aggrediti. Se vi assalgono, uccideteli. Questa è la ricompensa dei miscredenti»; viii,39: «Combatteteli finché non ci sia più politeismo, e la religione sia tutta per Allah. Se poi smettono… ebbene, Allah osserva quello che fanno»; iv,75: «Perché mai non combattete per la causa di Allah e dei più deboli tra gli uomini, le donne e i bambini che dicono “Signore, facci uscire da questa città di gente iniqua”».
Inoltre Satha-Anand afferma che jihad indica uno «sforzo o tensione verso la giustizia e verità, che non necessariamente implica violenza»2.
La radice di jihad è jhd, che, nella prima forma verbale jahada, significa letteralmente «cercare, sforzarsi, tentare, impegnarsi, battersi, lottare, affaticarsi»; nella terza «sforzarsi, tentare, cercare, impegnarsi, lottare». Ma numerose sono le sue accezioni nell’islam e gli ambiti di utilizzo. Il primo è quello afferente all’individuo e alla sua natura più intima e profonda, composta da negatività e positività. Il contrasto contro le forze «oscure» dell’essere, quali la collera, avidità, animalità, violenza, potere, può essere inteso come jihad, sforzo sulla via del miglioramento, della «rivoluzione umana».
Tale jihad viene definito jihad an-nafs, «sforzo dell’essere, dell’anima». Esso è il cuore della spiritualità islamica perché rappresenta la lotta continua tra bene e male indirizzata all’autocontrollo, all’evoluzione verso livelli di spiritualità superiori e alla ricerca di Dio.
Un altro significato è quello dell’impegno bellico, che viene definito nei termini di al-qital. La logica che muove il principio del jihad an-nafs è qui applicata sul piano comunitario e socio-politico: lo sforzo contro la propria natura oscurata diventa lo sforzo di resistenza alle aggressioni estee che colpiscono la comunità. Si leggano, al proposito, i già citati versetti della sura ii,190-1913 e il ii, 216: «Vi è stato ordinato di combattere, anche se non lo gradite. Ebbene, è possibile che abbiate avversione per qualcosa che, invece, è un bene per voi, e può darsi che amiate una cosa che invece vi è nociva».
Scrive ‘Ali M. Scalabrin nel suo sito4: «Allah, nel Corano, non ammette la guerra per scopi politici, o altro che esuli dalla legittima difesa; in tutti gli altri casi viene considerato un omicidio, naturalmente, proibito, nell’Islam, come continuità dei 10 comandamenti della Torah. “Oh voi che credete, non divorate vicendevolmente i vostri beni, ma commerciate con mutuo consenso, e non uccidetevi da voi stessi. Allah è misericordioso verso di voi” (Cor iv,29).
“Il credente non deve uccidere il credente, se non per errore. Chi, involontariamente, uccide un credente, affranchi uno schiavo credente e versi alla famiglia (della vittima) il prezzo del sangue, a meno che essi non vi rinuncino caritatevolmente. Se il morto, seppur credente, apparteneva a gente vostra nemica venga affrancato uno schiavo credente. Se apparteneva a gente con la quale avete stipulato un patto, venga versato il prezzo del sangue alla sua famiglia e si affranchi uno schiavo credente. E chi non ne ha i mezzi, digiuni due mesi consecutivi per dimostrare il pentimento verso Allah. Chi uccide intenzionalmente un credente, avrà il compenso dell’inferno, dove rimarrà in perpetuo. Su di lui la collera e la maledizione di Allah e gli sarà preparato atroce castigo” (Cor iv,92-93). “La sua passione lo spinse ad uccidere il fratello (Caino e Abele). Lo uccise e divenne uno di coloro che si sono perduti. Poi Allah gli inviò un corvo che si mise a scavare la terra per mostrargli come nascondere il cadavere di suo fratello. Disse: Guai a me! Sono incapace di essere come questo corvo, sì da nascondere la spoglia di mio fratello? E così fu uno di quelli afflitti dai rimorsi.
Per questo abbiamo prescritto ai figli di Israele, che chiunque uccida un uomo che non abbia ucciso a sua volta o che non abbia sparso la corruzione sulla terra, sarà come se avesse ucciso l’umanità intera. E chi ne abbia salvato uno, sarà come se avesse salvato tutta l’umanità. I nostri Messaggeri sono venuti con le prove! Eppure molti di loro commisero eccessi sulla terra” (Cor v,30-32). “A chi crede in Allah e nel giorno del giudizio è vietato procurare alcun male al proprio prossimo; gli è, invece, fatto obbligo di essere gentile, specialmente con gli stranieri e di dire la verità ed astenersi dalla menzogna” (Hadith profeta Muhammad)».

GIUSTIZIA E PERDONO

L’islam si è sviluppato da un bisogno radicato di giustizia, ‘adl 5: «Oh voi che credete, attenetevi alla giustizia e rendete testimonianza innanzi ad Allah, fosse anche contro voi stessi, i vostri genitori o i vostri parenti, si tratti di ricchi o di poveri! Allah è più vicino (di voi) agli uni e agli altri.
Non abbandonatevi alle passioni, sì che possiate essere giusti. Se vi distruggerete o vi disinteresserete, ebbene Allah è ben informato di quello che fate» (Cor iv,135); «Oh voi che credete, siate testimoni sinceri davanti ad Allah secondo giustizia. Non vi spinga all’iniquità l’odio per un certo popolo. Siate equi: l’equità è consona alla devozione» (Cor v,8); «Chi commette una mancanza o un peccato e poi accusa un innocente, si macchia di calunnia e di un peccato evidente» (Cor iv,112); «In verità Allah ha ordinato la giustizia e la benevolenza e la generosità nei confronti dei parenti. Ha proibito la dissolutezza, ciò che è riprovevole e la ribellione. Egli vi ammonisce affinché ve ne ricordiate» (Cor xvi, 90).
Si è inoltre indirizzato, sin dall’inizio, verso la lotta all’oppressione, all’ingiustizia, alla tirannide dei potenti.
Sottolinea ancora Scalabrin: «L’islam proibisce l’attacco di civili innocenti. L’islam è religione di giustizia, di perdono. L’islam è una religione che garantisce la libertà del credo e della fede di tutti. Amare il prossimo tuo come te stesso per la causa di Allah».
Il jihad fi sabili-llah è lo sforzo, l’impegno sulla via di Allah. Secondo la shari’a (legge islamica), si tratta di un obbligo della collettività della comunità musulmana (nell’espressione araba di giurisprudenza islamica: fard kifaya, è sufficiente che siano solo alcuni membri della comunità a compiere jihad)».
Su un’analoga linea interpretativa si colloca Tariq Ramadan6: «Il termine jihad è uno dei più abusati e meno compresi dagli stessi musulmani. Molti di essi non resistono alla tentazione di usarlo per obiettivi politici propri, mentre molti non musulmani misinterpretano il termine per ignoranza o per screditare l’islam e i musulmani.
In realtà, è stato ben specificato dai più eminenti studiosi della religione che il jihad rappresenta un mezzo di difesa contro l’aggressione e non è mai sinonimo di “attacco offensivo”. Il jihad non è uno strumento di guerra contro innocenti, né un mezzo per mostrare i muscoli o tiranneggiare i deboli e gli oppressi.
La parola jihad significa, piuttosto, “sforzo” e più precisamente sforzo interiore, lotta per raggiungere un determinato obiettivo, di norma spirituale. Il termine, nella sua accezione più vasta, ma anche più semplicistica, indica uno sforzo serio e sincero che il credente compie in una duplice direzione, quella personale e quella sociale, per rimuovere il male, l’indolenza e l’egoismo da se stessi, l’ingiustizia e l’oppressione dalla società. La giustizia, nell’ottica islamica, non si raggiunge attraverso la violenza o la prevaricazione, ma attraverso lo sforzo interiore e personale di ciascuno, con mezzi leciti e istruttivi che possano spingere alla conoscenza, alla perfezione, per quanto è possibile a esseri imperfetti quali gli uomini. Lo sforzo è, dunque, sociale, economico e politico. Jihad significa lavorare molto per realizzare ciò che è giusto: il Corano lo nomina 33 volte, e ogni volta esso ha un significato differente, ora riferito a un concetto come la fede, ora al pentimento, alle azioni buone, all’emigrazione per la causa di Dio. Nell’accezione più vera e completa, il jihad rappresenta lo sforzo intimo e personale che ogni credente deve compiere per riuscire a conformare il proprio comportamento alla volontà di Dio».
Il jihad non è una guerra, dunque, ma può diventarlo se la situazione di pericolo lo richiede. Continua Ramadan: «L’islam è una religione di pace, ma ciò non vuol dire che accetti l’oppressione, o che chieda la passività o una generica presa di distanza di fronte all’ingiustizia. L’azione è importantissima, ma l’islam ci insegna a fare il possibile per eliminare tensioni e conflitti, e per lottare contro il male e l’oppressione attraverso mezzi pacifici e non violenti fino a quando sia possibile. Il termine jihad, in questo contesto, indica anche lo sforzo materiale teso a difendere se stessi, la propria famiglia e paese da attacchi estei e lo sforzo morale per rafforzare il proprio carattere ed essere pronti anche al sacrificio estremo pur di raggiungere quell’obiettivo. La guerra è permessa, nell’islam, ma solo quando i mezzi pacifici, quali dialogo, trattati e negoziati siano falliti: essa deve essere evitata con tutti gli strumenti possibili. Il suo scopo non è convertire con la forza, né colonizzare o rubare terre e risorse altrui. “Il migliore – disse il profeta – è dire una parola di condanna contro un governante ingiusto”».

GUERRA SANTA

Quando si parla di jihad, in Occidente, è facile equivocare o fraintendere, o forse leggere, adattare i «significanti» di altre culture con i propri «significati» e tradizioni storiche, con i riferimenti alla civiltà di appartenenza. Così il jihad viene, in qualche modo, assimilato alle crociate, alla «guerra santa».
Nel mondo occidentale ci è stato presentato questo termine secondo il significato completamente diverso e negativo di «guerra santa».
Le ragioni di questa manipolazione del vero significato vanno ricercate nella storia. Le numerose guerre di conquista territoriale dei primi califfi arabi post-islamici che arrivarono a espandere il dominio arabo (quindi musulmano) fino alla Spagna e il parallelo ipotetico fra queste guerre e le crociate dello stato-chiesa, nella contesa fra cristiani e saraceni della città benedetta di Gerusalemme hanno indotto i mass-media occidentali a tradurre il termine jihad, molto usato dagli arabi per reclamare giustizia, con guerra santa.
Tale interpretazione ha fatto e fa, tuttora, molto comodo all’informazione occidentale per parlare di «guerra di religione», quando si parla negativamente dell’islam, associando tale affermazione alla presunta arretratezza mentale (a sentir loro) dei paesi islamici.
Non si esclude, comunque, che possano esistere, in talune applicazioni giuridiche dell’islam di alcuni stati, significati diversi e contorti della stessa parola jihad, ma la ricerca e lo studio informativo sull’interpretazione della parola di Dio contenuta nel Corano e sulla vita di Muhammad ci hanno dato segni inequivocabili sui reali e molteplici significati della parola jihad 7.
I primi anni di vita della comunità islamica sono stati contrassegnati da persecuzioni a cui i musulmani hanno risposto in modo passivo. Solo con la loro «emigrazione» a Medina, con il proseguire e aumentare delle ostilità nei loro confronti, essi riceveranno l’autorizzazione, da parte di Dio, a difendersi. Ma a determinate condizioni: legittima difesa, situazione di oppressione, violazione della proprietà, aiuto ad altri che vivono in analoghe situazioni.
Il jihad, dunque, rappresenta una forma di resistenza. Ai musulmani non è consentito infatti fare la guerra per impadronirsi delle ricchezze altrui, di territori o del potere. O per far opera di proselitismo: il Corano afferma che «non c’è costrizione nella religione».
«Se nel corso della storia ciò è potuto accadere – spiega Ramadan -, quelli sono stati dei casi ma non la regola, e ad ogni modo, queste pratiche erano in contraddizione con gli insegnamenti islamici. La Pace è uno dei nomi di Dio e anche del paradiso. Tuttavia, l’islam ci insegna a non essere naif: gli esseri umani sono inclini al conflitto, al punto che l’equilibrio del mondo sembra passare attraverso l’equilibrio delle forze: “Se Iddio non respingesse gli uni per mezzo degli altri” la terra sarebbe perversa, spiega il Corano. Vuol dire che bisogna restare vigili e sapere che gli uomini sono capaci di fare il peggio, se nulla si oppone alla loro volontà di potenza. Nell’avversità, il Corano ci incoraggia a rivaleggiare in bontà, ma ci intima di non confondere la pace e la bontà con la rinuncia e il lassismo di fronte all’ingiustizia. Non c’è pace senza giustizia e non c’è giustizia senza resistenza agli oscuri disegni della volontà di potenza e di potere. Di fronte all’invasione culturale dell’Occidente e al famoso “scontro” di civiltà, la maggior parte dei movimenti islamici non risponde con le armi e non pensa in termini di guerra armata. Per loro c’è ovviamente il jihad, ma questa resistenza passa attraverso la promozione dei loro valori, della loro identità, attraverso l’educazione, l’impegno sociale, l’iniziativa economica. Nel cuore delle nazioni soffocate dal peso della dittatura e del sottosviluppo, resistono lottando continuamente per il pluralismo, la libertà d’espressione e la solidarietà. Essi parlano veramente di jihad ed è proprio di questo sforzo e resistenza che si tratta»8.

MECCA E MEDINA

I riferimenti alla «guerra», cioè al harb (da haraba, essere furioso, fare la guerra, combattere), al qital (qatala, uccidere, combattere, fare la guerra) si ritrovano nel sopracitato periodo medinese9, quando Muhammad, capo di un gruppo o comunità, assume il compito di leader politico e non solo più religioso, e deve pertanto occuparsi anche degli aspetti temporali, organizzativi.
Scriveva Edgar Weber10 nel 1990: «La comunità di Medina deve rispondere a bisogni ben precisi mentre la lotta contro i politeisti della Mecca si fa sempre più decisiva. Il vocabolo che tradurrà chiaramente questa lotta è il verbo qatala. La lotta che il profeta ha ingaggiato contro i suoi detrattori, siano essi ebrei e cristiani o politeisti e abiuri, è presente ben 170 volte nel Corano nella radice qtl (uccidere), sia in forma verbale sia nominale. Dall’esame di questi versetti si impone una prima conclusione: Muhammad predica la guerra santa non astrattamente, come una verità assoluta, ma in condizioni particolari determinate sia dall’opposizione della Mecca o araba, sia dagli ebrei di Medina. La violenza raccomandata dal Corano è quindi occasionale e relativa».
Mecca e Medina segnano due periodi storici essenziali anche per la comprensione del significato dei termini jihad, harb, qital e della loro contestualizzazione storico-politica, contrassegnata dal passaggio di Muhammad da capo spirituale a politico e dalla lotta contro i nemici della comunità islamica (esteamente, politeisti della Mecca, ebrei, cristiani; internamente, ipocriti, rinnegati). Quindi, da una forte esigenza di autodifesa.
«La rivelazione coranica, dunque, ingiunge ai credenti di fare la guerra e uccidere, ma, non lo si ripeterà mai abbastanza, bisogna precisare il contesto e le circostanze che hanno motivato questi versetti. Infatti, presi isolatamente, essi possono apparire di una violenza scioccante. È dovere dei commentatori ricollocarli nel contesto per non travolgee il vero senso. Disgraziatamente oggi gli uomini di religione non hanno questa preoccupazione, ma si impadroniscono dei versetti coranici per giustificare un’azione ispirata più dall’ideologia che dalla dimensione spirituale dell’islam secondo il pensiero del profeta. Se si legge bene il Corano, il jihad non appariva affatto nel primo periodo della predicazione, al contrario»11.

LA PACE

Il periodo meccano, infatti, era contrassegnato da una visione più spirituale, meno operativa e politica dell’islam. Qui i riferimenti alla «pace», salam, sono molti: essa viene citata 25 volte, come augurio, invocazione, speranza, promessa.
Ma è anche vero che la piccola comunità non era ancora così visibile e pericolosa per il mantenimento dello status quo da scatenare la persecuzione dell’oligarchia meccana, detentrice di un vasto potere economico e politico.
«Possiamo notare invece che se l’islam primitivo, quello della Mecca, ignora la guerra e il ricorso alla violenza, è perché il profeta non si è ancora realmente confrontato con gli abitanti della Mecca. La sua predicazione monoteista non rappresenta ancora un pericolo per il vecchio ordinamento sociale. È a partire dal momento in cui il monoteismo diviene una visione sociale che l’opposizione si fa concreta. Predicare il monoteismo in un ambiente politeista era, in un certo senso, rivoluzionario. Muhammad diventava così vittima di una violenta opposizione alla quale egli credeva bene di rispondere con la medesima violenza, restando in tal modo fedele alla legge del deserto, che tutti i beduini ben conoscevano sotto la forma della razzia. Il jihad infatti non può essere totalmente separato dal suo modello preislamico: la razzia»12.
Dunque il jihad non costituisce una novità all’interno dello sviluppo dell’islam, bensì è un prestito dell’epoca precedente, quella preislamica.

LIMITI NELL’USO DELL’HARB

Violenza e guerra, per un musulmano, devono essere eticamente orientate. La violenza indiscriminata che colpisce bambini, donne, vecchi, case, campi, luoghi atti alla produzione di risorse vitali per una nazione, vendetta, stupro, ecc. sono vietate dal Corano: «Combattete sulla via di Dio coloro che vi combattono, ma non oltrepassate i limiti, che Dio non ama gli eccessivi» (xi,190).
In occasione di una spedizione militare, il primo califfo Abu Bakr, fece il seguente discorso, riportato in Sahib Muslim: «Non commetterete slealtà, deviando dal sentirnero della rettitudine. Non mutilerete i corpi di coloro che avrete ucciso. Non ucciderete il fanciullo, né la donna, né un anziano. Non danneggerete la vegetazione, né brucerete le piante, specialmente quelle che producono frutti. Non sgozzerete le greggi del nemico: risparmiatele perché siano cibo per voi stessi. Quando incontrerete persone che hanno consacrato la loro vita alla missione monastica, passate oltre e non turbatele». E ancora: «Dio non cerca vendetta, nemmeno contro gli idolatri che adorano molti dei, la cui colpa è molto grave. Egli non permette la mutilazione neppure contro la manifesta infedeltà. Non praticare la mutilazione, perché è una pena molto grave. Dio ha preservato l’islam e i musulmani dall’odio e dall’ira incontrollata. Ricordati che caddero nelle mani del messaggero di Dio quei nemici che l’avevano rabbiosamente perseguitato, cacciandolo dalla sua casa e portando la guerra contro di lui, ma egli non permise che fossero inflitte loro mutilazioni».

TEORIA E PRATICA

Vediamo bene quale distanza corra tra quanto qui prescritto e la prassi di gruppi terroristici che hanno deviato, come sostengono molti studiosi e ulama (eruditi) dall’islam, per creare una via meramente politica e ideologica che strumentalizza la religione per propri fini. Guerra di difesa, quindi, e non di offesa, contro oppressione e ingiustizia.
Alla luce di ciò, non solo il terrorismo, dirottamenti, bombardamenti indiscriminati, ma anche l’uso delle armi nucleari o di sterminio di massa sono contrarie all’islam, perché consentono l’uccisione di migliaia di persone innocenti, la distruzione di case, campi, mezzi di produzione e sostentamento.
‘Ali Scalabrin afferma: «C’è anche un’interessante interpretazione su un hadith (discorso) del profeta, il quale vieta completamente l’uso del fuoco come arma contro le genti, secondo cui, riportato ai giorni nostri, ogni arma da fuoco sarebbe proibita nell’islam. Ciò probabilmente è vero, ma basare oggi un sistema difensivo senza armi da fuoco, contro dei nemici che sicuramente le usano è praticamente impossibile.
Sono quindi permessi estremi rimedi nel tentativo di salvarsi la vita, bene estremamente prezioso che Dio ci ha donato»13.

Box 1

CHI SONO I MARTIRI?

Chi è il muhajid, colui che si sforza sulla via di Dio?
«Coloro che partecipano alla lotta sulla via di Allah sono chiamati mujahidin: in vita hanno un’ottima considerazione e vengono spesso presi come esempio; nell’altra vita saranno tra i più vicini al Signore. E non possono essere considerati “morti”, quando vengono uccisi in battaglia. E non dite che sono morti coloro che sono stati uccisi sulla via di Allah, che, invece, sono vivi e non ve ne accorgerete» (Cor II,154). «Non considerate morti quelli che sono stati uccisi sul sentirnero di Allah. Sono vivi invece e ben provvisti dal loro Signore, lieti di quello che Allah, per sua grazia, concede» (Cor III,169-170)14.
Ma la condizione è che questi musulmani abbiano opposto una resistenza «dignitosa» ad attacchi ingiusti, e che siano «morti in combattimento o dando la loro vita per colpire i loro persecutori per sola legittima difesa e senza eccedere». Solo costoro hanno diritto ad essere chiamati shuhùd, testimoni o martiri nell’islam. L’azione di «ribellione» alla persecuzione deve essere halal, lecita agli occhi di Dio, perché, se ritenuta haram, proibita, come l’uccisione di persone innocenti (vecchi, donne, bambini), o l’aver scatenato una reazione violenta contro un pericolo o una persecuzione non vera, è destinata a ricevere la punizione di Dio e non il compenso.
Sottolinea al riguardo Ramadan: «Il jihad non è terrorismo. L’aggressione verso civili innocenti è illecita nell’islam e non rappresenta jihad ma fasad, un’azione proibita e grave. Anche in guerra, i non-combattenti e gli innocenti hanno il diritto di essere salvaguardati nella vita, onore e proprietà. L’islam vuole stabilire un ordine mondiale in cui tutti gli esseri umani – musulmani e non musulmani – possano vivere con giustizia e pace, armonia e buona volontà. È nostro preciso dovere, come musulmani, sforzarci di comprendere di più la nostra religione, per poterla trasmettere agli altri in forma positiva. Nel contesto delle società occidentali in cui viviamo, è oggi questo il nostro jihad»15.

Angela Lano