Cubetti di zucchero

Racconto / in collaborazione con LINGUA MADRE

«Il valore delle cose
non sta nel tempo in cui esse durano ma nell’intensità con cui vengono vissute.
Per questo esistono momenti indimenticabili, cose inspiegabili e persone
incomparabili». (Feando Pessoa)

 

Mia nonna matea Nura e suor Vilma trascorrevano insieme ogni
sabato mattina. Caffè, tante chiacchiere e un’infinità di sorrisi che, al
ricordo, scaldano la mia anima ancora oggi. Erano ciascuna la migliore amica
dell’altra ed è veramente difficile descrivere l’atmosfera che si creava quando
quelle due grandi donne stavano insieme nella stessa stanza. Accadeva come se
il senso di tutte le cose del mondo fosse concentrato proprio lì, nei 36 metri
quadrati dell’amato appartamento. E noi quattro, i miei genitori, mio fratello
e io, abitavamo lì in quegli anni, fino a quando l’azienda di mio padre non ci
assegnò un appartamento tutto nostro. Quelle mattine di sabato, dunque,
rappresentavano un vero e proprio rituale.

Ancora
prima dell’arrivo di suor Vilma, tutti, come per magia, scomparivano per
qualche commissione, a parte me che, essendo la più piccola, rimanevo avvolta
nel calore di quei momenti, quasi mi ritrovassi immersa nelle soffici nuvole
bianche illuminate dal sole, un sole che altro non era che l’aria che in quel
momento respiravo. Immancabilmente quell’aria si mescolava all’inconfondibile
profumo del caffè fatto «alla turca» che ha tutto un suo modo per essere
bevuto: prima si mette in bocca un cubetto di zucchero inzuppato nel caffè
rigorosamente versato in una tazzina detta fildžan (si pronuncia «filgian»)
che non ha un manico ma è tonda e si avvolge con la mano in modo da percepire
il calore della bevanda. Subito dopo si prende un sorso di caffè che si mescola
con il cubetto di zucchero sciolto in bocca, ma molto lentamente, tra una
parola e l’altra, fino ad arrivare al fondo il quale, certamente, non è
intelligente bere. Ci si ferma sempre al momento giusto, è nel sangue del
popolo, non c’è che dire! E allora si riempie fildžan di nuovo e avanti
così.

Ogni
sabato mattina, quindi, suor Vilma, suora crornato-cattolica, veniva a trovare
mia nonna, atea di origini musulmane. E di che cosa queste due donne,
apparentemente così diverse nelle loro culture, potevano parlare ogni sabato?
Del come avevano trascorso la settimana, della moda (mia nonna era sarta) che
le ricche signore della città seguivano alla lettera, di catacombe (suor Vilma
aveva visitato il Vaticano ben tre volte), della poesia di un poeta che entrambe
amavano molto, del come si prepara un piatto tipico dell’Erzegovina… Sì, di
questo e di tanto altro, ma spesso non erano le tematiche ad attirare la mia
attenzione quanto l’armonia nella quale venivano trattate e la forma, di un
rispetto dalla dinamica straordinaria. Era musica per le mie orecchie. Come
incantata, mi ritrovavo a guardare i cubetti di zucchero scomparire dalla
ciotola piano piano, quasi il loro compito fosse quello di cadenzare il tempo. «Prendine
uno e inzuppalo nella mia tazzina», mia nonna richiamava la mia presenza a
tavola nella sua piccola cucina e io, seduta su una sedia con l’aiuto di un
cuscino, iniziavo allora a gustarmi quella delizia proibita.

Accadeva
poi che a volte si unisse a loro teta Vida (teta equivale a «zia»
ed è un modo tipico di rivolgersi a tutte le donne adulte conoscenti o amiche
di famiglia). Teta Vida, dunque, laica per eccellenza, era una signora
di origine serbo-ortodossa dall’eleganza ineguagliabile. Gonne plissé, a
scacchi neri e bianchi, giacchettine di velluto nero, guanti raffinati,
berrettini francesi e l’immancabile ombrello, a meno che non fosse estate. Il
tutto indossato con la grazia di una figura alta e snella illuminata da un
sorriso ammaliante che nei suoi occhi chiarissimi rifletteva la pace. E non
parliamo della sua vasca da bagno! Era più piccola di quella che aveva mia
nonna ma a forma di poltrona e quindi di gran lunga più comoda. Io la adoravo
ed era, infatti, teta Vida a fare sempre il bagno alla sua Nanà, come
lei mi chiamava. In poche parole, ero la sua prediletta. Abitava proprio
nell’appartamento di fronte, al primo piano di un palazzo dall’architettura
socialista che sorgeva nel cuore di Sarajevo. A pochi passi, il mondo intero:
la cattedrale cattolica, quella ortodossa, la moschea tra le più antiche della
città e la sinagoga. Insomma, una Gerusalemme in miniatura! Attorniate poi da
un’infinità di palazzi di tutte le epoche: turco-ottomana, austroungarica,
socialista.

Ma se
questo mondo io lo vedevo all’esterno, è dentro casa nostra che lo percepivo
nelle sue essenze. Sento ancora negli occhi i loro sorrisi, vedo ancora le
parole scorrere sulle loro labbra quando vengo distratta dal forte picchiare
sulla porta di un bastone. Eh sì, era teta Anita, una professoressa di
geografia in pensione, profondamente devota alla propria tradizione ebraica e
altrettanto incuriosita da tutte le altre. Un essere tanto ingombrante nella
propria fisionomia quanto delicato nel modo di parlare: «Queste sono un dono
raro, che non ti venga in mente di sfoltirle quando sarai grande!», mi diceva
sempre, accarezzando delicatamente le mie folte sopracciglia. Scesa dal quarto
piano dello stesso palazzo, questa alquanto insolita vicina di casa, a volte,
in segno di un saluto, picchiava sulla porta e se ne andava via, fuori, a farsi
la sua lenta passeggiata quotidiana. Ma se picchiava più di due volte, voleva
dire che anche lei era lì per un caffè e due parole. Ed ecco che mi ritrovavo
il mondo intero in casa nostra ogni sabato mattina.

Quattro
culture, o cinque o sei,  tra origini,
idee, convinzioni e pensieri. Insomma, una vera macedonia. E quale raro gusto
aveva questa macedonia, e tutta per me! Vita raccolta in quattro menti, anime e
cuori nella purezza di quell’umanesimo che incoronava la loro umanità. Tanta
semplicità vedo oggi in quei preziosi momenti, che è stata, in fondo, il vero
filo conduttore della loro esistenza. L’amicizia che scorreva in tutti quegli
anni tra i personaggi di questo racconto raffigura un’anima, l’unica anima di
un mondo che non c’è più. Quale magnifico folclore colorava l’aria e quanta
poeticità esprimevano quegli azzurri occhi di suor Vilma nel guardare mia nonna
con tanta stima e ammirazione. Due donne così apparentemente diverse, una sarta
e una suora. Ecco, mi fermerei a queste definizioni e null’altro conta. Si
erano conosciute all’ospedale di Sarajevo; una cuciva le lenzuola e l’altra
assisteva i malati, all’interno di un sistema guidato da un ideale politico che
nessuna delle due aveva mai abbracciato ma con il quale entrambe avevano convissuto
in pace e nel rispetto. Era come se viaggiassero su un binario parallelo, a un
ritmo tutto loro e a una velocità misurata. Puro teatro erano questi due
personaggi, e nasceva dal nulla.

Immaginatevi
la scena in cui mia nonna prende le misure per il suo abito da religiosa mentre
le dà notizie dei suoi generi, uno italiano e l’altro un comunista di origine
serba, nonché mio padre. Le Nozze di Figaro nasce da un’idea simile:
inizia con una scena in cui Figaro misura la stanza per vedere se dentro ci può
stare un letto nuziale, capite? E quanto parlare di una figlia così lontana e
di un’altra in casa ma così criptica, mentre nel frattempo suor Vilma cercava
di capire il modo migliore per tenere su il suo copricapo ingombrante. Ma
allora, dico io, ho vissuto su un palcoscenico per diciotto anni e mia nonna e
suor Vilma ne sono testimoni? Quale strepitosa pièce teatrale è mai
questa? È forse vero che quando il teatro diventa la nostra casa, esso diventa
anche la nostra realtà? E se questa era la mia realtà, allora la mia vita non è
stata che una commedia, un dramma, un dialogo oppure un monologo?

Se ci
penso, in ognuno di questi modi oggi potrebbe definirsi quello che è stata
l’ormai dimenticata Jugoslavia. Quanto alla Bosnia Erzegovina, non è che una
parte del puzzle di un racconto irraccontabile. Sarajevo ne è un pezzo. Nura e
Vilma, invece, un prezioso dipinto all’interno di quel pezzo del puzzle mentre
quei momenti, in cui mi immergevo come nelle più accoglienti delle acque, sono
oggi per me il viaggio eterno. Mi giro e rivedo tutto, ascolto e sento tutto,
annuso e percepisco ogni profumo, odore, l’aria di un mondo che si è sciolto
come un cubetto di zucchero inzuppato nel caffè lasciandomi l’inestimabile
ricordo del suo gusto. Custode di attimi, vado avanti nel silenzio che possiamo
sentire soltanto camminando nella notte, lungo le strade coperte di neve di una
città che accoglie ogni fiocco, gentile e discreta. Ah, che freddo generoso di
vita sulle guance. E che pace la neve mentre cade armoniosa come il sipario che
si chiude con grazia.

Sabina Gardovic
In collaborazione con


Il
concorso letterario nazionale Lingua
Madre, ideato da Daniela Finocchi,
giornalista da sempre interessata ai temi inerenti il pensiero femminile, nasce
nel 2005 e trova subito l’approvazione e il sostegno della Regione Piemonte e
del Salone Internazionale del Libro di Torino.

Il concorso è il primo a essere espressamente dedicato alle
donne straniere – anche di seconda o terza generazione – residenti in Italia
che, utilizzando la nuova lingua d’arrivo (cioè l’italiano), vogliono
approfondire il rapporto fra identità, radici e mondo «altro». Una sezione
speciale è riservata alle donne italiane che vogliano raccontare storie di
donne straniere che hanno conosciuto, amato, incontrato e che hanno saputo
trasmettere loro «altre» identità.

Il concorso letterario vuole essere un’opportunità per dar voce
a chi abitualmente non ce l’ha, cioè gli stranieri, in particolare le donne che
nel dramma dell’emigrazione/immigrazione sono discriminate due volte.
Un’opportunità di incontro e confronto, perché il bando non solo ammette ma
incoraggia la collaborazione fra le donne straniere e italiane nel caso l’uso
della lingua italiana scritta presenti delle difficoltà.

(da www.concorsolinguamadre.it)

Per
gentile concessione del Concorso letterario nazionale  Lingua
Madre pubblichiamo il racconto di: Sabina Gardovic, Cubetti di
zucchero,  dal
libro «Lingua Madre Duemilaquattordici – Racconti di donne straniere in Italia»,  Edizioni SEB27. Il racconto di Sabina
Gardovic è stato selezionato al IX Concorso letterario nazionale Lingua Madre.

tags: racconto, Boia Erzegovina, amicizia, dialogo, folclore

Sabina Gardovic




BRASILE Undicesimo capitolo generale Missionari Consolata

Sandali al vento

Con l’11° Capitolo generale i missionari della Consolata hanno esaminato il lavoro degli ultimi tempi e progettato il cammino dei prossimi sei anni, per rispondere alle sfide del mondo attuale e alle attese dei popoli in cui svolgono la loro opera di evangelizzazione.

Zaccaria, dallo sguardo sorridente. C’è pure lui, alto ed esile come un grissino. Partecipa, insieme ad altre 48 persone provenienti da Africa, America, Asia ed Europa, all’11° Capitolo generale di São Paulo (Brasile). È la massima assemblea dell’Istituto Missioni Consolata.
Ogni sei anni i missionari della Consolata, presenti i loro delegati da tutti i paesi dove operano (oggigiorno 22), sostano un mese abbondante a valutare il trascorso sessennio e a programmare quello futuro. Inoltre il Capitolo elegge la nuova direzione generale dell’Istituto, composta da un superiore e quattro consiglieri.
In pullman… Zaccaria appare alquanto spaesato, mentre dal finestrino rincorre la sterminata metropoli paulista, immersa in una fungaia di grattacieli. Approdato tutto solo dalla Costa d’Avorio, si sente troppo smilzo in una nazione dove tutto è «maior do mundo».
Tuttavia, oggi, 11 aprile, apertura ufficiale del Capitolo generale, Zaccaria si rasserena un poco. Con i 48 colleghi (comprese le missionarie della Consolata, anch’esse riunite in Capitolo), dopo il viaggio in autobus, si trova a pregare nel santuario mariano di Nossa Senhora Aparecida. Ma questa «signora» è una «madonnina»: non bella, troppo nana, a pezzi. Si racconta che, nel 1717, sia «apparsa» ad alcuni pescatori addirittura senza testa!
Ma sorride. Forse è l’unica Madonna al mondo che sorrida sempre con smagliante spontaneità. Zaccaria se la gode, perché ride come lui ed è nera quanto lui.
Zaccaria King’aru è un missionario della Consolata kenyano. Appartiene al popolo dei kikuyu, nato a Tuthu nel 1953, esattamente nel villaggio dove il 29 giugno 1902 i missionari della Consolata celebrarono la prima messa in Kenya in onore della loro omonima patrona.
Attualmente padre Zaccaria è il superiore, in Costa d’Avorio, dei 13 missionari della Consolata italiani, congolesi, spagnoli, kenyani e colombiani. Al Capitolo di São Paulo è il loro portabandiera.

Dopo 37 giorni di sessioni, incontri, dibattiti e gruppi di studio, l’11° Capitolo generale chiude i battenti tra il sollievo comune.
Il 16 maggio padre Zaccaria fa le valigie, per ritornare in Costa d’Avorio. Non è un problema raccogliere poche camicie e canottiere. Più difficile, invece, è districarsi fra la congerie di relazioni, schede, comunicati e mozioni che il Capitolo ha prodotto. «Troppa carta!» mormora tra sé il missionario maneggiando una pila di fotocopie.
Ma, dovendo informare i confratelli sui lavori e le scelte del Capitolo, padre Zaccaria passa in rassegna con cura l’intera documentazione acquisita e si sofferma pure a rileggerla. Anche perché è interessante.
Recita, per esempio, la relazione dell’Italia: «Bisogna essere testimoni della missione ad gentes, che supera la questione degli aiuti economici. Nostro compito specifico è invitare la chiesa locale e la società civile a respirare un’aria di mondialità e a destare in tutti una sana inquietudine per il regno di Dio. Se la chiesa è rannicchiata sui propri problemi e paralizzata da schemi del passato, dobbiamo offrire le vivaci esperienze delle giovani chiese, e non solo raccontare avvenimenti patetici, tali da suscitare facili emozioni per elemosinare denari. L’animazione missionaria è ben altro!».
A proposito di soldi (ma non solo), ecco quanto si scrive dal Tanzania: «Ringraziamo la Provvidenza, che ci giunge attraverso vari canali: parenti, amici, benefattori e associazioni varie. È spesso un coro di generosa solidarietà, a volte del tutto inattesa. Forse la missione non può che avere che questo unico cespite sicuro: la Provvidenza. Riconoscenza, sobrietà, responsabilità e fedeltà amministrativa devono essere le caratteristiche con cui noi, missionari, riceviamo e doniamo. Ma anche disceere, valutare bene ed essere pronti, eventualmente, a ridimensionare il nostro stile di realizzare la missione…».
Quanto al Kenya (paese cui Zaccaria è, ovviamente, molto attento), le diocesi di Maralal e Marsabit sono ancora un campo d’avanguardia, con aree di primissima evangelizzazione. Il problema di tanti idiomi e il disagio di vivere in zone impervie non facilitano il lavoro missionario. Ciononostante, si auspica un rinnovamento della pastorale, che coinvolga maggiormente la popolazione locale.

Varie volte, durante il Capitolo, è risuonato il termine «pandemia», assai più eloquente del pur grave «epidemia». Oggi la pandemia per antonomasia si chiama Aids e furoreggia in Africa. «Aids che per molti è una parola-tabù, da non pronunciarsi mai» ha denunciato in assemblea padre Zaccaria. «Aids che ha ucciso 500 persone nel mio villaggio natale e sei fratelli nella mia stessa famiglia» ha precisato un altro capitolare africano, raggelando l’uditorio.
Nell’Africa subsahariana dove operano i missionari della Consolata, dall’Etiopia all’Uganda, dal Congo al Mozambico, l’Aids produce il deserto: scompare la generazione degli adulti (la più valida economicamente e culturalmente), lasciando alle spalle solo vecchi e bambini orfani, sovente sieropositivi.
Dal Sudafrica si è udita, forse, la voce più sconsolata. In media, ogni giorno, un migliaio di persone contrae il virus Hiv-Aids. Nel 2004 oltre 400 mila individui sono deceduti. Però (ed è un’assurdità!), nonostante la forte pressione internazionale per usufruire di farmaci a basso costo, «il governo sudafricano, ottenutili, non ha approvato alcuna terapia, quale ad esempio gli antiretrovirali durante il parto». Perché?…
La relazione dal Sudafrica (a suo tempo caratterizzato dall’odiosa discriminazione razziale, imposta ai neri dai bianchi) ha impressionato anche per il clima di insicurezza e paura che regna in varie parti del paese: a tal punto che alcune abitazioni sono munite di «recinti ad alta tensione elettrica» per respingere i malintenzionati.
Intanto l’anziano e saggio Nelson Mandela raccomanda a tutti «un piano di ricostruzione e sviluppo che nasca dall’anima».

Data la diversità culturale, padre Zaccaria ha ascoltato con interesse soprattutto gli interventi riguardanti le nazioni dell’America. Nazioni socialmente travagliate. Fa testo l’Argentina (un tempo granaio del mondo), dove ieri si moriva anche di fame, mentre oggi si sopravvive alla «buena de Dios». Oppure il Venezuela, che vede crescere spudoratamente il divario fra ricchi e poveri.
Per i missionari della Consolata la scelta dei bisognosi è sempre stata una priorità. E bisognosi sono, specialmente, i popoli indigeni. In Argentina e Venezuela la loro scoperta (o riscoperta) qualifica la missione.
Gli aborigeni latinoamericani sono stati il cavallo di battaglia in tante campagne di sensibilizzazione. L’ultima in ordine di tempo è stata «Nos existimos»: ha riguardato i contadini poveri, gli emarginati urbani e gli indios di Roraima (Brasile). Ebbene, con quale gioia, il 16 aprile, i capitolari hanno salutato l’omologazione dell’area indigena Raposa/Serra do Sol di Roraima! Esultanti specialmente i padri Antonio Feandes e Laurindo Lazzaretti, nonché fratel Carlo Zacquini, operanti in loco…
E la Colombia? Da decenni, con i suoi 25 mila morti ammazzati all’anno, è dilaniata da un tasso di violenza superiore persino a quello dell’Iraq. Eppure non mancano spiragli di luce, come la Scuola di riconciliazione e perdono «Espere». È un antidoto efficace al clima di odio instauratosi nella nazione per motivi politici. «Gli effetti positivi di questa scuola – ha affermato padre Piero Trabucco, ex superiore generale – potrebbero suggerire al nostro Istituto di favorire l’iniziativa ovunque svolgiamo un’azione missionaria».
Dunque, riconciliazione e perdono, però non disgiunti da verità e giustizia.
Poiché i missionari della Consolata sono intercontinentali, padre Zaccaria ha accolto con stupore l’analisi sul Nordamerica (Stati Uniti e Canada). Qui la multiculturalità è, nello stesso tempo, dono e fardello. In ogni caso assurge a sfida che i missionari, sia di cultura inglese che francese, vogliono affrontare con coraggio.
E coraggioso è stato padre Leonard De Pasquale, superiore del Nordamerica, nell’affermare che «gli Stati Uniti esportano la loro ideologia di democrazia in un modo non accettabile da tutti i cittadini. Di conseguenza molti si sono opposti all’aggressione degli Usa all’Iraq, come pure alla politica di controllo e dominio del mondo».

Valigia in mano e borsa a tracolla, padre Zaccaria King’aru lascia Rua Itá 381 – São Paulo, sede dell’11° Capitolo generale. Poiché assai difficilmente vi rimetterà piede, il missionario, prima di andarsene definitivamente, si volta a guardare per l’ultima volta… e incontra sulla facciata dell’edificio l’altorilievo della Consolata: bislungo, sproporzionato, impassibile. Non sorride questa Madonna; anzi, non ha neppure volto. Ma è volutamente incompiuta.
E forse, proprio per questo, è eloquentissima. Senza manto, indosserà e il sari indiano e il pareo tanzaniano e il ruana colombiano. Senza sguardo, avrà gli occhi verdi della mamma canadese, quelli a mandorla della coreana o le pupille estasiate dell’etiope.
Consolata e consolatrice, sorella e madre di tutte le genti.

Box 1

«Il nostro stile
di vita e missione»

È il titolo del documento ufficiale prodotto dall’11° Capitolo generale. Consta di due parti. La prima offre una sintesi articolata sul come i missionari della Consolata:
– sono discepoli di Cristo,
– vivono l’appartenenza al proprio istituto,
– manifestano la comunione,
– prestano servizio missionario,
– dispensano i misteri di salvezza,
– amministrano i beni materiali,
– sono organizzati.

L a 2a parte (assai diversa dalla prima) comprende alcune «schede» con proposte operative attinenti a:
– santitá di vita come orizzonte della missione,
– comunitá multiculturale e interculturale,
– comunione e collaborazione con altre forze,
– attenzione all’ad gentes degli areopaghi,
– giustizia, pace e integritá del creato,
– dialogo interreligioso,
– formazione di base e permanente,
– fratelli missionari consacrati,
– animazione missionaria e vocazionale,
– mezzi di comunicazione sociale
– sfida dell’Aids.

N el sessennio 2005-2011 la direzione generale dei missionari della Consolata sarà composta dai padri:
– Aquiléo Fiorentini, superiore generale
– Stefano Camerlengo, vicesuperiore e primo consigliere
– Francisco de Asís Jesús López Vásquez, secondo consigliere
– António Manuel de Jesus Feandes, terzo consigliere
– Matthew Ouma, quarto consigliere

C omplessivamente i missionari della Consolata sono un migliaio. Provengono da Argentina, Brasile, Canada, Cile, Colombia, Congo, Corea del Sud, El Salvador, Eritrea, Etiopia, Inghilterra, Italia, Kenya, Mozambico, Polonia, Portogallo, Spagna, Tanzania, Usa, Uganda, Uruguay, Venezuela. Operano, in comunità inteazionali, in questi stessi stati (esclusi Cile, El Salvador, Eritrea, Polonia, Uruguay). Ma sono presenti anche a Gibuti.

Francesco Beardi




SUD AFRICA – Vangelo vs. Stigma

Come ai tempi dell’haparteid, Soweto si mobilita nuovamente, questa volta contro la discriminazione provocata dall’Aids. Con preghiere, danze e, soprattutto, la volontà di tendere una mano con tanti progetti concreti.

«Se siamo stati in grado di rimuovere l’apartheid possiamo sconfiggere anche l’Aids». Queste parole pronunciate dal vescovo anglicano Desmond Tutu, premio nobel per la pace 1984, sono un messaggio di speranza che la chiesa cattolica sudafricana ha fatto suo per giustificare il proprio impegno nella lotta contro il male del secolo.
Regina Mundi, nel famoso quartiere di Soweto, è la chiesa più grande della diocesi di Johannesburg e, negli anni duri della segregazione razziale, è stata un importante centro di resistenza contro l’apartheid. Ancora oggi, se vi capitasse di visitarla, potreste notare i segni della violenza perpetrata dalla polizia che, durante quel periodo e senza nessun rispetto delle cose o delle persone, entrava liberamente nel luogo sacro per arrestare coloro che in esso avevano cercato rifugio.
In questa chiesa, domenica 30 gennaio 2005, si è tenuto un importante evento, organizzato dalla Conferenza episcopale sudafricana sul tema «Celebriamo le comunità di assistenza». L’incontro era stato indetto per pubblicizzare il programma contro i retrovirus (famiglia di virus di cui fanno parte Hiv, virus dell’Aids, vedi riquadro), che già da molti anni la chiesa cattolica ha individuato come la più severa sfida contemporanea che il paese deve affrontare. Ma il cammino verso la vittoria è lungo e insidioso.
Sull’invito della celebrazione era scritto: «La chiesa confronta lo stigma dell’Hiv». Stigma è ancora una parola chiave in Sudafrica. In una nazione in cui il 90% della popolazione si proclama cristiana (seppur appartenente a una delle 5 mila confessioni diverse), lo «stigma», cioè la discriminazione, è un segno evidente che il messaggio di Gesù non è penetrato nei nostri cuori e che come cristiani abbiamo fallito il nostro compito. Stigma è il contrario di vangelo, non è buona novella, ma cattiva notizia.
Non è facile incontrare persone disposte a rivelare apertamente la loro sieropositività, quando le conseguenze da pagare possono essere la possibile perdita della casa e della famiglia, degli amici e del lavoro. Non tutti hanno il coraggio di Nelson Mandela, che convocò una conferenza stampa per rivelare pubblicamente la morte di un figlio a causa dell’Aids.

L a manifestazione si è anche caratterizzata per il suo aspetto multiculturale. Il vescovo di Johannesburg, mons. Buti Thagale, ha voluto che tutta la diocesi fosse coinvolta nell’organizzazione dell’evento e ha anche insistito affinché questo potesse diventare un’occasione per mostrare il ventaglio di retroterra culturale della sua comunità.
Tale ricchezza di colori e culture si poteva notare immediatamente una volta giunti a Soweto grazie agli abiti tradizionali sfoggiati da zulu, sotho, ndebele, indiani e gente di altre etnie. Numerosa e variegata è stata pure la presenza di associazioni e confrateite (Lega delle donne cattoliche, Donne di Sant’Anna e del Sacro Cuore, Figlie di Maria…), tra cui spiccava l’immenso coro diocesano di Santa Cecilia.
La celebrazione eucaristica ha voluto essere un’espressione della diversità di queste culture. Durante la processione iniziale un gruppo di donne seguiva la croce portando anfore di birra tradizionale che, nella cultura africana, è simbolo di festa e celebrazione. Quattro suonatori si muovevano verso il centro dell’assemblea dagli angoli della chiesa, soffiando dentro coi di kudu.
Le parole del canto che accompagnava questa danza rituale dicevano: «Siyanimema nina, madlozi ethu, sichith’utshwala benu, wozani niphuze» che letteralmente si traduce: «Nostri antenati, vi invitiamo, vi versiamo la vostra birra, venite e bevete»; ma nel contesto religioso significa: «O nostri santi, vi invitiamo a stare con noi, con il fragrante profumo dell’incenso». La comunità indiana ha invece eseguito la processione della parola di Dio, mentre la presentazione delle offerte all’altare è stata un riflesso delle varie culture presenti.
Durante l’omelia il cardinale Napier, arcivescovo di Durban ha spiegato il senso della celebrazione dicendo: «Oggi stiamo nuovamente compiendo ciò che eravamo soliti fare al tempo dell’apartheid: abbiamo ripreso a far visita a coloro che hanno bisogno, attraverso il ministero della chiesa, di ascoltare, vedere e specialmente fare esperienza della misericordia e della compassione di Cristo per tutti coloro che soffrono».
La chiesa ha scelto di essere presente per accompagnare ogni persona colpita dal virus. Durante la messa 15 cristiani, tutti sieropositivi, si sono avvicinati all’altare perché la comunità pregasse per loro e per ricevere l’unzione degli infermi dalle mani dei vescovi presenti.
Ci è voluto coraggio per farsi avanti, ma loro erano lì. Cinque vescovi si sono avvicinati, li hanno abbracciati, benedetti e unti. Dopo di loro hanno fatto un passo avanti i dottori, gli infermieri, i volontari, i medici tradizionali e tutte le persone che si dedicano all’assistenza dei malati. Anch’essi hanno ricevuto una benedizione speciale che confermasse e rafforzasse il loro impegno a favore delle persone colpite dal virus.
I vescovi hanno pregato per loro e offerto in dono una copia del vangelo di Luca, conosciuto anche come il «vangelo della guarigione», gesto più che appropriato nel contesto dell’anno della bibbia, indetto qui in Africa.
Circa 10 mila persone hanno partecipato alla messa nella parrocchia di Regina Mundi, anche grazie ai vari televisori e allo schermo gigante installati all’esterno della chiesa che hanno permesso a tutti di seguire la celebrazione.

La chiesa cattolica del Sudafrica può dire, con tutta ragione, che si sta impegnando duramente contro il virus dell’Aids e contro la discriminazione che ne consegue: con oltre 140 programmi di assistenza si pone decisamente all’avanguardia in questa lotta. Anzi, spesso le iniziative della chiesa precedono quelle del governo, che, pur avendo più risorse e possibilità per rispondere a questa emergenza, molte volte lascia inspiegabilmente, i suoi cittadini nell’ignoranza.
Negli ultimi cinque anni, la chiesa ha dato vita a un numero di progetti che cercano di affrontare la problematica dell’Aids da ogni angolatura possibile. Ha appoggiato, per esempio, progetti che riguardano l’assistenza domiciliare, per aiutare i malati una volta che vengono dimessi dalle strutture ospedaliere. Volontari di queste iniziative si mettono a disposizione per visitare i pazienti a casa e sul lavoro, creando così un legame speciale fra il malato, la sua famiglia e le strutture ospedaliere.
Altri progetti riguardano invece gli ospizi per i malati terminali e per coloro che, rifiutati dalle proprie famiglie, non hanno più un tetto sotto cui stare.
Importanti sono pure i «Programmi per il cambiamento comportamentale» (Change Behaviour Programs). Ispirati al motto «meglio prevenire che curare», tali programmi hanno scopo formativo, promuovere, cioè, un cambio di mentalità. E non si tratta di saltuari incontri. Grazie ad essi, giovani e meno giovani possono avere la possibilità di condividere esperienze e ottenere appoggio nelle loro decisioni di astenersi da rapporti sessuali fino al matrimonio o di essere fedeli al proprio partner.
A questi programmi si è aggiunta, a partire dal 2004, un’ulteriore iniziativa, chiamata «Antiretrovirale» (vedi riquadro), che conta già 22 centri specializzati. A ogni incontro si spiegano le condizioni di idoneità al trattamento e come questo funziona. Inoltre, alcune persone che già fanno parte del programma, danno la loro testimonianza sugli effetti positivi sperimentati nella propria vita. Si annotano casi di persone costrette a letto e impossibilitate a muoversi, a amangiare, a volte persino a parlare.
Anche queste persone sono a Regina Mundi per rendere grazie a Dio e condividere la propria gioia con la comunità.

I missionari della Consolata, sono stati coinvolti in questi progetti fin dall’inizio. È stato il nostro modo di trasmettere concretamente la consolazione di Dio in questo contesto. Oggi possiamo anche felicemente annunciare che uno dei 22 programmi antiretrovirali si trova nelle nostre missioni in Kwa-Zulu-Natal, in cui sono impegnati i padri Joseph Mang’ongo, Anthony Kazibwe, Germán Giraldo e Tarcisio Foccoli.
Il programma si chiama Zanethemba (letteralmente: vieni con speranza). Con tale progetto riusciamo a tradurre nella pratica la consolazione di Dio e dare nuova speranza a chi l’ha perduta.
Anche a Daveyton (periferia di Johannesburg, nella provincia del Gauteng) stiamo portando avanti un lavoro del genere, collaborando con il centro «San Francesco», non lontano dalla nostra parrocchia, gestito da frati minori.
Ringraziamo il Signore che ci ha fatti strumenti della sua consolazione. Vogliamo ringraziare anche i nostri amici e benefattori che, sostenendoci con le loro preghiere e aiuti materiali, sono diventati compagni di cammino nel nostro servizio.
E continuiamo ad affidarci a Maria Consolata, perché ci accompagni e ci aiuti ogni giorno a condividere l’amore di Cristo, consolazione dei popoli.

Box 1

AIDS IN CIFRE

Secondo il Ministero della sanità del Sudafrica, queste sono le cifre della pandemia che colpisce il paese:
– 5 milioni di persone affette da Hiv;
– 1.000 persone al giorno contagiate dal virus;
– 500 mila bisognose di trattamento medico specifico;
– 300 mila moriranno entro il 2005, se non riceveranno cure adeguate;
– 20 mila persone ricevono un trattamento in strutture pubbliche;
– 45 mila sono curate in strutture private.

Box 2

I FARMACI ANTI RETRO VIRALI

Il virus Hiv appartiene alla famiglia dei cosiddetti «retrovirus», che derivano il loro nome dal fatto che sono in grado di «retropercorrere», cioè di camminare a marcia indietro sul percorso dell’informazione genetica.
Normalmente questo percorso va dal Dna, che è contenuto nel nucleo della cellula e costituisce il nostro genoma, al Rna, che funziona come molecola intermedia, preposta alla sintesi di proteine. I retrovirus sono formati da Rna che, anziché indurre la sintesi di proteine, si fa «retrotrascrivere» in Dna e viene trasportato nel nucleo cellulare, dove inizia il processo di sintesi di Rna, proprio come se l’Rna virale fosse parte della cellula. Per questo motivo, i farmaci contro l’Hiv sono detti «antiretrovirali».
I protocolli terapeutici usati correntemente utilizzano uno o, più frequentemente, due farmaci di una classe che blocca il processo di «retrotrascrizione» e un farmaco di una classe che blocca un enzima virale, detto proteasi, che è invece coinvolto nel processo di «maturazione» delle proteine virali. L’introduzione di farmaci inibitori della proteasi ha segnato una svolta importante nel campo della terapia per l’Hiv, dato che la somministrazione di una sola classe di farmaci ha di solito come esito un controllo limitato del virus, che ha la capacità di mutare in forme resistenti al trattamento.
Prima della formulazione di questi farmaci, quindi, il trattamento terapeutico dei malati di Aids era molto problematico. A ogni buon conto, il problema della resistenza del virus permane ed assume forme particolarmente significative nei paesi in via di sviluppo, dato che richiede analisi accurate e frequenti, nonché la presenza di uno specialista che sappia interpretare queste analisi per formulare una nuova combinazione di farmaci.
Un pericolo che si corre nei paesi del sud del mondo è quello di cercare di formulare una «pillola magica» contenente diversi farmaci, sperando che questa funzioni per tutti, mentre tale soluzione potrebbe fomentare resistenze a farmaci che potrebbero poi essere difficili da risolvere. Certo, non è molto realistico che, in determinate aree geografiche, si proponga un modello di intervento che prevede analisi costose, l’assunzione di una serie di medicinali a diverse ore del giorno e la supervisione costante del medico. Si deve costruire un’infrastruttura che tenga conto sia della necessità di semplificare formulazione e posologia di prodotti terapeutici, sia della possibilità di resistenze/incompatibilità con determinati farmaci.
Alfredo Garzino Demo
Insitute of Human Virology (University of Maryland)

Jean Louis Ponce




I LUOGHI DELL’INFINITOLa casa di Mosè è in Africa

Quasi un pellegrinaggio dell’anima, dove bellezza del sito e dell’arte, solitudine e clima mistico creano una autentica e indimenticabile esperienza religiosa.
I luoghi di culto sono i testimoni nel tempo dell’intelligenza e della cultura dei popoli: monasteri, abbazie, conventi e chiese, spesso suggestivi e affascinanti, rappresentano un baluardo di fede, di storia, di realtà umane talvolta anche eroiche.
Una rinascita di ricerca spirituale o semplicemente religiosa, talvolta legata a tradizioni popolari, sembra rifiorire dalle ceneri di un mondo religioso mai sopito, anche se spesso e in vari luoghi osteggiato.
Un lungo «viaggio» tra monasteri e chiese di ogni parte del mondo cristiano farà emergere, fra antiche mura e preghiere sommesse, quell’atmosfera di fede che ci lega al passato come una mistica armonia mai dimenticata.

UN’ABBAZIA NEL DESERTO

«Keur Moussa» in lingua senegalese significa «Casa di Mosè». È uno strano nome per un monastero contemplativo fiorito dal nulla in un ambiente interamente musulmano. Il luogo scelto si chiama appunto Keur Moussa e dista dalla capitale Dakar una cinquantina di chilometri.
Non è un monastero famoso, non ci sono icone e sculture di gran pregio, ma ciò che lo rende unico nel suo genere è quello di essere una abbazia benedettina proprio come quella di Solesmes, in Francia, dalla quale provengono questi monaci.
Ma come riuscire a fondare un monastero cattolico proprio in una terra dove la fede coranica è seguita dal 92% della popolazione, mentre il rimanente è animista? La risposta dei monaci fu ed è questa: adattamento della fede cattolica alle diverse realtà locali. Un compito decisamente impegnativo per quei primi nove monaci ai quali era stato affidato questo compito: aprirsi alla cultura locale nei modi e nei tempi più opportuni. Un compito non indifferente.
La tranquilla vita di un monaco benedettino, scandita da preghiere, lavoro intellettuale, artigianale e canti liturgici, si è trasferita, quasi per incanto, nel 1963 in una terra a dir poco desolata, tra gente ostile e sospettosa, che viveva in misere capanne, dove il massimo dell’occupazione era rappresentato dall’allevamento di un piccolo gregge di capre affamate.
L’impresa di questi monaci si presentò fin dall’inizio piuttosto difficile: entrare in contatto con la popolazione non era certo come accogliere i pellegrini di Solesmes. Era necessario procedere per gradi, manifestando interesse per il luogo e la gente che, per quanto diversa nel modo di vivere, aveva pur sempre una sua cultura tutta da scoprire.
Momenti di vita, raccontati dai testimoni di quei primi anni di apostolato africano, svelano un tessuto di esperienze fatto di intuizioni, approcci, osservazioni di vario genere, quasi una strategia per assorbire meglio l’atmosfera del luogo e dei suoi abitanti. Coraggio, fede e iniziative interessanti hanno dato col tempo ottimi risultati.

KORÀ: UNO STRUMENTO CHE CONQUISTA

I monaci inoltre hanno scoperto come far leva sull’animo africano, così sensibile alla manifestazione musicale. Uno di loro, padre Catta, un tempo segretario del maestro del coro gregoriano della abbazia di Solesmes, è riuscito ad accompagnare il canto dei monaci al suono della korà, un tipico strumento musicale dell’Africa occidentale. Non era un organo, naturalmente, ma una grande cassa armonica tradizionalmente ricavata da una… zucca!
Lo strumento è più complesso di quanto si possa immaginare, data l’origine: una cassa armonica e un bastone, dal quale partono una ventina di corde inserite in un ponticello perpendicolare al piano armonico. Da questo insolito strumento esce un suono simile a quello dell’arpa, mentre la tecnica di suono è analoga a quella di una chitarra spagnola. Quel suono ha conquistato prima padre Catta, poi i confratelli e infine un compiacente cantastorie locale stupito ed entusiasta quanto quegli uomini vestiti di grigio, che volevano imparare da lui a suonare lo strumento per eccellenza della sua terra.
Il suono della korà, nella piccola chiesa dei monaci, attirò un mattino un anziano del villaggio, che vincendo sospetto e ritrosia volle assistere alla preghiera mattutina. L’impressione che ne ricavò fu non solo buona, ma decisamente rassicurante, se le parole con cui descrisse l’avvenimento alla sua gente furono: «Dio è là».
Curiosa gente, avrà pensato anche il cantastorie, sentendo cantare dai monaci dei salmi in una lingua sconosciuta, dalle parole incomprensibili, ma dal suono affascinante. L’antichissima liturgia latina era diventata una mano tesa, un linguaggio senza parole, un’intesa più forte della paura dello straniero.
Sono passati trent’anni e il repertorio musicale copre oggi ogni momento della liturgia e dell’anno liturgico.

OLTRE LA MUSICA

Ma ci può essere qualcosa di comune tra un canto in stile gregoriano e una musica africana tradizionale? Sembra di sì, se oggi i monaci non solo suonano la korà come se l’avessero sempre avuta tra le mani ma, secondo la tradizione del monastero di Solesmes, producono dischi e audiocassette che raggiungono con successo il mercato francese.
L’iniziativa di questi monaci (oggi sono più di 40, e alcuni del posto) non si è fermata lì: hanno creato un piccolo laboratorio dove ogni anno costruiscono una cinquantina di korà; hanno irrigato e coltivato quel deserto che circondava la nascente abbazia; hanno costruito una scuola primaria, un dispensario medico, un ufficio della Caritas per aiutare le famiglie, una scuola di tecnici agricoli e un laboratorio caseario dove il latte di quelle caprette affamate si trasforma ogni giorno in gustosi formaggi.
Potevano fare di più?

Liliana Pizzoi




Moto na Ngando L’uomo e il coccodrillo

Due giorni la settimana gli uomini
del villaggio, vicino al grande fiume
prendevano reti, esche, coltelli,
lance, frecce e zattere, si dividevano
in gruppi di tre, due o da soli e andavano
a pescare. Il pesce serviva come sostentamento
agli abitanti del villaggio. La
divisione avveniva così: ogni pescatore
lasciava tre pesci del suo pescato come
contributo alla comunità, il resto era per
la famiglia. Questa sorta di tassa veniva
utilizzata per aiutare gli anziani e gli
ammalati, oppure per venderlo al grande
mercato dove si riunivano tutte le tribù
del vicinato.
Un abile pescatore che preferiva uscire
solo, quel giorno non pescò nulla; la seconda
uscita settimanale fu lo stesso.
L’uomo non riusciva a capire; era uno dei
migliori, ma in quel momento la fortuna
non gli sorrideva; si arrabbiava e non accettava
quello che gli stava capitando.
Gli amici lo incoraggiavano dicendogli:
«Questo capita un po’ a tutti». Ma l’uomo,
molto orgoglioso, non voleva essere
consolato. Si sentiva il miglior pescatore
del villaggio e non voleva essere secondo
a nessuno.
E poiché la sfortuna continuava, il pescatore
decise di consultare il coccodrillo,
padrone in assoluto del grande fiume.
Arrivato alla sua tana bussò, si presentò
e iniziò a raccontare la sua vicenda.
– Non riesco più a pescare. Facciamo un
patto: se tu mi sveli i nascondigli dei pesci
ti pagherò con una lancia, un coltello
e tre monete d’oro.
– Non so cosa farmene del tuo oro. Non
vivo nel vostro mondo; il mio mondo ha
parametri ben diversi dal vostro – rispose
il coccodrillo -. È vero, in questo momento non riesci a pescare, ma se avrai pazienza ti assicuro
che i bei giorni ritoeranno.
– Ho una moglie e cinque figli, voglio che crescano
sani, forti e intelligenti; il mio pescato, quello
di dovere sarà donato ai membri del villaggio, il
resto alla famiglia.
– Pur essendo la creatura più forte del fiume, io
non abuso del mio potere: dalla natura prendo solo
ciò che mi necessita.
– Non farmi prediche, dimmi cosa vuoi in cambio e
ti darò tutto quello che mi chiedi.
– Non voglio niente in cambio; solo voi umani volete
essere contraccambiati per ogni azione o
informazione data. Questa smania di accumulare
beni più del dovuto non ci appartiene. Comunque
ti svelerò i nascondigli dei pesci di questo fiume,
ma attenzione a non abusae: usalo da persona
saggia; ricordati sempre del tuo prossimo e delle
risorse che Dio ci ha messo a disposizione.
L’indomani l’uomo toò a pescare e prese
pesci in abbondanza. Arrivato al villaggio,
tutti si complimentavano con lui. E continuò
a pescare tutti i giorni, prendendo ogni sorta
di pesce e sempre in grandi quantità.
Il coccodrillo scrutava i suoi movimenti e non era
affatto contento del suo comportamento; così decise
di andarlo a trovare.
– Ti ricordi cosa ti avevo detto? Non devi abusare
del tuo sapere! – disse il coccodrillo -. Se hai bisogno
di dieci pesci al giorno, perché ne catturi quaranta?
Tre pesci vanno alla comunità, il resto, per
la tua famiglia, ma tu non hai così tanti figli da
sfamare. Attenzione, stai pescando più del dovuto!
Avanzi tanto di quel pesce che potresti donarlo
ai pescatori meno fortunati, come lo sei stato
anche tu, ti ricordi quei giorni? Invece tu lo butti
via.
– Non ho mai mancato a un versamento comunitario;
io non sono indispensabile alla mia comunità!
Comunque il pesce l’ho pescato io e ne faccio ciò
che voglio.
– Il tuo comportamento non ti aiuterà ad essere il
pescatore più stimato del villaggio: non sarai mai
una persona buona e onorata; svegliati e renditi
responsabile delle tue azioni; quello che fai è solo
vanità! Farsi santi da soli non serve!
– Io volevo pagarti, ma tu non hai voluto niente:
peggio per te! Il segreto che mi hai svelato lo uso
a mio favore.
Così dicendo, il pescatore prese il coltello e uccise
il coccodrillo.
Morale: «Non lavorare solamente per il tuo
orgoglio e interesse: queste cose accecano
l’animo dell’uomo e lo rendono schiavo di
se stesso».

Giovanni Fumagalli




Il pescatore di storioni

Un pescatore di
storioni ogni giorno scendeva all’estuario del fiume, che portava diritto
al mare. Era un maestro di pesca: il punto preferito era là dove l’acqua
dolce divideva il fiume dal mare. Il luogo era pure incantevole. Un
pittore di paesaggi si sarebbe certamente soffermato ad osservare, per poi
ritrarre su tela le sue emozioni.

L’uomo pescava
storioni (le cui uova costituiscono il prelibato caviale), li vendeva al
mercato e, con il ricavato, comprava farina, pane, latte, zucchero, uova,
carne. Così sbarcava il lunario.

Dati i discreti
guadagni, il pescatore decise di comprarsi una barca, per muoversi con
maggiore facilità sul fiume. Il pescato aumentava di giorno in giorno,
come pure l’incasso. Lui pescava, pescava… e si arricchiva. Acquistò
un’altra

imbarcazione, molto
più capace,

che trasportava
larghe reti, zeppe di storioni.

La vita sorrideva al
pescatore di storioni.

Il cerchio della
fortuna ruotava a dovere

con molto denaro, e
per un lungo periodo.

Poi le cose
cambiarono. Poiché lo storione scarseggiava, la macchina
della fortuna perdeva colpi, sino a fermarsi. Il pescatore
si ritrovò a condurre una vita povera. Il ricavato gli
permetteva, a malapena, di comprarsi due pani e poche uova.
La bellezza del luogo era rimasta intatta, ma il bisogno
impediva al pescatore di coglierla. Qualcosa s’era rotto nel
meccanismo armonico del meraviglioso fiume.

Al pescatore non
restava altro che pensare alla fortuna dei tempi andati.

Un giorno la
situazione, già precaria, precipitò del tutto. La necessità
indusse il pescatore a trovare uno sbocco economico altrove.
Però non riusciva a capacitarsi perché, dopo tanti anni di
fedeltà, il fiume gli avesse voltato faccia!

Prima di andarsene,
volle salutare il saggio del villaggio, che abitava sulla
collina più alta. Il vecchio lo accolse con grande fervore, lo fece
accomodare, gli diede da bere e gli chiese: «Come mai sei venuto fin
quassù? Di solito, chi sale a trovarmi è perché ha deciso di andarsene dal
paese: c’è chi parte per nuove avventure e chi, invece, per necessità!».

Il pescatore di
storioni raccontò tutto.

Il saggio disse:
«Montagne e colline, mari e fiumi, ogni volta che li guardiamo, sembrano
uguali al giorno precedente. Però cambiano. E chi ci vive dentro, il
mutamento lo sente, eccome! Lo sentono i pesci del fiume e gli animali
della collina. Anch’essi sono costretti ad emigrare. Ma è l’uomo, forse
senza saperlo, che costringe altre creature a spostamenti forzati e,
talora, alla morte. L’uomo, con un comportamento senza regole, può
distruggere tutto: è in gioco l’avvenire di tutti».

Tutte le ingordigie
e gli egoismi si ritorcono contro l’ingordo ed egoista. Proprio come
recita il proverbio: «Chi troppo vuole nulla stringe».

Giovanni Fumagalli




Forse Dio è malato

INCONTRO CON DEREK WALKOTT

Walcott, alla Fiera del libro:
La realtà e l’esistenza della poesia in ogni paese del mondo dimostrano la necessità poetica tra gli uomini. Noi però facciamo una cosa molto brutta, perché non permettiamo che i bambini sviluppino la loro immaginazione poetica.
Un bambino, ad una certa età, è un poeta puro. Questo è quanto William Blake continua ad indicarci. Il bambino è poeta. Ma noi facciamo «sporche azioni» contro l’immaginazione poetica del mondo, perché trasformiamo un poeta in ciò che pensiamo essere un adulto ragionevole.

Signor Walcott, grazie al cielo la sua creatività poetica non è stata uccisa dal mondo, come dimostrano questi bellissimi versi che rievocano l’incantato sapore dell’infanzia:

La pianta d’arancio, in varia luce/ Proclama quella favola perfetta ora/ Che il culmine estivo della sua ultima stagione/ Si piega da ogni ramo sovraccarico (da «In una verde notte», 1965).
Quando ha iniziato a scrivere i suoi poemi? Chi sono stati i suoi maestri?
Mia madre era insegnante e mi incoraggiò moltissimo. Da quello che ricordo, in vita mia ho sempre scritto. Forse iniziai all’età di sei anni o forse prima. Qualche volta recitai anche nel teatro della scuola metodista da me frequentata e ricevetti molto incoraggiamento.
Assai presto fui certo che avrei fatto lo scrittore. Anche mio padre era scrittore e pittore. Amavo memorizzare poesie. Giovani insegnanti mi incoraggiarono a scrivere, mentre una solida istruzione inglese mi permise di leggere i migliori poeti sotto la guida di bravi professori. All’età di 18 anni, mia madre mi aiutò a pubblicare la prima antologia poetica.

La sua vita e poesia rivelano sofferenza, documentata da alcuni versi come:
E la mia vita…/ non deve essere resa pubblica/ Finché non ho imparato a soffrire (da «Preludio», 1948); Io cerco/ al modo che il clima cerca il suo stile (da «Isole», 1962); Per cambiar lingua devi cambiar vita (da «Codicillo», 1970).
È, comunque, riuscito a mantenere la curiosità tipica dei bambini?
Quando una persona cresce non è più un bambino. Un genitore non è un bambino. Ho, però, lavorato moltissimo e continuo a farlo su me stesso per mantenere la chiarezza di visione del mondo che caratterizza i bambini.
Walcott, alla Fiera del libro:
Colombo, che forse pensava di essere in Cina, ha dato il nome «Santa Lucia» all’isola in cui sono nato. È un’isola sulla quale francesi ed inglesi hanno combattuto alternandosi nella sua proprietà per ben 13 volte. L’isola aveva un grande valore strategico, anche per la coltivazione della canna da zucchero, per non parlare della sua bellezza. A scuola i bambini cantano un inno dedicato a Santa Lucia, definendola «Elena delle Indie Occidentali».
Molti abitanti di Santa Lucia derivano i loro nomi da fonti bibliche o classiche, che ricordano quelli dati agli schiavi per alcune loro caratteristiche fisiche. Achille ed Ettore sono molto spesso pescatori, che non conoscono i personaggi di Omero.
La realtà dell’arcipelago caraibico è unica, anche se le immagini (con le quali sono cresciuto) di canoe che lasciano terra come una flotta o di canoe che rientrano verso terra… ricordano quelle di altri arcipelaghi.
La direzione di una cultura può essere indicata dalla sua musica. La musica dei Caraibi è un misto di tante fonti: francese, africana, indiana. In questo contesto anche uno scrittore attinge alle stesse fonti e non ha senso che la sua opera sia classificata nella fase «coloniale», «multiculturale», «indipendente».
Immaginate il carnevale di Port of Spain (Trinidad) con una banda di ottoni formata da bianchi, neri, indiani e cinesi che suonano, saltano e ballano. Se fossi in testa alla banda e la fermassi chiedendo «siete multiculturali?», quale sarebbe la loro risposta?… Solo quando lascio i Caraibi incontro queste definizioni.
La definizione «multiculturale» proviene dai centri accademici o dai politici del mondo. Personalmente provo risentimento quando la mia cultura è marchiata con tale termine. Qual è l’opposto di «multiculturale»? Forse «uniculturale»? «Multiculturale» ricorda «politicamente corretto». E che significa?

Le sue critiche sull’uso ed abuso di «multiculturale» dovrebbero essere meditate ed apprezzate. Colpiscono i seguenti suoi versi, che aboliscono ogni distinzione di razza e colore:
Gente di mare/ cristiana e intrepida (da «Un canto di marinai», 1962).
Se uno è cristiano…
Questa è la realtà dei Caraibi: noi ci sentiamo cristiani. Io sono metodista, ma nel mio teatro ho presentato anche personaggi cattolici; però, di fatto, nei Caraibi noi ci sentiamo cristiani. Non comprendiamo, perciò, tutte le barriere e divisioni che si incontrano nel mondo occidentale tra i cristiani: uno appartiene ad una chiesa, l’altro ad un’altra. Le chiese sono in lotta tra loro, per non parlare dell’alta percentuale di non credenti.

Citando questi suoi versi
di Dio la solitudine si muove nelle sue più minuscole/ creature
il poeta russo Brodskij afferma che «nessuna “foglia” (cioè noi) né quassù né ai tropici amerebbe sentirsi dire cose simili». Come credente, confesso che questi suoi versi mi piacciono, perché rivelano che lei crede in Dio.
Sì, ci credo veramente. Dio è presente in tutto il creato e in ogni creatura dell’universo. Penso, però, che Dio in una formica si senta proprio solo. La meravigliosa opera di Dio si manifesta anche nell’oceano maestoso. E allora…

Walcott, alla Fiera del libro:
Uno scrittore del Caraibi può soltanto scrivere al meglio. Il dovere di uno scrittore non è quello di istruire, ma di illuminare. Uno scrittore non deve essere accondiscendente con l’analfabetismo del suo pubblico. Noi scriviamo per la sensibilità della nostra cultura. Parlare di letteratura del Caraibi, formata da scrittori elitari (con il sottoscritto compreso), è stupidità accademica.
I drammaturghi greci, ad esempio, per chi scrivevano? Per molte persone analfabete. Chi ha mai chiesto ai drammaturghi greci di non essere elitari? Che cosa ci avrebbero lasciato? Aristofane che parla come Tarzan? Shakespeare per chi ha scritto? Per migliorare le nostre conoscenze. Se i classici non avessero «volato alto», non avremmo migliorato la nostra letteratura.
Ho fondato la compagnia teatrale di Trinidad e ho scritto opere al meglio delle mie possibilità. Questa è stata una benedizione, perché ho suscitato le emozioni degli spettatori, senza preoccuparmi della loro preparazione culturale. Forse gli spettatori non capiscono tutto il testo, ma recepiscono i sentimenti che scaturiscono dall’opera. Questa è la base del bravo scrittore caraibico: non sottomettersi a nessun sistema.
Il mio pubblico migliore è una grassa donna nera ai piedi del palco che ride e piange. E lei si merita che io scriva nel miglior modo possibile.

Il teatro caraibico è stato inventato da lei. Leggendo «Ti-Jean e i suoi fratelli» e «Sogno sul monte della scimmia», pare che fedi, credenze, sofferenze, speranze e sogni dell’Africa lontana, immersi in una scenografia ricca di musica e colori, caratterizzino questo teatro.
Il teatro caraibico è proprio così. Ho fondato il «Trinidad Theatre Workshop» 40 anni fa; l’ho seguito sempre con grande interesse e passione. Tanti bravi attori, ballerini e musicisti hanno contribuito al successo degli spettacoli. Ancora oggi continuano a rappresentare le mie opere teatrali con consenso di pubblico.

Nel 1970 a New York lei fu brutalmente assalito da una «baby gang», che ispirò questi versi:
E questo negro giallo lo picchiarono/ fino a farlo blu e nero/… Ragazzi a cui manca un po’ d’amore (da «Blues», 1970).
Con questi versi ci aiuta a capire le cause dell’inquietante fenomeno delle «baby gang», che ormai troviamo anche in Italia.
Quella fu un’esperienza molto dolorosa, che mi segnò profondamente e che ancora ricordo con tristezza. C’è molta violenza nel mondo, non solo fisica ma anche intellettuale. Credo che sia causata principalmente dalla mancanza di amore nei confronti di persone che possono avere tutto materialmente, ma non ricevono quell’amore fatto di ascolto e di attenzione.

Ecco, infine, alcuni suoi versi che lanciano messaggi di speranza:
tutto nella compassione ha fine (da «Rovine di una grande casa», 1962); o stella, doppiamente compassionevole (da «Stella», 1970); Amerai di nuovo lo straniero che era il tuo Io (da «Amore dopo amore», 1976); Gli amici che trattieni, o terra, sono più di quelli rimasti da amare (da «Canne marine», 1976).
Lei ci indica come valori importanti della vita: amicizia, amore, compassione.
Questi sono i valori veri. Non è forse stato scritto «amerai il prossimo tuo come te stesso»?

CHI E’ DEREK WALKOTT

Nato nel 1930 a Castries (Santa Lucia – Caraibi). Conta un bisnonno olandese, un nonno inglese e nonni africani. Cresciuto nella piccola comunità anglofono-metodista di Santa Lucia dalla madre, insegnante, e nella memoria del padre, pittore e poeta morto nel 1931, Walcott perfeziona l’istruzione al Saint Mary’s College dei missionari irlandesi della presentazione.
Laureatosi in inglese all’università delle Indie Occidentali di Mons (Giamaica), Walcott si fa conoscere negli Stati Uniti e in Gran Bretagna con poesie ed opere teatrali, scritte in un inglese raffinato ed elegante.
Maestro della metafora, cantore delle bellezze dei Caraibi e profondo conoscitore dell’animo locale, inventa il teatro caraibico: nel 1959 fonda a Port of Spain il Trinidad Theatre Workshop che dirige fino al 1997 portandolo in touée nei Caraibi, Stati Uniti e Canada. Dal 1979 Walcott insegna nelle università di Harvard, Yale, Boston. Nel 1990 pubblica Omeros, ritenuto il suo capolavoro. Nel 1992 vince il premio Nobel per la letteratura.
n In Italia Derek Walcott è poco conosciuto. Una minima parte della sua poderosa opera è stata tradotta in italiano. L’editore Adelphi ha pubblicato due libri: Mappa del nuovo mondo; Ti-Jean e i suoi fratelli – Sogno sul monte della scimmia.

Silvana Bottignole