Resistere Resistere Resistere

Taybeh: ultimo villaggio interamente cristiano

Tre campanili e nessun minareto: l’antica Efraim è l’unico villaggio palestinese interamente cristiano, ma è a rischio estinzione: varie iniziative provvedono lavoro e motivazioni perché la gente resista alla tentazione di emigrare.

La sua storia risale a migliaia di anni prima di Cristo, quando arrivarono nella regione alcuni clan cananei, provenienti dalla penisola araba; una storia travagliata fin dal nome, citato almeno sei volte nella bibbia come Ofra, Efron, Efraim, Afra, finché nel 1187 il Saladino gli diede il nome definitivo: era capitato che, ricevendo gli omaggi di una delegazione di Afra, il presentatore storpiò talmente il nome da significare «demonio malefico»; affascinato dalla bellezza e gentilezza dei delegati, il condottiero musulmano cambiò il nome in «Taybeh», che significa «Bello di nome».
Taybeh è bello anche di fatto, con le sue casette bianche appollaiate su una collina sassosa, 35 chilometri a nord-est di Gerusalemme, ai margini della Samaria e del deserto di Giuda. Visto da lontano assomiglia ad altri innumerevoli villaggi arabi disseminati nelle zone collinose della Terra Santa; è così piccolo che non figura sulle mappe ufficiali di Israele e Palestina; ma quanto più ci si avvicina tanto più appare la sua singolarità: al posto del solito minareto e rispettiva moschea, spiccano tre bei campanili di altrettante chiese cristiane: la cattolica latina, che conta oltre 750 fedeli, quella greca-ortodossa con poco più di 450 membri e quella greco-cattolica o melchita con circa 160 seguaci.
Storia e tradizioni
«Taybeh è l’unico villaggio della Terra Santa abitato da soli cristiani: tutti arabi. Anch’io sono arabo, nato a Jenin 42 anni fa; dal 2002 sono parroco della comunità cristiana di rito latino» esordisce don Raed Abusalhia, parlando ai visitatori, come fa ogni domenica dopo la celebrazione della messa. Di solito li accoglie nella «Sala del divano», ammobiliata come una tenda di beduini; questa volta, però, ci raduna tutti in chiesa, poiché due gruppi di ospiti (indiani del Kerala e cristiani uniati di San Francisco, Usa) sono troppo numerosi.  
«Gli abitanti del villaggio sono tutti arabi – ripete don Raed – e si vantano di essere stati evangelizzati da Gesù in persona, come si legge nel vangelo». Dopo la risurrezione di Lazzaro, racconta l’evangelista Giovanni, «i sommi sacerdoti e i farisei riunirono il sinedrio… e decisero di uccidere Gesù. Pertanto egli… si ritirò di là nella regione vicina al deserto, in una città chiamata Efraim, dove si trattenne con i suoi discepoli» (Giovanni, 11,47-54).
L’enunciato evangelico è molto scao. Ma ci ha pensato la fantasia mediorientale a fornire altri dettagli, a cui si ispira anche don Raed. «Gesù venne in questo luogo per quattro motivi – continua il parroco. Primo perché la Samaria è un posto tranquillo e i samaritani sono ospitali; secondo perché questo era un luogo di rifugio e chi vi accorreva godeva di immunità e non poteva essere perseguito neppure dai rabbini; terzo perché qui Gesù aveva degli amici a cui ricorreva nelle difficoltà; soprattutto egli venne in questo luogo quasi desertico per prepararsi agli ultimi eventi della sua vita, come aveva già fatto tre anni prima, ritirandosi a pochi chilometri da qui, sul monte della Quarantena o delle Tentazioni, per prepararsi alla sua vita pubblica».
Secondo la tradizione, proprio sulla strada verso Efraim sarebbe avvenuta la guarigione dei 10 lebbrosi (Luca 17,12) e il samaritano guarito avrebbe accompagnato Gesù fino al villaggio, gridando talmente la sua felicità che gli apostoli ne furono irritati. Ma Gesù, continua la leggenda, si fermò, chiamò il samaritano, lo benedisse e lo congedò. L’uomo, baciando il suolo, chiese un nuovo nome e Gesù lo chiamò «Efraim», che significa «doppio frutto», cioè, la vita ricevuta due volte.
Un’altra tradizione racconta che, arrivato ad Efraim, i notabili del villaggio lo invitarono a restare con loro, poiché quelli del tempio lo odiavano, e un ragazzo gli corse incontro con un melograno. Gesù ne approfittò per raccontare una parabola. Spaccò il melograno e lo mostrò ai presenti, dicendo: «I chicchi di questo frutto sono dolci, come sapete, ma sono racchiusi in una membrana molto amara. Così il Figlio dell’uomo deve passare attraverso le amarezze della morte, prima di gustare la dolcezza della risurrezione».  
Anche alla Madonna, venuta a Taybeh per trovare il Figlio, la gente avrebbe offerto un melograno. A tale leggenda si ispira l’icona della «Madonna di Efraim», in cui la vergine è rappresentata con in mano il melograno, frutto sacro in oriente, simbolo di pienezza, fecondità ed eternità.
«Leggende a parte – continua il parroco – i cristiani di Taybeh rivendicano la discendenza apostolica della loro fede e la consapevolezza di avere mantenuto vivo il vangelo da due mila anni senza interruzione, resistendo all’islamizzazione avvenuta invece nel resto della Palestina. Tale resistenza e costanza nella fede è testimoniata dalle rovine di due antichissime chiese bizantine costruite nel paese fin dall’inizio del IV secolo. In una di esse, El Khader o chiesa di san Giorgio, potete vedere il battistero in cui gli abitanti di Taybeh hanno attinto e continuano ad attingere la fede cristiana» (vedi riquadro).
Uniti  dalla stessa sorte
Taybeh è un laboratorio di ecumenismo. I parroci delle tre comunità formano un comitato che si incontra una volta al mese per discutere i problemi della gente, trovare soluzioni ed anche per pregare insieme, fatto non comune in Terra Santa. Tale intesa è necessaria anche perché molte famiglie, in seguito ai matrimoni misti, fanno parte di più chiese. Per evitare confusioni in famiglia e di fronte ai musulmani, le tre chiese hanno concordato di celebrare natale e pasqua nelle stesse date, nonostante le differenze di calendario: natale il 25 dicembre, secondo il calendario gregoriano-latino, e pasqua seguendo il calendario giuliano-ortodosso.
«Qui pratichiamo l’ecumenismo della vita. Non capisco perché, con tanti incontri ecumenici ad alto livello non si riesca a stabilire una data definitiva per la pasqua valida per tutte le chiese cristiane nel mondo, senza dipendere dalle fasi della luna» sottolinea polemicamente don Raed, tra sonori applausi degli uniati americani.
«Coltiviamo buoni rapporti anche con i musulmani: una quarantina locali (“ospiti di passaggio” dicono i paesani), e quelli dei 16 villaggi circostanti. Noi cristiani ci sentiamo palestinesi a tutti gli effetti. Viviamo insieme da almeno 14 secoli e ci sentiamo un solo popolo: stesse tradizioni, stessa lingua, stessi problemi, stessa sorte. Nel conflitto in corso non rappresentiamo una terza parte, ma siamo sulla stessa barca con i nostri fratelli musulmani e abbiamo a cuore la liberazione della nostra terra in modo pacifico, senza essere antisemiti né anti-israeliani».
Don Raed insiste nell’affermare che lui e la sua comunità sono arabi, per confutare una certa «propaganda» che identifica il cristiano con l’occidentale e lo contrappone all’arabo islamico. «A volte ci capita di essere vittime di reciproci “pregiudizi”, ma con il dialogo riusciamo a superarli». Lo prova il fatto che gli alunni più piccoli della scuola del Patriarcato Latino sono per un terzo musulmani: vengono dai villaggi vicini, compagni di scuola dei ragazzi di Taybeh con normalissime relazioni di amicizia.
«Noi cristiani – continua don Raed – non vogliamo essere definiti “minoranza”: parola che in arabo ha la stessa radice di debole, perseguitato, straniero. Niente di tutto questo. La nostra rilevanza non dipende dal numero, ma dal tipo di presenza e testimonianza che riusciamo a garantire». Ma non si pensi che sia facile restare cristiani in Terra Santa. «Il problema principale è la mancanza di libertà, in seguito all’occupazione militare israeliana e alla politica di sicurezza, diventata più oppressiva dopo lo scoppio della seconda intifada» spiega don Abusalhia. Centinaia di chilometri di «muro», posti di blocco, check points tengono i palestinesi prigionieri nei loro territori, dai quali non possono uscire senza uno speciale permesso, rilasciato dall’amministrazione israeliana solo per motivi particolari.
Tale isolamento è reso più pesante dalla politica di colonizzazione perseguita dal governo ebraico senza sosta e con ogni mezzo, comprando dai palestinesi o espropriando con la forza i loro terreni. Attoo a Taybeh ci sono già cinque insediamenti ebraici e quello di Ofra continua ad espandersi, erodendo anche il territorio del villaggio cristiano. Tale politica rende più difficile gli spostamenti anche all’interno dei territori palestinesi: alcune strade sono riservate esclusivamente alle auto dei coloni israeliani, costringendo i palestinesi a nuovi e più lunghi percorsi. «Prima della costruzione di Ofra – precisa don Abusalhia – il percorso tra Taybeh a Ramallah era di 13 chilometri; oggi è di 35».
Sopravvivenza a rischio
Conseguenza di tale situazione è l’emorragia migratoria, che minaccia la sopravvivenza del villaggio cristiano, al pari della presenza cristiana nel resto della Terra Santa. Prima della guerra dei sei giorni (1967), Taybeh contava 3.400 abitanti; oggi sono più che dimezzati; almeno 7 mila persone originarie di Taybeh sono sparse per il mondo, in America, Giordania o semplicemente a Gerusalemme.
Per frenare tale emorragia le autorità religiose e civili di Taybeh hanno posto in atto varie iniziative. Prima di tutto, contro la minaccia della colonizzazione, è stato costituito un fondo comune, con il contributo degli emigrati, per acquistare i beni di chi decidesse di emigrare: una legge non scritta, ma scrupolosamente osservata, proibisce di vendere ai non cristiani le proprietà, terreni e case, che devono passare da padre in figlio.
Ma non basta: bisogna motivare la gente a restare nel paese, foendo lavoro e prospettive per il futuro. La chiesa ortodossa ha lanciato il progetto per la costruzione di 20 abitazioni: alla raccolta dei fondi contribuiscono anche cattolici romani. «La spesa prevista è di un milione di dollari» chiarisce don Raed, con un sorriso accattivante verso gli uniati americani.
«In tempi di check point e strade chiuse – continua don Raed – è quasi impossibile raggiungere l’ospedale di Ramallah o Gerusalemme; in questi anni, nei check point abbiamo avuto la nascita di 76 bambini e 24 decessi tra madri e bambini. Per questo abbiamo dovuto ingrandire il centro medico, foendolo di una sala parto e altre piccole strutture di emergenza. Oggi il centro medico, nonostante la sua minuscola taglia, offre tutti i servizi di un vero ospedale. E questo grazie al vostro aiuto» conclude il parroco ammiccando agli estasiati americani. E continua senza distogliere lo sguardo dal gruppo califoiano: «Cerchiamo sponsor e volontari per sostenere la scuola, che oggi accoglie oltre 450 alunni, dall’asilo al liceo, e la nostra Beit Afram, la casa di riposo per anziani e di riabilitazione per handicappati, realizzata nel 2005 con fondi donati dalla parrocchia di San Lorenzo in Firenze e gestita dalle suore Figlie dell’Addolorata».
A Taybeh c’è anche una casa di accoglienza per pellegrini e gente di passaggio, intitolata a Charles de Foucauld, il quale passò a Taybeh una prima volta nel 1897 e vi ritoò l’anno seguente per una settimana di ritiro, dal 14 al 21 marzo, traendo da qui ispirazione per ben 35 pagine dei suoi scritti spirituali.
Olio extra vergine e…
 per la pace
La parrocchia cattolica, essendo la più numerosa e meglio organizzata, è l’asse portante di tutto lo sviluppo del paese, valorizzando al massimo le risorse locali e con gli aiuti che vengono dall’estero. «Ma noi cristiani di Terra Santa non vogliamo restare mendicanti, dipendere dagli altri. La nostra gente ha voglia di lavorare e creare prodotti di qualità» continua il parroco.
Appena arrivato a Taybeh don Raed ha creato la Olive Branch Foundation (Fondazione ramo d’olivo) che ha finanziato la realizzazione di un moderno oleificio e l’avvio di laboratori artigianali per la produzione di oggetti di legno d’olivo, sapone, candele, maftul (cuscus), ceramiche… La produzione dell’olio di oliva è un’attività ancestrale a Taybeh, praticata da 300 famiglie su 380, con oltre 30 mila olivi e altri 180 mila nei territori dei villaggi circostanti. Ma l’intifada e relative misure di sicurezza israeliane hanno reso difficile il mercato dell’olio di Taybeh, dimezzandone il prezzo e riducendolo a moneta di baratto.
La gente era così scoraggiata che non si curava più di raccogliere le olive. «Un anno, all’apertura delle scuole, molta gente si trovò senza soldi per pagare la tassa scolastica – racconta don Raed -. Dissi che potevano pagare con l’olio: sei taniche da 16 litri all’anno per ogni studente. Mi ritrovai con oltre trenta ettolitri d’olio d’oliva da smaltire, in compenso la gente trovò nuovo coraggio».
L’installazione a Taybeh del frantornio moderno, senza più dipendere da quello di Silwad, ha permesso di ottimizzare la produzione dell’olio con certi accorgimenti tecnici, come la raccolta ritardata delle olive e la frantumazione in giornata, cosicché l’olio può  essere classificato come «extra vergine». «Nel 2003 – continua don Raed – abbiamo firmato un contratto con una Ong francese, Ater Ego, che assorbe gran parte della produzione locale: oggi l’olio di Taybeh viene venduto in 4 mila supermercati francesi, mentre i prodotti artigianali, tramite il commercio equo-solidale, vengono spediti in ogni parte del mondo».
Un’altra idea del vulcanico parroco, lanciata nel 2004, è la «lampada della pace», una ceramica a forma di lucerna tradizionale o di colomba, che oltre a dare lavoro e di che vivere dignitosamente ad una ventina di famiglie, vuole richiamare l’attenzione sulla Terra Santa, straziata da decenni di conflitto israelo-palestinese, in una situazione che a tutt’oggi sembra senza via di uscita. «Ci resta un ultimo rimedio: rivolgiamo al Signore la nostra preghiera per la pace in Terra Santa, attorno a un’idea semplice e simbolica: la lampada, con olio e luce, è un messaggio di pace da parte nostra e un segno di solidarietà da parte vostra» spiega il parroco sempre rivolto agli americani.
Il suo obiettivo è far giungere le «lampade della pace» a più di 100 mila chiese in tutto il mondo. «Con una tale catena di preghiera che unisce i cristiani di tutto il mondo, il buon Dio ascolterà il nostro appello, non avrà altra scelta!» conclude don Raed, volgendo lo sguardo accattivante anche agli indiani del Kerala.

Di Benedetto Bellesi

Benedetto Bellesi




Il sogno di Jeff

Israele e Palestina: tra pareti abbattute e muri eretti

È possibile avviare un processo di riconciliazione, oggi, tra Israele e Palestina? Lo abbiamo chiesto all’antropologo e attivista isrealiano Jeff Halper, direttore del Comitato isrealiano
contro la demolizione delle case (Icahd).

Più di una volta la nostra rivista ha affrontato il tema del conflitto isrealiano- palestinese. Vorremmo chiedere se, oggi come oggi, vedi una qualche possibilità di riconciliazione fra le due parti.
Parlare di  riconciliazione è  prematuro. Questa può e deve avvenire soltanto dopo aver stabilito un accordo di pace. Ci sono stati in passato molti tentativi di dialogo tra israeliani e palestinesi; continuiamo  sempre a dire che faremo lo sforzo di capirci di più, che ci conosceremo meglio, che parleremo dei nostri problemi… Purtroppo, sono tutti tentativi che, in realtà, non hanno mai funzionato; anche perché il governo israeliano non ha mai manifestato la volontà di smantellare, far cessare l’occupazione. Né che al governo ci fossero i laburisti, il Likud, o qualsiasi altro partito.
Chiaramente, quando i palestinesi entrano in dialogo con gli israeliani che fanno parte di un movimento di pace, si rendono conto che questi ultimi non sono in realtà capaci di influenzare la politica del loro governo e quindi il dialogo si esaurisce ben presto perché i palestinesi dicono: «Non possiamo normalizzare le relazioni, imparare a conoscere meglio voi israeliani, diventare amici e, nel contempo, continuare a subire l’occupazione». Bisogna eliminare l’occupazione dai territori palestinesi e poi si potrà iniziare a dialogare. Non possiamo mettere il carro davanti ai buoi.

Cosa ostacola l’inizio di un processo di normalizzazione e, quindi, di pace e riconciliazione?
Il vero problema è rappresentato dalla politica e dalle strategie politiche che vengono prima di ogni processo di riconciliazione. Ciò che mi sorprende sempre è il fatto che non vi sia odio fra la gente comune delle due parti in conflitto. Anzi, in questo senso, penso che siamo noi israeliani ad essere in difetto. Siamo indifferenti ai palestinesi, non ci importa di loro, non ci importa neppure di odiarli; semplicemente, viviamo la nostra vita. Loro sono arabi, vivono sullo sfondo, appartengono allo scenario, non influenzano la nostra vita, siamo convinti di potee fare a meno. L’economia israeliana sta andando bene, il turismo si sta riprendendo… gli israeliani si sentono tranquilli. Il fatto è che noi possiamo  vivere tranquillamente con l’occupazione, non ci pensiamo neppure all’occupazione. Ecco il vero problema.
Per contro, la maggior parte dei palestinesi andrebbe anche d’accordo con gli israeliani… Tutto sommato, non credo che sentano odio verso di noi. L’anno scorso ho fatto parte di uno dei primi gruppi che sono riusciti ad entrare a Gaza rompendo l’assedio dopo l’operazione «Piombo fuso». Ero l’unico isrealiano. e c’erano un sacco di persone che mi chiamavano, mi invitavano per un caffè; alcuni, i più anziani, volevano perfino parlare ebraico. E non di politica, non volevano fare discorsi politici…si chiedevano semplicemente come si sarebbe potuti uscire tutti insieme da questa situazione, da questo marasma che si era creato. Era una conversazione fra gente comune che non discuteva di soluzioni «politiche» come quelle che si potrebbero prendere a livello governativo: gli isrealiani qui, i palestinesi dall’altra parte;  meglio una soluzione che contempli uno stato unico, oppure due stati… Niente di tutto ciò. La conversazione partiva dal dato di fatto che ci fosse un “noi” da tenere presente, protagonista di tutta la vicenda: «Perché “noi” non possiamo semplicemente vivere in questo paese? “Noi”, israeliani e palestinesi. Già viviamo tutti nello stesso paese, perché non possiamo convivere tranquillamente?». Questo discorso, fatto da gente comune, mi ha colpito profondamente; è stato importante per me ascoltare ciò che la gente mi stava comunicando. Se loro avessero detto: «Noi palestinesi “dobbiamo” vivere con voi israeliani, siamo costretti a farlo, ma non lo vorremmo assolutamente», la situazione sarebbe stata radicalmente diversa. Ma quello che si stava invece dicendo è: «Siamo qui tutti insieme, allora viviamo in pace tutti insieme». E, lo diceva la gente comune, che è comunque la maggioranza. Su questa base potrebbe iniziare un cammino di riconciliazione, ma la premessa è, ovviamente, la possibilità di avere una vera pace.

E dal punto di vista di Israele?
Non è che la gente di Isreale sia di principio contro la pace; semplicemente agli israeliani non importa nulla di impegnarsi in un processo di pace. L’insistenza dei governi  non è sull’idea di pace, ma su quella di sicurezza, cosa che convince la gente della necessità di continuare l’invasione, di costruire il muro, ecc..
Gli israeliani, per dirla molto brutalmente, possono convivere tranquillamente con l’occupazione, non trovano una seria motivazione per terminare con essa; non c’è una vera pressione internazionale che possa obbligarci ad agire diversamente, l’economia tira, le condizioni di vita della gente sono tutto sommato favorevoli, il terrorismo è in calo e ci si sente sicuri, quindi… 
Il grande problema è che il ritornello della nostra classe dirigente, sia di sinistra che di destra, è sempre stato: «Gli “arabi“ (noi non usiamo il termine palestinese, perché non li riconosciamo come tali), sono fatti così, sono nemici permanenti, ci odiano, non cambieranno mai».
Uno si rende conto che la cosa è semplicemente ridicola, ma è ciò che gente comune crede. La gente dice: «Noi vorremmo la pace ma gli arabi non lo permetterebbero mai. Abbiamo lasciato Gaza e hanno iniziato a lanciarci dei missili, se ora abbandoniamo anche la West Bank sarebbe ancora peggio».
Anche coloro che non hanno mai partecipato direttamente all’occupazione, che non sono mai diventati coloni, sono però convinti che gli «arabi» ci vogliano buttare a mare. E se si dà eccessivo credito a questa visione, viene meno la fiducia nel trovare una soluzione politica al conflitto e cresce la tentazione di appoggiare i partiti più intransigenti nei confronti dei palestinesi e meno inclini a cercare soluzioni politiche e più favorevoli a quelle militari. È un circolo vizioso dal quale è difficile uscire.
La cosa veramente sorprendente è che pur essendo Israele una società aperta, il 90% degli israeliani ha approvato l’invasione di Gaza dell’anno scorso. È un dato incredibile, testimone di un sentimento assolutamente trasversale, che va ben al di là della dialettica politica fra destra e sinistra.  Un sacco di gente di sinistra ha accettato l’idea che, per la nostra sicurezza, noi dobbiamo usare la mano dura nei confronti dei palestinesi.
Israele non vuole accettare nessuna responsabilità e preferisce presentarsi come una vittima. È un fenomeno che appare chiaro anche solo dalla lettura quotidiana dei giornali; per esempio, si giustifica la costruzione del muro per cercare di evitare che i “terroristi” vengano messi a contatto, si mischino con le loro “vittime”. Se tu sei la vittima non potrai essere considerato responsabile e Israele è proprio questo che non accetta: la responsabilità.
Chiaramente, per poter continuare ad essere la vittima ed evitare di assumerti le tue responsabilità è meglio non conoscere, essere lasciati nell’ignoranza delle cose. Lascia che ti faccia un esempio. Uno dei miei migliori amici, professore universitario in Israele, definisce il muro “lo steccato”. Gli sembra una parola migliore, più elegante. Gli ho detto varie volte: «Dammi 10 minuti che ti faccio fare un giro in macchina e ti faccio vedere questo «steccato di cemento alto 8 metri », ma lui si è sempre rifiutato, anche perché dopo averlo visto non potrebbe continuare a chiamare tranquillamente «steccato» un muro di quel genere. C’è quasi come uno sforzo conscio e deliberato da parte nostra di non vedere, di non vedere e di non sapere. Così possiamo continuare tranquillamente a giocare il ruolo di vittime…

Qual è il tuo sogno? Che paese vorresti lasciare nelle mani dei tuoi nipoti?
Vorrei che Israele fosse un unico stato democratico, non in un territorio con due stati differenti.  Questo è il sogno. Oggi, però, ci troviamo in una situazione politica particolare in cui, se da una parte l’idea dei due stati va esaurendosi , occorre constatare realisticamente che non siamo ancora pronti per rivendicare l’idea di un unico stato. Ma cosa vorrei davvero arrivare a vedere, sarebbe un qualcosa di simile a ciò che era la Comunità Economica Europea 30 anni fa: una confederazione economica. In altre parole: Israele, Palestina, Giordania, Siria, Libano a formare un territorio in cui tutti siano liberi di muoversi, di lavorare, di vivere liberamente al suo interno: una sorta di piccola Schengen medio-orientale. Questa, credo, sarebbe un’alternativa possibile ed idonea alla nostra situazione. Lo dico perché non penso che la soluzione dei nostri problemi si possa trovare all’interno dei confini di un unico stato; sono tutti problemi regionali (acqua, sicurezza, sviluppo, rifugiati), che non possono essere circoscritti al  territorio israeliano-palestinese. Bisogna guardare a un’unità più vasta, che comprenda anche i paesi arabi più vicini. Questo darebbe inoltre più sviluppo economico all’interno della regione. Peccato che, purtroppo, nessuno stia riflettendo e lavorando seriamente a questa idea.

Che cosa significa l’uso del bulldozer in un contesto di guerra? Che messaggio trasmette?
Nel contesto del conflitto che stiamo vivendo, i messaggi che vengono trasmessi sono essenzialmente due; il primo è: «Noi siamo al potere e non abbiamo bisogno di voi. Nessun discorso di uguaglianza, non siamo soci… questo è il nostro paese». Il secondo, conseguenza del primo, è: «Fuori di qui!».
 Se tu neghi una casa ad una persona, è come se gliela negassi anche collettivamente, neghi a questa persona il diritto di appartenere a una comunità, il diritto di avere una patria. Questo è il messaggio di fondo che si vuole trasmettere se si demolisce la casa di un altro. La politica delle demolizioni portate avanti dal governo israeliano rappresenta in un certo senso la vera essenza del conflitto. Dal 1967 ad oggi Israele ha demolito più di 24 mila abitazioni palestinesi nei territori occupati. Il nostro lavoro per la riconciliazione consiste oggi soprattutto in questo aspetto. Quando noi ricostruiamo case lo facciamo anche in vista dell’avviamento di un processo di riconciliazione… Diciamo che il nostro lavoro di riconciliazione è oggi politico: consiste nell’essere presenti, nell’aiutare, appoggiare, ma sul territorio consiste nel resistere fisicamente alla demolizione. Resistiamo, ci incateniamo fisicamente alle case perché non vengano distrutte e per questa ragione veniamo anche arrestati… Inoltre, raccogliamo dei fondi per ricostruire case che sono state demolite. È un’azione pacifica di resistenza, non un atto militare. Negli ultimi 10 anni abbiamo ricostruito 165 case, siamo palestinesi e israeliani, uniti in un atto politico e non-violento di resistenza. Vi sono case che sono state distrutte anche due, tre, volte e noi ogni volta le ricostruiamo. Forse non si può materialmente parlare di riconciliazione, ma si tratta, comunque,  diun tentativo per mantenere viva la solidarietà, la nostra voglia di vivere e lavorare insieme. Quando intravedi una soluzione politica dei conflitti allora anche la riconciliazione diventa possibile; i palestinesi vedono che vi sono israeliani che hanno voglia di impegnarsi per una pace giusta. Senza questo ponte politico fra le due parti non credo che si possa arrivare un giorno a parlare di riconciliazione. 

Di Ugo Pozzoli

Ugo Pozzoli




Futuro: sempre più donna

Ben tre Obiettivi del millennio riguardano la situazione femminile: oltre
ad essere vittime principali della crisi economica, le donne continuano
ad essere discriminate ed escluse dalle risorse fondamentali per lo sviluppo, nonostante stiano dando prova che il futuro del mondo è nelle loro mani.

Il Comitato Onu per l’Eliminazione delle discriminazioni contro le donne ha espresso grave preoccupazione per l’impatto della crisi economica sui diritti delle donne e delle bambine. Il Comitato teme l’incidenza di fattori negativi, quali l’aumento della disoccupazione femminile, la diminuzione del reddito, l’acuirsi della violenza domestica, il regresso nel campo dell’educazione e della salute, a causa dei minori investimenti sociali.
La crisi si abbatte soprattutto sulle donne perché, da sempre, esse sono la maggioranza dei poveri, degli analfabeti e degli affamati. La popolazione femminile continua a rimanere esclusa da risorse fondamentali per lo sviluppo, come il credito, la terra, la formazione e la tecnologia.
Secondo l’Ifad (l’agenzia dell’Onu per il cibo e l’agricoltura) nell’ultimo decennio la partecipazione delle donne al lavoro agricolo, a causa dei conflitti e della migrazione maschile, è aumentata di un terzo; in Africa il 30% delle piccole attività agricole è condotto da donne ed esse producono ben l’80% del cibo, ma non possiedono titoli di proprietà.
Anche nei paesi ricchi le donne subiscono discriminazioni nel lavoro e nelle retribuzioni: nell’Unione Europea la differenza salariale tra maschi e femmine è in media del 17,4%, provocando un maggiore rischio di povertà per le lavoratrici, soprattutto se sole o in età avanzata.
Nelle «zone franche» del Centro America o dell’Asia, che foiscono manufatti ai mercati del Nord, le donne lavorano fino a 14 ore al giorno, prive di tutele sindacali, lontano dalle famiglie, spesso vittime di abusi e incidenti.
I crimini transfrontalieri, esplosi con la globalizzazione, colpiscono soprattutto le donne: l’Ufficio Onu contro la droga e il crimine (Unodc) ha da poco presentato il primo Rapporto sulla tratta degli esseri umani: la maggior parte sono donne, vendute e comprate per lo sfruttamento sessuale o per il lavoro forzato.
La discriminazione contro le donne è connaturata ai processi economici e sociali che generano o accentuano le ingiustizie, ma almeno non è più stabilita per legge: la Convenzione delle Nazioni Unite contro ogni forma di discriminazione contro le donne, infatti, è stata firmata da 185 paesi su 192.

La condizione delle donne è talmente importante per il progresso economico e sociale che tre degli otto Obiettivi di sviluppo del millennio riguardano specificatamente le donne: il secondo che punta all’istruzione per tutte le bambine del pianeta, il terzo che prefigura una piena equiparazione e partecipazione delle donne, il quarto che si focalizza sulla salute delle madri e delle partorienti.
All’ultimo summit economico di Davos, è stato presentato l’indice della disparità di genere, il Global Gender Gap, che tiene conto di 4 fattori: partecipazione economica, educazione, potere politico, salute e aspettativa di vita; sono stati misurati 115 paesi e nella maggioranza di essi la condizione delle donne sta migliorando, in 22, tuttavia, sta peggiorando.
Nonostante un ambiente sfavorevole, talvolta ostile, le donne riescono a diventare leader politici, animatrici di movimenti locali e mondiali, protagoniste di progetti economici di successo.
Ovunque, sono le ideatrici e le promotrici di iniziative straordinarie che si ispirano ai valori dell’innovazione, della partecipazione, della promozione del bene comune. Ormai è a tutti nota l’esperienza del microcredito della Grameen Bank: milioni di donne in Bangladesh, uno dei paesi più poveri del mondo, grazie a piccoli prestiti riescono ad avviare attività produttive i cui benefici ricadono sulle loro famiglie e sull’intera comunità.
Esistono migliaia di esperienze simili in tutti i paesi del mondo e le protagoniste sono quasi sempre le donne.
Ho partecipato ai diversi World Social Forum che si sono celebrati nei 5 continenti dal 2001 a oggi: la presenza delle reti femminili, soprattutto africane, latinoamericane e asiatiche è sempre formidabile: donne coraggiose e tenaci, che non si scoraggiano di fronte agli enormi problemi dei loro paesi, ma continuano a lottare. Credo che il futuro del mondo sia nelle loro mani.

Di Sabina Siniscalchi

Sabina Siniscalchi




Seguire Cristo nell’islam

Mazhar Mallouhi: un musulmano discepolo e apostolo di Gesù Cristo

Scrittore ed editore arabo, Mazhar Mallouhi si definisce «musulmano sufi, seguace di Cristo»; con romanzi e teologia pratica cerca di colmare l’abisso di incomprensione tra islam e cristianesimo: partendo dalle radici mediorientali comuni alle due religioni, egli presenta Cristo senza i paludamenti religiosi e culturali occidentali con cui è associato nella mente dei musulmani.

È nato in Siria nel 1935, da una famiglia musulmana sunnita, orgogliosa della propria eredità religiosa: secondo l’albero genealogico appeso al muro, discende dal profeta Maometto. Una famiglia che ha prodotto vari chierici musulmani, attivisti politici comunisti, un folto numero di scrittori rinomati, tra i quali uno zio che ha tradotto in arabo tutte le opere del «Grande Capo» Mao Zedong… e un discepolo di Cristo: Mazhar Mallouhi, scrittore famoso anche lui.

VEDERE CRISTO
CON GLI OCCHI DI GANDHI

Avido lettore fin dall’infanzia, Mallouhi passava molto tempo da solo con i libri. Adolescente, cominciò a sentire problemi di religione, ma fu duramente scoraggiato a fare domande, poiché secondo l’islam è blasfemo porre Dio in questione. «Quando leggevo il Corano – racconta – mi raffiguravo Dio lassù in cielo, che fumava la sua pipa ad acqua. Mi aveva dato il suo libro, ma non era coinvolto nella mia vita quotidiana o nelle sofferenze umane qui in basso».
L’inquietudine spirituale portò Mallouhi a studiare le religioni orientali e poi le credenze religiose degli antichi greci e romani. La sua ricerca lo indusse a concludere che «Dio» fosse un’invenzione umana, per tacitare la coscienza dall’inferno creato dagli uomini sulla terra. Inoltre, notò che in tutte le religioni i capi predicavano cose che essi stessi non riuscivano a vivere e cercavano qualcosa senza mai riuscire a sperimentarla. E quando la famiglia gli propose di entrare a fare parte del clero islamico si rifiutò.
Benché i musulmani abbiano grande rispetto per Cristo, Mallouhi non studiò il cristianesimo: lo vedeva come uno strumento di oppressione dei colonialisti, una religione occidentale che continuava le sue crociate medioevali contro la popolazione araba. Paesi occidentali «cristiani» sostenevano a occhi chiusi le ingiustizie dello stato d’Israele contro il popolo palestinese. Notava inoltre che i cristiani chiamavano Cristo «Principe di pace», ma poi appoggiavano e facevano guerre. E diceva: «La parte più bella del vangelo, la croce, è diventata un’arma contro di noi in mano ai crociati: la croce, dove Dio aveva abbracciato l’umanità, era diventata una spada».
Durante gli anni ‘50, Mallouhi, come molti intellettuali moderati siriani, aderì a un partito politico popolare laico; cominciò a scrivere per giornali e pubblicare poesie. Iniziò pure a leggere le opere di Gandhi e fu conquistato dal suo movimento non violento e dalla sua grande devozione per Cristo come incarnazione della compassione, l’autore del Discorso della montagna. Visto con gli occhi di Gandhi, Cristo gli appariva differente da quello che aveva fino ad allora immaginato. 
«Rimasi affascinato – scrive Mallouhi – nel vedere come Gandhi avesse fatto propri i principi cristiani senza Cristo, come avesse lottato e vinto la sua battaglia contro una nazione cristiana (l’Inghilterra) senza principi cristiani». Confrontando la vita vissuta da entrambi, vita esemplare e di auto-sacrificio, dirà: «Gandhi mi ha spiegato nel modo più drammatico l’insegnamento di Cristo».
Mentre prestava il servizio militare  sulle contese Alture del Golan, Mallouhi decise di studiare la Bibbia. L’inquietudine spirituale cresceva e diventò così forte da ventilare l’idea di suicidarsi. Poi, dopo aver speso un anno a leggere le scritture, concluse che Cristo non era come gli altri leaders religiosi; sia in Gandhi che in Cristo l’insegnamento combaciava con la vita.
Benché non avesse avuto alcun contatto con una chiesa o qualsiasi altra forma di cristianesimo, Mallouhi fu attratto dalle parole di Cristo: «Venite a me voi tutti che siete affaticati e oppressi e io vi darò riposo». Il cuore gli scoppiò nel petto e gridò: «Questo Cristo è il mio Signore! Dammi questa nuova vita che prometti».
Aveva 24 anni. Mallouhi ricevette non solo nuova vita, ma il mondo intero gli cominciò a rivivere: invece di odiare la gente, ora non cercava altro che stare in compagnia.

Nuove direzioni

Da parte della sua famiglia, però, Mallouhi sperimentò immediatamente il rifiuto; uno zio tentò di sgozzarlo in pubblico, come testimonia la cicatrice al collo. Poco dopo, diventato membro attivo di un partito politico, stava per essere arrestato, ma se ne andò in esilio.
Mallouhi perseverò nella sua nuova fede: condividere con gli altri la ricchezza di Cristo era diventato il suo supremo desiderio. E cominciò a scrivere romanzi in arabo con temi spirituali, sul modello di Tolstoj e Dostojevski. La letteratura è per lui la via più naturale e uno dei metodi più efficaci per il mondo arabo, dove i racconti esercitano un fascino potente nella tradizione orientale.
Egli ha già scritto oltre una ventina di libri, che sono letti in tutto il Medio Oriente. ll suo primo romanzo, Il viaggiatore, storia del figlio prodigo impersonato da un arabo moderno, dalla prima edizione (1963) a oggi ha venduto più di 80 mila copie ed è stato letto da oltre un milione e mezzo di musulmani (si calcola che ogni libro è letto da 20-25 persone nel mondo arabo).
Nel 1975 Mazhar sposò Christine, un’australiana che ha dedicato la vita alla popolazione araba; hanno due figli. L’intera famiglia è impegnata nello stesso servizio: scrivere e pubblicare libri; insieme hanno lavorato in Egitto, Marocco, Tunisia, Siria, Giordania e infine in Libano.
E come il Mahatma Gandhi aveva presentato Cristo ai suoi correligionari indù, con lo stesso approccio Mazhar Mallouhi vive la fede in Cristo e la condivide con i suoi compagni musulmani.

Dichiarazione di pace    ai musulmani

Per comprendere meglio l’attività di Mallouhi bisogna tenere presente la sua «dichiarazione di pace ai musulmani». Sotto questo aspetto egli ha esercitato un forte influsso per portare pace e curare i contrasti tra musulmani e cristiani. Perché i musulmani riescano a vedere la vera natura di Cristo, è di cruciale importanza, secondo Mallouhi, che essi vedano prima la somiglianza tra Cristo e i suoi seguaci.
Mallouhi stesso si definisce «un musulmano che segue Gesù» e spiega che seguire Cristo nello spirito di Gandhi significa prendere ogni giorno il sentirnero dell’amore, della pace, del sacrificio e rinnegamento di se stesso. Egli stesso trasuda gentilezza, bontà, cordialità e allegria: attrae la gente come una calamita. I ragazzi lo adorano.
Ho avuto il piacere di passeggiare con lui in vecchi quartieri arabi e l’ho osservato mentre conversava con estranei: li legava a sé quasi all’istante con la sua calda e profonda umanità. È affascinante vederlo parlare e comunicare l’amabilità di Cristo a coloro che gli stanno attorno nei caffè arabi, mentre tira boccate di fumo da una pipa ad acqua e fa scorrere il rosario musulmano. In tutto il Nord Africa e Medio Oriente è conosciuto come uomo dal cuore grande.
L’esistenza dei coniugi Mallouhi è sempre aperta, col risultato che la loro casa è un continuo via vai di gente d’ogni tipo: fondamentalisti islamici, preti e suore cattoliche, pastori battisti, copti ortodossi, comunisti, rabbini giudei, baha’i e ogni sorte di stranieri occidentali.
Mentre viveva in Marocco, Mallouhi portava a casa gente trovata per la strada per nutrirla e aiutarla. A Fes, un milione e 300 mila abitanti, era conosciuto da così tanta gente, che una volta ricevette una lettera indirizzata semplicemente: «Mazhar Mallouhi – Fes».
Grazie alla sua straordinaria capacità di fare amicizia, in tutto il mondo ha centinaia di amici, di cui conosce a memoria i numeri di telefono; e li chiama regolarmente durante l’anno, si interessa di loro e promettendo preghiere. In qualunque città vada, organizza incontri settimanali che attirano intellettuali di ogni tipo.
Mallouhi vive la sua vita per gli altri. La sua gentilezza e giovialità disarmano perfino coloro che si oppongono alle sue credenze. In Egitto, una volta fu imprigionato insieme a dei fondamentalisti islamici, che gli domandarono perché fosse lì. «Perché condivido la mia fede in Cristo con altri musulmani» rispose: uno sceicco fondamentalista condivise con lui la sua coperta e un altro il cibo.
Spesso i musulmani gli dicono: «Non riesco a capirti. Perché ti metti in tanti guai per noi? Quali sono i tuoi secondi fini?». La sua risposta è semplice: «Se mi si presenta un’opportunità di fare del bene e non aiuto, è un peccato. L’opposto dell’amore è l’indifferenza».

CONDIVIDERE
LE SOFFERENZE DI CRISTO

Quando toò in patria dopo 25 anni di esilio, visse un’altra esperienza in prigione, che contribuì profondamente a fargli comprendere il significato sacrificale delle sofferenze di Cristo. Consegnatosi alle autorità, chiese che il suo caso fosse investigato, per avere l’opportunità di provare la sua innocenza. Invece, per 18 giorni fu tenuto in isolamento, in una cella sotterranea, in compagnia di topi, con una sottile coperta sul freddo pavimento di cemento.
Dio usò questa esperienza per insegnargli nuovamente ad «abbracciare le amarezze della vita, finché dalle ferite sgorgano gocce di dolcezza – testimonia Mallouhi -. Sentii come se venissi liberato dal tetro ambiente circostante e dalla prigione intea personale. Bevvi profondamente dell’amore e patimenti per noi del Padre in Cristo sulla croce».
Negli ultimi decenni si è notato un crescente interesse dei cristiani verso l’islam, insieme a sincere aperture per comprendere i musulmani. Altrettanto evidente è stato l’aumento dei reciproci dissensi: alcuni cristiani occidentali hanno cercato di demonizzare l’islam, dipingendolo come l’ultimo grande nemico da vincere.
Invece dello scontro tra cristiani e musulmani, che crea ulteriore allontanamento, Mallouhi propone un approccio opposto: egli dimostra l’importanza di costruire su valori comuni esistenti nell’islam e nella cristianità. I seguaci di Cristo devono impegnarsi in uno sforzo incondizionato per aiutare i musulmani, non per conquistarli, incarnando benevolenza, comprensione e solidarietà nello spirito di Cristo.
Proponendo rispetto e reciprocità, Mallouhi ha ottenuto una stupefacente apertura tra i musulmani verso la fede in Cristo. Per esempio, gli studenti musulmani che frequentano il prestigioso centro islamico Al-Azhar del Cairo, si sono seduti attorno a lui nel cortile della moschea mentre egli parlava di Cristo, esponendo loro le scritture.

Cristo: un mediorientale

Forse il contributo spirituale più significativo di Mallouhi è che ha spogliato Cristo delle sue bardature occidentali e lo ha presentato ai musulmani come uno che è nato, vissuto e morto nel Medio Oriente. Un Cristo così i musulmani lo possono comprendere; ed è il Cristo incontrato da Mallouhi, per cui si definisca semplicemente «un arabo siriano, seguace di Cristo», evitando l’etichetta di «cristiano».
I musulmani in generale percepiscono il cristianesimo come parte dell’agenda politica occidentale e vedono Cristo come un occidentale, senza alcuna relazione con la cultura orientale. Il cristianesimo, tuttavia, non è una fede dell’Occidente, ma ha origine nel Medio Oriente. Cristo, un mediorientale, era culturalmente molto più simile a un arabo odierno che a un cristiano occidentale.
Grazie alla sua personale esperienza, Mallouhi colma con successo questa lacuna. Quando egli divenne seguace di Cristo, i cristiani gli dissero che doveva lasciarsi alle spalle il suo passato culturale, cambiare il nome (prendere un nome «cristiano») cessare di socializzare nei caffè (principale luogo di incontro per gli arabi), non partecipare alle celebrazioni religiose della sua famiglia, stare alla larga da moschee e musulmani, cessare di digiunare, cambiare posa nella preghiera (non piegarsi o prostrarsi) e incominciare a mangiare carne suina (per dimostrare che era convertito).
Il risultato fu che, ben presto si alienò la famiglia e tutti i vecchi amici, e, ironia della sorte, non veniva del tutto accettato dalla comunità cristiana locale, poiché proveniva da un ambiente islamico.
Col tempo, tuttavia, Mallouhi si rese conto che seguire Cristo non significa rinnegare la propria lealtà alla cultura del Medio Oriente e diventare parte di una cultura straniera «cristiana». Pur essendo a servizio di Cristo, egli continua ad abbracciare le sue radici mediorientali, le stesse radici di colui che egli serve. Arrivò a capire che la sua famiglia lo rifiutava  non perché era diventato seguace di Cristo, ma piuttosto per il modo, impostogli dai cristiani, di comportarsi ed esprimere la sua nuova vita. Non era «Buona notizia» per i suoi familiari. Ai loro occhi egli stava voltando le spalle ai valori della famiglia e comunità a favore dell’individualismo occidentale, rigettava la fede monoteistica per il politeismo, e abbandonava forti tradizioni morali per stili di comportamento moralmente rilassati. Era come ribellarsi a tutti i migliori valori che gli avevano insegnato; allo stesso modo qualsiasi decente famiglia si sarebbe giustamente preoccupata.
A Mallouhi piace pregare e meditare nella quieta e riverente atmosfera di una moschea: si siede sul pavimento coperto da tappeto e legge la Bibbia. Spesso ne approfitta per far visita a sceicchi o imam suoi amici.
Mallouhi dice: «L’islam è mia eredità e Cristo è mio patrimonio»; di conseguenza ha mantenuto la sua cultura araba e islamica, pur essendo da oltre 40 anni discepolo di Cristo. La carta di identità siriana lo elenca come musulmano: il governo non permette il cambio della propria identità religiosa. Egli incoraggia i nuovi seguaci di Cristo provenienti da ambiente musulmano a non abbandonare la propria famiglia, popolo o cultura.
E sottolinea che seguire Cristo non richiede di prendere un nome cristiano, vestire in una foggia diversa, farsi il segno della croce (non usato dalla chiesa primitiva), cambiare il giorno di culto pubblico (la domenica al posto del venerdì), aderire a un rito differente in una chiesa, smettere di digiunare, mangiare cibi diversi, bere alcornolici, usare immagini di Cristo, molte illustrano un Cristo di discendenza europea.

Presentare la scrittura ai musulmani

Mallouhi spende la maggior parte del tempo ed energie nel presentare la Sacra Scrittura cristiana in modo che i musulmani la possano rispettare. A tale scopo, nel 1998, ha fondato Al Kalima («la parola» in arabo), che pubblica e distribuisce libri di carattere spirituale (vedi riquadro). I più importanti progetti editoriali di Al Kalima si concentrano nel ripresentare le scritture cristiane come scritti dell’antico Medio Oriente, come sono in realtà, riportandoli alla loro autentica origine culturale. In fin dei conti, la Bibbia non è un libro occidentale, essendo di fatto radicato nelle culture mediorientali, più antiche di quella alla base del Corano.
Per spazzare via stereotipi, vincere pregiudizi, illustrare e risolvere incomprensioni tipiche musulmane in fatto di Scrittura, Mallouhi cerca cooperazione e consiglio di influenti musulmani. Ha chiesto a centinaia di essi di leggere le scritture per identificare le difficoltà che incontrano per capire il testo; poi, in base ai suggerimenti, sviluppa un commento che risponda a tali questioni.
I primi due lavori «Una lettura orientale del vangelo di Luca» e «Genesi: l’origine del mondo e dell’umanità» (entrambi in arabo), pubblicati rispettivamente nel 1998 e nel 2001, includono testo biblico e commento mirato all’islam, che di fatto spiega le scritture e presenta Cristo nella sua realtà di mediorientale.
Termini come «messia» e «figlio di Dio» sono presentati in modo tale che i comuni lettori arabo-musulmani possano capirli nel contesto della propria cultura, aiutandoli a vedere in Cristo il compimento dell’alleanza di Dio con Abramo, considerato dai musulmani loro padre storico.
Nel 2004 Mallouhi ha pubblicato «Una lettura sufi del vangelo di Giovanni». Articoli e commenti di otto simboli o concetti chiave (in principio, vita, luce, amore, agnello, vino, acqua, pane), Gesù è presentato come il mistico definitivo e la parola vivente, mentre viene notato che molta poesia e letteratura sufi portano a Gesù Cristo e ai suoi insegnamenti.
Mallouhi cerca la collaborazione con articoli e introduzioni anche ai musulmani; uno di essi è Fadhel Jamali, ex primo ministro dell’Iraq, che nell’introduzione al Una lettura orientale del vangelo di Luca, scrive: «Noi musulmani conosciamo meno sulla fede cristiana di quanto i cristiani conoscono l’islam. Perciò io, come musulmano, vi incoraggio a leggere questo libro per capire ciò che essi credono veramente».
confezione e distribuzione
Tali pubblicazioni «orientalizzate» della scrittura sono state appoggiate da una vasta gamma di leader arabi musulmani, personalità politiche, ministri di governo, rettori e professori di università islamiche.
Oltre al contenuto dei libri, direttamente orientato ai musulmani, è altrettanto importante la confezione estea, insieme al modo in cui sono distribuiti. Per un musulmano, la sacra parola di Dio ha bisogno di essere presentata in una forma che esprima grande importanza e riverenza. Per cui le pubblicazioni di Al Kalima sono volumi elegantemente rilegati e curati nei dettagli, stampati con elaborata calligrafia arabica, come quella che i lettori arabi si spettano nelle edizioni del Corano.
Presentando le scritture come culturalmente mediorientali, Mallouhi si è guadagnato un successo e accoglienza senza precedenti. In una recente fiera del libro arabo, in un paese nordafricano con pochissimi cristiani locali, Una lettura orientale del vangelo di Luca è stato il best seller. Dopo averlo letto, un professore musulmano ha commentato: «Per la prima volta vediamo che Cristo ha radici mediorientali, imparentato alla nostra stessa cultura. Storicamente abbiamo ricevuto il cristianesimo solo attraverso la visione imposta dai colonialisti occidentali. Vogliamo che sia letto da tutti gli studenti nel nostro Dipartimento di studi islamici». Attualmente è usato come libro di testo di religione comparata in due università arabe.
Oltre alla presentazione e confezione estea delle scritture, Mallouhi è fortemente convinto che bisogna curare la distribuzione: deve avvenire esclusivamente attraverso canali di vendita legali, in opposizione a qualsiasi tipo di contrabbando o gratuita distribuzione di massa, come avviene per molta letteratura cristiana di produzione occidentale.
Tutte le pubblicazioni di Al Kalima sono state approvate dai censori governativi, per cui vengono vendute legalmente e apertamente attraverso normali punti vendita: dagli scaffali di supermercati, alle fiere del libro e librerie arabo-musulmane. In questo modo le scritture sono ufficialmente accettabili e largamente disponibili nella maggior parte dei paesi considerati «chiusi» alla Bibbia.
Da notare infine, che il più grande sostegno finanziario per tali pubblicazioni viene dagli stessi lettori musulmani, poiché i proventi dalle vendite sono reinvestiti per assicurare ristampe e ulteriori pubblicazioni.

Come Mahatma Gandhi ha permesso agli indiani di visualizzare Cristo che cammina lungo le loro strade dell’India, così Mazhar Mallouhi è impegnato nel restituire Cristo alle sue origini culturali, che cammina a suo agio per le strade del Medio Oriente. La sua visione per fare spazio alla parola di Dio nel cuore del mondo musulmano aiuta migliaia di musulmani a comprendere il vangelo e permettendo a molti di trovare la vera e duratura riconciliazione nel Principe della pace mediorientale. 

Di Paul-Gordon Chandler

Al Kalima

A l Kalima (in arabo: la parola) è frutto dell’intuizione dello scrittore arabo Mazhar Mallouhi e della sua moglie australiana Christine. Avendo una estesa rete di amici arabo-musulmani, avevano compreso che molti di essi volevano capire l’insegnamento della Bibbia, ma le pubblicazioni disponibili in arabo erano quasi nulle. Nel 1998, per rispondere a questa necessità, è nata Al Kalima, registrata l’anno seguente nel Regno Unito come casa editrice e di distribuzione, con base a Beirut.
La prima pubblicazione di Al Kalima è stato un commento al vangelo di Luca: «Una lettura orientale del vengelo di Luca». L’opera fu accolta con calore dai lettori arabi: in pochi anni sono state vendute oltre 50 mila copie e fatte varie riedizioni. Seguirono altri commenti biblici, «Genesi: origine del mondo e dell’umanita», «Una lettura sufi del vangelo di Giovanni», salutato da un giornale di editori arabi come libro dell’anno 2004, e «Il vero significato del vangelo di Cristo», che presenta i quattro vangeli e Atti degli apostoli, insieme alle rispettive introduzioni, articoli su temi-chiave come «Figlio di Dio» e ispirazione, note a piè di pagina sull’ambiente culturale per aiutare i lettori a comprendere il testo sacro. 
Nel piccolo catalogo di Al Kalima figurano cinque romanzi cristiani scritti da Mazhar Mallouhi: «Il fuggitivo» (144 p.) è la parabola del figliol prodigo ambientata nel mondo arabo moderno; e quattro sono commenti biblici a Luca, Genesi e Giovanni; «Perduta nella città» (424 p.) narra la storia di una donna, vittima della società, che ricostruisce positivamente la sua vita, superando le sue sofferenze e desideri di vendetta; «Momento di morte» (80 p.), una riflessione sulle scelte definitive dell’uomo, analizzando il significato dell’esperienza della sua fanciullezza, in cui ha ricevuto la vita attraverso il sacrificio di suo padre; «La lunga notte» (456 p.), ramanzo ambientato nella lotta della Siria contro il colonialismo, descrive la differenza tra diventare cristiani per scelta e l’essere nato in una famiglia cristiana; «Il fuggitivo» (190 p.) è uno dei più importanti romanzi spirituali in arabo, in cui viene descritta una nuova prospettiva sulla lotta tra bene e male, elaborando il concetto di rinascita nello spirito, che vive nel perdono e cresce nell’amore.

In arabo Al Kalima ha pubblicato altri libri vari, come traduzioni di racconti di Tolstoj e Dostojevski, testimonianze di palestinesi nel loro cammino spirituale verso la riconciliazione e lotta per la giustizia, e tre libri di carattere devozionale: «Fame di Dio» stimola il desiderio di Dio attraverso il digiuno, la preghiera e il rifiuto di ogni idolatria; «La passione di Cristo» risponde al perché della passione e morte di Cristo e ad altre domande; «Il maestro» racconta la vita di Cristo dall’inizio della sua missione fino alla sua morte e risurrezione.
La casa editrice ha pubblicato anche libri scritti in inglese da Christine Mallouhi, i più famosi dei quali sono: «Waging Peace on Islam» (dichiarare pace all’islam) e «Miniskirts, Mothers and Muslims» (minigonne, madri e musulmane).
Dei coniugi Mallouhi si è interessata anche la televisione Al Jazeera, che ha recentemente messo in onda un documentario sulla loro attività di scrittori ed editori di libri cristiani.

Paul-Gordon Chandler




G8, non basti più

C’è un altro modo di pensare, e agire

L’incontro del G20 a Londra non è stato così negativo.
   Almeno a parole. Intanto la Commissione speciale
     delle Nazioni Unite propone un gruppo G192.
       Per togliere il monopolio decisionale al G8.

Poteva andare peggio, invece il G20, che si è svolto a Londra all’inizio di aprile, ha segnato, almeno nelle parole, un cambio di rotta.
Un invitato eccellente come il Segretario Generale dell’Onu Ban Ki Moon si è detto impressionato dal forte senso di unità e di solidarietà che ha caratterizzato l’incontro.
Il G20 è composto dai governi dei venti paesi più potenti del mondo: quelli che dalla seconda guerra mondiale guidano il sistema economico e quelli che sono entrati nel club in anni recenti, in virtù dei loro strepitosi tassi di crescita.
I primi non hanno saputo prevenire la crisi, i secondi non la sanno bloccare.
Finora i vari incontri dei «grandi» (G20, G7, G8) non hanno preso decisioni vere sull’economia e la finanza: i sorrisi e le foto di gruppo hanno mascherato a malapena la distanza delle posizioni e l’assenza di soluzioni condivise.
Un vuoto decisionale reso ancora più grave dalla presunzione di proporsi come l’unico luogo deputato a trattare i problemi economici del mondo.
Il G7 (allora G5) è stato inventato a metà degli anni Settanta, proprio quando le Nazioni Unite stavano mettendo a punto il progetto di un «Nuovo ordine economico internazionale».
La crisi petrolifera scoppiata nel 1973 aveva fatto vacillare il  modello di crescita senza limiti e messo in discussione i rapporti di forza tra paesi produttori di materie prime e paesi industrializzati.
I paesi più potenti, vedendo minacciata la loro posizione dominante, hanno deciso di avocare a sé ogni negoziato sulle questioni economiche e finanziarie. Il Fondo Monetario e la Banca Mondiale, governati da quegli stessi paesi, hanno avallato la decisione.
Il confronto e le decisioni sulla finanza e l’economia sono state definitivamente sottratti all’Onu e alle sue agenzie sul commercio (Unctad), il lavoro (Ilo), lo sviluppo (Undp), l’ambiente (Unep).
Il disastro in cui ci troviamo comprova che quella scelta non fu né efficace né lungimirante, ma proprio una congiuntura così drammatica ci impone di andare oltre le recriminazioni.
È in gioco la «stabilità e l’equità» delle relazioni economiche e finanziarie inteazionali, come ha ben intuito la Commissione speciale, costituita lo scorso gennaio dal presidente dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite e presieduta dal premio Nobel Joseph Stiglitz.
Il G8 rappresenta solo il 13% della popolazione mondiale e non può decidere per tutti i popoli del pianeta. Bisogna cambiare metodo, per questo la Commissione fa riferimento al G192, vale a dire a tutti i paesi membri dell’Onu: solo una proposta di riforma allargata e condivisa, infatti, può produrre un cambiamento reale e profondo.

La Commissione ha un programma di lavoro serrato che prevede il confronto con il G20 e il G8, l’interlocuzione con le principali istituzioni inteazionali, il dialogo con il settore privato e la consultazione della società civile.
Si stanno analizzando quattro grandi filoni:  regole finanziarie, questioni multilaterali, questioni macroeconomiche e riforma dell’architettura finanziaria globale, al fine di sottoporre una proposta di riforma all’high-level conference che si terrà al palazzo di vetro dall’1 al 4 giugno.
Lo scopo di questo processo – secondo il documento iniziale – è quello di «riportare la finanza alla sua funzione originaria per sostenere l’economia reale e gestire i rischi in modo più equo; modificare i sistemi e le strutture di regolazione verso meno speculazione e maggiore stabilità, sostenere con la finanza gli obiettivi dell’occupazione dignitosa e dell’economia verde».
Anche Banca Etica ha preso parte alla consultazione della società civile, a cui hanno partecipato circa cento grandi reti e organizzazioni inteazionali.
Il documento conclusivo di tale consultazione contiene, per così dire, le ricette della società civile per uscire dalla crisi; molte sono le questioni sollevate e altrettante le proposte avanzate: dall’abolizione del sistema bancario ombra, al divieto di utilizzare i derivati per beni vitali come il cibo e l’energia, dalla canalizzazione delle rimesse degli immigrati  per progetti sostenibili all’introduzione di tasse globali per finanziare gli obiettivi del millennio.

I suggerimenti di Banca Etica riguardano, in particolare, l’inclusione nella valutazione del rischio degli aspetti sociali ed ambientali (come fa la banca con il proprio modello di rating), prevedere negli accordi di Basilea un regime specifico per le imprese sociali e le cornoperative, ridurre la portata del segreto bancario, sostenere con una normativa adatta il microcredito e la microfinanza.
Non possiamo prevedere l’esito del processo in corso: navighiamo a vista in un mare in tempesta, ma l’incontro del G20 a Londra sembra andare nella giusta direzione:  maggiori controlli sui mercati finanziari, un limite ai paradisi fiscali, investimenti straordinari non solo per soccorrere le banche, ma per salvare i lavoratori e i cittadini più deboli. La stessa idea di un governo pubblico dell’economia, è rivoluzionaria dopo venticinque anni di liberismo selvaggio. 
Speriamo che il G8 che si terrà in Italia il prossimo luglio non faccia marcia indietro.

Di Sabina Siniscalchi

Sabina Siniscalchi




Interrogarsi sull’aiuto

L’Osservatorio italiano sulla salute globale (Oisg), nel suo 3° rapporto, presenta lo stato del mondo letto attraverso uno dei diritti umani più basilari: la salute. Speciale attenzione è riservata agli aiuti umanitari, che alleviano i danni senza rimuovee le cause, e agli aiuti inteazionali, che spesso finiscono in tasche sbagliate o servono a fini diversi.

C ooperazione internazionale, diritto alla salute, salute globale, aiuti allo sviluppo, sistemi sanitari, quadro delle malattie, strategie, analisi critiche, possibili strade. Sono alcuni degli argomenti e degli spunti di riflessione che trovano spazio nelle oltre 350 pagine del 3° Rapporto dell’Osservatorio italiano sulla salute globale (Salute globale e aiuti allo sviluppo. Diritti, ideologie, inganni, Edizioni ETS, Pisa 2008).
«L’aiuto allo sviluppo in campo sanitario dovrebbe intervenire per fare fronte alle impressionanti diseguaglianze “globali” nella salute», si legge nelle prime righe della prefazione al volume. Diseguaglianze cui era stato dedicato il secondo Rapporto dell’Osservatorio italiano sulla salute globale e che trovano nuovamente spazio in questo terzo libro, dando un significato, rappresentando un obiettivo (la loro eliminazione) e impregnando i diversi aspetti dell’aiuto allo sviluppo e della situazione sanitaria mondiale, questa volta protagonisti del volume.

Lo sguardo alla storia
per capire
L’Osservatorio italiano sulla salute globale (Oisg, http://www.saluteglobale.it) è una rete di operatori e ricercatori che promuove il diritto alla salute a livello globale e fornisce strumenti di analisi e valutazione, quali, per esempio, i rapporti pubblicati periodicamente. Già nella prefazione al terzo Rapporto, a firma di Gavino Maciocco (Dipartimento di Sanità Pubblica, Università di Firenze) e Adriano Cattaneo (Istituto per l’Infanzia Burlo Garofolo, Trieste), vengono toccati diversi aspetti della salute mondiale e proposti elementi di stimolo alla riflessione, grazie anche a una veloce panoramica storica della situazione sanitaria nel mondo.
Questo a partire dal 1978, anno della Dichiarazione di Alma Ata, documento che, «sottoscritto da quasi tutti i paesi del mondo, segnava una svolta per le politiche sanitarie globali». Una svolta che avrebbe dovuto portare a buon fine l’impegno per una salute accettabile per tutti, con una scadenza prefissata e ben precisa (il 2000), con un risultato definito raggiungibile.
Così non è stato e, a 30 anni da tale Dichiarazione, il terzo Rapporto dell’Oisg traccia un quadro della situazione sanitaria e cooperazione in ambito sanitario; un quadro che, nelle speranze di quel documento di Alma Ata, avrebbe dovuto essere assai diverso e già da qualche anno: «Così, se nel 1978 appariva realistico l’obiettivo di garantire entro l’anno 2000 a tutti gli abitanti del pianeta il libero accesso ai servizi sanitari essenziali, poco tempo dopo ciò divenne un semplice miraggio per almeno l’80% della popolazione mondiale», scrivono ancora Maciocco e Cattaneo.
Ecco quindi che lo sguardo sul passato è di stimolo a muovere passi efficaci e adeguati da subito e a programmare il futuro. Non dunque, scorrendo i diversi capitoli del Rapporto, una carrellata disfattista della situazione attuale di salute globale e degli interventi di aiuto allo sviluppo posti in atto nel corso degli anni, ma un invito a conoscere la realtà del passato e quella presente e ad agire senza aspettare.
«Il destino di molte delle inaccettabili diseguaglianze nella salute globale, e dei sistemi sociali e sanitari che le sostengono, dipenderà dalle politiche che adotteranno negli anni a venire i paesi ad alto reddito» si legge ancora nella prefazione che, a partire da un articolo pubblicato sulla rivista medica Lancet (Stckler D, McKee M. Five metaphors about global-health policy. Lancet 2008; 372: 95), riporta subito dopo le «cinque possibili metafore sulla salute globale», con cinque possibili diverse impostazioni nell’aiuto allo sviluppo: una salute globale vista come politica estera, sicurezza, carità, investimento, salute pubblica. Gli autori pongono una domanda: «E se riuscissimo a far muovere il pendolo della salute globale verso la quinta metafora e la salute pubblica?».

Un tema,
tante declinazioni,
diversi autori
Il libro è il risultato del lavoro di 39 autori, che ha portato alla stesura dei diversi capitoli, suddivisi in due parti principali. Una prima sezione è espressamente dedicata al tema che dà il titolo alla pubblicazione, l’aiuto allo sviluppo in campo sanitario; la seconda parte presenta un aggioamento della situazione sanitaria mondiale, dal punto di vista delle politiche messe in atto, di alcune malattie e dei sistemi sanitari di quattro nazioni.
Nella prima parte, il tema dell’aiuto allo sviluppo in ambito sanitario viene affrontato nei suoi diversi aspetti, a partire ancora una volta, e prima di tutto, dall’evoluzione delle politiche sanitarie a 30 anni dalla Dichiarazione di Alma Ata. Nello scorrere delle pagine, attraverso aspetti storici, numeri, descrizioni, elementi economici, esempi, vengono approfonditi temi quali i livelli essenziali di assistenza, l’aiuto pubblico allo sviluppo, la cooperazione sanitaria.
In questi ultimi due ambiti, per esempio, viene fornito il quadro di «proliferazione e frammentazione nella cooperazione internazionale», ovvero l’aumento negli anni del numero di donatori (proliferazione) e delle attività finanziate da un donatore (frammentazione), e di come questi due aspetti abbiano reso maggiormente complicato lo scenario generale.
Ma vengono riportati anche dati sulle promesse non mantenute da parte dei paesi donatori, o sull’importanza della valutazione dell’efficacia degli interventi. A quest’ultimo tema viene dedicato, nelle pagine successive, un intero capitolo, che si occupa proprio dei possibili sistemi di valutazione degli interventi effettuati, considerando, per esempio ma non solo, la rilevanza, l’efficacia, l’efficienza, l’impatto e la sostenibilità.
Sezioni con panorami generali sulla situazione e sulle note dolenti o da migliorare si alternano dunque ad altre con possibili risvolti pratici, il tutto sempre con il supporto della letteratura. Inoltre, nel susseguirsi dei diversi capitoli, temi comuni vengono ripresi, approfonditi da altri punti di vista, allargati con prospettive differenti, con l’aiuto pubblico allo sviluppo come filo conduttore, su cui si agganciano e intrecciano i diversi elementi, presentati e poi ripresi nelle singole situazioni e contestualizzati nei vari ambiti.
Da un quadro generale della cooperazione sanitaria si passa, per esempio, a situazioni concrete quali la cooperazione italiana o quella cinese; dalle questioni in sospeso dell’aiuto allo sviluppo ai possibili esempi di valutazione prima accennati; dalle diseguaglianze nella distribuzione delle malattie sul pianeta e delle forze messe in campo come operatori sanitari all’approfondimento sulle migrazioni di personale sanitario, completato dal panorama del personale infermieristico straniero in Italia.
A proposito di tali diseguaglianze, si legge nel Rapporto, citando come fonte l’Organizzazione mondiale della sanità, come le Americhe con il 10% del carico mondiale di malattie abbiano il 37% di operatori sanitari del mondo e oltre il 50% della spesa sanitaria mondiale, mentre l’Africa, con il 24% del carico di malattie, abbia il 3% di operatori sanitari e meno dell’1% della spesa sanitaria mondiale.

Una visione complessiva:
dal generale al particolare
e ritorno
Tante informazioni, come si diceva, di tipo numerico, economico, di efficacia o meno, successo e insuccesso che mostrano la complessità dell’aiuto umanitario, di come questo abbia diverse sfaccettature e diversi elementi da tenere presenti, per trovare la strada per proseguire.
Nel capitolo intitolato Gli aiuti umanitari: tra carità, ideologia, inganno, si legge che «l’aiuto umanitario è per definizione un indicatore di insuccesso, perché arriva sempre quando il disastro ha già avuto luogo; il suo unico obiettivo è alleviare e ridurre il danno, a volte solo a breve termine». Un capitolo che conclude sottolineando: «Gli aiuti tendono gradualmente a rendere i paesi che ne dipendono incapaci di affrontare le proprie crisi. Inoltre, l’aiuto umanitario si focalizza spesso sul diritto alla sopravvivenza, dimenticandosi del diritto alla vita… L’aiuto umanitario infatti tende a soccorrere le popolazioni senza interrogarsi troppo sulla complessa rete di cause che portano alla crisi umanitaria. Non agisce, cioè, sui meccanismi che danno origine al bisogno di aiuti umanitari».
Una complessa rete di cause che le diverse pagine del libro desiderano approfondire, con i contributi, sia generali sia particolari, che si addentrano nelle realtà di paesi o di malattie, da cui emerge l’importanza di una visione globale, complessiva, che tenga conto dei diversi elementi e fattori in gioco. Una visione che, ritornando alla domanda provocazione posta nella prefazione, pensi alla salute globale come salute pubblica.
Il legame con la realtà di cui si sta parlando emerge poi forte dall’alternarsi di capitoli di approfondimento dei quadri generali e globali con quelli sia di applicazione a situazioni concrete sia di testimonianza di chi vive in prima persona l’aiuto allo sviluppo da ambo le parti. Vi sono infatti pagine dedicate alla visione di interventi sanitari, progetti da parte di chi li riceve, con esempi di esperienze in Nicaragua, Nepal, Guinea Bissau, Afghanistan, Mongolia. E subito dopo si succedono tre capitoli che riportano l’esperienza sul campo di tre organizzazioni non governative impegnate in ambito sanitario (Medici senza frontiere, Medici con l’Africa Cuamm ed Emergency), in cui viene espresso il loro punto di vista sull’aiuto allo sviluppo.
Ancora una volta esempi concreti cui il volume si richiama, accanto alle analisi, ai numeri presentati, alla realtà sanitaria nel mondo e alle possibilità di intervento.

L’aggioamento
sulla salute globale
Un quadro della salute e delle malattie che trova spazio anche nella seconda parte del Rapporto, specificamente dedicata ad attualità e aggioamenti sulla salute globale. In questa parte vi sono dunque informazioni sulla situazione sanitaria mondiale attuale, suddivise in tre ambiti ben definiti: le politiche di salute globale, lo stato di salute del mondo (con capitoli in particolare su: malaria, tubercolosi, e Aids; malattie dimenticate; malattie della bocca e dei denti; malattie cardiovascolari) e infine i sistemi sanitari (con un aggioamento sulla situazione in Stati Uniti, Cina, Cuba e Brasile).
Il quadro è complesso, ricco d’informazioni, spunti, stimoli, critiche, provocazioni, inviti. Materiale su cui riflettere in modo costruttivo, da cui partire per elaborare nuove strategie e progetti. Questo terzo Rapporto dell’Oisg, concludono nella prefazione Maciocco e Cattaneo, è dedicato agli studenti universitari di svariati corsi di laurea: non solo discipline sanitarie in genere, ma anche per esempio scienze politiche o sociologia, perché il tema è globale e, come si diceva, l’invito è ad affrontarlo da tutti i suoi punti di vista, con la salute e le malattie inserite nel contesto della vita, della società, del mondo e non disgiunte da tutti i fattori che le influenzano.
Il messaggio finale è positivo, e vuole ancora una volta fornire nuove spinte, nuovi impulsi, a partire proprio anche dagli studenti, in prima persona promotori di iniziative e interessati ai temi di salute globale: «Questa crescente sensibilità verso i temi della salute pubblica e della giustizia sociale è un segnale di speranza e un forte stimolo per la nostra associazione a proseguire e, se possibile, a incrementare, l’attività di analisi, di studio, di disseminazione e promozione». Una sensibilità e un’attenzione che portano ad aprire gli occhi sulla realtà. Una apertura che può portare allo studio e alla realizzazione di un aiuto allo sviluppo efficace, sostenibile e condiviso.

Di Valeria Confalonieri

Valeria Confalonieri




Tra aquile e merli neri

Kosovo /1

«Tutto quel che scopro mi aiuta a ricostruire questo grande rompicapo, il cui punto centrale è:
come ha potuto l’Umanità arrivare a tale violenza fisica e simbolica nel cuore dell’Europa
colta e civilizzata?
Non ho risposte; sento che dovrò dedicare buona parte della mia vita a questo quesito,
per capirci molto poco…
Concludo dicendo che sono l’unico responsabile per qualsiasi equivoco
e/o errore di interpretazione sul conflitto».
                                                                                          Marcos Reigota

G li uccelli devono sempre aver avuto un significato speciale da queste parti. Il Kosovo, in serbo, è la terra dei «merli neri»; mentre gli albanesi sono gli shqiptare, «figli dell’aquila». Nei nomi propri, invece, prevalgono «alba» (Agim)e «tramonto» (Agon).
Case distrutte e altre da poco ricostruite, apparentemente mai abitate, si susseguono lungo la strada che dall’aeroporto porta al centro di Pristina. Poi Viale Bill Clinton, dove l’immagine del «liberatore» sulla facciata di un palazzo stile soviet, dà il benvenuto a chi entra in città.
Ai kebab-tore (negozi di kebab), c’è la fila fuori e i bar sono pieni di giovani che sorseggiano un espresso e fumano senza fretta . Dall’alto della collina, ove si trova il quartier generale degli organi deputati al mantenimento della pace (Unmik, Missione delle Nazioni Unite in Kosovo) e alla implementazione della legge (EuLex, programma dell’Unione Europea per «portare e radicare lo stato di diritto in Kosovo) si ha una bella panoramica della città: le moschee con i minareti argentei, la chiesa ortodossa e il terreno ove sorgerà la nuova cattedrale, tutto avvolto in una luce rosata.
Ma è l’inquinamento della centrale elettrica di Obeliq a rendere così belli i tramonti invernali. Le 2 ciminiere concentrate in questa cittadina alla periferia di Pristina producono da sole emissioni 74 volte superiori a quelle ammesse dagli standard europei. Nel 2003 una grande quantità di fenolo si riversava dagli impianti della centrale nel fiume Ibar e nelle falde acquifere della regione di Kraljevo (Serbia centro-meridionale). Le autorità serbe gridarono al sabotaggio, ma è più facile attribuire l’accaduto all’abbandono in cui versano strutture che dovrebbero essere già da tempo reperti di archeologia industriale.
Obeliq è anche uno dei luoghi del «Ritoo»: nel 1999, quando le truppe serbe abbandonarono la regione, più di 230 mila persone si diressero in Serbia e Montenegro. Tra i profughi anche molti Rom, che fuggivano temendo ritorsioni da parte degli albanesi che li accusavano di sostenere i serbi. Ora trovano accoglienza al Plementina camp, proprio di fronte alla centrale.

Qui incontriamo Orest, che apre la sua casa nel campo agli inteationals, come i locali chiamano i membri delle innumerevoli agenzie governative e non governative che negli anni della guerra si sono installate in Kosovo. Togliamo le scarpe e ci sediamo sul tappeto insieme a musicisti che improvvisano, con trombe e fisarmoniche, le melodie tradizionali con cui si accompagnano i giovani promessi alle nozze.
Multi-etnicità e donatori sono concetti chiave in Kosovo. Il piano Ahtisaari metteva un forte accento sulla formazione di uno stato multietnico, e la costruzione di una società democratica e fondata sulla diversità è dichiarata una priorità dall’autoproclamato neo-governo, che freme per il riconoscimento pieno del Kosovo e il suo ingresso in Europa. Ma, a parte le dichiarazioni di intenti, gli sforzi di politici illuminati e le buone intenzioni della gente comune, quando si transita per una enclave serba si ha l’impressione di varcare una frontiera.
Gracanica è uno degli antichi monasteri, ora sotto la protezione di un drappello di soldati e soldatesse svedesi della Kosovo Force (Kfor) forze armate guidate dalla Nato che dal 1999 presidiano il territorio kosovaro per «garantire la sicurezza e la libertà di movimento dei serbi». Qui le indicazioni sono soltanto in serbo; i passanti (i serbi che sono rimasti o quei pochi che sono tornati) abbassano lo sguardo; e la nostra macchina targata KS tira dritto senza indugiare. La targa con l’abbreviazione KS, istituita dall’Unmik, permette di viaggiare soltanto in Kosovo, Albania e Macedonia.
Arriviamo a Mitrovica, dove la parte nord e sud della città sono separate non solo dal tristemente noto «Ponte sul fiume Ibar» – immagine quotidianamente propinataci nei mesi della guerra da tutti i telegiornali – ma anche da una sottile striscia di terra di nessuno. Bisogna lasciare la macchina e continuare a piedi, oltre il posto di blocco, dove un altro soldato della Kfor si scalda annoiato le mani, sullo sfondo di un cielo grigio infuocato per le esalazioni della Trepca, industria di estrazione e lavorazione del piombo che dava lavoro a centinaia di persone ora chiusa.
Qui i tassi di inquinamento sono almeno 200 volte superiori ai limiti fissati dall’Organizzazione mondiale della sanità.

Il rappresentante serbo dell’organizzazione internazionale per conto della quale mi trovo in Kosovo, forse l’unica a operare anche a Mitrovica, ci viene incontro sorridente e stringe forte le mani a me e ai colleghi kosovari. Incontriamo anche Svetlana, la responsabile del centro di riabilitazione per ragazzi disabili. Il suo volto si fa teso quando ci racconta che il centro non riceve alcun sostegno dalle autorità locali serbe che, per l’educazione e l’assistenza sanitaria, dipendono direttamente da Belgrado. Il funzionamento del centro è garantito solo dall’organizzazione che ha la sede a Pristina.
Se hanno problemi di salute, i serbi di Mitrovica preferiscono andare sino a Belgrado, mentre, mi dicono i colleghi kosovari, gli albanesi di Mitrovica sud non mettono piede in un ospedale serbo dai tempi dell’apartheid imposto da Milosevic a partire dal 1989.
Alcune organizzazioni non governative hanno profuso notevoli sforzi per ricreare le condizioni per una pacifica convivenza, puntando soprattutto sulle nuove generazioni: progetti di intercultura – uno chiamato emblematicamente Mozaik – nelle scuole, a partire dall’asilo, perché i futuri cittadini del Kosovo siano plurilingue e multiculturali. In classe si celebrano le feste tradizionali degli uni e degli altri e c’è una maestra per ognuna delle comunità rappresentate. Ma è raro vedere bambini serbi e albanesi giocare insieme: l’esistenza di istituzioni parallele fa sì che questi frequentino strutture scolastiche separate. Nelle classi e scuole albanesi regolari, poi, il serbo non si studia più, così che già la prossima generazione non sarà più in grado di capire la lingua delle altre comunità.

Se prima della guerra non era raro che uomini albanesi sposassero donne serbe, bosniache o turche, adesso ciò avviene di rado, perché non ci sono più gli spazi in cui due giovani appartenenti a gruppi diversi possano incontrarsi. Per fortuna c’è il bar Trafi, il più trendy della capitale, dove si ritrovano proprio tutti davanti ad un buon raki, acquavite aromatizzata con anice, di origine turca.
Questa «meglio gioventù», che a meno di 30 anni ha già visto mezzo mondo e che è tornata «in patria» per cercare un lavoro dignitoso, rappresenta forse l’unica speranza perché la costruzione di una società multietnica e tollerante non resti soltanto vuota retorica e strumentale propaganda politica.
Lasciandosi alle spalle i miti e gli odi del recente passato, i ragazzi di Pristina riusciranno forse pian piano a rimuovere anche il ricordo di una barbarie altrimenti sempre pronta a riesplodere non nella «periferia della periferia dell’Europa», ma in uno dei suoi centri nevralgici e vitali.
E me ne vado via così, con l’impressione di aver sentito solo una campana, quella delle aquile. Mentre i merli svolazzano, mesti e silenziosi, nel cielo di Obeliq.

di Silvia Zaccaria

Silvia Zaccaria




UNA BASE MILITARE NATO FRA I MONASTERI SERBI

Kosovo /2

Il 17 febbraio 2009 merita attenzione: è l’anniversario della proclamazione unilaterale d’indipendenza del Kosovo. In proposito, vorrei esprimere una mia riflessione, un punto di vista in grande contrasto con quelli già visti e sentiti.
Gli albanesi kosovari hanno festeggiato, entusiasti, il primo compleanno dello «stato più giovane d’Europa»: molti però non sanno, accecati dalle menzogne e dall’odio, che oggi non è un giorno per giornire, ma per provare vergogna. In primo posto bisogna vergognarsi della presenza della base militare Nato fra i templi. È come entrare armati nella chiesa o con le scarpe nella moschea. Nell’anno 2008, dedicato ai diritti umani, sono stati calpestati i diritti fondamentali di uno stato e dei suoi cittadini. Alla fine, si parla della nascita di uno stato nuovo, che in realtà esiste da secoli.
Kosovo e Metohija sono il cuore di uno stato antico, più antico di molti paesi dell’Unione europea e molto più antico degli Stati Uniti. Questo stato si chiama Serbia. Lo sapevano anche gli antenati di quelli che oggi festeggiano, perché vivevano da secoli insieme ai serbi, dividendo il comune destino della burrascosa storia balcanica e gli avvenimenti storici, in cui erano a volte alleati, a volte avversari, ma rispettando entrambi l’umanità e il coraggio gli uni degli altri. Per umanità si intendeva onestà, capacità di mantenere la parola data, rispetto per gli anziani, pietà per i deboli e gli indifesi, generosità. Per coraggio si intende capacità di difendere con la propria vita i valori principali della stessa, fra i quali la fede e la libertà erano al primo posto.
Chiediamoci tutti, quelli che festeggiano e quelli chiusi in un doloroso silenzio, quanto è rimasto, ai discendenti, dell’umanità e del coraggio degli antenati? Se ci fosse un po’ più di umanità e coraggio d’ambo le parti, si potrebbe vivere insieme: non solo rispettarsi, ma anche amarsi a vicenda, perché il sincero amore per il proprio paese comprende l’amore per la natura viva e morta del paese, soprattutto per la gente che ci vive. Allora potremmo edificare un futuro veramente migliore, senza «occupatore» né «liberatore».

Sono passati i tempi in cui i valori umani si difendevano usando la forza (per questo lotta, la parte civilizzata dell’umanità), perciò l’attuale governo serbo usa esclusivamente mezzi diplomatici e legislativi per difendere il valore più grande dello stato serbo, che sono Kosovo e Metohija. Ma non sono passati i tempi in cui la vita umana si  dedica alla difesa dei valori più grandi, anche se molti, anzi troppi, vivono senza valori significativi.  
Ogni serbo in cui sono ancora vivi i valori degli antenati, spenderà la sua vita, le sue energie e le sue risorse fisiche, intellettuali e spirituali per difendere il Kosovo e farlo tornare nel grembo della Serbia.
Lo faremo tornare soprattutto con l’amore. Amare il Kosovo e tutti gli uomini di buona volontà che ci vivono. L’amore è l’arma più potente, che non uccide, al contrario, dona la vita eterna. Questo vuol dire che la prima preghiera di ogni fedele sia dedicata al Kosovo, la prima parola che insegnerà la madre al proprio figlio, sia Kosovo, la poesia più bella del poeta sia dedicata al Kosovo, la lezione più importante a scuola sia sul Kosovo, l’obiettivo più importante del governo sia di mantenere l’integrità territoriale del nostro paese, in cui il Kosovo ha un posto particolare.

La Vecchia Serbia, di cui molti re erano santi, era uno stato dal quale la chiesa non era separata. Nel Medioevo, costruire le chiese e i monasteri era «l’investimento» migliore per ogni famiglia benestante. Così il Kosovo, la Vecchia Serbia, fu oata da tantissimi monasteri e chiesette. Non esiste in Europa un territorio così piccolo con un così grande numero di templi, anche se il tempo e i nemici dei cristiani sistematicamente li distruggevano.
Cosa dobbiamo fare ancora per soddisfare le richieste dei potenti di questo mondo, per unirci con altri popoli dell’Unione europea? Rassegnarci che tutto questo patrimonio spirituale e culturale venga perduto per sempre? Questo si aspettano da noi gli europei cristiani?
«Gli stati che hanno appoggiato la spaccatura della Serbia, hanno dimostrato di non conoscere gran parte della storia del continente europeo, che è strettamente legata al cristianesimo. Il disinteresse per la sorte delle chiese e monasteri ortodossi in Kosovo è la loro rovina culturale. Il comportamento, nel caso del Kosovo, ha dimostrato che molti in Europa non vogliono proteggere la dimensione spirituale nella vita degli europei. Se questa tendenza prevale, allora l’Europa sarà condannata al caos e ai conflitti» (Patriarca Alessio II in «Ortodossia», 1-15 agosto 2008, p.6).
Il Kosovo non ha nessuna valenza spirituale per i potenti della terra. Essi non hanno nessun rispetto per quello che è santo ai popoli. In mezzo ai templi kosovari adesso c’è la base militare Nato, che 10 anni fa bombardava quella regione e la Serbia e il Montenegro, per 78 giorni. Con le bombe all’uranio impoverito seminarono morte e future malattie, inquinarono il suolo, acqua e aria, distrussero l’economia e tutto il resto con l’operazione militare chiamata «Angelo Misericordioso». Portarono enorme danno al popolo serbo e albanese. Le vittime umane, malattie che aumentavano vertiginosamente negli ultimi 10 anni, per loro erano solo «effetti collaterali» per portare la «democrazia», il «progresso» e la «pace». In quella regione «pacifica», però, da 10 anni i serbi vivono nell’enclave.

Alcuni paesi cristiani, fra cui anche l’Italia, hanno riconosciuto lo strappo del Kosovo. Non è possibile che i governi di quei paesi non conoscano la storia, non sappiano che la parola Metohija significa «possedimento della chiesa», non rispettino la proprietà privata, nei loro paesi intoccabile. Allora perché l’hanno fatto? Sentiremo le loro motivazioni quando saranno chiamati a rispondere al Tribunale internazionale per la Giustizia.
L’Assemblea della Serbia oggi ha chiesto al governo di sporgere denuncia al Tribunale internazionale contro gli stati che hanno riconosciuto l’indipendenza della nostra Provincia Meridionale. A questo stesso Tribunale la Serbia chiede se è conforme alle leggi inteazionali la proclamazione unilaterale d’indipendenza da parte degli organi di autogestione locale in Kosovo.
Il presidente serbo continua a ripetere che la Serbia, rispettando le leggi inteazionali, difenderà i propri legittimi interessi davanti al Tribunale internazionale della Giustizia.
Kosovo e Metohija sono parte del territorio serbo in base alla Costituzione della Repubblica Serba, la dichiarazione delle Nazioni Unite e secondo molte risoluzioni, di cui anche la 1244.
Se il governo della nostra regione Trentino Alto Adige, che ha uno status speciale, decidesse una secessione, dopo un referendum in cui la maggioranza della popolazione la approva, l’Italia lo permetterebbe? Chi delle due parti in conflitto avrebbe un sostegno dall’Europa?

di Snežana Petrović

Snezana Petrovic




TEOLOGHE SFERZANO IL FORUM

B elém, 24 gennaio 2009. Dopo giornate di cielo grigio e pioggia, sulla città amazzonica ieri è tornato il sole, prima timido poi più forte. Belém è tappezzata di cartelloni di benvenuto, scritti in varie lingue. Per il Parà, stato guidato da Ana Julia Carepa, governatrice del Partito dei lavoratori (Pt), ospitare i Forum rappresenta una straordinaria occasione per farsi conoscere. Il Forum di teologia e liberazione, quest’anno incentrato sulle tematiche ecologiche, è stato il primo a partire. Sarà seguito dal Forum amazzonico e dal più conosciuto Forum sociale mondiale.
«Nel nostro breve passaggio su questo pianeta – ha esordito ieri Emilie Townes, professoressa nera della Yale University – abbiamo la responsabilità di preservare l’ambiente, ricordando che ogni nostro atto, sia piccolo che grande, genera una conseguenza». La teologa statunitense, pastore battista, senza enfasi ma con sicurezza, ha ringraziato Dio per l’arrivo del presidente Obama, dopo gli anni di Bush, devastanti anche per l’ambiente. Poi è passata a ricordare alcuni eventi avvenuti nel suo paese, come l’uragano Catrina. Si è detta sicura che le conseguenze (pesantissime) di quel fatto siano da addebitare all’uomo. «Non è stato – ha spiegato – un disastro naturale, ma un disastro costruito dall’uomo, prima e dopo che l’uragano si abbattesse su New Orleans». Che fare, dunque? «Dobbiamo lavorare – ha concluso – in comunione. Dobbiamo enfatizzare l’educazione. Dobbiamo sollecitare i governi. Creati a somiglianza di Dio, dobbiamo vivere in maniera sostenibile. Con l’anima e il cuore».
«Vi porto i saluti dalla terra di Nelson Mandela e Desmond Tutu» ha iniziato Steve De Gruchy, professore sudafricano. Come la relatrice che lo ha preceduto, De Gruchy è partito da un esempio concreto: il problema del colera nei paesi africani, dovuto alla mancanza di acqua e fognature adeguate. Il primo passo è chiaro: «L’acqua va utilizzata meglio e deve rimanere pubblica. La sua privatizzazione è contro la dignità umana». «Non dimentichiamo – ha concluso – che economia ed ecologia hanno la stessa radice etimologica greca, che significa casa. Dobbiamo rispettare e difendere la nostra casa».

O gni giornata del Forum di teologia e liberazione è aperta da una rappresentazione, semplice ma molto coinvolgente. Giovedì la protagonista era stata l’acqua, ieri la terra, oggi tocca al corpo. Il pubblico, sempre numerosissimo nella sala convegni del Centro Tancredo Neves, è chiamato a partecipare e ben volentieri si lascia coinvolgere nei rituali.
Chung Hyun Kyung, sudcoreana, ma da tempo professoressa a New York, affascina il pubblico con la propria coinvolgente vitalità e allegria. Perché dopo 40 anni di Teologia della liberazione, nulla è cambiato, ma anzi il mondo è peggiorato? A questa (impegnativa) domanda la teologa ecofemminista tenta di dare una risposta. «Sarà l’energia femminile a curare questa civiltà umana?» si chiede. «No, noi donne ed ecofemministe non abbiamo intenzione di assumerci questo peso – osserva -. Dobbiamo passare da un mondo di dominazione a un mondo di cooperazione. Soltanto assieme possiamo cambiare».
Secondo Chung, occorre progredire con l’idea di Dio, perché il nostro monoteismo è stata una delle religioni più violente, come ben sanno i popoli indigeni. Occorre che le nozioni di mascolinità (che troppo spesso promuove la cultura della morte e della violenza) e di femminilità siano riformulate. «Sì, un altro mondo è possibile» conclude tra gli applausi la teologa sudcoreana.
Mary Hunt, teologa del Maryland, insegnante a Boston, ringrazia Dio per il miracolo di aver portato Obama alla presidenza degli Stati Uniti. Ma è subito impietosa verso il passato governo Usa: «Le mani degli statunitensi sono sporche del sangue dei bambini e dei genitori di Gaza. I corpi non mentono». Partendo dal concetto che «il corpo non mente», la teologa affronta argomenti ostici, non lesinando le critiche. Chiede la fine della discriminazione in base alla sessualità. Chiede giustizia per le persone omosessuali. «L’amore, anche fisico – spiega – deve potersi esprimere liberamente, quando nei rapporti ci sia sicurezza e libertà di scelta. Non è facile portare alla luce la sessualità. Persone dello stesso sesso che si amano ci sono in tutti i paesi e in tutti gli ambienti, dalle discariche ai seminari».
Mary Hunt conclude il suo intervento ricordando la donna incontrata ieri tra i riciclatori di rifiuti di Belém: è dal suo coraggio che occorre ripartire.

DI Paolo Moiola

Paolo Moiola




Chiese vulnerabili a rischio estinzione

«Popoli e chiese dell’oriente cristiano»

Da più parti il cristianesimo è considerato essenzialmente occidentale, dimenticando le antiche comunità cristiane fiorite nel Vicino Oriente, prima dell’espansione islamica. Il volume «Popoli
e chiese dell’oriente cristiano» di Aldo Ferrari* vuole riparare a tale dimenticanza, presentando la loro tradizione storica e spirituale, la difficile situazione attuale di alcune chiese orientali, che rischiano
di scomparire dalle loro sedi millenarie.

Delle tre sedi patriarcali in cui era suddivisa la chiesa delle origini, due si trovavano sulla riva orientale del Mediterraneo, nelle città di Alessandria e Antiochia. Nulla di strano che nei primi secoli della nostra era il cristianesimo fosse vivo soprattutto in prossimità dei luoghi che avevano visto la predicazione di Gesù e da cui era partita l’azione evangelizzatrice degli apostoli. Proprio dalla Palestina il nuovo credo si era irradiato lungo le strade dell’Impero Romano, fino ai suoi estremi confini, e vi aveva trovato rapida diffusione, favorito da un clima culturale ricettivo, dalla tolleranza verso gli «dei stranieri», dall’ordine e dalla convivenza pacifica che la pax romana garantiva.
È, invece, più difficile da capire perché il cristianesimo occidentale abbia finito per oscurare la memoria della chiesa orientale, da cui esso ha tratto le proprie origini. Ben venga, dunque, la nuova monografia curata dal professor Aldo Ferrari, Popoli e chiese dell’oriente cristiano, che dà la possibilità di approfondire le ragioni di quest’oscuramento e riscoprire il patrimonio spirituale e culturale che in duemila anni la cristianità orientale non ha cessato di esprimere.
Pur necessariamente incompleto, per la difficoltà di contenere nello spazio di un volume la storia delle numerose comunità cristiane d’oriente, il panorama che ci è qui offerto si presenta di una sorprendente varietà: comprende le chiese copta ed eritrea in Africa, le chiese melkita, ortodossa e cattolica, e maronita nel vicino Oriente, la chiesa sira occidentale, ortodossa e cattolica, e sira orientale, assira e caldea, in Mesopotamia e Iran, le chiese armena, apostolica e cattolica, e georgiana ortodossa nel Caucaso.

LA FRATTURA DOTTRINALE
Come emerge chiaramente dalle pagine del volume, il quasi oblio in cui sono cadute le chiese orientali nella coscienza dei cristiani d’occidente si può spiegare con due ordini di ragioni: intee ed estee alla chiesa.
I primi secoli videro la chiesa, ancora unica e indivisa, impegnata in un intenso dibattito volto a stabilire i fondamenti del credo cristiano. Nel iv secolo fu affrontata la questione trinitaria e si arrivò a definire la formula della consustanzialità delle tre Persone. Già allora si corse il grave rischio di una spaccatura intea, a causa del consenso suscitato dalle tesi del prete alessandrino Ario, il quale non riconosceva al Figlio una natura uguale a quella del Padre. Questo pericolo fu evitato con la convocazione del primo concilio ecumenico a Nicea nel 325.
Non altrettanto felice fu l’esito delle controversie cristologiche, che nel v secolo contrapposero le scuole teologiche di Antiochia e Alessandria. La definizione dogmatica della duplice natura di Cristo, divina e umana, fu materia dei due concili di Efeso e Calcedonia, dove si scontrarono posizioni teologiche diverse. A Efeso, nel 431, fu condannato il patriarca Nestorio, che aveva portato alle estreme conseguenze la teologia duofisita della scuola di Antiochia e chiamava Maria madre di Cristo, ma non madre di Dio. Il concilio di Calcedonia, 20 anni più tardi, si concluse con la riabilitazione della scuola di Antiochia e la condanna della dottrina professata da quella di Alessandria.
Le diatribe cristologiche ebbero la nefasta conseguenza di aprire una frattura, non solo tra Oriente e Occidente, ma anche nella stessa cristianità orientale, che si divise in efesina e non efesina, calcedonese e non calcedonese. Non efesini sono i cristiani che fanno riferimento alla chiesa sira orientale, non calcedonesi sono i siri occidentali, gli armeni, i copti e gli eritrei. La «grande chiesa», cioè quella di tradizione calcedonese, sia greca che latina, chiamò nestoriani i primi e monofisiti i secondi, termini che, oltre a essere imprecisi, sono percepiti come offensivi dai diretti interessati.
Oggi si è fatta strada la coscienza che quelle controversie nacquero più a causa di fraintendimenti nell’uso e interpretazione dei termini teologici, che di vere e proprie divergenze nel modo di concepire la natura di Cristo. «In realtà, il linguaggio teologico delle due scuole era profondamente diverso e questo impediva una reale comprensione delle reciproche posizioni» leggiamo nel saggio di Paola Pizzi sui cristiani melkiti; mentre Alessandro Mengozzi, autore del saggio sulla chiesa sira, parla di una «frattura linguistica, culturale e politica tra il centro dell’impero bizantino e regioni periferiche, ma culturalmente e socialmente vivaci, come l’Egitto, la Siria, la Mesopotamia o l’Armenia».
E cita un passo di un teologo siro occidentale, che nel xiii secolo scriveva, con una perspicacia davvero sorprendente: «Dopo aver molto ponderato il problema, mi sono convinto che queste dispute dei cristiani fra loro (sulla cristologia) non riguardano nulla di sostanziale, ma piuttosto sono questioni di parole e termini, perché tutti confessano che Cristo nostro Signore è Dio perfetto e uomo perfetto, senza commistione, mescolanza e confusione delle nature».
Dopo sette secoli questa stessa convinzione ha ispirato le dichiarazioni congiunte di fede firmate da Giovanni Paolo ii e dai patriarchi della chiesa sira occidentale e della chiesa d’Oriente. Purtroppo, quelli che noi ora giudichiamo equivoci dovuti a consuetudini linguistiche diverse sono stati fonte di molti mali per i cristiani tutti. La presunzione di eresia ha inquinato i rapporti tra le chiese, aprendo un profondo solco d’incomprensione tra le diverse sponde del Mediterraneo.
Rende bene l’idea di quali siano state le conseguenze di questa divisione il fatto menzionato da A. Camplani e A. Elli nel saggio sulla chiesa copta. Essi ricordano che, dopo aver tolto la Palestina ai musulmani, i crociati confiscarono i beni dei cristiani orientali, che consideravano eretici, e impedirono loro l’accesso ai luoghi santi. Quando nel 1187 i crociati furono sconfitti dal Saladino e costretti ad andarsene, «i copti accolsero con gioia la riconquista di Gerusalemme, perché veniva così loro concesso di riprendere, dopo quasi 90 anni, i pellegrinaggi al Santo Sepolcro».

LA CONQUISTA ISLAMICA
Alla frattura dottrinale, nel vii secolo si aggiunse quella causata dalla conquista araba. Questa volta fu l’intervento di una forza estea a dividere tra loro le comunità cristiane. Il continuo stato di belligeranza tra la nuova potenza araba e l’Europa rese ancora più difficili i contatti tra una parte e l’altra del Mediterraneo, quando non li interruppe del tutto, e finì per isolare l’Oriente dall’Occidente cristiano, se si esclude il breve e controverso intervallo dei regni crociati.
Dalla metà del vii secolo, i cristiani che vivevano nei territori dell’Impero Romano d’Oriente, con l’eccezione della penisola anatolica, si trovarono soggetti a un potere teocratico, quello dei califfi, che assegnava loro una condizione d’inferiorità rispetto ai sudditi musulmani. Anche se ciò, in linea di principio non significava il divieto del culto, essere, o meglio, rimanere cristiani diventava oneroso, e non solo perché si era gravati di maggiori tasse rispetto a coloro che si erano convertiti all’islam.
Il rapporto tra le comunità cristiane e le autorità registrava continui alti e bassi: a periodi di convivenza pacifica si alternavano periodi di discriminazione, se non di vera e propria persecuzione. Ciò spiega la progressiva erosione del numero dei cristiani in terra islamica. Alla vigilia della conquista ottomana essi costituivano ormai meno del 10% della popolazione.
Paradossalmente, fu proprio l’arrivo degli ottomani, che fino alla fine del xvii secolo furono percepiti dalla cristianità occidentale come una minaccia alla sua sopravvivenza, a migliorare la vita dei cristiani in Oriente.
Sulla vita delle comunità cristiane influì positivamente il sistema dei millet istituito dal governo ottomano. Si trattava di una forma di autogoverno, che concedeva alle comunità religiose, ufficialmente riconosciute dalla Sublime Porta, una considerevole autonomia amministrativa. Questa nuova forma di organizzazione sociale diede ai cristiani maggiore stabilità e garanzie nei rapporti con le autorità islamiche e contribuì a una notevole ripresa demografica all’interno delle loro comunità.

RESISTENZA E ISOLAMENTO
Per i siri orientali l’isolamento dal resto dell’ecumene cristiano iniziò molto prima del vii secolo. La chiesa sira ebbe origine a Edessa, nell’alta Mesopotamia. In questa città già nella seconda metà del ii secolo è documentata la presenza di una vivace comunità cristiana, che si contraddistingueva per l’uso liturgico di una variante locale di aramaico.
Edessa si trovava all’estrema periferia dell’Impero Romano e una parte della comunità sira, quella orientale, che prese poi il nome di «Chiesa d’Oriente», si trovò ben presto a svilupparsi all’esterno dei suoi confini, nelle terre dei persiani, arcinemici di Roma. Ciò rese difficili i contatti con gli altri centri cristiani e ostacolò la partecipazione dei rappresentanti di questa comunità ai concili ecumenici. Costretta a contare sulle sue sole forze, la Chiesa d’Oriente si organizzò in totale autonomia, nella fedeltà al legame originario con la scuola di Antiochia e alla sua teologia duofisita.
Nonostante la precarietà in cui visse, seppe produrre uno straordinario slancio missionario, che portò i suoi monaci lungo le strade carovaniere fino in India, in Asia Centrale, in Mongolia e in Cina. Si pensi, ad esempio, che la fondazione della prima chiesa sira a Ch’ang-an, capitale della dinastia cinese dei T’ang, nonché punto di partenza della via della seta, risale al 638. Erano proprio gli anni in cui l’Impero Bizantino, da una parte, e quello persiano, dall’altra, stavano per essere travolti dalle schiere arabe.
Anche nei pochi casi in cui i cristiani in Oriente non si trovarono in condizione di minoranza tra fedeli di altre religioni, il loro destino non è mai stato facile. Le chiese etiope, armena e georgiana hanno rappresentato delle isole di cristianesimo in territori sempre più islamizzati.
Grazie alla sua posizione remota, lontana dal Mediterraneo e dalle grandi vie di passaggio, l’Etiopia riuscì a contenere l’espansione dell’islam, a prezzo, però, di un isolamento durato secoli. In Armenia e in Georgia il cristianesimo si affermò come religione nazionale dal iv secolo e si è mantenuto tale fino ai nostri giorni, ma ha dovuto opporre una strenua resistenza alla pressione dei vicini musulmani, cui gli armeni e, in parte, i georgiani, furono anche soggetti politicamente. La storia del cristianesimo in queste terre presenta un pesante bilancio di violenze e martirio.

RISCHIO ESTINZIONE
Leggendo questo volume, pagina dopo pagina, ci si rende conto di cosa abbia voluto dire essere cristiani in oriente. Rimanere nella chiesa è stata per gli orientali una scelta impegnativa, scomoda e mai scontata, ha spesso voluto dire vivere in condizioni d’inferiorità, con diritti limitati e limitate possibilità di sviluppo. Nonostante questo essi hanno saputo custodire intatta la propria fede e la bellezza delle loro liturgie.
La chiesa occidentale non può ignorare questo prezioso patrimonio di spiritualità, se non a prezzo di un suo enorme impoverimento. Il secolo precedente ha fatto molto per il riavvicinamento tra le chiese, non solo nella ripresa di contatti tra le gerarchie, ma anche in termini di reale conoscenza reciproca, dopo secoli di silenzi. Tuttavia, molto rimane da fare.
L’orizzonte dell’Occidente rimane ancora troppo autoreferenziale, e i cristiani non fanno eccezione, siano essi capi di stato o semplici cittadini. Spesso nelle questioni che riguardano l’Oriente, gli occidentali si muovono senza considerare quali conseguenze i loro interventi possono avere sul difficile equilibrio tra le minoranze cristiane e le società in cui sono inserite.
Quando papa Giovanni Paolo ii chiedeva accoratamente che al popolo iracheno fosse risparmiata l’esperienza di un’altra guerra, pochi capivano che il suo sguardo era rivolto con particolare preoccupazione alle comunità cristiane del Medio Oriente. Egli sapeva bene, infatti, che un conflitto avrebbe avuto su di loro gravi conseguenze, perché i cristiani sono visti come alleati dell’Occidente, con cui condividono la fede. La guerra ha provocato un vero e proprio esodo dei cristiani dall’Iraq e ne ha in pochi anni dimezzato la presenza nel paese.
Anche in condizioni di pace, i cristiani in Oriente rimangono a tutt’oggi un gruppo sociale tra i più vulnerabili. Le tensioni inteazionali e quelle intee ai rispettivi paesi si ripercuotono in modo particolare sulle loro comunità, spingendo molti a emigrare.
L’emigrazione verso l’Occidente, iniziata già a fine Ottocento, ha assunto in questi ultimi decenni proporzioni sempre maggiori ed è difficile prevedere un’inversione di tendenza, finché permangono le condizioni che spingono i cristiani ad andarsene: mancanza di libertà, mancanza di sicurezza personale e precarietà economica.
Il fenomeno è tale da far pensare all’estinzione dei cristiani, almeno in Medio Oriente. Se ciò accadesse sarebbe una perdita incalcolabile, non solo per il cristianesimo, ma anche per la stessa civiltà islamica, cui i cristiani hanno dato un contributo unico, nelle arti, nella letteratura, nel pensiero e nella modeizzazione.
Ci sarà, dunque, un futuro per le chiese in Oriente? È la domanda con cui si concludono alcuni dei saggi. Per i loro autori, come per chiunque abbia conosciuto e incontrato la realtà di queste chiese, pare impossibile che tutto ciò possa sparire. E allora si trova conforto nel loro passato, che le ha condotte fino a noi, pur tra infinite e dolorose prove; si trova conforto nei piccoli segni di cambiamento, che sembrano far intravedere l’avvento di tempi più benigni.
Ma anche questo non sarebbe niente, se non ci fosse la speranza, «forse la più mondana delle virtù teologali, quella intrecciata per natura alle vicende storiche di questo mondo e destinata con la fede a spegnersi a favore della carità nel mondo a venire» (A. Mengozzi). 


Di Biancamaria Balestra

Biancamaria Balestra