Forse Dio è malato

INCONTRO CON DEREK WALKOTT

Walcott, alla Fiera del libro:
La realtà e l’esistenza della poesia in ogni paese del mondo dimostrano la necessità poetica tra gli uomini. Noi però facciamo una cosa molto brutta, perché non permettiamo che i bambini sviluppino la loro immaginazione poetica.
Un bambino, ad una certa età, è un poeta puro. Questo è quanto William Blake continua ad indicarci. Il bambino è poeta. Ma noi facciamo «sporche azioni» contro l’immaginazione poetica del mondo, perché trasformiamo un poeta in ciò che pensiamo essere un adulto ragionevole.

Signor Walcott, grazie al cielo la sua creatività poetica non è stata uccisa dal mondo, come dimostrano questi bellissimi versi che rievocano l’incantato sapore dell’infanzia:

La pianta d’arancio, in varia luce/ Proclama quella favola perfetta ora/ Che il culmine estivo della sua ultima stagione/ Si piega da ogni ramo sovraccarico (da «In una verde notte», 1965).
Quando ha iniziato a scrivere i suoi poemi? Chi sono stati i suoi maestri?
Mia madre era insegnante e mi incoraggiò moltissimo. Da quello che ricordo, in vita mia ho sempre scritto. Forse iniziai all’età di sei anni o forse prima. Qualche volta recitai anche nel teatro della scuola metodista da me frequentata e ricevetti molto incoraggiamento.
Assai presto fui certo che avrei fatto lo scrittore. Anche mio padre era scrittore e pittore. Amavo memorizzare poesie. Giovani insegnanti mi incoraggiarono a scrivere, mentre una solida istruzione inglese mi permise di leggere i migliori poeti sotto la guida di bravi professori. All’età di 18 anni, mia madre mi aiutò a pubblicare la prima antologia poetica.

La sua vita e poesia rivelano sofferenza, documentata da alcuni versi come:
E la mia vita…/ non deve essere resa pubblica/ Finché non ho imparato a soffrire (da «Preludio», 1948); Io cerco/ al modo che il clima cerca il suo stile (da «Isole», 1962); Per cambiar lingua devi cambiar vita (da «Codicillo», 1970).
È, comunque, riuscito a mantenere la curiosità tipica dei bambini?
Quando una persona cresce non è più un bambino. Un genitore non è un bambino. Ho, però, lavorato moltissimo e continuo a farlo su me stesso per mantenere la chiarezza di visione del mondo che caratterizza i bambini.
Walcott, alla Fiera del libro:
Colombo, che forse pensava di essere in Cina, ha dato il nome «Santa Lucia» all’isola in cui sono nato. È un’isola sulla quale francesi ed inglesi hanno combattuto alternandosi nella sua proprietà per ben 13 volte. L’isola aveva un grande valore strategico, anche per la coltivazione della canna da zucchero, per non parlare della sua bellezza. A scuola i bambini cantano un inno dedicato a Santa Lucia, definendola «Elena delle Indie Occidentali».
Molti abitanti di Santa Lucia derivano i loro nomi da fonti bibliche o classiche, che ricordano quelli dati agli schiavi per alcune loro caratteristiche fisiche. Achille ed Ettore sono molto spesso pescatori, che non conoscono i personaggi di Omero.
La realtà dell’arcipelago caraibico è unica, anche se le immagini (con le quali sono cresciuto) di canoe che lasciano terra come una flotta o di canoe che rientrano verso terra… ricordano quelle di altri arcipelaghi.
La direzione di una cultura può essere indicata dalla sua musica. La musica dei Caraibi è un misto di tante fonti: francese, africana, indiana. In questo contesto anche uno scrittore attinge alle stesse fonti e non ha senso che la sua opera sia classificata nella fase «coloniale», «multiculturale», «indipendente».
Immaginate il carnevale di Port of Spain (Trinidad) con una banda di ottoni formata da bianchi, neri, indiani e cinesi che suonano, saltano e ballano. Se fossi in testa alla banda e la fermassi chiedendo «siete multiculturali?», quale sarebbe la loro risposta?… Solo quando lascio i Caraibi incontro queste definizioni.
La definizione «multiculturale» proviene dai centri accademici o dai politici del mondo. Personalmente provo risentimento quando la mia cultura è marchiata con tale termine. Qual è l’opposto di «multiculturale»? Forse «uniculturale»? «Multiculturale» ricorda «politicamente corretto». E che significa?

Le sue critiche sull’uso ed abuso di «multiculturale» dovrebbero essere meditate ed apprezzate. Colpiscono i seguenti suoi versi, che aboliscono ogni distinzione di razza e colore:
Gente di mare/ cristiana e intrepida (da «Un canto di marinai», 1962).
Se uno è cristiano…
Questa è la realtà dei Caraibi: noi ci sentiamo cristiani. Io sono metodista, ma nel mio teatro ho presentato anche personaggi cattolici; però, di fatto, nei Caraibi noi ci sentiamo cristiani. Non comprendiamo, perciò, tutte le barriere e divisioni che si incontrano nel mondo occidentale tra i cristiani: uno appartiene ad una chiesa, l’altro ad un’altra. Le chiese sono in lotta tra loro, per non parlare dell’alta percentuale di non credenti.

Citando questi suoi versi
di Dio la solitudine si muove nelle sue più minuscole/ creature
il poeta russo Brodskij afferma che «nessuna “foglia” (cioè noi) né quassù né ai tropici amerebbe sentirsi dire cose simili». Come credente, confesso che questi suoi versi mi piacciono, perché rivelano che lei crede in Dio.
Sì, ci credo veramente. Dio è presente in tutto il creato e in ogni creatura dell’universo. Penso, però, che Dio in una formica si senta proprio solo. La meravigliosa opera di Dio si manifesta anche nell’oceano maestoso. E allora…

Walcott, alla Fiera del libro:
Uno scrittore del Caraibi può soltanto scrivere al meglio. Il dovere di uno scrittore non è quello di istruire, ma di illuminare. Uno scrittore non deve essere accondiscendente con l’analfabetismo del suo pubblico. Noi scriviamo per la sensibilità della nostra cultura. Parlare di letteratura del Caraibi, formata da scrittori elitari (con il sottoscritto compreso), è stupidità accademica.
I drammaturghi greci, ad esempio, per chi scrivevano? Per molte persone analfabete. Chi ha mai chiesto ai drammaturghi greci di non essere elitari? Che cosa ci avrebbero lasciato? Aristofane che parla come Tarzan? Shakespeare per chi ha scritto? Per migliorare le nostre conoscenze. Se i classici non avessero «volato alto», non avremmo migliorato la nostra letteratura.
Ho fondato la compagnia teatrale di Trinidad e ho scritto opere al meglio delle mie possibilità. Questa è stata una benedizione, perché ho suscitato le emozioni degli spettatori, senza preoccuparmi della loro preparazione culturale. Forse gli spettatori non capiscono tutto il testo, ma recepiscono i sentimenti che scaturiscono dall’opera. Questa è la base del bravo scrittore caraibico: non sottomettersi a nessun sistema.
Il mio pubblico migliore è una grassa donna nera ai piedi del palco che ride e piange. E lei si merita che io scriva nel miglior modo possibile.

Il teatro caraibico è stato inventato da lei. Leggendo «Ti-Jean e i suoi fratelli» e «Sogno sul monte della scimmia», pare che fedi, credenze, sofferenze, speranze e sogni dell’Africa lontana, immersi in una scenografia ricca di musica e colori, caratterizzino questo teatro.
Il teatro caraibico è proprio così. Ho fondato il «Trinidad Theatre Workshop» 40 anni fa; l’ho seguito sempre con grande interesse e passione. Tanti bravi attori, ballerini e musicisti hanno contribuito al successo degli spettacoli. Ancora oggi continuano a rappresentare le mie opere teatrali con consenso di pubblico.

Nel 1970 a New York lei fu brutalmente assalito da una «baby gang», che ispirò questi versi:
E questo negro giallo lo picchiarono/ fino a farlo blu e nero/… Ragazzi a cui manca un po’ d’amore (da «Blues», 1970).
Con questi versi ci aiuta a capire le cause dell’inquietante fenomeno delle «baby gang», che ormai troviamo anche in Italia.
Quella fu un’esperienza molto dolorosa, che mi segnò profondamente e che ancora ricordo con tristezza. C’è molta violenza nel mondo, non solo fisica ma anche intellettuale. Credo che sia causata principalmente dalla mancanza di amore nei confronti di persone che possono avere tutto materialmente, ma non ricevono quell’amore fatto di ascolto e di attenzione.

Ecco, infine, alcuni suoi versi che lanciano messaggi di speranza:
tutto nella compassione ha fine (da «Rovine di una grande casa», 1962); o stella, doppiamente compassionevole (da «Stella», 1970); Amerai di nuovo lo straniero che era il tuo Io (da «Amore dopo amore», 1976); Gli amici che trattieni, o terra, sono più di quelli rimasti da amare (da «Canne marine», 1976).
Lei ci indica come valori importanti della vita: amicizia, amore, compassione.
Questi sono i valori veri. Non è forse stato scritto «amerai il prossimo tuo come te stesso»?

CHI E’ DEREK WALKOTT

Nato nel 1930 a Castries (Santa Lucia – Caraibi). Conta un bisnonno olandese, un nonno inglese e nonni africani. Cresciuto nella piccola comunità anglofono-metodista di Santa Lucia dalla madre, insegnante, e nella memoria del padre, pittore e poeta morto nel 1931, Walcott perfeziona l’istruzione al Saint Mary’s College dei missionari irlandesi della presentazione.
Laureatosi in inglese all’università delle Indie Occidentali di Mons (Giamaica), Walcott si fa conoscere negli Stati Uniti e in Gran Bretagna con poesie ed opere teatrali, scritte in un inglese raffinato ed elegante.
Maestro della metafora, cantore delle bellezze dei Caraibi e profondo conoscitore dell’animo locale, inventa il teatro caraibico: nel 1959 fonda a Port of Spain il Trinidad Theatre Workshop che dirige fino al 1997 portandolo in touée nei Caraibi, Stati Uniti e Canada. Dal 1979 Walcott insegna nelle università di Harvard, Yale, Boston. Nel 1990 pubblica Omeros, ritenuto il suo capolavoro. Nel 1992 vince il premio Nobel per la letteratura.
n In Italia Derek Walcott è poco conosciuto. Una minima parte della sua poderosa opera è stata tradotta in italiano. L’editore Adelphi ha pubblicato due libri: Mappa del nuovo mondo; Ti-Jean e i suoi fratelli – Sogno sul monte della scimmia.

Silvana Bottignole




Il matto della


Come curare la malattia mentale?

«Con difficoltà ho superato l’esame di psichiatria. Era una materia affascinante, della quale però
non ero mai riuscito a trovare il bandolo… Con che terrore, quindi, mi sono trovato davanti a quello che per me era rimasto sempre incomprensibile!». Come quella volta alla «Posta medica» di Villa El Salvador, in Perù.

Con difficoltà ho superato l’esame di psichiatria. Era una materia affascinante, della quale però non ero mai riuscito a trovare il bandolo… Poi, per quegli strani scherzi del destino, nella mia vita di medico mi trovai ad affrontare proprio quegli aspetti della medicina che più mi erano apparsi ostici durante il lungo periodo degli studi universitari.
Come quella volta alla «Posta medica» di Villa El Salvador, quando per la prima volta mi trovai davanti a quello che per me era rimasto sempre incomprensibile.

Nella «Posta medica municipal» numero 1, la prima del sistema ambulatoriale di Villa El Salvador, lavoravo come di consueto con Julio, il «mio» infermiere che ne sapeva sempre una più di me.
Un giorno, dopo aver visitato i soliti bambini con bronchiti e mal di gola e aver ricettato come sempre Ampicillina e «agua de eucalipto» (però di quello canforato), Julio fece entrare nello studio un grasso signore con il viso sporco, ma soddisfatto, e le mani macchiate di sangue.
«Buenos dias señor – gli dissi – que le pasa?».
«Niente» mi rispose.
«Come mai allora – gli ribattei con la mia stringente logica universitaria – ha le mani sporche di sangue?».
«È la Gillette, dottore. Mia cognata non voleva farmi uscire».
Solo a questo punto mi accorsi che la camicia, sotto la giacca unta, era coperta da una spaventosa macchia di sangue.
«Ma che ha fatto, señor?» e rapidamente gli sfilai la giacca.
«Julio corri!» gridai spaventato.
«Si calmi, doctorcito, non è niente – mi ribattè l’uomo ferito -. Mia cognata non voleva farmi uscire e allora con la Gillette… È un taglio perfetto, sono un esperto».
Julio arrivò con la calma che gli ho sempre invidiato e mi aiutò a togliergli la camicia.
«Carajo (forte esclamazione gergale, ndr) – esclamai -, non ho mai visto un taglio così».
Lo distendemmo sul lettino e ci guardammo con gli occhi spalancati. Mandai Julio a prendere il metro e insieme misurammo quel taglio, pressoché perfetto, che in tutti i suoi 35 centimetri di lunghezza metteva in mostra il sottocutaneo e un notevole strato di grasso.
«E adesso – dissi – che facciamo?».
«Cuciamo!» mi rispose con tono tranquillissimo il nostro matto.
«Cuciamo lo dico io!» gli ribattei un poco ferito nell’orgoglio, ma anche ricordando che l’orlo dei pantaloni (che avevo tentato di fare un paio di giorni prima) mi era venuto talmente storto che la signora Mila me li aveva fatti sfilare per rifare la cucitura.
Nel frattempo, Julio si era munito di garze, disinfettante e pinze e aveva cominciato a pulire la ferita. La boccetta di Xilocaina era pronta per anestetizzare la parte e cominciare a cucire.
Il matto continuava intanto ad osservarci con sempre maggiore ammirazione ed interesse (se i pazienti fossero stati tutti così, forse anch’io sarei diventato un grande medico).
«Che cos’è quella boccetta» mi chiese.
«Xilocaina, è un anestetico locale» gli risposi.
«Eh no dottore – mi rispose fermandomi la mano -. Non voglio niente del genere».
«È per non farle sentire dolore» gli spiegai.
«Ma per me è un piacere. Ho molta esperienza».
Effettivamente, pulendo la ferita e la pelle intorno, cominciarono a comparire i segni di anteriori imprese dello stesso tipo.
«D’accordo! Julio, passami ago e filo. Cominciamo!».
«Dottore, che splendida mano, che passi da gigante ha fatto la chirurgia ai giorni nostri, che strumenti perfetti!».
Con Julio ci guardammo e ci immaginammo in una modea sala operatoria alle prese con un difficile intervento, circondati da monitors, con un nugolo di studenti che ci osservavano. Invece, ci trovavamo sotto il neon di un ambulatorio di periferia a cucire la pancia di una persona, feritasi con una lametta Gillette a causa di una cognata insofferente. Un matto che ci spronava e si ergeva a unico testimone dell’impresa di un medico alle prime armi e di un grande infermiere ai suoi inizi.
Nonostante le mani tremanti e il filo che finiva, arrivammo in fondo, pieni del nostro orgoglio e con i complimenti del matto. Gli bendammo la pancia e lo mandammo a casa con tante raccomandazioni.

Tre o quattro giorni dopo, mentre stavo visitando un’intera famiglia con «rasca-rasca» (letteralmente «gratta-gratta», è il termine popolare per definire la scabbia, ndr), Julio mi chiamò: «Dottore, venga è tornato il matto».
«Arrivo subito. Controllagli la ferita intanto».
«Corra dottore, presto!» sentii la voce insolitamente trafelata del fido infermiere.
Corsi nella stanza e vidi la faccia allucinata di Julio e quella tranquilla e soddisfatta del matto.
«Carajo – esclamai -, si è infettata?».
«No dottore, sa …, ho trovato una Gillette e allora ho pensato a voi… E poi mia cognata…».
«Cosa ha fatto? Un’altra volta!».
Ci guardammo in faccia con Julio che mi lesse nel pensiero dicendo: «Chiamo subito l’ambulanza, dottore. Abbiamo finito il filo».
Lo mandammo a Larco Herrera, il manicomio di Lima.

Solo anni dopo, seduto nella grande sala del «castello» del «Residuo psichiatrico» (che razza di nome, eh?) di Montecchio Precalcino (Vicenza), mi resi pienamente conto della tragedia del matto della Gillette e di sua cognata.
La primavera è prepotente nelle verdi campagne venete sulle quali sorge questa collinetta popolata di alberi e matti. Anche qui capitai per caso, accettando una sfida che mi avevano proposto: demolire il «Residuo psichiatrico» (ma chi mai avrà inventato una definizione così grossolana e tremendamente vera e frustrante?), nel quale vivevano ancora 2.500 ospiti e un centinaio fra infermieri, suore e impiegati.
La paura e l’orrore della malattia mentale non mi hanno mai abbandonato e, se affrontare un paziente psichiatrico mi stressava, affrontare un intero manicomio mi terrorizzava.
Forse fu la signora Spiller, con i suoi deliri di persecuzione che lasciavano improvvisamente posto a grandi e composti gesti d’affetto, che mi aiutò a cercare più in profondità. Forse fu la rabbia di ascoltare rimpianti di un passato in cui, a Montecchio, un medico si occupava di 700 ospiti e dove, anche da morti, i matti non uscivano dai recinti del manicomio. O forse furono la grande speranza e serenità di Riccardo, psichiatra dall’eterno toscano in bocca, a coinvolgermi e farmi intravvedere la possibilità di un cambiamento.

A distanza di anni, una cosa debbo scrivere per liberarmi da un peso troppo grande per la mia coscienza di uomo, più che di medico. La medicina, la psichiatria e la società civile che hanno inventato, moltiplicato e poi tollerato i manicomi hanno fallito e in questo loro fallimento hanno trascinato migliaia e migliaia di persone.
E se, a quasi 25 anni dall’abolizione ufficiale dei manicomi (legge n.180 del 13 maggio 1978, conosciuta come legge Basaglia, ndr), a Montecchio Precalcino ci sono ancora persone, la società civile ha rimosso il problema e la modea psichiatria ha fallito ancora.
Cucire la pancia al matto della Gillette bisognava certamente farlo, ma cosa bisognava fare per convincerlo a non tagliarsela più? Non ho ancora trovato una risposta.
Ma il mio vero cruccio non è tanto questo, quanto piuttosto di averlo mandato in un manicomio. Ovvero nel luogo che racchiude tutti i fallimenti dei nostri maldestri tentativi di affrontare la malattia mentale.

di Guido Sattin (*)
La «Fondazione Ivo de Caeri»

IL LABORATORIO DI PEMBA

Nei paesi in via di sviluppo, malattie respiratorie, malaria, diarree, parassitosi di varia origine sono tra le principali cause di malattia e di morte nei bambini al di sotto dei 5 anni.
Risultati di recenti ricerche hanno messo in evidenza che l’aggiunta di piccole quantità di ferro e di zinco alla dieta quotidiana di questi bambini è in grado di migliorae la crescita e lo sviluppo fisico e mentale.
La «Johns Hopkins School of Public Health», una delle più importanti scuole inteazionali di salute pubblica, in collaborazione con l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), ha scelto per l’Africa l’isola di Pemba, in Tanzania, e il laboratorio di sanità pubblica «Ivo de Caeri», per valutare i primi risultati di questa sperimentazione sulla popolazione infantile.
Il progetto durerà due anni e si svolgerà contemporaneamente anche in India e in Nepal. Dal punto di vista finanziario, esso è sostenuto da diverse organizzazioni: «United States Agency for Inteational Development», «United Nations Foundation», «Bill and Melinda Gates Foundation».
Il laboratorio di Pemba, ultimato nel maggio del 2000, sorge su un’area di oltre 700 metri quadrati e comprende laboratori di parassitologia, microbiologia e virologia, un’aula per formazione, educazione sanitaria e conferenze, una biblioteca, uffici e servizi generali. È stato ufficialmente inaugurato il 12 giugno (giorno della nascita del prof. Ivo de Caeri) alla presenza delle autorità sanitarie locali, di membri dell’Oms e dell’ambasciatore italiano in Tanzania. Il personale occupato sarà tutto locale.
Il sostegno economico dei donatori e l’opera volontaria di tutte le persone che lavorano per la «Fondazione de Caeri» hanno permesso la realizzazione di questo importante laboratorio di sanità pubblica, in un’area geografica dove non esistono strutture sanitarie. Ancora oggi parte della popolazione (non solo infantile, ma anche adulta e produttiva) soccombe a causa di malattie che, in altri paesi del mondo, sono ormai dimenticate.
Per la Fondazione Ivo de Caeri la collaborazione con la «Johns Hopkins» (che coinvolge, oltre al personale del laboratorio, strutture governative, sanitarie e popolazione dell’isola) è motivo di grande soddisfazione e di stimolo a intensificare la propria opera e l’impegno futuro in Africa.
Silvana Maggioni


La campagna di «Medici senza frontiere» (MSF)

L’ACCESSO AI FARMACI ESSENZIALI

Il cornordinatore della campagna MSF per l’accesso ai farmaci essenziali, dottor Pecoul, così si è sfogato: «Sono stanco di constatare come il profitto abbia sempre la meglio sul diritto alla salute. Sono stanco della logica secondo cui chi non può pagare, muore».
L’accesso a farmaci essenziali ed efficaci è negato ai poveri per una delle seguenti ragioni:
– il prezzo proibitivo dei nuovi farmaci sotto brevetto;
– la ricerca e lo sviluppo trascurano le malattie dei poveri, mentre farmaci attualmente in uso sono ormai inefficaci per la diffusione di microrganismi resistenti;
– la produzione di farmaci, pur efficaci, è insufficiente o abbandonata, perché i pazienti non garantiscono un profitto.
La disponibilità di medicine non è l’unica garanzia per una condizione di buona salute. Ma è essenziale. Le attuali politiche farmaceutiche, in termini di mercato e di ricerca, sono regolate in modo da escludere la maggior parte dell’umanità. Consideriamo questo squilibrio un’inaccettabile violazione del diritto fondamentale alla salute.
Per questo motivo MSF, insieme ad altre associazioni non governative italiane (Lila, Farmacisti senza frontiere, AiBi, Cuamm, Mani tese, Fondazione internazionale Lelio Basso, Aifo), rivolge un appello a tutti i cittadini per sollecitare una forte presa di posizione del nostro governo e dell’Unione europea, affinché l’accesso ai farmaci salvavita sia sempre e comunque garantito.

Per ulteriori informazioni:
«Medici senza frontiere» – via Voltuo, 58 – 00185 Roma
tel. 06.4486921
fax 06.44869220
E-mail: msf@msf.it

Guido Sattin




Dal Pentagono a St. Patrick

Nato a Filadelfia da una famiglia
di origini irlandesi,
a lungo cappellano della U.S. Navy,
John O’Connor ha guidato
la diocesi di New York per 16 anni.
Con determinazione
e piglio da leader.

John O’Connor è stato tumulato in una cripta della cattedrale di S. Patrizio lunedì 8 maggio, accanto a quella dove riposa Pierre Toussant, lo schiavo haitiano che due secoli fa si distinse in opere pie e per il quale lo stesso O’Connor aveva avviato in Vaticano la causa di beatificazione.
Una folla di 3.500 persone gremiva la cattedrale, compresi 15 cardinali, 150 vescovi e 800 sacerdoti. Tra i politici spiccavano il presidente Clinton e la moglie, il vice Gore e la moglie, l’ex presidente Bush, il governatore Pataki, il sindaco Giuliani. Il cardinale Angelo Sodano, rappresentante del papa, ha celebrato la messa; il cardinale Beard Law, amico intimo di O’Connor, è venuto da Boston per rivolgere la omelia.
Il cardinale Sodano ha ricordato ai presenti che O’Connor, con i suoi 80 anni, era il più anziano tra i vescovi americani in attività. Dal 1984 guidava l’arcidiocesi di New York e dal 1985 era stato nominato cardinale da papa Giovanni Paolo II. O’Connor era ritenuto molto vicino al pensiero e all’apostolato di papa Wojtyla, dal quale si era recato in visita a Roma per l’ultima volta lo scorso febbraio.
Tra gli altri oratori, il presidente Clinton ha esaltato la forza d’animo non comune e il coraggio e la fede dimostrati nella malattia. L’associazione degli ebrei americani ha sottolineato che O’Connor ha avuto un merito notevole nel costruire un ponte fra ebrei e cattolici. Per il candidato alla Casa Bianca, George Bush, gli Usa hanno perso una voce eloquente a favore dei diritti umani e della dignità dell’uomo. E per il sindaco Rudolph Giuliani il cardinale è stato una bussola morale, ammirato da tutti i newyorkesi, credenti e non credenti.

L’ultima volta che avevo incontrato il cardinale era stata la prima domenica di quaresima (in coincidenza con l’inizio del giubileo della città di New York) nelle cattedrali di S. Patrizio e di S. Giacomo. I sacerdoti, i religiosi, le suore e i fedeli avevano riempito le navate che, in occasione delle celebrazioni, hanno esibito a caratteri cubitali il grande motto «Aprite le porte a Cristo».
Le parole del cardinale e dei vescovi, il canto delle litanie dei Santi, l’invocazione della benevolenza divina su tutti coloro che abitano questa grande metropoli e lo scambio della pace, come dono di responsabilità e di coinvolgimento, avevano fatto della celebrazione un significativo atto penitenziale-giubilare.
«Noi come chiesa saremo sempre con le vittime dell’ingiustizia e della violenza – avevano detto i prelati – e ci impegneremo a garantire a tutti i mezzi necessari per vivere in modo dignitoso e in un ambiente di ascolto e fratea accoglienza».
La frase evangelica più eloquente che il cardinale aveva voluto consegnarci era stata: «Io sono con voi fino alla fine dei tempi». E l’aveva spiegata così: «Queste parole di Gesù ci assicurano che nell’annunziare e vivere il vangelo della carità non siamo soli. In questo anno speciale del giubileo Gesù invita tutti a tornare al Padre, che ci aspetta a braccia aperte, per trasformarci in segni viventi ed efficaci del suo amore misericordioso».
Il ritorno al Padre per il cardinale O’Connor coincideva con la salvaguardia di ogni diritto umano. «Osteggiando il Padre – aveva scritto sul Catholic News, il settimanale della diocesi di New York – tutto viene sconvolto, scatenando necessariamente una serie di fattori negativi, deleteri per la dignità, la vita e la vera realizzazione della persona umana».
Nell’articolo, tra i fattori più negativi, il cardinale aveva citato la tragedia della criminalità che avvelena il vivere civile, lo sfascio e l’infelicità delle famiglie, le ideologie massificatrici, le rivoluzioni sanguinarie, le dittature e gli estremismi di qualunque matrice, i regimi polizieschi, i genocidi e le pulizie etniche, con i relativi campi di sterminio e i foi crematori.
Poche settimane prima di morire, il cardinale John O’Connor era stato premiato della medaglia d’oro del Congresso, l’onore civile più alto della nazione, per la sua battaglia in favore della giustizia economica, le condizioni dei lavoratori e, in generale, per tutte le persone nella città, nello stato e nel paese che hanno bisogno di aiuto.
Nel ricevere la prestigiosa onorificenza, il cardinale aveva ribadito il suo impegno nel difendere, a qualunque costo, la sacralità della vita umana, dal sorgere fino al tramonto, di qualunque persona, di qualsiasi colore, razza, religione o non religione essa appartenga. «Per questa causa mi sono sempre battuto e mi batterò fino all’ultimo mio respiro», aveva detto il cardinale, ancora debole e convalescente per l’operazione al cervello.
Nella storia la medaglia d’oro del Congresso è stata aggiudicata a 250 persone, tra cui spiccano George Washington, Wright Brothers, Madre Teresa di Calcutta. A chi gli aveva ricordato che la prima onorificenza era stata consegnata ai patrioti della rivoluzione americana di Bunker Hill, il cardinale aveva risposto: «È meraviglioso! Anch’io sono stato militare». Infatti O’Connor era stato cappellano della U.S. Navy (la marina militare statunitense) durante la guerra in Vietnam e in Corea.
In quell’occasione, anche il presidente Clinton aveva inviato un messaggio, dichiarando: «Per più di 50 anni O’Connor ha servito la chiesa cattolica e la nostra nazione con costanza e impegno». Nel suo messaggio, il presidente aveva ricordato i primi giorni di operato parrocchiale di O’Connor a Filadelfia, sua città natale, il servizio come cappellano militare e i 16 anni a capo dell’arcidiocesi di New York.
«Sia quando è stato soldato in campo di battaglia sia con i malati di Aids – aveva continuato il presidente – il cardinale ha operato con spirito gentile e amorosa dedizione. Fin dall’inizio, O’Connor è stato un protettore per i poveri, un campione per i lavoratori, e fonte di ispirazione per milioni di persone».
Vari vescovi erano candidati a succedere ad O’Connor alla guida di una diocesi che è solo la terza come popolazione negli Usa (dopo Los Angeles e Chicago), ma è sicuramente la più importante sul piano della visibilità, e del peso politico. Il Vaticano ha scelto Edward Michael Egan, vescovo di Bridgeport. Stimato intellettuale, conosce e parla quattro lingue, ed è un abile amministratore.

Al Barozzi




Laggiù, oltre la frontiera


Dove anche un antibiotico è un lusso

Laggiù, oltre la frontiera Medici e infermieri che curano i bambini di strada violentati, le persone ferite dalle mine, i malati di Aids. Medici e infermieri che lavorano in paesi dove le popolazioni sono in balia di malattie parassitarie, perché mancano gli ospedali e le medicine. Non bastano le Ong, l’Oms o i Medici senza frontiere. Per migliorare, occorre «investire» nel personale medico dei paesi del Sud. Ecco il resoconto di un’esperienza di questo tipo.

Mary-Lu Miranda è un giovane medico di Manila. Ha due bambini e ne aspetta un terzo. Ogni giorno Mary-Lu attraversa la turbolenta capitale filippina, nel frastuono del traffico e nello smog, per raggiungere il suo posto di lavoro. Fa parte di una équipe che, nell’ambito di una Organizzazione non governativa (Ong) internazionale, opera nella capitale filippina. Lei ed i suoi collaboratori fanno un lavoro particolare: si occupano di garantire cure di base a quella sfortunata popolazione che sono i bambini di strada. Ogni giorno ne esamina alcuni, cura le loro malattie, prevalentemente di natura sessuale (sono facile preda di pedofili e mercati illeciti), e cerca di fare un po’ di counselling in loro supporto e protezione. Fa il lavoro con interesse, pur se tra le mille difficoltà che la particolare tipologia dei suoi giovani assistiti comporta.
Beard Kanimba ha 50 anni. Da parecchi lustri è medico e chirurgo, in Burundi, nel secondo ospedale del paese. Vi lavora da abbastanza tempo per essere stato, come lui stesso racconta, testimone delle ferite e lacerazioni che hanno scosso il suo paese negli ultimi decenni. Ma Beard non si lamenta più… In città ora si spara solo la sera e il numero di bambini che saltano su una mina sembra ridotto negli ultimi mesi… E così sono ridotti quegli odiosi interventi disperati per salvare una gamba o un braccio. Anche il materiale scarseggia, ma ora con una Ong ora con un’altra si tira avanti. Basta mantenere il capo basso sul lavoro. Beard racconta il tutto con serenità, come la sua difficile storia personale di dover crescere tre ragazzi dopo la morte della giovane moglie, lavorando e vivendo in un paese in guerra.
Josephine Maende ha 40 anni. Lavora a Nairobi, dove dirige per conto del suo governo un ospedale di 180 letti nella periferia della capitale. Un ospedale per malattie infettive, racconta Josephine, con oltre 100 letti riservati ai malati di Aids. Sembra stanca nel raccontare le delusioni quotidiane del suo lavoro, quando si affanna a fornire palliativi ai suoi pazienti, per la mancanza totale di farmaci veramente efficaci. Nell’ospedale dove lei lavora i farmaci «potenti» contro l’Aids non arrivano perché costano troppo, così come molti degli antibiotici ed antifungini che servirebbero quantomeno a far vivere più degnamente i loro ultimi mesi a questi condannati. Ma lei ed i suoi colleghi sono ostinati, e con il supporto di Medici senza frontiere (Msf) continuano a tentare l’impossibile, salvare una ennesima polmonite da Pneumocistis, un classico killer dei malati di Aids, con del Bactrim. Peccato poi che, una volta rimandato a casa il paziente, questi non sia più in grado di comprarsi la compressa quotidiana dell’antibiotico, poco costosa per noi, ma irraggiungibile per lui. E così…
Francesco fa l’infermiere in Veneto. Ha già fatto due missioni di emergenza in Africa, in zone di guerra. Racconta che forse ripartirà presto, perché così sente di poter valorizzare il suo lavoro. Ha conosciuto quelle ferite lontane e ora non può far finta di ignorarle. Ha scoperto quanto di eccezionalmente utile lui sa e può fare.
Claudia è medico ed ha frequentato, dopo la laurea, una scuola di medicina tropicale. Le piacerebbe che nella sua vita professionale entrasse una esperienza «di terreno», in uno di quei lontani paesi, dove le malattie tropicali, che lei ha conosciuto soprattutto sui libri, sembrano avanzare incontrastate.

Cosa hanno in comune Mary-Lu, Beard, Josephine, Francesco e Claudia? Nulla, fino a poche settimane fa non si conoscevano, e operano a fusi orari di distanza. Si sono conosciuti l’11 marzo, al loro arrivo a Macerata, insieme ad altri 18 loro colleghi provenienti da 15 paesi in via di sviluppo ed un’altra ventina di italiani medici ed infermieri. Tutti erano stati ammessi a partecipare ad un addestramento avanzato di medicina tropicale, l’«Advanced Training on Tropical Medicine», appunto, come si chiamava il corso di Macerata. Organizzato da una collaborazione nata tra Medici senza frontiere (Msf), la Fondazione de Caeri, e l’Ospedale di Macerata.
Il corso era organizzato in tre moduli di formazione indipendenti. Uno per il controllo nei paesi tropicali di Aids e malattie trasmesse per via sessuale; un secondo per il controllo delle principali malattie parassitarie, quali malaria, schistosomiasi, filariasi e altre ancora; un terzo per un addestramento alla chirurgia «difficile», quella di guerra o quella fatta nei remoti ospedali rurali dei paesi poveri.
È cosa nota che in molti paesi tropicali importanti problemi di salute non trovano una adeguata risposta nei fragili e poveri sistemi sanitari esistenti. In questi contesti nuove strategie sono oggi proposte per rendere il controllo di tali malattie sostenibile anche per quei paesi, ma per questo occorre una specifica preparazione, sia dello staff locale che del personale di organizzazioni umanitarie. Questi ultimi poi si trovano a volte ad operare in zone di instabilità e conflitto, con la necessità di applicare una chirurgia «di emergenza» disponendo di scarsissime risorse. Per tutte queste situazioni il corso era stato pensato come uno strumento per preparare, al di fuori di qualsiasi schema accademico, il personale sanitario per fronteggiare al meglio le calamità sanitarie che minacciano la salute di milioni di persone. Un addestramento avanzato, quindi, a completare la preparazione di base, rendendola il più possibile efficace ed efficente sul piano operativo.
Endemie di malattie parassitarie (alcune delle quali sono tra le prime cause di malattia e morte) avvengono proprio in aree dove i farmaci sono carenti e il personale non è preparato.
Recenti stime mostrano addirittura che alcune di esse sono in incremento, nonostante in questi recenti anni vari donatori, istituzionali e non, abbiano investito nel potenziamento dei sistemi sanitari di molti paesi, in particolare in Africa. Ma situazioni di cronica instabilità, conflitti, migrazioni, inadeguato sviluppo delle risorse idriche, tutto conduce ad una diffusione di queste malattie parassitarie. Recentemente nuove strategie di controllo sono state introdotte per ottimizzare l’utilizzazione delle risorse in particolare in paesi poveri e con scarsi supporti economici.
Le nuove strategie propongono modelli di controllo decentralizzato (ma integrato nelle comuni attività dei sistemi sanitari) di quel settore che si chiama «Primary Health Care» o delle cure di base, sancito dalla dichiarazione di Halma Ata una quindicina di anni fa. Questo modello si pone in alternativa ai programmi «verticali», quelli per intenderci in cui poche persone di un gruppo qualificato, che opera a livello centrale (di solito, nella capitale del paese), si occupa di tutto: dalla programmazione alla esecuzione delle attività (come distribuire farmaci o praticare diagnosi). Negli anni questo modello ha mostrato le sue debolezze, in particolare la sua incapacità di sviluppare il sistema sanitario del paese. Senza dire dei fallimenti nel controllo di specifiche malattie. Queste nuove strategie di controllo integrato e decentralizzato hanno costituito uno dei temi principali del corso organizzato a Macerata.
Come l’Aids. La malattia non solo si sta sviluppando come un enorme incendio nell’Africa sub-sahariana, ma contribuisce a rendere ogni possibilità di sviluppo, anche economico, ancor più difficile per il numero di malati e morti tra le fasce produttive della popolazione. L’assenza (a causa dei costi irragionevolmente proibitivi) dei farmaci specifici rende poi pressoché impossibile anche ogni cura mirata a migliorare la qualità di vita delle migliaia di persone colpite dall’infezione.
Ci sono aspetti inquietanti di questa epidemia, come ad esempio l’incapacità di applicare gli strumenti (esistenti ed efficaci) per fermare quantomeno il contagio da madre a bambino durante la gravidanza. E la prevenzione non sembra ancora funzionare, se si pensa che il contagio sessuale è ancora la prima fonte di infezione in Africa e nel Sud-est asiatico. In questo settore giocano un ruolo fondamentale programmi di educazione, informazione, sicurezza del sangue, controllo delle malattie sesso-trasmesse. Per questi interventi sono state sviluppate competenze ed abilità specifiche, illustrate in profondità nel corso di Macerata.

Questi sono stati i contenuti fondamentali che sono stati affrontati nel corso delle due settimane di corso. I docenti delle più qualificate istituzioni scientifiche europee (come la London School of Hygiene and Tropical Medicine della London University, o dello Swiss Tropical Institute) hanno animato la discussione interagendo con questo gruppo di medici «di frontiera», ovvero proprio con coloro che sono chiamati ad applicare le linee guida e raccomandazioni che escono dai loro istituti. Per gli stessi docenti l’opportunità è stata di grande interesse, quella cioè di poter lavorare, in questa full immersion di due settimane, con direttori di ospedali e dirigenti di servizi o programmi dei ministeri della sanità di paesi in via di sviluppo. Il corso era patrocinato anche dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), che ha partecipato con alcuni docenti. Rientra proprio negli obiettivi dell’Oms l’assicurare che adeguate strategie siano proposte, in rispetto dei bisogni e delle risorse disponibili.
Per Medici senza frontiere la formazione del personale è una priorità assoluta, per poter sempre assicurare cure di qualità anche nei contesti difficili dove in genere i suoi teams si trovano ad operare. Non esistono mai giustificazioni per fornire cure di scarsa qualità, neanche l’insicurezza o l’instabilità costante in alcune aree. A Msf, nella organizzazione del corso, si è affiancata la Fondazione Ivo de Caeri (vedi riquadro), fondazione milanese da alcuni anni impegnata nel promuovere lo studio delle malattie parassitarie, una priorità per la sanità pubblica della maggioranza della popolazione mondiale.
E cosa ha portato un ospedale non universitario, quello di Macerata, ad ospitare il corso? Una scelta lungimirante e coraggiosa della sua direzione generale che ha riconosciuto come nella mission di un moderno ed evoluto ospedale debba rientrare il contribuire ad un incremento della qualità delle cure in altre strutture sanitarie. Soprattutto in quei contesti difficili, disagiati e con poche risorse che sono una caratteristica comune a tutti i paesi in via di sviluppo.

In conclusione dell’intenso, stancante ma appassionante corso, i partecipanti hanno voluto riassumere gli aspetti focali del problema. Ne è nato un Macerata Statement in cui vengono elencate le priorità e le principali raccomandazioni per la salute delle popolazioni del Sud del mondo. La «dichiarazione di Macerata» (vedi riquadro) è un documento rappresentativo delle ansie, angosce e bisogni di chi fa del «fornire salute» il proprio appassionante lavoro e la principale sfida dell’esistenza.
Soprattutto laggiù, oltre la frontiera.

Carlo Urbani



L’ONU di Fulci – Incontro con l’ambasciatore dell’ONU

Dopo 43 anni di diplomazia e 7 anni alle Nazioni Unite, l’ambasciatore italiano Francesco Paolo Fulci lascia.
«È una persona che ha sempre difeso gli interessi dell’Italia, dell’Europa e della pace», ha detto il presidente del consiglio Massimo D’Alema.
«Noi ringrazieremo sempre l’ambasciatore perché è un vero gladiatore», hanno commentato alcuni presenti la sera del 28 gennaio, ultimo giorno del suo mandato, in occasione della festa di saluto a Fulci. Qui, a nome di Missioni Consolata, ho avuto il piacere di intervistare l’ambasciatore.
Dottor Fulci, lei ha iniziato la carriera proprio a New York nel 1956, negli anni in cui Krusciov batteva la scarpa sul tavolo del Consiglio di sicurezza. La preoccupava di più il mondo di allora o sembrano più insidiosi gli anni a venire?
«Io sono ottimista per natura. Sono convinto che i problemi tendono a migliorare e soprattutto sono fiducioso per quanto riguarda il ruolo internazionale dell’Italia. Io penso che il nostro paese abbia oggi una marcia in più rispetto agli altri paesi grazie anche agli italiani all’estero. Gli italiani sono una forza straordinaria, a differenza di altri gruppi etnici che tendono a dimenticare la loro terra di origine. Questi italiani si vanno affermando sempre più nella loro patria di adozione, occupando posti di grande rilievo…».
Qual è la sfida internazionale più importante per l’Italia del 2000?
«Ho un sogno che coltivo da anni e che 7 anni fa, quando sono arrivato all’Onu, ho cominciato a perseguire. È quello di un’Europa veramente unita. Quando nel 1995 l’Italia aveva per la prima volta la presidenza dell’Unione europea e sedeva anche nel Consiglio di sicurezza, nella torre d’avorio dell’Onu, cominciai ad esporre anche la posizione dell’Europa. Né la Francia né l’Inghilterra (membri permanenti del Consiglio, ndr) potevano obiettare: la posizione da me espressa era stata prima concordata a Bruxelles tra i direttori politici dei paesi dell’Ue. Ricordo che dissi: “Questo è l’embrione dell’Europa nel Consiglio di sicurezza”. Ribatté subito l’ambasciatore britannico John Weston: “Il seggio europeo è una Fulcian heresy”. Adesso questa “eresia fulciana” comincia piano piano a farsi strada».
Ma come essere ottimisti sul seggio europeo nel Consiglio di sicurezza quando si vedono contrasti tra gli stessi paesi della Comunità? Si pensi, ad esempio, alle posizioni opposte di Francia e Inghilterra rispetto alle sanzioni Onu contro l’Iraq…
«Prima che lei entrasse nel mio ufficio, ho ricevuto due ambasciatori di paesi asiatici, ai quali ho chiesto il voto per l’Italia nelle prossime elezioni per il Consiglio di sicurezza. Un obiettivo fondamentale è rientrare nel Consiglio di sicurezza. L’Italia dovrebbe mettere questo seggio a disposizione dell’Unione europea e senza chiedere alcuna contropartita.
A quel punto potrebbe suggerire che il numero due della legazione italiana sia un rappresentante dell’Europa. Infatti la delegazione italiana che partecipa al Consiglio di sicurezza può essere diversa da quella presente all’Assemblea generale. Quindi l’Italia potrebbe notificare chi vuole come suo delegato. E quando si trattano questioni sulle quali l’Europa ha una posizione comune, allora l’ambasciatore italiano potrebbe cedere il suo posto al presidente di tuo dell’Ue, che parlerebbe quindi dal seggio italiano in nome dell’Europa. E si può fare un passo oltre.
Se Solana (“ministro degli esteri” dell’Ue, ndr) se la sentirà, potrà mandare anche un suo rappresentante a sedere nel seggio italiano. E quindi non sarebbe più il paese presidente di tuo dell’Ue, ma sarebbe l’Europa unita che comincerebbe a parlare con una voce. Io credo che quando noi ci siamo battuti per non far avere il seggio permanente alla Germania, abbiamo reso un enorme servizio all’Europa. Se avessimo perduto quella battaglia avremmo avuto una situazione non dissimile da quella precedente alla seconda guerra mondiale».
Ma la Germania lo ha capito?
«In Germania lo hanno capito gli uomini politici, ma purtroppo non i suoi diplomatici. I funzionari tedeschi sono più nazionalisti dei loro politici, che invece hanno capito che il seggio permanente è ormai una chimera. Orazio diceva Carpe diem, ma l’attimo, grazie anche al nostro lavoro, non lo hanno saputo cogliere. Comunque quello messo a disposizione dell’Italia non dovremmo chiamarlo ancora seggio europeo, ma una presenza permanente dell’Europa nel Consiglio. Perché dopo di noi, dovrebbero metterlo a disposizione la Spagna o la stessa Germania. Avverrebbe quindi de facto la presenza dell’Europa unita».
Cosa succederebbe al seggio permanente francese e inglese?
«La presenza dell’Ue sarà una specie di calamita che comincerà ad attirare i due paesi. Cominceranno a ripetere le posizioni che hanno già concordato in sede Ue. Ci saranno ancora posizioni diverse, ma, col tempo e la forza naturale delle decisioni prese in comune, anche Francia e Inghilterra graviteranno sempre più verso una presenza unica europea nel Consiglio. Se non si arriverà ad una politica estera e di sicurezza comune, l’Unione europea non si potrà mai dire compiuta».
Come vede l’atteggiamento futuro degli Stati Uniti di fronte ad un’Europa come soggetto nello scacchiere internazionale.
«C’è stato un momento che nel dipartimento di stato prevalevano gli uomini pro Germania: erano coloro che premevano affinché i tedeschi entrassero come membri permanenti nel Consiglio. L’attuale ambasciatore americano Holbrooke considera la Germania l’unico grande paese affidabile per gli Stati Uniti».
Holbrooke spinge ancora per i tedeschi?
«Sì, per un seggio dato alla Germania più che all’Europa ed è per questo che i diplomatici tedeschi non si arrendono. Però ci sono molti altri che non la pensano così».
Come la pensa il segretario di Stato?
«La Albright non mi è sembrata mai convinta di questo seggio alla Germania».
Per tradizione, le amministrazioni democratiche Usa sembrano meglio predisposte nei confronti dell’Onu di quelle repubblicane. Se George W. Bush vincesse le prossime elezioni, che accadrebbe?
«Bisogna fare più attenzione a quello che succede nel Congresso che non alla Casa Bianca. Nel 1919 Wilson aveva creato la Società delle nazioni, ma il Congresso scelse l’isolazionismo negando l’ingresso degli Stati Uniti.
Il risultato fu un enorme errore di calcolo. Hitler e Mussolini si convinsero infatti che si sarebbero potuti impadronire dell’Europa senza che l’America intervenisse. Ci volle poi un uomo dalla statura di Roosevelt per far capire agli americani dove si erano cacciati con l’isolazionismo del Congresso. Ecco, quindi, non solo il progetto di un’altra organizzazione internazionale (l’Onu), ma la volontà di volerla ospitare nel proprio territorio; senza dimenticare le truppe americane che restarono in Europa.
Questo ha consentito cinquant’anni di pace e la vittoria della guerra fredda dell’Occidente senza sparare un colpo. Ora è possibile che si vogliano ripetere gli errori del passato? Quando penso che il 40% dei congressmen americani si vanta di non possedere un passaporto, è veramente inquietante».
Lei ha anche rappresentato l’Italia alla Nato. Resta invariato il ruolo dell’Alleanza atlantica ora che si parla anche della creazione di un esercito europeo? In altre parole, la Nato servirà ancora all’Europa?
«Io credo che la Nato debba anzi essere rafforzata. Prima di tutto perché non possiamo essere sicuri del domani. Basta pensare a quello che diceva Yeltsin sulle armi nucleari russe. Insomma, l’unica sicurezza per l’Europa si fonda sulla forza della Nato. Poi le Nazioni Unite non sono assolutamente in grado di compiere operazioni di pace: non ne hanno la vocazione né le risorse. Allora all’Onu per imporre la pace non resta che rivolgersi alle organizzazioni regionali, come la Nato, oppure a coalizioni di “paesi volontari”, come è accaduto per l’Albania o Timor Est.
La Nato quindi resta fondamentale, ma altrettanto lo è l’Onu, perché deve legittimare queste operazioni che devono essere autorizzate dal Consiglio di sicurezza».
Ma per il Kosovo la Nato ha saltato il Consiglio di sicurezza…
«Però poi sono dovuti tornare al “Palazzo di vetro” per raggiungere la pace. La legalità è qui.
Con l’articolo 25 della Carta delle Nazioni Unite i paesi membri si impegnano ad accettare le decisioni del Consiglio di sicurezza; con l’articolo 24 i membri conferiscono al Consiglio di sicurezza la responsabilità primaria della pace e della sicurezza internazionale».
Ad Helsinki l’Europa ha prefigurato l’allargamento ad Est. Ma dove finisce l’Europa?
«Agli Urali».
Quindi anche la Russia, per arrivare ad eliminare, un giorno, quella pericolosa paura dell’accerchiamento?
«Certo, l’Europa deve comprendere la Russia».
Oltre ad essere ambasciatore d’Italia, dal 1997 lei è stato presidente dell’Ecosoc, il Consiglio economico e sociale dell’Onu. Qual è, secondo lei, il male più diffuso nel pianeta?
«Senza dubbio, la povertà. I paesi in via di sviluppo hanno l’80 per cento della popolazione mondiale, ma meno del 20 per cento del prodotto globale lordo.
La prossima assemblea generale dell’Onu, che si aprirà nel settembre 2000, analizzerà la globalizzazione e studierà i modi per sradicare la miseria. Ciò detto, va ricordato che, prima di distribuirla equamente, la ricchezza va prodotta. Sradicare la miseria nel mondo è un programma ambizioso, ma possibile. Mi auguro che tutti i paesi interessati si impegnino per rendere l’economia più giusta».
Un’ultima domanda. Lei, ambasciatore, si è battuto molto contro la pena di morte. Eppure questa continua ad esistere. Pensa che verrà abolita oppure guadagnerà aderenti?
«Da tre anni l’Unione europea, insieme ad altri paesi, presenta la proposta di una moratoria sulla pena di morte. Si chiede la sospensione delle esecuzioni capitali in tutto il mondo. Purtroppo tale proposta è stata bocciata, ostacolata soprattutto da parte dei paesi del blocco asiatico e in parte africano.
Tra i 180 stati membri delle Nazioni Unite il numero delle nazioni abolizioniste, compresi i 15 stati europei, è 72. Il numero magico per la votazione è 90. Ogni anno la lista degli stati favorevoli alla sospensione delle esecuzioni aumenta: l’anno scorso erano 52; quest’anno altri 20 stati hanno cambiato opinione.
Con l’aumento delle probabilità di vittoria dei paesi abolizionisti, sono anche cresciute le pressioni dei paesi contrari alla moratoria, i quali cercano di persuadere gli incerti ad opporsi alla proposta.
Dispiace dire che questa opera di lobby sia sostenuta dagli Stati Uniti, i quali si trovano su posizioni intransigenti, cioè contro la moratoria, e in compagnia di stati noti per violare i diritti umani e sociali, quali Iran, Cina popolare, Cuba, Libia, Egitto, Arabia, Singapore, Uganda, Vietnam e altri. E questo è un puro controsenso, una chiara contraddizione, anzi due.
La prima è che gli Usa sono favorevoli alla tutela dei diritti umani e hanno sostenuto con forza gli interventi in quegli stati che si sono resi colpevoli di pesanti violazioni.
Ancora più forte è la contraddizione in cui gli Usa sono caduti firmando la proposta che, nella creazione del “Tribunale penale internazionale”, esclude che i colpevoli possano essere condannati a morte, non importa di quanti orribili delitti si siano macchiati. Nonostante ciò, gli Stati Uniti sono sempre silenziosamente a fianco di chi rifiuta la moratoria, pronti a battersi per mantenere la pena di morte» (vedi riquadro Stati Uniti).

Al Barozzi




Invecchiare bene o (forse) ringiovanire

Ogni popolo ha le sue ricette.
Si ricorre persino a riti antropofagi, come a semplici cucchiai di olio e miele.
O sorsate di «sakè» in coppe d’oro, funghi, polveri…

Lo scopo principale del navigatore ed esploratore spagnolo Ponce de León (1500), nel Mare dei Caraibi, era la ricerca di una favolosa «fonte della giovinezza».
I pellirosse navaho dell’Arizona adorano la divinità Estsanatlei, che vuol dire «donna che ringiovanisce se stessa». La setta dei tuka, nelle isole Viti, crede nella presenza di un’acqua sacra, capace di guarire e donare l’immortalità.
La corsa affannosa dell’umanità, per realizzare i sogni chimerici di Faust, non è ancora finita. Una carrellata fra le varie culture svela curiose e differenti interpretazioni della senilità, caratterizzata da processi di carattere morfologico, funzionale e psicologico.

Quando inizia la temuta decadenza del nostro corpo? Non è facile né possibile stabilire il limite tra età adulta e vecchiaia, come si fa per altri avvenimenti della nostra avventura umana.
Presso i popoli che non hanno registri anagrafici, non si è vecchi finché si può partecipare attivamente alla vita della comunità. Anche ad età avanzata, un anziano non è considerato vecchio se è in grado di provvedere a se stesso. Esperienza della vita, conoscenza dei diritti, dei doveri e delle cose sacre sono valori che fanno di un uomo un essere «attivo».
Presso alcuni popoli, anche la vecchiaia ha i suoi privilegi: rispetto della comunità e cure particolari fino al termine della vita, partecipazione alle decisioni nella vita sociale, considerazione che esenta gli anziani da restrizioni e tabù che gli altri membri devono rispettare.
I kpelle della Liberia considerano la vecchiaia una benedizione degli antenati, in virtù del bene compiuto in vita verso il mondo superiore. È convinzione che i vecchi abbiano rapporti facili con gli antenati: secondo alcuni gruppi della Nigeria, solo i vecchi li possono «annusare» per l’odore speciale che emanano quando, di notte, passeggiano tra le piante intorno al villaggio.
La considerazione che gli anziani presto diventeranno a loro volta antenati (e come tali potenti) li mette in una condizione di rispetto e privilegio nella tribù. In certe culture i vecchi acquistano posizioni di primo piano, non solo come depositari delle tradizioni, ma anche come intermediari del sacro, come dimostra la loro presenza nelle cerimonie di iniziazione.
Presso gli indios callahuaya della Bolivia, vecchi maghi e uomini-medicina rappresentano una vera aristocrazia, che esercita il controllo sociale sul gruppo; non vi sono elezioni di sorta; alla morte di un anziano, si provvede alla sua sostituzione con un altro vecchio.

O gni popolo ha «ricette magiche», elisir di lunga vita, che a volte possono creare raccapriccio. Si va dai banchetti antropofagici dei tupinamba’ (Brasile), in cui i vecchi erano i più avidi divoratori (perché credevano di assorbire, con la carne dei giovani guerrieri uccisi, anche la loro forza) alle polveri e scritture magiche più disparate.
Secondo la medicina araba tradizionale, il muschio, accompagnato dal «ketbatè» (formula magica), guarisce la sterilità delle donne giovani, rinforza la vista, dà un gagliardo vigore ai vecchi. Zenzero, chiodi di garofano, noce moscata, radice di galanga, olio e miele: due cucchiai mattino e sera e… la longevità è assicurata. Così si dice in Marocco.
In Giappone, nei templi scintornisti, si può intraprendere una cura contro l’invecchiamento bevendo un’acquavite ricavata dal riso fermentato (sakè); si attribuisce a tale bevanda la virtù di prolungare la vita, se sorseggiata da coppette magiche d’oro o similoro che si acquistano nel tempio.
Nell’Ayurveda (o Veda della longevità) della medicina indiana, il Rasajana-Tantra è dedicato alla «scienza del ringiovanimento». Secondo questa scienza medica, si può rallentare la senilità bevendo miele, latte, acqua fredda e burro, da soli o insieme, in ogni tempo della vita.
Esistono in commercio speciali preparati, a base di semi di embelia (ribes e robusta) e glycyrrhiza glabra: se presi con acqua fredda o miele, possono far diventare centenari; inoltre fanno crescere denti, unghie, capelli, rinforzano vista e udito. Anche l’oro polverizzato è un farmaco contro la vecchiaia: asparagus racemus, mescolato con oro polverizzato, permette all’uomo di «vivere come il suo re».
In Cina, nei negozi di souvenirs per turisti, si possono acquistare le statuette degli «otto immortali»; una di queste rappresenta il «dio della longevità», Shou Lou, circondato da altri simboli di lunga vita: funghi dell’immortalità, cipresso sempreverde, pipistrello, tartaruga ed altri ancora. Il fungo in questione è forse il poliporus lusidus, che cresce alla radice degli alberi. Tale fungo prodigioso, raffigurato anche in dipinti e sculture, ha spore considerate dai mistici taoisti cibo del genio e simbolo di tutto ciò che è grande e buono.

L’ oriente è ricco di metodi e ricerche per ringiovanire; ma nell’interminabile elenco di ricette e consigli emergono soprattutto tre farmaci, definiti «i principi fondamentali della geriatria tradizionale»: la kwao-kua del Siam, il gin-seng e il pantui, coa molli del daino maculato (cervus nippon).
Questi farmaci sono stati oggetto di approfondite ricerche farmacologiche, chimiche e cliniche: hanno messo in evidenza sconcertanti somiglianze tra i creduti effetti attribuiti dalla medicina tradizionale e le loro accertate possibilità svelate da indagini scientifiche.

Liliana Pizzoi




Prima il profitto poi i brevetti


Le multinazionali farmaceutiche investono nei settori dove maggiore è la possibilità di guadagnare,
indipendentemente dai bisogni. I brevetti sono ostacoli insormontabili. Insomma, i farmaci sono trattati alla stregua di un qualsiasi altro prodotto. Questa politica comporta gravi conseguenze per una larga fetta dell’umanità.

Un pomeriggio di ottobre del 1999, nella Cambogia nord-orientale. Stiamo percorrendo una pista che costeggia il fiume Mekong, risalendone il corso.
Andiamo a verificare lo svolgimento di un programma di controllo delle malattie parassitarie, gestito dal ministero della sanità con il nostro supporto tecnico. Il programma sembra andar bene, e siamo orgogliosi di aver abbattuto i tassi di mortalità per queste malattie nella regione.
Decidiamo di concederci una sosta per sgranchirci un po’ e bere dell’acqua. Ci fermiamo in un grazioso villaggio, affacciato su una bella insenatura del grandioso fiume. L’aria è pulita e profumata, e la luce dell’imminente tramonto colora di violetto le acque del fiume, incoiciato dal verde della esplosiva vegetazione. Mi allontano un po’ dalla Toyota, e mi fermo sotto una delle casupole, tutte uguali, tutte estremamente precarie: un pavimento di bambù su quattro alti pali (le case sono così, anche per proteggersi dalle inondazioni), quattro pareti di foglie di palma intrecciate e un tetto, anch’esso di foglie. Una bambina sorridente sta appoggiata alla ripida scala che conduce all’interno, e in alto sua madre – così credo – è seduta intenta a eliminare le scorie da una manciata di riso. Mi sorride. Così mi tolgo le scarpe e salgo.
Seduta sul pavimento, la donna ha sulle gambe un fagotto, che si muove ritmicamente. Lei sposta un lembo degli stracci e scopre un bimbetto (10-12 mesi) ansimante, viso affilato, occhi spalancati e una colata di muco dal naso. Chiamo l’interprete, per avere notizie di quel piccolo visibilmente sofferente. È così, mi dicono, da 3-4 giorni; ha anche smesso di succhiare il seno. Lo tocco: è bollente. Avvicino un orecchio al suo dorso: polmonite. Non si lamenta mentre lo esamino, continua solo ad ansimare rumorosamente.
Apro la borsa per vedere cosa abbiamo di utile in quella condizione: trovo delle compresse di ampicillina e di paracetamolo. Dovrebbero andare. Poi l’interprete spiega alla mamma come fare: bollire dell’acqua, schiacciare una compressa in una ciotola, scioglierla e dae un cucchiaio al bimbo ogni 8 ore; poi reidratarlo con acqua, zucchero e sale, poi il paracetamolo… cose banali insomma, una serie apparentemente semplice di istruzioni.
Ma la preoccupazione sul volto della mamma sembra indicare tutto il contrario: manovre complicate, quasi impossibili, gesti del tutto estranei alla quotidianità della sua vita. Ci allontaniamo dalla casupola lasciando il rantolo del bambino con la polmonite alle nostre spalle.
L’indomani, sulla via del ritorno, ci fermiamo di nuovo. La mamma in lacrime ci dice che la sera prima il bimbo ha chiuso gli occhi dopo il tramonto e durante la notte ha smesso di respirare.

Cosa ha di particolare questa storia? Nulla, assolutamente nulla. Rivela semplicemente quanto accade ogni giorno, in migliaia di villaggi, per milioni di bambini.
Ricordo la prima volta che misi piede in Africa, fresco di studi di medicina tropicale. Aspettavo con ansia di vedere malati affetti da quei misteriosi e «affascinanti» morbi esotici. Rimasi quasi deluso quando, nella prima giornata di consultazioni mediche, vidi solo bambini gravemente malati o prossimi al decesso per banali infezioni.
Diarrea, infezioni delle vie respiratorie: sono queste le prime cause di morte nei paesi in via di sviluppo. Il 95% dei decessi sono dovuti a malattie infettive, per le quali esistono efficaci trattamenti. Ma un terzo della popolazione mondiale non ha accesso ai farmaci basici. Gran parte di queste malattie sarebbero facilmente curabili; però, proprio là dove più servono, i farmaci relativi non sono disponibili, spesso perché troppo costosi.
La causa di questa discrepanza tra bisogni e offerta risiede in rigide leggi di mercato, in base alle quali i prezzi dei farmaci, protetti da brevetto, sono fissati sulla disponibilità a pagarli nei mercati dei paesi industrializzati. Alla base di gran parte dei disastri sanitari, dell’impossibilità a gestire epidemie o endemie, a prevenirle, a impedire la morte per banali infezioni, alla base di tutto possiamo affermare oggi con certezza che c’è un problema di farmaci. Vediamo di capire di cosa si tratta.
Anzitutto mancano nuovi farmaci utili in medicina tropicale, che siano poco tossici, a basso costo ed efficaci per debellare le malattie (parassitarie, ad esempio), causa di sofferenza e morte.
Basta un dato: negli ultimi 20 anni, tra i 1.233 nuovi farmaci offerti dal mercato internazionale, solo 11 avevano come indicazione malattie tropicali, e di questi 7 venivano dalla ricerca veterinaria. Per cui appena lo 0,3% della ricerca farmaceutica contemporanea è indirizzata alle malattie ai vertici di ogni classifica mondiale di morbosità e mortalità. Perché? Semplice, perché queste malattie imperversano in mercati poco remunerativi. Le priorità sono, quindi, più di ordine economico-commerciale che medico.
Da un lato fiumi di miliardi vengono investiti sulla ricerca di nuove pillole contro l’obesità e l’impotenza, dall’altro quasi niente per malattie tropicali. Se poi talvolta (e c’è l’evidenza) una multinazionale farmaceutica giunge a sintetizzare un farmaco attivo su una malattia tropicale, spesso il fabbricante decide di non commercializzarlo, poiché la sua vendita sarebbe poco remunerativa nei paesi dove i pazienti interessati sono concentrati.
A volte, per le stesse ragioni, farmaci già disponibili, efficaci e semplici da somministrare scompaiono improvvisamente, come è stato il caso della sospensione oleosa di cloramfenicolo, usata per trattare la meningite meningococcica (malattia capace di uccidere in 24 ore). Tale farmaco era l’alternativa al trattamento con ampicillina, che richiede 4 infusioni endovenose al giorno, contro un paio di iniezioni intramuscolari in tre giorni per il cloramfenicolo. Una bella differenza, per trattare pazienti in strutture sanitarie carenti di materiale e igiene.
Altro esempio, quello della efloitina. Questo farmaco serve per trattare lo stadio avanzato della tripanosomiasi, più conosciuta come malattia del sonno (trasmessa dalla famosa mosca tse-tse). Bene, mentre il vecchio farmaco usato (un derivato dell’arsenico estremamente tossico e somministrabile in dolorose iniezioni) diveniva anche inefficace per l’insorgenza di ceppi di parassiti resistenti, appare questo nuovo ritrovato. Sfortunatamente due anni fa la ditta produttrice, detentrice del brevetto, ha deciso di sospendee la produzione per motivi commerciali. E i circa 300 mila malati si vedono rioffrire il vecchio melarsoprol.
Questo è quanto accade, in questo mercato globalizzato.

Uno dei problemi principali è causato dal brevetto che protegge il farmaco. Il brevetto rappresenta un diritto sacrosanto dell’industria per salvaguardare i frutti dei sui investimenti in sperimentazioni. Accade però che i brevetti si tramutino in micidiali armi che limitano l’accesso ai farmaci.
Esistono paesi definiti in via di sviluppo, ma in realtà detentori di tecnologie sufficienti per una produzione farmaceutica. Nazioni come India, Thailandia, Sudafrica o Brasile sono in grado di produrre farmaci utili per le loro popolazioni e quindi rivenderli a prezzi accessibili. Il prezzo di farmaci come il fluconazolo, efficace in gravi infezioni fungine, crolla così dai 20 dollari al giorno per un trattamento in Kenya, dove è importato, a meno di un dollaro al giorno in Thailandia, dove è prodotto da una azienda nazionale.
Questo è reso possibile da una norma che si chiama compulsory licensing, o licenza obbligatoria (vedi box).
A questo punto, la domanda che sorge è: etica e sviluppo economico del settore farmaceutico sono obiettivi incompatibili?
Le più autorevoli riviste mediche inteazionali (ad esempio, British Medical Joual e JAMA) sostengono che l’etica è compatibile con l’economia. Per questo i medici, che operano in questi contesti, sono stanchi di dover pensare, di fronte all’ennesima morte di un loro paziente: «Mi spiace. Stai morendo a causa di una inadeguatezza del mercato».
Il caso dell’AIDS mostra poi cifre apocalittiche. Il 95% dei malati di Aids nel mondo non ha accesso a farmaci efficaci per restituire salute e dignità. Ma (fatto ancor più grave) i trattamenti per ridurre significativamente la trasmissione verticale dell’infezione da madre sieropositiva a figlio al momento del parto non sono disponibili proprio nei paesi dove questa modalità di trasmissione sta segnando le nuove generazioni, condannando a morte entro 5-8 anni un bambino già al momento della sua nascita.
Farmaci come l’Azt o la nevirapina, efficaci anche se somministrati per solo 4 settimane intorno alla data del parto, sono vittime delle stesse regole di mercato. Spietati brevetti ne permettono la vendita a prezzi proibitivi e ne impediscono la produzione da parte di altre aziende. Se è vero, si può sempre applicare la licenza obbligatoria. Ci ha provato la Thailandia iniziando a produrre Azt per le sue donne (tantissime) incinte e sieropositive. Il farmaco ha avuto il costo abbattuto del 7000%.
La reazione degli USA, dove risiede la ditta detentrice del brevetto, è stata: non possiamo impedirtelo, ma possiamo però ridurre le importazioni dalla Thailandia… Cosa questa insostenibile in questo momento di crisi economica.
Ecco come vanno le cose.
Farmaci che ci sono, ma costano troppo; farmaci che esistono, ma non vengono prodotti, germi che divengono resistenti ai comuni trattamenti (TBC, leismaniosi, tripanosomiasi, ecc.), ma la ricerca farmaceutica ha altri obiettivi… e le cifre di morte e malattia continuano ad avere parecchi zeri nei paesi dei poveri del mondo. Quello che basterebbe è esigere un «diritto alla salute per tutti».
Già sentito?

Carlo Urbani




La mafia delle donne

Talvolta un solo verso poetico può aprirci una nuova visione del mondo, lasciandoci affascinati o perplessi e, persino, sconvolti.
Con una prosa sagace, la scrittrice indiana Anita Desai ci racconta nel romanzo In custodia avventure e disavventure, incontrate da un pavido professore universitario di hindi, per intervistare un famoso e venerato poeta urdu.
Anita Desai, nata nel 1937 a Mussoorie (India) da madre tedesca e padre bengali, è una delle scrittrici indiane più conosciute ed apprezzate a livello mondiale. Ha scritto una decina di romanzi, alcuni libri per bambini e ha ottenuto numerosi riconoscimenti a livello internazionale.
Sposata e madre di quattro figli, la Desai attualmente divide il suo tempo tra Nuova Delhi, dove vive con la famiglia, e gli Stati Uniti; qui dove insegna in un programma di scrittura creativa al Massachusetts Institute of Technology. Dopo aver frequentato le scuole superiori e l’università a Delhi, in ambienti esclusivamente femminili, Anita si sposò e sviluppò la sua passione per la scrittura. «Un anno dopo il baccalaureato – racconta – mi sposai e per la prima volta entrai in un mondo gestito e controllato da uomini. Fu uno shock.
Un’esperienza abbastanza comune per le donne della mia generazione, che affrontammo in modi diversi… Il mio modo è stato la scrittura. Sin da quando mi impadronii dell’alfabeto, fui affascinata nel vedere come le lettere e parole si mettevano in ordine su di una pagina; creavano dei disegni e avevano ragione, logica e maestria; eppure lasciavano all’immaginazione spazi da riempire. Mi accorsi di come anche il caos della vita avrebbe potuto essere messo su carta, per ottenere un senso e significato».

C on poche immagini, pregne di significato, Anita Desai riesce nel romanzo In custodia a chiarirci il «caos», caratterizzato da conflitti e tabù, nelle pratiche religiose dell’India.
La scrittrice ci racconta il suo paese: «Naturalmente l’area intorno alla moschea era considerata “musulmana” e il resto passava per “indù”… Se due fazioni si scontravano, come accadeva di tanto in tanto, balenavano i coltelli, i bastoni calavano e scorreva il sangue. Per un certo tempo la tensione restava alta. I quotidiani in hindi e urdu si colmavano di servizi prudenti e di editoriali insinceri sulla laicità dell’India, mentre la notte apparivano fogli con notizie meno caute, miste a minacce ed accuse. Poi la polvere della città di Mirpore si levava e turbinava, seppellendo di nuovo ogni cosa all’orizzonte; i cittadini tornavano alla lotta quotidiana per respirare. Gli indù uccidevano i maiali nel loro quartiere, mentre i musulmani avevano cominciato a macellare i bufali in luogo delle vacche, avendo compreso che altrimenti sarebbe stato un suicidio. I pochi cristiani mangiavano la carne di entrambi gli animali e frequentavano l’unica chiesetta in mattoni imbiancati, posta in un cimitero ombreggiato da polverosi alberi di nim».

A Mirpore vive e insegna Deven, professore di hindi, ma da sempre innamorato della poesia urdu, nata nel fasto delle corti islamiche dell’India settentrionale. Deven pensa di aver incontrato la più grande occasione della sua vita quando gli propongono di intervistare a Delhi il grande poeta Nur.
Con realismo disincantato la Desai ci racconta i retroscena della vita personale del pavido professore, le amare sorprese della città e dell’ambiente in cui è praticamente tenuto «prigioniero» il famoso vate. Le donne, che a prima vista paiono così remissive e passive, di fatto condizionano pesantemente la vita di uomini, che si credono padroni e indipendenti.
La Desai svela gli intrighi, che avevano già caratterizzato il matrimonio del professore. Infatti scrive: «Deven era un poeta più che un insegnante, quando aveva sposato Sarla (era stato assunto solo come professore incaricato temporaneo e ancora aveva fiducia nei propri versi) e lei, come moglie di un poeta, sembrava troppo prosaica. La scelta, naturalmente, non era stata sua, bensì di sua madre e delle zie, donne astute e prudenti. Sarla era la figlia dell’amica di una zia, viveva nella stessa strada di quella famiglia; l’avevano osservata per anni e l’avevano trovata adatta sotto ogni riguardo: insignificante, spilorcia e congenitamente pessimista… Sarla non alzava mai la voce: innumerevoli generazioni di donne indù alle spalle le sbarravano il passo, impedendole di manifestare aperta ribellione. Deven sapeva che avrebbe urlato e insultato solo una volta al sicuro, preferibilmente in cucina, il suo dominio».
Sarla e le zie di Deven paiono teneri agnellini al confronto delle donne islamiche, che circondano il famoso ma ormai decadente poeta. La prima moglie si ingegna ad estorcere denaro a chiunque desideri intervistare il poeta, mentre la seconda moglie, più giovane almeno in apparenza, ha calpestato la fama del marito per atteggiarsi lei stessa a poetessa. Sbigottito Deven si chiede: «Che cos’era questa calda convivialità femminile, che lo giudicava una figura ridicola e riduceva perfino l’anziana e veneranda persona del poeta Nur a un patetico e logoro cuscino da cui usciva una vecchia imbottitura stantia? Questa donna, questa cosiddetta poetessa, faceva parte di quella a lui ben nota mafia femminile – pensò -, guardandola con palese disgusto… C’era stata un’altra lotta – si domandò nel panico – come fra tigri gelose? Era forse una scena abituale in questa casa di felini feroci? Non avrebbero, insieme, divorato la carne indifesa e tremante del poeta e anche la sua?».

L a Desai dipinge un’India che si dibatte fra tradizione e modeità, in cui la voglia di innovare è mortificata da piccoli atti vandalici, come quelli previsti per la festa del college.
«Un uomo con una scala a pioli tolse dalle plafoniere le lampadine bruciate e ne avvitò di nuove, il lungo volto imbronciato dalla consapevolezza che, entro una settimana, tutte sarebbero state rotte o rubate un’altra volta». Eppure, malgrado le vicissitudini sofferte, Deven si sente «custode dell’anima stessa e dei versi di Nur… mentre la loro melodia gli sussurra all’orecchio:
Il mio corpo è solo un calamo
reciso dalla punta della spada,
arido e vano finché non è intinto
nell’inchiostro del sangue della vita».

Silvana Bottignole




Guarigioni vere con medicine presunte


Si ricorre a placebo, come il bastone, ma anche occhi di vetro, cuori di corallo o d’oro, nonché al sangue del paziente, urina, saliva, unghie, capelli.

Spesso capita di sentire o leggere cose strane su credenze e pratiche terapeutiche esotiche o nostrane, che ci lasciano stupiti, increduli ed anche un po’ scettici. Come è possibile, ci si chiede, che miscele di foglie «fredde» o poltiglie di erbe «calde», possano influire sul decorso di una malattia con effetto risolutivo? Che infezioni, intossicazioni, ferite, gravidanze, malattie nervose, asma… possano essere curati con organi e prodotti del regno animale, usati anche solo in effigie e quando il loro modo di applicazione esclude, a priori, un’azione farmacologica?
Vien da pensare che ci sia qualcosa in più in queste pratiche mediche tradizionali, qualcosa che è legato al concetto di suggestione più che a quello di sostanza curativa. In altre parole, si tratta di ciò che viene definito dalla medicina occidentale «effetto placebo», definizione data ad ogni medicamento che si somministra più per compiacere l’ammalato che a scopo curativo.
Il placebo comprende qualsiasi mezzo chimico, fisico, chirurgico o psicologico che simuli un effetto terapeutico. Anche nella medicina occidentale l’«effetto placebo» è ben documentato, particolarmente dove sono presenti sintomi soggettivi accentuati e intensa partecipazione psicologica del paziente, come nelle malattie psicosomatiche. Angina pectoris, artrosi, malattie reumatiche, cefalee, ipertensione essenziale, febbre da fieno, stati asmatici, mal di mare, tosse, disturbi dell’ulcera peptica e stati dolorosi post-operatori… beneficiano in molti casi di effetti favorevoli con la somministrazione di un placebo.
Servirsi di sostanze-placebo, pur essendo una prassi non abituale e non sempre ben accetta nella medicina occidentale, si è rivelato in diversi casi, particolarmente nell’ambito della patologia psichiatrica, un importante sostegno morale per il malato, quasi «un oggetto» investito di potere terapeutico con funzione simbolica.
Secondo uno studioso, il 35-45% di tutti i medicinali, somministrati come placebo, è costituito da sostanze incapaci di avere un effetto sulle malattie per le quali è prescritto.

I nteressante, a questo proposito, è un placebo un po’ particolare: il bastone; convalescenti di malattie agli arti inferiori che sono dovuti ricorrere al bastone per i primi passi, in seguito non possono più fare a meno di portarlo anche se perfettamente guariti. Il bastone, anche solo tenuto in mano, dà loro un senso di forza e sicurezza che è necessario per rinforzare l’equilibrio e l’attività motoria.
Se l’«effetto placebo» vale nella nostra medicina, vale di più per l’etnomedicina, ossia per le medicine tradizionali in cui un’infinità di «placebo» e di insolite pratiche mediche e credenze trovano una spiegazione in quel vasto campo, solo in parte esplorato, dei fenomeni psicosomatici.

E cco una «carrellata etnologica», quasi un affresco carico di colore, di placebo: l’occhio (in vetro) come talismano contro il malocchio, il cuore (in oro, argento, corallo) per preservare da varie malattie, ma anche sangue, urina, saliva, unghie, capelli!
Secondo credenze arabe, poiché nel sangue possono risiedere spiriti apportatori di malattie, si ricorre immediatamente al salasso quando si presentano disturbi di un certo tipo. In Angola il sangue sano, estratto con il metodo delle ventose, viene utilizzato per curare ustioni. In Marocco si è convinti che si possa migliorare la bellezza dei denti estraendo qualche goccia di sangue dal mento. Nel Gabon si ricorre al sangue per fare una prognosi per la malattia del sonno; lo stregone (n’ganga) prende il sangue del malato e lo versa su foglie di colocasia esculenta: se il sangue diventa nero, la malattia è incurabile e il malato deve morire. Nelle Filippine si fa bere alla gestante una piccola quantità del suo sangue per alleviare le sofferenze del primo parto.
Anche l’urina umana è un farmaco di grandissimo uso nelle medicine tradizionali. In Libia il bambino, che stenta a parlare, o la persona che ha poca memoria devono urinare in una pozza di acqua stagnante per guarire il loro disturbo. In Eritrea si cura l’asma bevendo un bicchiere della propria urina ogni mattina, per dieci giorni consecutivi, seguito subito da uno spicchio d’aglio.
Dulcis in fundo? In Australia con urina di persona sana si curano le ferite. Nelle Filippine con la propria urina si trattano le malattie degli occhi, purché il liquido sia raccolto alla sera e al mattino seguente, a distanza di 12 ore; inoltre, con la prima urina di un bambino, la madre si frizionerà i capelli per impedie la caduta. In Guatemala si cura l’asma dando da bere all’ammalato la sua urina; infine le coliche viscerali scompaiono se si ingerisce, per una sola volta, una miscela di urina (3-5 gocce), acqua e sale. Lavarsi la faccia con l’urina del neonato, ogni volta che fa «pipì», è una buona cura per la puerpera che soffre di macchie gravidiche.
La radice di chenopodium ambrosioides, macerata in un bicchiere di urina, è utile per combattere il parassitismo intestinale: si beve la pozione ad intervalli regolari. In Venezuela con l’urina si combatte l’alito cattivo (bee tre sorsi appena svegli), la stitichezza (clisteri di urina), la tigna del cuoio cappelluto (sedimenti di urine lasciate in riposo per 24 ore).
I Malargüe dell’Argentina curano gli eczemi con l’urina di lattante, la sterilità con quella di una donna gravida e nei parti difficili ricorrono all’agua del marchante, ossia l’«urina dell’eremita», un uomo che vive come un anacoreta del passato, in preghiera e lontano dal mondo.
La saliva, come rimedio, ha un uso universale. Nelle Filippine il tambalan (guaritore-erborista) cura con la propria saliva febbri, dolori di stomaco e altri disturbi; ma il manulutho, il medico «di base» del villaggio, cura esclusivamente con la saliva, sputandola sulla faccia del malato o bagnando con essa le zone infette della pelle. Tra i Malargüe la pedra bezoar (un calcolo spesso presente nello stomaco del lama) acquista poteri terapeutici solo se, appena estratta, viene bagnata con saliva. Nelle Hawai il kakuna (medico tradizionale) trasmette le sue conoscenze mediche agli allievi bagnando con la propria saliva l’interno della loro bocca.
In Burkina Faso e Etiopia, infine, le madri leccano il neonato per farlo crescere bello e sano. Un proverbio recita così: «Quando la madre lecca molto il bambino, Dio è contento, come quando ciascuno paga i suoi debiti».

Liliana Pizzoi




I parassiti del Mekong


QUESTA RUBRICA

Nel corso degli ultimi anni si è assistito ad un miglioramento globale della salute delle popolazioni. Tuttavia resta ancora elevatissimo il numero di individui, soprattutto nei paesi della fascia intertropicale, che non hanno accesso alle cure sanitarie, e lo scarto tra poveri e meno poveri si è ulteriormente approfondito.
Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), 2 miliardi di individui vivono nella povertà, e di questi 700 milioni vivono in situazioni di estrema precarietà. Per queste persone l’accesso a servizi sanitari e a cure mediche non è assolutamente assicurato, quando addirittura impossibile. La povertà genera malattie, attraverso la mancanza di igiene, strutture sanitarie e adeguati trattamenti, educazione. Per questo in molti paesi l’attesa di vita alla nascita non supera i 50 anni, e sono malnutrizione e tutta una serie di malattie tropicali a compiere la decimazione soprattutto nei primi anni di vita.
Nel 1977 i governi e l’OMS nell’Assemblea generale hanno fissato l’obiettivo di garantire la salute per tutti i popoli del mondo entro l’anno 2000. Purtroppo tale traguardo sembra ancora ben lontano, e addirittura in alcune aree si è assistito ad un deterioramento della situazione sanitaria e della qualità della vita.
Per chi vive in un paese sviluppato è in genere difficile immaginare la situazione nella quale la gran parte dell’umanità vive nei paesi in via di sviluppo. E di molte delle malattie più diffuse al mondo si sa quasi nulla, spesso anche il nome suona del tutto insignificante, come avitaminosi, schistosomiasi, dracunculosi, dengue, e così via. Si impiegano nel mondo risorse enormi per la ricerca sul cancro, o le cardiopatie, o le malattie vascolari, ma non tutti sanno che non è per queste malattie che la maggioranza dell’umanità soffre e muore.

In questa rubrica, attraverso brevi resoconti di giornate di lavoro in alcuni paesi tropicali, ci racconteremo qualcosa che riguarda la salute, o meglio l’assenza di salute, in questo mondo dei più sfortunati, dove povertà e malattia si generano a vicenda. Ca.U.


L’ATR72 della «Royal Air Cambodge» sfiora con il carrello le cime di alcuni alberi. Dopo aver posato rumorosamente le ruote sulla corta pista in terra battuta, le turbine frenano con un ruggito la corsa dell’aereo. Un’ora abbondante di volo ci ha portati all’aeroporto di Stung Treng, nel nord-est della Cambogia, dove il Sesan e il Sekong si versano nel Mekong, a circa 40 chilometri dalla frontiera con il Laos.
Pochi minuti prima, seduto vicino al finestrino, osservavo il paesaggio sotto di me e, nei varchi tra i cumuli di condensa tipici di quell’ora, intorno a mezzogiorno, scorrevano lentamente risaie, foreste e fiumi. Il corso del Mekong, visto dall’alto, lascia immaginare l’imponenza di questo fiume, che disegna ampie curve nel verde intenso della vegetazione. A stento si possono vedere i piccoli villaggi sulle sue sponde, giusto una linea di quadratini di un altro colore, tra cui è magari identificabile il tetto variopinto di una pagoda. Ed è difficile immaginare in questo stupendo quadro quante incredibili atrocità siano state consumate, e quanta sofferenza sia nascosta sotto quegli alberi. Il verde intenso della foresta a tratti scompare, per lasciare il posto ad ampie macchie grigiastre, testimonianza della deforestazione selvaggia che incombe nella regione.
Ora, sbarcati nell’aeroporto di Stung Treng, ci prepariamo a risalire un tratto del Sekong, per andare a visitare gli abitanti di un gruppo di villaggi più a monte. Poco più tardi stiamo già scivolando sulle acque blu e perfettamente lisce del fiume, tra due pareti di impenetrabile verde. Con me viaggiano due medici e due microscopiste cambogiani. Trasportiamo farmaci e materiale di laboratorio.

Sulla piroga sventola la bandiera di Médecins Sans Frontières (MSF), che dal 1993 cerca di far fronte in questa regione al grave problema della schistosomiasi. Oggi stiamo andando a verificare la presenza della malattia in una zona molto remota, ed eventualmente distribuire il farmaco che trasportavamo, il praziquantel.
La schistosomiasi è uno dei problemi sanitari più importanti dei paesi della fascia intertropicale, e la forma diffusa lungo il fiume Mekong è una delle più gravi. In Cambogia le dimensioni del problema sono state comprese solo di recente, grazie all’intervento di MSF che ne ha identificato l’area più colpita e ha messo in opera delle misure di controllo. In molti villaggi lungo il Mekong i segni della malattia sono drammaticamente evidenti.
Gran parte dei bambini soffrono di dolori addominali cronici, emettono feci con sangue e muco, il loro addome si gonfia progressivamente per l’ingrossamento di milza e fegato, ed a partire dagli anni dell’adolescenza sviluppano i primi sintomi della cirrosi epatica, la stessa malattie che colpisce gli alcolisti. Si forma acqua nella pancia (ascite), si gonfiano le vene sulla superficie dell’addome e si formano varici nell’esofago. Negli stadi avanzati della malattia il soggetto è estremamente emaciato, sofferente, con una enorme pancia, gambe magre ed edematose, fino a che la rottura delle varici esofagee e la conseguente emorragia ne causa il decesso. Coloro che sono infettati da molti parassiti hanno anche un arresto della crescita e dello sviluppo sessuale, così che l’età apparente trae spesso in inganno e un ventenne può essere facilmente preso per un bambino di 11-12 anni.
La schistosomiasi è causata da un piccolo verme che vive nelle vene intorno alla parete dell’ultimo tratto dell’intestino. Se le uova prodotte con le feci arrivano nelle acque del fiume, si chiudono e liberano un piccolo organismo che, nuotando, viene attirato particolarmente da un certo mollusco, una piccola conchiglia che vive nelle fessure delle rocce semisommerse nel fiume. All’interno della conchiglia il parassita matura e forma una piccola larva. Questa lascia la conchiglia e si libera nelle acque del fiume. Se entra in contatto con la pelle umana, è in grado di perforarla ed attraversarla. Una volta penetrato il parassita si lascia trasportare dal sangue e, dopo un complicato percorso, raggiunge la sede definitiva del suo sviluppo, appunto le vene intorno all’intestino, per diventare adulto.
Il problema principale è causato da quelle uova che, prodotte dalla femmina, non riescono a mescolarsi alle feci come previsto, ma vengono portate via dalla corrente sanguigna nelle piccole vene dove i vermi vivono. Queste uova finiscono intrappolate nel fegato, causandone l’ingrossamento, la fibrosi, e poi la cirrosi. Questo fa ingrossare la milza e fa aumentare la pressione del sangue nella vena porta. Questa «ipertensione» causa l’ascite e la formazione di varici esofagee. Più sono numerosi i vermi adulti, più grave è la malattia. Ne deriva che solo i soggetti continuamente esposti a nuove infezioni sviluppano gravi sintomi. Essere esposti all’infezione significa avere molti contatti con l’acqua del fiume, nelle zone dove ci sono quelle conchiglie e dove nelle acque finiscono le feci umane. In zone disabitate la trasmissione non può esistere. E chi ha più contatti con il fiume? Basta arrivare in un villaggio per capirlo.

La nostra piroga quel pomeriggio è arrivata a Sdau, un villaggio di un migliaio di abitanti, lungo il Sekong. È quasi il tramonto: i colori del fiume e del cielo sono stupendi. Spento il motore dell’imbarcazione per arrivare dolcemente sulla riva, piombiamo in un piacevole silenzio, nel quale è facile sentire le grida dei bambini che giocano poco lontano, tutti immersi nell’acqua del fiume… vicino le rocce dalle quali si tuffano. Ecco il primo bersaglio della malattia: i bambini.
Il loro contatto con l’acqua del fiume è importante. È forse l’unico gioco disponibile e offre un piacevole ristoro nell’afa soffocante. E poi correre nei campi non è, forse, così raccomandabile… in un paese con una delle più alte concentrazioni al mondo di mine antiuomo! Poco più vicine alla riva le sorelle più grandi, sedute sulle rocce semiaffioranti, a lavare i poveri panni o intente a sciacquare gli umili utensili domestici: un cesto di bambù, un mestolo, o qualche ciotola. E sulla riva qualche bambino più piccolo, che fa la cacca nel fiume. Una scena normale lungo un fiume tropicale, ma è questo il ritratto della trasmissione della schistosomiasi. Bambini infetti fanno la cacca, dove probabilmente ci sono delle uova di schistosoma. Poco lontano le rocce ospitano la conchiglia che fa diventare infettante la larva, e nella stessa zona altri che nuotano, ed il cerchio si chiude. Incuriositi dal nostro arrivo i bambini escono all’asciutto, mostrando i loro enormi ventri, costellati di tante piccole cicatrici. Ci accompagnano silenziosi lungo il sentirnero che sale al villaggio.
Girando nelle case, palafitte di legno o di bambù per i più poveri, incontriamo altri bambini, quelli che non hanno abbastanza forza per andare a schiamazzare nel fiume. Sono seduti sulla scala che sale al piano rialzato, con lo sguardo più triste degli altri, e la pancia ancora più grossa. Alcuni adulti sanno che quei bambini sono malati di qualcosa che ha a che vedere con il fiume, ma sanno anche che per loro, gli abitanti di Sdau, come per quelli di tantissimi altri villaggi in Cambogia, non ci sono cure. L’ospedale più vicino è a due ore di piroga, e poi bisogna pagare le medicine, e quassù soldi non ce ne sono. Non è facile avvicinare le persone, tutti sembrano diffidenti, ed anche un po’ spaventati. La strategia del terrore fa ancora sentire il suo alito in Cambogia. In questi villaggi è facile morire anche per molto meno: basta una diarrea o una polmonite, quando poi non si accanisca su questa gente una epidemia di febbre emorragica o di malaria. Le donne partoriscono nelle loro capanne senza alcuna assistenza sanitaria ed in precarie condizioni igieniche. Ci dicono che a volte i bambini muoiono vomitando sangue (la rottura delle varici esofagee). Nonostante l’evidenza decidiamo di esaminare alcuni campioni di feci per confermare la presenza della malattia.

Intanto do un’occhiata al resto del villaggio, mentre penso a cosa servirebbe per restituire la salute a queste persone. Sono colpito dalla loro povertà. L’unico bene che custodiscono in casa è una piccola riserva di riso e qualche utensile. Nella «passeggiata» mi accompagna Huong, silenzioso ragazzino con una fionda appesa al collo, un viso pallido e affilato, ed un enorme ventre che lo obbliga a camminare con la schiena curvata indietro, come una donna alla fine della gravidanza. Mi osserva curioso e, dal modo di sorridere, sembra evidente che si aspetta qualcosa da me.
Passiamo la notte nel villaggio, rassicurati dagli abitanti che ci mostrano i loro AK47, con i quali ci difenderebbero dai khmer rossi. Al mattino cominciamo a distribuire il farmaco. Verrebbe voglia di curare anche tutte le polmoniti, congiuntiviti, anemie e quanto altro scorre sotto i nostri occhi. Purtroppo, quando le risorse sono carenti, occorre stabilire delle priorità e la schistosomiasi, per la grave malattia e la mortalità che ne derivano, qui a Sdau rappresenta una priorità. Distribuiamo la dose di praziquantel ad ogni abitante. In queste situazioni costa meno trattare tutti che esaminare tutti e trattare solo le persone infette. È una delle regole in simili programmi di sanità pubblica nei paesi in via di sviluppo.

Huong vuole essere il primo a ricevere la medicina, e rimane vicino a noi ad assistere al trattamento degli altri del villaggio. Si fa anche fotografare orgoglioso il suo ventre enorme. La medicina tradizionale di queste regioni tratta il dolore addominale facendo delle piccole bruciature con dei tizzoni ardenti sulla pelle. Per questo le pance di chi ha la schistosomiasi qui sono piene di cicatrici: sono le bruciature che i bambini crescendo accumulano, ogni volta che si lamentano dei loro dolori. Purtroppo chi è già gravemente malato non beneficia del trattamento: la cirrosi del fegato è una malattia irreversibile.
Trattae i sintomi per allungare la sopravvivenza è possibile, ma tali trattamenti sono completamente fuori della portata di chi vive in villaggi come Sdau. Dopo due giorni lasciamo il villaggio, con almeno un problema in meno, ma allontanandoci lo immaginiamo sprofondare di nuovo nell’isolamento e nella mancanza totale di cure mediche.
In zone come queste la schistosomiasi interessa anche l’80% dei bambini, e il trattamento costa 12 centesimi di dollaro: circa 180 lire. Ma moltiplicare le 180 lire per le decine di migliaia che aspettano di essere trattati fa diventare il costo insostenibile per il paese, e poi la mancanza di infrastrutture ne rende difficile la distribuzione, e negli ospedali non c’è personale formato per controllare la distribuzione del farmaco e l’evoluzione della malattia, e ancora in molte aree l’accesso è difficile a causa dell’insicurezza: khmer rossi, banditi, anche gli infermieri cambogiani hanno paura ad andare in certe zone. Così un problema in apparenza semplice diventa in realtà difficile in paesi (e non sono pochi) come la Cambogia.

Quando, sei mesi dopo, torniamo a Sdau, Huong è già morto, ma in tanti altri l’infezione è scomparsa. L’infermiere che ci assisteva sa ora riconoscere agevolmente i malati attraverso i sintomi. E la gente è un po’ più fiduciosa.
A piccoli passi il programma sta dando i suoi frutti. Dopo tre anni di attività, in molti villaggi le «pance grosse» stanno scomparendo, ma ne restano altri in attesa. Di un po’ di salute e pace. E magari di una piroga di MSF.


LA SCHISTOSOMIASI (BILARZIOSI)

La schistosomiasi, anche conosciuta come bilarziosi, in alcune aree del pianeta è la seconda più diffusa malattia tropicale, dopo la malaria, ed è causa di una malattia potenzialmente grave. È causata dall’infezione di un parassita, le cui diverse specie causano o una schistosomiasi urinaria o una intestinale. La forma intestinale da Schistosoma mekongi rappresenta forse la forma più grave di queste infezioni, ed è diffusa in un tratto del Mekong nel sud del Laos, e in Cambogia, lungo il tratto superiore del Mekong che la attraversa ed in alcuni suoi affluenti. Si stima dell’ordine di decine di migliaia il numero dei soggetti infetti, e l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha riconosciuto in questa malattia una delle priorità in termini di salute pubblica nell’area.
La malattia che ne deriva è causata essenzialmente da una migrazione aberrante delle uova prodotte dal verme adulto nei plessi venosi del grosso intestino. Queste uova causano fibrosi e cirrosi del fegato, e conseguente ipertensione portale. Infezioni ripetute causano un aumento del numero di parassiti, e quindi una maggiore gravità della malattia. Per le loro abitudini i bambini rappresentano il gruppo più colpito. Non sono efficaci misure di controllo mirate, indirizzate contro l’ospite intermedio (una conchiglia che vive nelle fessure delle rocce del fiume), ma è notevolmente efficace un trattamento periodico di tutta la popolazione esposta al rischio di infezione, con una singola dose di praziquantel.
Il farmaco ha scarsissimi effetti collaterali, ed il suo impiego per campagne di trattamenti di massa ha ormai una enorme esperienza. Altre strategie di controllo, abbinate al trattamento di massa, sono l’educazione sanitaria e, quando possibile, migliorare l’igiene ambientale. L’educazione sanitaria mira a ridurre il versamento delle feci umane nei corsi d’acqua e a evitare il contatto delle persone con l’acqua dei tratti rocciosi del fiume. Questo dovrebbe fornire il risultato di diminuire il numero di infezioni successive. La costruzione di latrine rappresenta un importante traguardo, e non solo per la schistosomiasi. Ma il costo rende questo obiettivo irraggiungibile.

Carlo Urbani