MA IL CUORE RIMANE IN COLOMBIA

New York è
la quinta città colombiana, dopo Bogotá, Medellín, Cali, Barraquilla. Ne
abbiamo parlato con Maurizio Suarez Copete, console colombiano a New York.

«New York
è la quinta città colombiana, dopo Bogotá, Medellín, Cali, Barraquilla.
Circa un milione vivono a Jackson Heights (detto la pequena Colombia) nel
Queens e a Elisabeth nel New Jersey». Così ci spiega Maurizio Suarez
Copete, console colombiano a New York.


Il giornale americano che parla
di più della Colombia è il New York Times; gli altri ne scrivono quando ci
sono di mezzo droga e guerra. Esiste uno studio serio, che affronti il
problema dei colombiani a New York e non li veda solo come problema, ma
anche come risorsa?

Tuttavia
le caratteristiche di questa comunità, i suoi problemi,  bisogni,
aspirazioni e l’impatto sulla vita sociale, politica ed economica è 
ancora poco studiato. Oggi la maggioranza degli americani considera i
colombiani residenti negli Usa un guaio! Grazie a Dio, in questi ultimi 
anni, il bisogno di conoscere meglio la comunità colombiana è incominciato
a crescere. Un progetto di collaborazione tra il consolato generale della
Colombia di New York e la Wagner Graduate School for Public Service
dell’università di New York sta aiutando a capire le caratteristiche
dell’emigrazione, come pure  i problemi e bisogni della comunità
colombiana.

Oltre
ai risultati della ricerca (che mostrano il colombiano come grande
lavoratore, ligio alle tradizioni e appassionato ricercatore del sogno
americano), cosa ci si prefigge di raggiungere con questo progetto?

Anche se
la maggioranza colombiana svolge lavori manuali, vi è un crescente gruppo
di professionisti, come avvocati, dottori, architetti, managers e
banchieri… Mi sta a cuore sapere come questi emigranti si inseriscono e
adattano all’ambiente in cui vivono, conoscere la percezione che gli
emigranti hanno dell’attività che svolgono, esplorare le organizzazioni in
cui lavorano, seguire in particolare i servizi del consolato a loro favore
e togliere o migliorare gli stereotipi sui colombiani americani.


Negli
Stati Uniti le occupazioni principali dei colombiani sono lavori manuali:
casalinghe, camerieri, operai di fabbrica, assistenti ai commercianti,
bidelli, custodi di palazzi e così via. E vi rimangono per parecchi anni.
Ciò dimostra che un’alta percentuale ha lavori fissi, stabili.

Questo
contraddice lo stereotipo, a volte diffuso e accettato per motivo di
ignoranza, che la popolazione colombiana sia disoccupata, impegnata in
occupazioni illegali. Inoltre è da notare che, anche se i colombiani a New
York si trovano in condizioni migliori di altri gruppi latinoamericani,
non sono esenti da necessità e problemi. Il 40 per cento, ad esempio, non
gode di un’assicurazione medica e, dunque, non è protetta contro i rischi
della salute.


Che cosa fa lei, come console,
per convincere i colombiani a frequentare la scuola?

I sondaggi
presi nelle scuole di New York rivelano che il 61 per cento dei colombiani
ha riportato  un diploma di scuola superiore durante gli ultimi tre anni;
inoltre,  dopo la popolazione bianca e paragonati agli altri latini e
afro-americani, i colombiani che frequentano l’università sono al secondo
posto.

Qui devo
menzionare l’opera della dottoressa Gloria Gomez, nata a Bogotá 45 anni or
sono, attualmente direttrice della Zoni Language  Center. È un sistema
scolastico composto di 25 centri, che ha diversi scopi: migliorare
l’istruzione dei giovani colombiani, per confutare l’immagine negativa che
il mondo esterno ha del loro paese; far conoscere la lingua e cultura
inglese; sopperire alla mancanza di rappresentanza politica; combattere la
discriminazione; punire la vendita e l’uso di droga…

Fra
i colombiani c’è chi si integra totalmente nella società  americana e chi
ha già il biglietto di ritorno in patria. Comunque la cultura colombiana è
l’orgoglio di questa gente: sia che rimanga o ritorni in Colombia,
l’identità nazionale resta profonda nel cuore. È vero?


Il mio
lavoro, tuttavia, mira a progettare un piano di azione per servire la
comunità nella zona metropolitana e definie le priorità, che sono varie.
Innanzitutto promuovere i programmi sociali per prevenire l’uso della
droga e della violenza, specialmente tra i giovani. Inoltre lanciare
attività dirette allo sviluppo delle organizzazioni della comunità e
istruire i leaders a dirigerle. In terzo luogo: prendere misure pratiche
per aiutare gli emigranti a trovare lavoro e provvedere informazioni circa
lo stato giuridico, i benefici, diritti e doveri che si hanno negli Stati
Uniti.

Il mio
compito è anche quello di stabilire un ponte tra il governo americano e la
comunità colombiana, in modo che i funzionari statali conoscano e aiutino
i colombiani di New York ad affermarsi sempre di più. È chiaro che i
leaders delle comunità colombiane devono coinvolgersi per debellare i
problemi derivati dall’«immagine negativa», dalla mancanza di
partecipazione nei vari settori della vita pubblica e, soprattutto, dalla
discriminazione.

Dato che
il consolato è limitato in risorse e personale, si avvale di
organizzazioni locali, associazioni professionali, imprese private, chiese
e mass media per organizzare incontri, stabilire programmi d’azione e
preparare leaders che possano aiutare i colombiani ad affrontare le sfide
nel nuovo paese di adozione.


INFORMAZIONE, PER CORREGGERE GLI STEREOTIPI

«HECHOS
POSITIVOS»

Luis
Alejandro Medina, l’anno scorso, ha ricevuto due premi: il premio
nazionale «Bolivar» dalla Colombia, come migliore giornalista all’estero,
e il premio di «eccellente reporter» dalla stazione televisiva 47 per cui
lavora. I suoi reports generalmente riguardano tre aspetti: il legame dei
colombiani con il loro paese, l’impegno a sostenere i compatrioti
all’estero, il coinvolgimento del consolato tra gli immigrati con progetti
e attività.

Sfogliando
il giornale, si notano storie e racconti di un forte attaccamento dei
colombiani alla loro famiglia e amici, l’uso dominante dello spagnolo in
casa, il sogno di ritornare a vivere in patria, l’abitudine di mandare
soldi ai parenti lontani. Nello stesso tempo, si racconta come le
istituzioni del Nord America siano più efficienti di quelle colombiane;
come un grandissimo numero di colombiani siano diventati cittadini degli
Stati Uniti e facciano uso del diritto di doppia cittadinanza; come
moltissimi stiano integrandosi con la cultura degli Stati Uniti, pronti a
organizzarsi per il bene comune. La grande maggioranza dei colombiani in
America apprezza la libertà di agire, senza essere criticati o repressi.

Hechos
Positivos si batte pure perché il consolato migliori la qualità dei
servizi e informazioni sulle attività pubbliche, sostenga le attività
culturali e folcloristiche, realizzi le aspettative della gente e gli
impegni per cui riceve aiuti, migliori l’immagine della Colombia
all’estero, crei organismi capaci di affrontare le risorse pubbliche.


Soprattutto incoraggi la comunità colombiana a formare una rappresentanza
che migliori il futuro.

Al Barozzi




Ma il cuore rimane in Colombia

New York è la quinta città colombiana,
dopo Bogotá, Medellín, Cali, Barraquilla.
Ne abbiamo parlato con Maurizio Suarez Copete,
console colombiano a New York.

«New York è la quinta città colombiana, dopo Bogotá, Medellín, Cali, Barraquilla. Circa un milione vivono a Jackson Heights (detto la pequena Colombia) nel Queens e a Elisabeth nel New Jersey». Così ci spiega Maurizio Suarez Copete, console colombiano a New York.
Il console ci ha concesso la seguente intervista.

Il giornale americano che parla di più della Colombia è il New York Times; gli altri ne scrivono quando ci sono di mezzo droga e guerra. Esiste uno studio serio, che affronti il problema dei colombiani a New York e non li veda solo come problema, ma anche come risorsa?

Negli ultimi dieci anni la comunità degli emigranti colombiani, legali e illegali, di New York, New Jersey e Connecticut è aumentata molto velocemente. La Colombia, infatti, è uno dei 20 principali paesi di provenienza degli emigranti che vengono ammessi o entrano negli Stati Uniti. La zona metropolitana, per le enormi possibilità di lavoro che offre, continua ad essere lo stato americano con maggiore numero di emigranti.
Tuttavia le caratteristiche di questa comunità, i suoi problemi, bisogni, aspirazioni e l’impatto sulla vita sociale, politica ed economica è ancora poco studiato. Oggi la maggioranza degli americani considera i colombiani residenti negli Usa un guaio! Grazie a Dio, in questi ultimi anni, il bisogno di conoscere meglio la comunità colombiana è incominciato a crescere. Un progetto di collaborazione tra il consolato generale della Colombia di New York e la Wagner Graduate School for Public Service dell’università di New York sta aiutando a capire le caratteristiche dell’emigrazione, come pure i problemi e bisogni della comunità colombiana.

Oltre ai risultati della ricerca (che mostrano il colombiano come grande lavoratore, ligio alle tradizioni e appassionato ricercatore del sogno americano), cosa ci si prefigge di raggiungere con questo progetto?

La nostra è una società della comunicazione, ma sovente è monodirezionale: cioè chi parla non si pone il problema degli ascoltatori, dei loro bisogni e reazioni. Mi sono immerso in questo studio, perché ho notato tanti pregiudizi nei confronti dei miei connazionali. Soprattutto mi ha colpito la debolezza (o assenza) di ascolto e dialogo, davanti alla diversità di lingua, cultura e storia tra il Sud e Nord americano. Con questa ricerca desidero non solo far conoscere la storia del mio popolo, ma anche i suoi prodotti. Questi saranno accettati, quando la popolazione americana vedrà in modo positivo i colombiani.
Anche se la maggioranza colombiana svolge lavori manuali, vi è un crescente gruppo di professionisti, come avvocati, dottori, architetti, managers e banchieri… Mi sta a cuore sapere come questi emigranti si inseriscono e adattano all’ambiente in cui vivono, conoscere la percezione che gli emigranti hanno dell’attività che svolgono, esplorare le organizzazioni in cui lavorano, seguire in particolare i servizi del consolato a loro favore e togliere o migliorare gli stereotipi sui colombiani americani.

Potrebbe parlarci del lavoro nel contesto della famiglia colombiana?

La maggior parte degli emigrati colombiani sono attratti dagli Stati Uniti per le condizioni materiali ed economiche che contribuiscono ad un miglior livello di vita. Una volta stabiliti negli Stati Uniti, riescono a inserirsi nella forza lavorativa, ma con una differenza: i colombiani che vengono negli Usa sono disposti e costretti, per questioni di lingua e sistema scolastico diverso, a lavorare in occupazioni socialmente e professionalmente inferiori a quelle che avrebbero goduto se fossero rimasti in Colombia.
Negli Stati Uniti le occupazioni principali dei colombiani sono lavori manuali: casalinghe, camerieri, operai di fabbrica, assistenti ai commercianti, bidelli, custodi di palazzi e così via. E vi rimangono per parecchi anni. Ciò dimostra che un’alta percentuale ha lavori fissi, stabili.
Questo contraddice lo stereotipo, a volte diffuso e accettato per motivo di ignoranza, che la popolazione colombiana sia disoccupata, impegnata in occupazioni illegali. Inoltre è da notare che, anche se i colombiani a New York si trovano in condizioni migliori di altri gruppi latinoamericani, non sono esenti da necessità e problemi. Il 40 per cento, ad esempio, non gode di un’assicurazione medica e, dunque, non è protetta contro i rischi della salute.
Che cosa fa lei, come console, per convincere i colombiani a frequentare la scuola?

Una minima parte dei colombiani ha un’occupazione talmente sofisticata da poter influenzare decisioni che toccano la loro comunità. È perciò necessario dare importanza all’istruzione e allo sviluppo dei professionisti, in modo tale che possano competere nel salire più in alto nella scala sociale, mantenendo viva nello stesso tempo la loro solidarietà e responsabilità verso la comunità.
I sondaggi presi nelle scuole di New York rivelano che il 61 per cento dei colombiani ha riportato un diploma di scuola superiore durante gli ultimi tre anni; inoltre, dopo la popolazione bianca e paragonati agli altri latini e afro-americani, i colombiani che frequentano l’università sono al secondo posto.
Qui devo menzionare l’opera della dottoressa Gloria Gomez, nata a Bogotá 45 anni or sono, attualmente direttrice della Zoni Language Center. È un sistema scolastico composto di 25 centri, che ha diversi scopi: migliorare l’istruzione dei giovani colombiani, per confutare l’immagine negativa che il mondo esterno ha del loro paese; far conoscere la lingua e cultura inglese; sopperire alla mancanza di rappresentanza politica; combattere la discriminazione; punire la vendita e l’uso di droga…

Fra i colombiani c’è chi si integra totalmente nella società americana e chi ha già il biglietto di ritorno in patria. Comunque la cultura colombiana è l’orgoglio di questa gente: sia che rimanga o ritorni in Colombia, l’identità nazionale resta profonda nel cuore. È vero?

I colombiani negli Stati Uniti dicono con grande sincerità che, economicamente, hanno raggiunto il fine che si erano proposti lasciando il loro paese. Però, in contrasto con la soddisfazione materiale, c’è la convinzione profonda che la Colombia offra maggiori opportunità per soddisfare i loro bisogni emotivi, come il legame con gli amici e la famiglia. Sovente sento dire: «Gli Stati Uniti offrono molte opportunità; però avvertiamo la mancanza del calore umano, che possiamo avere soltanto nel nostro paese».

Nel mondo i mass media dipingono la Colombia come un paese senza pace a causa della guerriglia, la presenza della droga e l’apparente mancanza di rispetto per la vita. Non vi sarebbe interesse né attenzione per affrontare in modo giusto la questione. Cosa pensa al riguardo?

La Colombia sta attraversando un periodo molto tragico di guerra, violenza, corruzione e il mondo intero spera in una soluzione vicina, intelligente e senza sangue. Ce lo auguriamo tutti.
Il mio lavoro, tuttavia, mira a progettare un piano di azione per servire la comunità nella zona metropolitana e definie le priorità, che sono varie. Innanzitutto promuovere i programmi sociali per prevenire l’uso della droga e della violenza, specialmente tra i giovani. Inoltre lanciare attività dirette allo sviluppo delle organizzazioni della comunità e istruire i leaders a dirigerle. In terzo luogo: prendere misure pratiche per aiutare gli emigranti a trovare lavoro e provvedere informazioni circa lo stato giuridico, i benefici, diritti e doveri che si hanno negli Stati Uniti.
Il mio compito è anche quello di stabilire un ponte tra il governo americano e la comunità colombiana, in modo che i funzionari statali conoscano e aiutino i colombiani di New York ad affermarsi sempre di più. È chiaro che i leaders delle comunità colombiane devono coinvolgersi per debellare i problemi derivati dall’«immagine negativa», dalla mancanza di partecipazione nei vari settori della vita pubblica e, soprattutto, dalla discriminazione.
Dato che il consolato è limitato in risorse e personale, si avvale di organizzazioni locali, associazioni professionali, imprese private, chiese e mass media per organizzare incontri, stabilire programmi d’azione e preparare leaders che possano aiutare i colombiani ad affrontare le sfide nel nuovo paese di adozione.

HECHOS POSITIVOS

I colombiani negli Stati Uniti hanno bisogno del loro paese e la Colombia dei suoi connazionali all’estero. Il ponte tra queste due grandi comunità è possibile con i mass media. Un giornale, diretto e prodotto da soli colombiani a New York, è Hechos Positivos (Fatti positivi), con circa 20 mila copie giornaliere. Ideato e diretto da Luis Alejandro Medina in collaborazione con Luis Orlando Murcia, nativi di Bogotá e residenti a New York da dieci anni, si prefigge di aiutare la comunità colombiana informandola sugli avvenimenti, correggendo gli stereotipi, riportando le leggi immigratorie e assistenziali, coltivando l’orgoglio nazionale (tradizioni, turismo, famiglia, fede dei colombiani) e appoggiando i colombiani che si candidano alle elezioni amministrative, civiche e religiose nella zona metropolitana.
Luis Alejandro Medina, l’anno scorso, ha ricevuto due premi: il premio nazionale «Bolivar» dalla Colombia, come migliore giornalista all’estero, e il premio di «eccellente reporter» dalla stazione televisiva 47 per cui lavora. I suoi reports generalmente riguardano tre aspetti: il legame dei colombiani con il loro paese, l’impegno a sostenere i compatrioti all’estero, il coinvolgimento del consolato tra gli immigrati con progetti e attività.
Sfogliando il giornale, si notano storie e racconti di un forte attaccamento dei colombiani alla loro famiglia e amici, l’uso dominante dello spagnolo in casa, il sogno di ritornare a vivere in patria, l’abitudine di mandare soldi ai parenti lontani. Nello stesso tempo, si racconta come le istituzioni del Nord America siano più efficienti di quelle colombiane; come un grandissimo numero di colombiani siano diventati cittadini degli Stati Uniti e facciano uso del diritto di doppia cittadinanza; come moltissimi stiano integrandosi con la cultura degli Stati Uniti, pronti a organizzarsi per il bene comune. La grande maggioranza dei colombiani in America apprezza la libertà di agire, senza essere criticati o repressi.
Hechos Positivos si batte pure perché il consolato migliori la qualità dei servizi e informazioni sulle attività pubbliche, sostenga le attività culturali e folcloristiche, realizzi le aspettative della gente e gli impegni per cui riceve aiuti, migliori l’immagine della Colombia all’estero, crei organismi capaci di affrontare le risorse pubbliche.
Soprattutto incoraggi la comunità colombiana a formare una rappresentanza che migliori il futuro.
A.Ba.

Al Barozzi




Per diventare cittadino americano

… si fa di tutto.
Gli immigrati provenienti da Haiti (il più povero
paese dell’America Latina) sono circa un milione e mezzo, in maggioranzacattolici. A parte
qualche eccezione, per loro le difficoltà di integrazione sono state numerose.
Ne abbiamo parlato con mons. Guy Sansaric,
direttore della pastorale haitiana negli Stati Uniti.

N egli Stati Uniti ci sono attualmente circa un milione e mezzo di haitiani, due terzi dei quali sono cattolici, rappresentando così il numero più alto di cattolici neri immigrati in America. Tuttavia, malgrado tali cifre, solo 60 chiese provvedono alle necessità pastorali di questa popolazione.
Il direttore della pastorale haitiana statunitense è monsignor Guy Sansaric. Lo incontro nella sua sede di Brooklyn durante una conferenza su rifugiati e immigrati haitiani, svolta per una commissione pastorale venuta da Washington, D.C.
«H aiti – ammette con dolore mons. Sansaric – è la nazione più povera dell’America Latina e una delle più povere del mondo».
Secondo il censimento statunitense del 2000, si possono distinguere tre grandi flussi migratori da Haiti verso gli Usa: il primo sotto la dittatura di François Duvalier detto «Papa Doc», prima del 1970; il secondo sotto il regime del figlio Jean Claude Duvalier, detto «Baby Doc», dagli anni ’70 fino al 1987; il terzo flusso ha interessato il periodo che va dall’esilio di Duvalier fino ai giorni nostri.
«Sotto il regno di terrore di Papa Doc, solo gli intellettuali e i ricchi haitiani potevano emigrare con facilità in America e ricevere, grazie al loro talento o denaro, l’ambitissimo visa – spiega Sansaric -. L’opposto avvenne sotto il regime brutale di suo figlio, Baby Doc. Constatammo che moltissime persone scappavano su povere barche in cerca di libertà politica e di un pezzo di pane. Durante il viaggio tantissimi annegavano e solo il 70 per cento di coloro che approdavano sulle coste americane riuscivano ad ottenere il visa, mentre gli altri venivano arrestati e rispediti indietro».
Gli stati principali verso cui gli emigrati haitiani si dirigevano erano il Massachusetts, il New Jersey, e soprattutto New York e la Florida. «Ma – precisa subito Sansaric – durante i miei 40 anni di lavoro qui negli Stati Uniti, ho trovato haitiani in ogni stato, ad eccezione dello Iowa».
Data la presenza di numerosi illegali e le minime risorse di cui possono disporre, gli haitiani, a differenza di altri gruppi etnici, tendono a marinare di più la scuola e a non frequentare l’università. Di conseguenza sorgono tante forme di crimine: dallo spaccio della droga alla prostituzione, dai furti agli omicidi.
«La mancanza di istruzione e, in particolare, il basso livello di stima personale dovuti alla povertà economica, generano il peggio in un individuo. Gli tolgono la bellezza dello spirito – spiega Sansaric -. È per questo che la nostra organizzazione si prefigge di instillare nei giovani l’amore alla scuola, la dignità personale e la possibilità di un lavoro decente basato sulla legalità».
Un dato particolare del gruppo haitiano in America è la bassa percentuale di matrimoni. «Anche durante il flusso migratorio degli anni ’70, periodo in cui le condizioni economiche nell’isola erano relativamente buone, gli haitiani erano meno propensi a sposarsi di qualsiasi altro gruppo etnico» dichiara Sansaric. Secondo l’intervistato, la ragione di questo fenomeno è da attribuirsi al fatto che gli haitiani desiderano ad ogni costo raggiungere il livello sociale degli altri emigrati in America; per cui sacrificano perfino la famiglia.
«È sempre stato difficile per un haitiano diventare cittadino americano, cosa che ogni emigrato desidera disperatamente per liberarsi dal giogo di una enorme povertà e per sognare un futuro migliore altrove», ribadisce Sansaric.

L a composizione della popolazione haitiana in America mostra che, fin dall’inizio, il numero delle donne supera di un terzo quello degli uomini: una percentuale che si è mantenuta costante anche col passare degli anni. Per quanto riguarda l’età, la stragrande maggioranza include persone che oscillano dai 31 ai 40 anni.
Sansaric conferma che gli haitiani che vennero in America prima degli anni ’70 guadagnavano più degli altri emigrati, poiché provenivano da famiglie ricche ed intellettuali.
«Questo è decisamente cambiato negli ultimi 30 anni: gli haitiani sono passati da una classe media ad una inferiore. Oggi chi lavora fa il tassista, il meccanico, il custode di palazzi, si occupa delle pulizie o è assunto in fabbrica», riferisce il nostro interlocutore. A causa dell’ancora alto numero di illegali, la presenza di haitiani medici, avvocati, managers, banchieri, maestri, infermieri e tecnici specializzati è ancora minoritaria rispetto ad altri gruppi etnici. «È nostro desiderio – dice con speranza e ottimismo il monsignore – che la piccola rappresentanza di élite possa influire di più sugli altri haitiani e spianare così la via per un futuro migliore».

N el campo religioso, gli haitiani in America sono in maggioranza cattolici, mentre il 35 per cento sono protestanti. Tuttavia, la religione protestante sta avendo molto successo e questo è dovuto sia al numeroso e qualificato personale, sia alle abbondanti risorse pastorali e all’insistente proselitismo che viene svolto tra gli emigrati.
«Per esempio nella città di New York i protestanti contano 600 parroci, mentre noi cattolici ne abbiamo solo 13; essi posseggono una radio religiosa che trasmette 24 ore su 24, mentre noi ne siamo assolutamente privi; e poi loro mettono a disposizione numerosi centri e chiese dove si parla, insegna e diffonde la lingua e cultura creola, mentre noi cattolici vantiamo pochi centri del genere», lamenta Sansaric.
Per far fronte a questi bisogni impellenti, monsignor Sansaric sta portando avanti numerosi progetti: ha proposto ai vescovi americani programmi di leadership per laici haitiani, centri satellitari di comunicazione culturale e religiosa sparsi nei vari stati del paese, biblioteche di libri scritti in creolo e in francese, frequenti ritrovi nazionali tra sacerdoti, diaconi, suore e laici che lavorano con gli haitiani, un programma televisivo di due ore al giorno in lingua creola, e una vasta rete in tutto il paese di sensibilizzazione ai problemi giovanili.
«Vedo già il giorno in cui gli emigrati haitiani non solo lavoreranno per l’America che li ha accolti, ma offriranno anche la loro cultura – spiega Sansaric -. Non solo creeranno benessere, ma porteranno anche una nuova politica culturale, religiosa, manageriale e questo sarà motivo di orgoglio per il paese da cui provengono e un ponte tra Haiti e il loro paese d’adozione».

DAI CORSI IN LINGUA CREOLA
ALL’«HAITIAN TIMES»

Nato in una famiglia cattolica a Jeremie, Haiti, nell’ottobre del 1934, all’età di 13 anni Sansaric decide di diventare sacerdote. Frequenta il seminario della sua diocesi natale, per poi essere inviato dal vescovo a studiare all’Università pontificia di S. Paolo, ad Ottawa, in Canada: per 7 anni studia filosofia e teologia. Ottiene la laurea in ambedue le discipline prima di essere ordinato sacerdote nel 1960.
Dopo essere stato assegnato assistente-parroco alla cattedrale di Les Cayes, Haiti, per un anno, il vescovo lo manda come cappellano degli immigranti haitiani a Nassau, nelle Bahamas; vi resta per 7 anni, studiando nel frattempo anche giurisprudenza. Nel 1968 è a Roma per studiare scienze sociali all’Università Gregoriana, ottenendone la licenza.
Nel 1971 viene accettato dal vescovo della diocesi di Brooklyn e assegnato alla parrocchia del Sacro Cuore in Cambria Heights nel Queens, dove rimane 22 anni. Nel 1974 il vescovo lo nomina direttore dell’apostolato haitiano di Brooklyn e, un anno dopo, la Conferenza episcopale americana lo assume a lavorare per la comunità haitiana nazionale. Dal 1990 Sansaric è direttore del Centro nazionale dell’apostolato haitiano. In tale ruolo pubblica Haitian Times, una newsletter mensile, che viene spedita a 1.500 sacerdoti e a 10.000 laici impegnati a servire la comunità haitiana degli Stati Uniti e ad inserirla nella vita culturale, politica, economica e religiosa americana.
Il monsignore dirige l’Istituto pastorale in lingua creola, organizza convegni annuali dell’apostolato haitiano e vari congressi giovanili per cattolici haitiani. Dal 1993 è anche responsabile della chiesa di San Girolamo, nel Queens.
A.Ba.

SUPERANO MURI E DIVIETI

Gli Stati Uniti hanno una popolazione di 265.283.783 persone. Secondo il censimento dell’ottobre 1996, nel paese ci sono 21.631.601 immigrati legali. La suddivisione per continente di provenienza è la seguente:

– 8.524.594 dal Nord e Centro
America
– 1.107.000 dal Sud America
– 5.412.127 dall’Asia
– 4.812.117 dall’Europa
– 400.591 dall’Africa
– 122.137 dall’Oceania
– 915.046 non specificati.

Le stime sugli immigrati illegali parlano di 5 milioni di persone. Di queste ben 2,7 milioni provengono dal Messico. Lo stato che attira di più gli immigrati illegali è la Califoia, seguito a distanza dal Texas e New York.

Fonte: i dati sono stati foiti dal Centro studi sull’immigrazione della «New York University».

Al Barozzi




Dal Pentagono a St. Patrick

Nato a Filadelfia da una famiglia
di origini irlandesi,
a lungo cappellano della U.S. Navy,
John O’Connor ha guidato
la diocesi di New York per 16 anni.
Con determinazione
e piglio da leader.

John O’Connor è stato tumulato in una cripta della cattedrale di S. Patrizio lunedì 8 maggio, accanto a quella dove riposa Pierre Toussant, lo schiavo haitiano che due secoli fa si distinse in opere pie e per il quale lo stesso O’Connor aveva avviato in Vaticano la causa di beatificazione.
Una folla di 3.500 persone gremiva la cattedrale, compresi 15 cardinali, 150 vescovi e 800 sacerdoti. Tra i politici spiccavano il presidente Clinton e la moglie, il vice Gore e la moglie, l’ex presidente Bush, il governatore Pataki, il sindaco Giuliani. Il cardinale Angelo Sodano, rappresentante del papa, ha celebrato la messa; il cardinale Beard Law, amico intimo di O’Connor, è venuto da Boston per rivolgere la omelia.
Il cardinale Sodano ha ricordato ai presenti che O’Connor, con i suoi 80 anni, era il più anziano tra i vescovi americani in attività. Dal 1984 guidava l’arcidiocesi di New York e dal 1985 era stato nominato cardinale da papa Giovanni Paolo II. O’Connor era ritenuto molto vicino al pensiero e all’apostolato di papa Wojtyla, dal quale si era recato in visita a Roma per l’ultima volta lo scorso febbraio.
Tra gli altri oratori, il presidente Clinton ha esaltato la forza d’animo non comune e il coraggio e la fede dimostrati nella malattia. L’associazione degli ebrei americani ha sottolineato che O’Connor ha avuto un merito notevole nel costruire un ponte fra ebrei e cattolici. Per il candidato alla Casa Bianca, George Bush, gli Usa hanno perso una voce eloquente a favore dei diritti umani e della dignità dell’uomo. E per il sindaco Rudolph Giuliani il cardinale è stato una bussola morale, ammirato da tutti i newyorkesi, credenti e non credenti.

L’ultima volta che avevo incontrato il cardinale era stata la prima domenica di quaresima (in coincidenza con l’inizio del giubileo della città di New York) nelle cattedrali di S. Patrizio e di S. Giacomo. I sacerdoti, i religiosi, le suore e i fedeli avevano riempito le navate che, in occasione delle celebrazioni, hanno esibito a caratteri cubitali il grande motto «Aprite le porte a Cristo».
Le parole del cardinale e dei vescovi, il canto delle litanie dei Santi, l’invocazione della benevolenza divina su tutti coloro che abitano questa grande metropoli e lo scambio della pace, come dono di responsabilità e di coinvolgimento, avevano fatto della celebrazione un significativo atto penitenziale-giubilare.
«Noi come chiesa saremo sempre con le vittime dell’ingiustizia e della violenza – avevano detto i prelati – e ci impegneremo a garantire a tutti i mezzi necessari per vivere in modo dignitoso e in un ambiente di ascolto e fratea accoglienza».
La frase evangelica più eloquente che il cardinale aveva voluto consegnarci era stata: «Io sono con voi fino alla fine dei tempi». E l’aveva spiegata così: «Queste parole di Gesù ci assicurano che nell’annunziare e vivere il vangelo della carità non siamo soli. In questo anno speciale del giubileo Gesù invita tutti a tornare al Padre, che ci aspetta a braccia aperte, per trasformarci in segni viventi ed efficaci del suo amore misericordioso».
Il ritorno al Padre per il cardinale O’Connor coincideva con la salvaguardia di ogni diritto umano. «Osteggiando il Padre – aveva scritto sul Catholic News, il settimanale della diocesi di New York – tutto viene sconvolto, scatenando necessariamente una serie di fattori negativi, deleteri per la dignità, la vita e la vera realizzazione della persona umana».
Nell’articolo, tra i fattori più negativi, il cardinale aveva citato la tragedia della criminalità che avvelena il vivere civile, lo sfascio e l’infelicità delle famiglie, le ideologie massificatrici, le rivoluzioni sanguinarie, le dittature e gli estremismi di qualunque matrice, i regimi polizieschi, i genocidi e le pulizie etniche, con i relativi campi di sterminio e i foi crematori.
Poche settimane prima di morire, il cardinale John O’Connor era stato premiato della medaglia d’oro del Congresso, l’onore civile più alto della nazione, per la sua battaglia in favore della giustizia economica, le condizioni dei lavoratori e, in generale, per tutte le persone nella città, nello stato e nel paese che hanno bisogno di aiuto.
Nel ricevere la prestigiosa onorificenza, il cardinale aveva ribadito il suo impegno nel difendere, a qualunque costo, la sacralità della vita umana, dal sorgere fino al tramonto, di qualunque persona, di qualsiasi colore, razza, religione o non religione essa appartenga. «Per questa causa mi sono sempre battuto e mi batterò fino all’ultimo mio respiro», aveva detto il cardinale, ancora debole e convalescente per l’operazione al cervello.
Nella storia la medaglia d’oro del Congresso è stata aggiudicata a 250 persone, tra cui spiccano George Washington, Wright Brothers, Madre Teresa di Calcutta. A chi gli aveva ricordato che la prima onorificenza era stata consegnata ai patrioti della rivoluzione americana di Bunker Hill, il cardinale aveva risposto: «È meraviglioso! Anch’io sono stato militare». Infatti O’Connor era stato cappellano della U.S. Navy (la marina militare statunitense) durante la guerra in Vietnam e in Corea.
In quell’occasione, anche il presidente Clinton aveva inviato un messaggio, dichiarando: «Per più di 50 anni O’Connor ha servito la chiesa cattolica e la nostra nazione con costanza e impegno». Nel suo messaggio, il presidente aveva ricordato i primi giorni di operato parrocchiale di O’Connor a Filadelfia, sua città natale, il servizio come cappellano militare e i 16 anni a capo dell’arcidiocesi di New York.
«Sia quando è stato soldato in campo di battaglia sia con i malati di Aids – aveva continuato il presidente – il cardinale ha operato con spirito gentile e amorosa dedizione. Fin dall’inizio, O’Connor è stato un protettore per i poveri, un campione per i lavoratori, e fonte di ispirazione per milioni di persone».
Vari vescovi erano candidati a succedere ad O’Connor alla guida di una diocesi che è solo la terza come popolazione negli Usa (dopo Los Angeles e Chicago), ma è sicuramente la più importante sul piano della visibilità, e del peso politico. Il Vaticano ha scelto Edward Michael Egan, vescovo di Bridgeport. Stimato intellettuale, conosce e parla quattro lingue, ed è un abile amministratore.

Al Barozzi




L’ONU di Fulci – Incontro con l’ambasciatore dell’ONU

Dopo 43 anni di diplomazia e 7 anni alle Nazioni Unite, l’ambasciatore italiano Francesco Paolo Fulci lascia.
«È una persona che ha sempre difeso gli interessi dell’Italia, dell’Europa e della pace», ha detto il presidente del consiglio Massimo D’Alema.
«Noi ringrazieremo sempre l’ambasciatore perché è un vero gladiatore», hanno commentato alcuni presenti la sera del 28 gennaio, ultimo giorno del suo mandato, in occasione della festa di saluto a Fulci. Qui, a nome di Missioni Consolata, ho avuto il piacere di intervistare l’ambasciatore.
Dottor Fulci, lei ha iniziato la carriera proprio a New York nel 1956, negli anni in cui Krusciov batteva la scarpa sul tavolo del Consiglio di sicurezza. La preoccupava di più il mondo di allora o sembrano più insidiosi gli anni a venire?
«Io sono ottimista per natura. Sono convinto che i problemi tendono a migliorare e soprattutto sono fiducioso per quanto riguarda il ruolo internazionale dell’Italia. Io penso che il nostro paese abbia oggi una marcia in più rispetto agli altri paesi grazie anche agli italiani all’estero. Gli italiani sono una forza straordinaria, a differenza di altri gruppi etnici che tendono a dimenticare la loro terra di origine. Questi italiani si vanno affermando sempre più nella loro patria di adozione, occupando posti di grande rilievo…».
Qual è la sfida internazionale più importante per l’Italia del 2000?
«Ho un sogno che coltivo da anni e che 7 anni fa, quando sono arrivato all’Onu, ho cominciato a perseguire. È quello di un’Europa veramente unita. Quando nel 1995 l’Italia aveva per la prima volta la presidenza dell’Unione europea e sedeva anche nel Consiglio di sicurezza, nella torre d’avorio dell’Onu, cominciai ad esporre anche la posizione dell’Europa. Né la Francia né l’Inghilterra (membri permanenti del Consiglio, ndr) potevano obiettare: la posizione da me espressa era stata prima concordata a Bruxelles tra i direttori politici dei paesi dell’Ue. Ricordo che dissi: “Questo è l’embrione dell’Europa nel Consiglio di sicurezza”. Ribatté subito l’ambasciatore britannico John Weston: “Il seggio europeo è una Fulcian heresy”. Adesso questa “eresia fulciana” comincia piano piano a farsi strada».
Ma come essere ottimisti sul seggio europeo nel Consiglio di sicurezza quando si vedono contrasti tra gli stessi paesi della Comunità? Si pensi, ad esempio, alle posizioni opposte di Francia e Inghilterra rispetto alle sanzioni Onu contro l’Iraq…
«Prima che lei entrasse nel mio ufficio, ho ricevuto due ambasciatori di paesi asiatici, ai quali ho chiesto il voto per l’Italia nelle prossime elezioni per il Consiglio di sicurezza. Un obiettivo fondamentale è rientrare nel Consiglio di sicurezza. L’Italia dovrebbe mettere questo seggio a disposizione dell’Unione europea e senza chiedere alcuna contropartita.
A quel punto potrebbe suggerire che il numero due della legazione italiana sia un rappresentante dell’Europa. Infatti la delegazione italiana che partecipa al Consiglio di sicurezza può essere diversa da quella presente all’Assemblea generale. Quindi l’Italia potrebbe notificare chi vuole come suo delegato. E quando si trattano questioni sulle quali l’Europa ha una posizione comune, allora l’ambasciatore italiano potrebbe cedere il suo posto al presidente di tuo dell’Ue, che parlerebbe quindi dal seggio italiano in nome dell’Europa. E si può fare un passo oltre.
Se Solana (“ministro degli esteri” dell’Ue, ndr) se la sentirà, potrà mandare anche un suo rappresentante a sedere nel seggio italiano. E quindi non sarebbe più il paese presidente di tuo dell’Ue, ma sarebbe l’Europa unita che comincerebbe a parlare con una voce. Io credo che quando noi ci siamo battuti per non far avere il seggio permanente alla Germania, abbiamo reso un enorme servizio all’Europa. Se avessimo perduto quella battaglia avremmo avuto una situazione non dissimile da quella precedente alla seconda guerra mondiale».
Ma la Germania lo ha capito?
«In Germania lo hanno capito gli uomini politici, ma purtroppo non i suoi diplomatici. I funzionari tedeschi sono più nazionalisti dei loro politici, che invece hanno capito che il seggio permanente è ormai una chimera. Orazio diceva Carpe diem, ma l’attimo, grazie anche al nostro lavoro, non lo hanno saputo cogliere. Comunque quello messo a disposizione dell’Italia non dovremmo chiamarlo ancora seggio europeo, ma una presenza permanente dell’Europa nel Consiglio. Perché dopo di noi, dovrebbero metterlo a disposizione la Spagna o la stessa Germania. Avverrebbe quindi de facto la presenza dell’Europa unita».
Cosa succederebbe al seggio permanente francese e inglese?
«La presenza dell’Ue sarà una specie di calamita che comincerà ad attirare i due paesi. Cominceranno a ripetere le posizioni che hanno già concordato in sede Ue. Ci saranno ancora posizioni diverse, ma, col tempo e la forza naturale delle decisioni prese in comune, anche Francia e Inghilterra graviteranno sempre più verso una presenza unica europea nel Consiglio. Se non si arriverà ad una politica estera e di sicurezza comune, l’Unione europea non si potrà mai dire compiuta».
Come vede l’atteggiamento futuro degli Stati Uniti di fronte ad un’Europa come soggetto nello scacchiere internazionale.
«C’è stato un momento che nel dipartimento di stato prevalevano gli uomini pro Germania: erano coloro che premevano affinché i tedeschi entrassero come membri permanenti nel Consiglio. L’attuale ambasciatore americano Holbrooke considera la Germania l’unico grande paese affidabile per gli Stati Uniti».
Holbrooke spinge ancora per i tedeschi?
«Sì, per un seggio dato alla Germania più che all’Europa ed è per questo che i diplomatici tedeschi non si arrendono. Però ci sono molti altri che non la pensano così».
Come la pensa il segretario di Stato?
«La Albright non mi è sembrata mai convinta di questo seggio alla Germania».
Per tradizione, le amministrazioni democratiche Usa sembrano meglio predisposte nei confronti dell’Onu di quelle repubblicane. Se George W. Bush vincesse le prossime elezioni, che accadrebbe?
«Bisogna fare più attenzione a quello che succede nel Congresso che non alla Casa Bianca. Nel 1919 Wilson aveva creato la Società delle nazioni, ma il Congresso scelse l’isolazionismo negando l’ingresso degli Stati Uniti.
Il risultato fu un enorme errore di calcolo. Hitler e Mussolini si convinsero infatti che si sarebbero potuti impadronire dell’Europa senza che l’America intervenisse. Ci volle poi un uomo dalla statura di Roosevelt per far capire agli americani dove si erano cacciati con l’isolazionismo del Congresso. Ecco, quindi, non solo il progetto di un’altra organizzazione internazionale (l’Onu), ma la volontà di volerla ospitare nel proprio territorio; senza dimenticare le truppe americane che restarono in Europa.
Questo ha consentito cinquant’anni di pace e la vittoria della guerra fredda dell’Occidente senza sparare un colpo. Ora è possibile che si vogliano ripetere gli errori del passato? Quando penso che il 40% dei congressmen americani si vanta di non possedere un passaporto, è veramente inquietante».
Lei ha anche rappresentato l’Italia alla Nato. Resta invariato il ruolo dell’Alleanza atlantica ora che si parla anche della creazione di un esercito europeo? In altre parole, la Nato servirà ancora all’Europa?
«Io credo che la Nato debba anzi essere rafforzata. Prima di tutto perché non possiamo essere sicuri del domani. Basta pensare a quello che diceva Yeltsin sulle armi nucleari russe. Insomma, l’unica sicurezza per l’Europa si fonda sulla forza della Nato. Poi le Nazioni Unite non sono assolutamente in grado di compiere operazioni di pace: non ne hanno la vocazione né le risorse. Allora all’Onu per imporre la pace non resta che rivolgersi alle organizzazioni regionali, come la Nato, oppure a coalizioni di “paesi volontari”, come è accaduto per l’Albania o Timor Est.
La Nato quindi resta fondamentale, ma altrettanto lo è l’Onu, perché deve legittimare queste operazioni che devono essere autorizzate dal Consiglio di sicurezza».
Ma per il Kosovo la Nato ha saltato il Consiglio di sicurezza…
«Però poi sono dovuti tornare al “Palazzo di vetro” per raggiungere la pace. La legalità è qui.
Con l’articolo 25 della Carta delle Nazioni Unite i paesi membri si impegnano ad accettare le decisioni del Consiglio di sicurezza; con l’articolo 24 i membri conferiscono al Consiglio di sicurezza la responsabilità primaria della pace e della sicurezza internazionale».
Ad Helsinki l’Europa ha prefigurato l’allargamento ad Est. Ma dove finisce l’Europa?
«Agli Urali».
Quindi anche la Russia, per arrivare ad eliminare, un giorno, quella pericolosa paura dell’accerchiamento?
«Certo, l’Europa deve comprendere la Russia».
Oltre ad essere ambasciatore d’Italia, dal 1997 lei è stato presidente dell’Ecosoc, il Consiglio economico e sociale dell’Onu. Qual è, secondo lei, il male più diffuso nel pianeta?
«Senza dubbio, la povertà. I paesi in via di sviluppo hanno l’80 per cento della popolazione mondiale, ma meno del 20 per cento del prodotto globale lordo.
La prossima assemblea generale dell’Onu, che si aprirà nel settembre 2000, analizzerà la globalizzazione e studierà i modi per sradicare la miseria. Ciò detto, va ricordato che, prima di distribuirla equamente, la ricchezza va prodotta. Sradicare la miseria nel mondo è un programma ambizioso, ma possibile. Mi auguro che tutti i paesi interessati si impegnino per rendere l’economia più giusta».
Un’ultima domanda. Lei, ambasciatore, si è battuto molto contro la pena di morte. Eppure questa continua ad esistere. Pensa che verrà abolita oppure guadagnerà aderenti?
«Da tre anni l’Unione europea, insieme ad altri paesi, presenta la proposta di una moratoria sulla pena di morte. Si chiede la sospensione delle esecuzioni capitali in tutto il mondo. Purtroppo tale proposta è stata bocciata, ostacolata soprattutto da parte dei paesi del blocco asiatico e in parte africano.
Tra i 180 stati membri delle Nazioni Unite il numero delle nazioni abolizioniste, compresi i 15 stati europei, è 72. Il numero magico per la votazione è 90. Ogni anno la lista degli stati favorevoli alla sospensione delle esecuzioni aumenta: l’anno scorso erano 52; quest’anno altri 20 stati hanno cambiato opinione.
Con l’aumento delle probabilità di vittoria dei paesi abolizionisti, sono anche cresciute le pressioni dei paesi contrari alla moratoria, i quali cercano di persuadere gli incerti ad opporsi alla proposta.
Dispiace dire che questa opera di lobby sia sostenuta dagli Stati Uniti, i quali si trovano su posizioni intransigenti, cioè contro la moratoria, e in compagnia di stati noti per violare i diritti umani e sociali, quali Iran, Cina popolare, Cuba, Libia, Egitto, Arabia, Singapore, Uganda, Vietnam e altri. E questo è un puro controsenso, una chiara contraddizione, anzi due.
La prima è che gli Usa sono favorevoli alla tutela dei diritti umani e hanno sostenuto con forza gli interventi in quegli stati che si sono resi colpevoli di pesanti violazioni.
Ancora più forte è la contraddizione in cui gli Usa sono caduti firmando la proposta che, nella creazione del “Tribunale penale internazionale”, esclude che i colpevoli possano essere condannati a morte, non importa di quanti orribili delitti si siano macchiati. Nonostante ciò, gli Stati Uniti sono sempre silenziosamente a fianco di chi rifiuta la moratoria, pronti a battersi per mantenere la pena di morte» (vedi riquadro Stati Uniti).

Al Barozzi