PALESTINA – Le elezioni presidenziali (gennaio 2005)

PALESTINA: analisi delle elezioni presidenziali (gennaio 2005)

ABU MAZEN TENTA L’IMPRESA

Il neopresidente Mahmoud Abbas detto Abu Mazen è l’opposto del defunto
Yasser Arafat. Cocciuto e mite, è stato l’artefice occulto degli accordi di Oslo,
in seguito da altri affossati. Ha iniziato il suo mandato incontrando
(8 febbraio) Ariel Sharon. Ma la bomba ad orologeria è sempre innescata…


Mahmoud Abbas, meglio conosciuto col nome di battaglia, Abu Mazen (all’uso orientale = padre di Mazen, il figlio morto improvvisamente nel 2002), ha vinto le elezioni presidenziali palestinesi del 9 gennaio. Il 62,3% dei votanti lo ha scelto come presidente successore di Yasser Arafat.
Hanno votato il 60% degli aventi diritto. Tra questi non tutti hanno potuto esprimere il voto per la confusione organizzativa tipica orientale e per l’impegno d’Israele che, nonostante le promesse di un ritiro temporaneo dell’esercito per favorire lo svolgimento ordinato delle operazioni di voto, ha volutamente rallentato le operazioni di controllo ai check-point per non facilitare il primo diritto politico ufficialmente riconosciuto al popolo di Palestina. In tutta la Cisgiordania il 40% dei palestinesi non ha potuto votare. A Gerusalemme Est solo un migliaio di elettori su 120.000 aventi diritto ha potuto votare. E ha potuto farlo negli uffici postali, perché i seggi non erano neppure stati installati.
La percentuale di voti ottenuta da Abu Mazen equivale all’80/85% del totale dei votanti, se tutti avessero esercitato il loro diritto. Prendiamo comunque atto che le prime elezioni «abbastanza-democratiche» sono avvenute senza incidenti di rilievo e nell’euforia tipica degli eventi arabi.

IN NOME DEL POPOLO PALESTINESE
Abu Mazen non ha solo vinto, ma ha ricevuto un’investitura inequivocabile, riconosciuta anche dall’ala armata di Al Fatah e del gruppo irriducibile di Hamas. Morto Yasser Arafat, il padre-padrone dell’Olp, morto lo sceicco Yassin, fondatore della Jihad di Hamas, ora nessuno altro può formalmente presentarsi in nome di quel popolo se non Abu Mazen.
Scegliendo Abu Mazen, il tessitore cocciuto e mite, i palestinesi hanno impresso una svolta nel proprio futuro, chiedendo con un voto la fine della guerra e l’inizio delle trattative con Israele. La prima dichiarazione del vincitore, infatti, è stata lapidaria e in sintonia col sentire popolare: «Mi adopererò per porre fine alla sofferenza del popolo palestinese» e, per la prima volta, Israele è definito «vicino» e non nemico. Le sfumature terminologiche in Oriente hanno a volte una portata di trasformazione epocale e qualche altra sono più travolgenti di una rivoluzione.
Il secondo pensiero, una novità nelle procedure arabe, è stato il sentito ringraziamento alle donne che in massa hanno affollato i seggi/uffici postali e garantito lo svolgimento delle votazioni. Mossa vincente perché saranno le donne a decidere del futuro della Palestina, quando si alzeranno dalla loro sudditanza e allora anche il sole si avvicinerà alla terra. Da sottile diplomatico, Abu Mazen ha dedicato la vittoria a Yasser Arafat per obbligo di opportunità politica e con questa dedica ha sepolto il padre della resistenza palestinese in una nicchia di devozione onoraria e lo ha rimosso allo stesso tempo in quanto impedimento alla liberazione del popolo palestinese. Definitivamente.

DA OSLO A CAMP DAVID
Le reazioni inteazionali sono state unanimemente positive: si parla di pace vicina, di democrazia, di moderazione del vincitore, di ripresa del dialogo con Israele… tutti felici e contenti. Anche noi vogliamo essere contenti e felici, ma da persone serie che hanno a cuore la soluzione vera e giusta dello tsunami che devasta da 60 anni il Medio Oriente. La storia non fa salti qualitativi e una rondine non ha mai fatto primavera. Per fare baldoria, aspettiamo un poco per vedere compiersi alcune condizioni, premesse essenziali, perché il plebiscito per Abu Mazen si trasformi in vittoria.
Stimiamo Abu Mazen perché lo abbiamo visto all’opera negli ultimi vent’anni, quando tutti sparavano, si ammazzavano e si odiavano. Lui, solo ma lungimirante da vero patriarca antico e amante del suo popolo, preferiva incontrare quasi di nascosto personalità israeliane come Yossi Beilin che in Israele voleva lo stesso obiettivo. Mentre i responsabili politici e governativi maciullavano i loro figli in avventure disperate senza ritorno, seminando morte e odio a piene mani, due profeti nascosti e silenziosi costruivano mattoni di amicizia velata, lavorando per spalancare le porte al rivolo della pace nel deserto dell’odio e della morte.
I colloqui privati tra Abu Mazen e Yossi Beilin nel 1995 approdarono agli accordi di Oslo, dei cui meriti si appropriarono gli avversari degli stessi accordi che, infatti, li fecero fallire subito, dall’una e dall’altra parte. Il fallimento fu sancito definitivamente nel 2000 in America a Camp David da Ehud Barak e Yasser Arafat, testimone Bill Clinton. Abu Mazen si mise in disparte per non entrare in collisione con Arafat che appena lo tollerava perché lo ha sempre temuto come antagonista.
Egli non è un uomo di appeal e non ha quel carisma che gli eventi traumatici cucirono casualmente addosso ad Arafat che si trovò nel posto giusto al momento giusto. Uomo senza l’ossessione del potere ad ogni costo, Abu Mazen è sempre stato umile e non ha mai partecipato agli estenuanti riti orientali della spartizione della torta di potere. Quando fu nominato primo ministro da Arafat, si accorse che la sua era una carica vuota per coprire una facciata di corruttela ed ebbe il coraggio di dimettersi, dicendo apertamente che voleva governare e non regnare come un re travicello.

ABU MAZEN ED UNA DANZA IN SEI PASSI
Dopo l’euforia delle elezioni, per Abu Mazen e per il suo popolo inizia un lungo cammino, irto di trabocchetti e di pericoli che non saranno facili da superare, ma se qualcuno li può superare questi, oggi è solo Mahmoud Abbas detto Abu Mazen che deve guardarsi da un esercito di cecchini nascosti in ogni anfratto perché fallisca nel suo progetto di pacificazione.

Punto uno: la corruzione
Il primo nodo da sciogliere che è anche la prima battaglia, o meglio la prima guerra da vincere ad ogni costo, è la corruzione endemica in ogni struttura dell’apparato politico amministrativo palestinese. Arafat aveva creato ben 13 milizie dipendenti direttamente da lui che teneva saldo il cordone della borsa senza cederlo a nessun altro. Goveava pagando e manteneva la moglie e la figlia, che lo avevano abbandonato rifugiandosi in Francia, in un lusso sfrenato a spese della miseria dei palestinesi. Il suo popolo moriva letteralmente di fame e il raìs investiva in ogni parte del mondo, anche in società americane di bowling, senza mai rendere conto del suo operato e della destinazione dei fondi e intanto il popolo palestinese viveva nelle baracche dei campi profughi, privi di qualsiasi servizio sanitario. A Gaza gli scarichi delle acque nere sono ancora all’aperto. Una scelta politica calcolata ha anche giocato sui 60 campi profughi, senza risolvere un solo problema esistenziale delle persone per giocare la carta della mendicità internazionale e del sopruso israeliano su ogni tavolo. L’elemosina che il raìs elargiva benignamente, tipica della cultura tribale, aveva sostituito il concetto stesso dei diritti e dei doveri, tra l’altro assenti nel sentire arabo-orientale. Con l’elemosina ricevuta, i «sudditi» dovevano poi pagare funzionari e impiegati e polizia per qualsiasi pratica, qualsiasi atto pubblico e privato: targa della macchina, documenti personali, permessi e autorizzazioni.
Rompere questa spirale di corruttela comporterà una guerra civile sotterranea, se non dichiarata, tra le diverse fazioni palestinesi che non faciliteranno il compito ad Abu Mazen: se non porrà da subito la scure alla radice, «Abu-il padre» del popolo senza patria e senza terra rimarrà impigliato tra le spine di rovi potenti che lo soffocheranno senza pietà.

Punto due: la ricostruzione
Il secondo nodo da sciogliere, conseguenza diretta del primo è la ricostruzione economica che deve portare ad un minimo essenziale di stato sociale, attualmente del tutto assente. Abituato alla cultura del favore, l’arabo palestinese farà fatica ad accettare e rispettare le regole della convivenza democratica.
Golda Meir, primo ministro d’Israele dal 1969 al 1974, soleva dire: «Comincerò ad avere paura degli Arabi, il giorno in cui rispetteranno una fila in un pubblico ufficio». Aveva ragione. Nel mondo arabo, palestinese in particolare, esistono «traffici» non imprese o attività economiche strutturate, per cui la vera prima grande impresa da costruire sarà il rispetto delle regole condivise e accettate. Un’economia senza regole civili e sociali è solo una pia illusione.

Punto tre: un cambio di sistema
Il terzo nodo da sciogliere è la creazione di pesi e contrappesi giuridico-politici espressivi della realtà palestinese che deve essere artefice del proprio destino. È il superamento del concetto tribale del potere.
Non sappiamo se si possa impiantare in Oriente un sistema democratico (?) come quello occidentale, ma sono certo che Abu Mazen deve trovare un sistema che debba rendere efficace e autentica la rappresentatività decisionale che riguarda l’intero popolo senza ancora una patria intera. Ciò comporta la formazione di una classe dirigente giovane, composta di uomini e donne, proiettata sul futuro, ponendo così un freno all’emorragia dell’emigrazione che naturalmente coinvolge sempre le teste pensanti in ogni campo.

Punto quattro: i gruppi armati
Il quarto nodo da sciogliere riguarda i gruppi armati, da Hamas alla Jihad, ai martiri di Alaqsa alla stessa ala armata di Al Fatah, il partito che fu di Yasser Arafat e che ora esprime Abu Mazen. Sarà sufficiente che uno di questi gruppi spari, anche in aria, un colpo di kalashnikov in direzione di Israele ed ecco che il governo Sharon accuserà Abu Mazen di incapacità di governare la violenza e la non volontà politica di raggiungere un accordo. In questo modo anche il moderato Abu Mazen diventerà un estremista nemico di Israele con un requiem per altri 50 anni.

Punto cinque: con Israele
Il quinto e penultimo nodo da sciogliere prima di cantare vittoria, riguarda la posizione politica da assumere nei confronti di Israele. Su questo versante, il nuovo presidente palestinese può giocare la valanga di voti e il plebiscito che gli ha dato un ampio mandato popolare come l’ultima spiaggia per Israele. Abu Mazen deve stanare Israele e inchiodarlo alle sue responsabilità, ma senza giocare al rialzo come faceva Arafat, al quale in fondo non conveniva trovare un accordo con Israele come non conveniva a questi trovare un accordo con Arafat.
Il primo passo è approfittare di questo climax internazionale degno di un classico innamoramento e battere il ferro finché è caldo, sfruttando la simpatia e la stima che Abu Mazen porta in dote in tutte le cancellerie diplomatiche, Stati Uniti compresi. È il momento dell’audacia e della serietà che deve avere un solo obiettivo: porre finalmente fine alle sofferenze del popolo palestinese, affrontando il rodeo delle trattative con Israele non da solo, ma con il viatico delle cancellerie europee, asiatiche (Russia e Cina in primo piano), statunitense, latinoamericane e africane. O Abu Mazen sarà capace di trasformare il nodo palestinese in «nodo di Gordio internazionale» o morirà di asfissia e con lui anche le speranze del suo popolo.

Punto sei: l’educazione
Il sesto e ultimo nodo da sciogliere riguarda il futuro che è già iniziato. Il suo nome è plurimo: bambini, adolescenti e giovani. Questa è la scommessa più importante per la Palestina, per Israele, per Abu Mazen e per la pace del mondo intero. I rapporti tra Israele e i palestinesi da sessant’anni sono cementati dall’odio viscerale inculcato fin dal concepimento. L’altro è il nemico. Vale una sola legge: la vendetta. Si insegue un solo obiettivo: la distruzione dell’altro. Con un solo metodo: violenza e terrore.
Ora all’orizzonte spunta una nuova alba, di cui l’elezione di Abu Mazen è la premessa timida e forte. Inizia anche l’ora più buia che normalmente precede sempre l’aurora e in quest’ora buia si scateneranno tutte le forze contrarie sia all’interno dei palestinesi che all’interno di Israele. Il ritiro dei coloni dalla Cisgiordania potrebbe essere una valanga in discesa libera e potrebbe fare saltare qualsiasi governo, qualsiasi accordo. Occorre più che mai sapienza, lungimiranza e autorevolezza morale.
Abu Mazen possiede queste caratteristiche, Sharon sta tentando di ricostruirsi una verginità perduta da tempo col pronto soccorso di Perez e del partito laburista. Entro mille giorni dalle elezioni di Abu Mazen, è indispensabile raggiungere un accordo anche minimale che abbia l’avallo politico dei due popoli e non solo delle rappresentanze partitiche.
Un punto essenziale di questo accordo deve riguardare la costruzione di alcune scuole che segnino il confine tra i due Stati al posto dell’orrido e orrendo muro di apartheid costruito sulla viva carne della terra di Palestina. Segnare i confini con edifici scolastici aperti dai due lati confinanti dove educare insieme i bambini ebrei e palestinesi di oggi, i governanti di domani. Educarli a crescere insieme, imparando le rispettive lingue, con maestri dell’uno e dell’altro popolo per stemperare la diffidenza e la paura dell’altro fino a trasformarle in reciprocità libera e liberante. Solo così, fra 50 anni, Abu Mazen e il suo dirimpettaio israeliano potranno dire di avere vinto la sfida della Pace.
LA SANTA SEDE E L’ITALIA
Il punto di appoggio su cui fare leva per iniziare il pellegrinaggio del diritto nelle città dell’est e dell’ovest, del sud e del nord, dovrà necessariamente partire da Roma: dalla Santa Sede in particolare, perché essa fu la sola che, in epoca non sospetta (15 febbraio 2000), contro il parere dell’opinione comune mondiale, firmò un protocollo di reciproco riconoscimento con l’Autorità palestinese, compiendo così un raro atto diplomatico che ebbe le fattezze del gesto profetico nell’anno giubilare del secondo millennio cristiano. Quel riconoscimento oggi ha il suo peso e diventa un viatico di notevole portata nelle sedi diplomatiche del mondo ad Oriente come ad Occidente.
L’Italia berlusconiana, purtroppo, ha creato anche un vulnus nella politica mediorientale che era stato un distintivo d’onore degli ultimi 60 anni: punto di raccordo tra le esigenze di sicurezza d’Israele e il bisogno di giustizia del popolo palestinese, soggetto arabo di diritto.
La stessa posizione geografica dell’Italia ne ha sempre facilitato la missione di pontiera fra i tre continenti: arabico-asiatico, africano ed europeo. In questo ruolo di prim’ordine si distinse il sindaco di Firenze, Giorgio La Pira che già negli anni ’50-’70 con i «Colloqui del Mediterraneo» fu indefesso profeta del «sentirnero di Isaia», che inesorabilmente conduceva i figli dispersi sulla stessa terra e nemici per condizioni storiche verso l’ineluttabilità dell’unica pateità: Abramo.
Israeliani e palestinesi, discendenza abramitica, possono violentare la Pace in modo sistematico con ogni forma di guerra, possono ritardare gli appuntamenti della Storia, ma sono condannati ad una inesorabile pacificazione.

L’INSEGNAMENTO DI ABRAMO E L’EREDITÀ DELLE «3P»
Come Abramo, Abu Mazen deve avere il coraggio di lasciare le «tre P»: il padre, il paese e la patria.
Il padre Arafat lo ha lasciato per sempre e senza rimpianti. Ora deve superare il concetto di «paese» ed accettare la convivenza con l’altro figlio di Abramo, Israele. Infine, deve porre mano all’aratro dell’identità palestinese e ritessere un concetto di «patria» che finalmente possa assidersi alla mensa del consesso dei popoli. Non più popolo-paria ai margini del deserto, senza petrolio e senza arte né parte, ma popolo di diritto che difende i suoi diritti e interessi non uccidendo i suoi stessi figli scagliati come kamikaze contro altri figli, ma innalzando l’emblema della giustizia che si conquista nella normale dialettica politica, nelle sedi mondiali dove ancora si esercita il magistero della legge internazionale come stativo di ogni popolo e Stato.
Solo allora inizierà un’era di Pace-Shalom-Salam.

Paolo Farinella


Box 1:
Piccolo glossario

Abramo
Secondo la tradizione è il primo patriarca biblico, fondatore della discendenza ebraica attraverso la moglie Sara. Anche i popoli arabi si attribuiscono la pateità abramitica attraverso la discendenza di Agar, schiava di Sara.
Accordi di Oslo
Oslo 1: Il 20-29 agosto 1993, a Oslo in Norvegia va in onda il 10° tentativo di pace degli ultimi 30 anni tra Israele e Palestinesi; tra il 9 e il 10 settembre Yitzhak Rabin e Yasser Arafat si scambiano lettere di reciproco riconoscimento formale. Oslo 2: Il 28 settembre 1995 l’Olp di Arafat e Israele firmano un accordo temporaneo sulla Cisgiordania e la striscia di Gaza su un parziale controllo palestinese sui territori occupati. Israele riconosce ufficialmente «i diritti dei palestinesi sull’acqua in Cisgiordania».
Al-Fatah
Partito maggioritario dell’Olp (v. sotto) fondato alla fine degli anni ’50 da Yasser Arafat che ne è stato il presidente fino alla morte (2004).
Camp David
Dopo la Casa Bianca, è la seconda residenza (estiva) ufficiale del presidente americano.
Coloni
Ebrei che si sono insediati abusivamente nei territori palestinesi, dove hanno costruito villaggi e attività agricole con l’obiettivo di riprendersi la «terra d’Israele», secondo loro, illegittimamente occupata dagli arabi palestinesi. Sostenuti da tutti i governi israeliani dal 1948 ad oggi, si considerano i pionieri del ritorno nella Terra Promessa e sono in grado di condizionare l’opinione pubblica e i governi. Sono Ebrei irriducibili che vogliono la distruzione totale dei Palestinesi e non accettano di lasciare pacificamente gli avamposti occupati.
Hamas
Acronimo di Harakat al-Muqawamah al-Islamiyyah (Movimento di resistenza islamico) fu fondata dallo sceicco Ahmed Yassin e Mohammed Taha nel 1987 con un solo motivo: la distruzione dello stato d’Israele al cui posto impiantare uno stato palestinese islamico. La guerra israelo-palestinese è «una lotta religiosa tra islam ed ebraismo che può essere risolta solamente per mezzo della distruzione dello stato di Israele». È presente specialmente nella Striscia di Gaza e Cisgiordania. Hamas si è assunto la pateità della maggior parte dei kamikaze che si sono fatti esplodere in Israele, seminando morte e terrore tra civili e anche militari. Ha grande seguito tra il popolo che da Hamas riceve sostegno economico e assistenza.
Jihad (Islamica)
Altro gruppo di irriducibili resistenti palestinesi che hanno fatto del terrore la loro arma privilegiata. Letteralmente «Jihad» significa «sforzo/impegno» e indica il «combattimento» spirituale, interiore sulla Via di Allah, poi, erroneamente passato ad indicare la lotta armata.
Muro
Dopo la seconda Intifada (2000-2002) che ebbe come conseguenza diretta decine di kamikaze che si facevano esplodere in centri affollati, il governo Sharon, appellandosi alla «sicurezza d’Israele», ha deciso la costruzione di un muro per isolare gli insediamenti dei coloni dagli attacchi palestinesi. Definito dalla maggior parte degli stati di diritto «muro della vergogna», in concreto, il muro ha finito per dividere e rinchiudere in un ghetto di apartheid interi villaggi arabi, separando i palestinesi dai luoghi di lavoro e dalle campagne, al fine di rendere impossibile la vita e costringere all’emigrazione.
Olp
Organizzazione per la Liberazione della Palestina è fondata a Gerusalemme Est il 2 giugno 1964 dal primo vertice della Lega araba. Nel gennaio del 1969, ne assume la guida Yasser Arafat, leader del partito maggioritario di Al Fatah.
Raís
Titolo arabo che significa, signore/padrone/capo.
Pa.F.

Box 2
E la pace darà buoni frutti

La pace produrrà mille pampini di giustizia e ogni pampino farà sbocciare mille grappoli di pace e ogni grappolo fruttificherà mille acini di giusti e ogni giusto pianterà mille ulivi e ogni ulivo vivrà e darà olio per mille anni. In quel giorno, i figli di Palestina e i figli di Israele, ambedue scaturiti dalle viscere di Abramo per Sara e per Agar, sosteranno al pozzo della Pace per attingere l’acqua della giustizia e nessuno dei due popoli avrà più sete per mille anni a venire perché l’acqua invaderà il deserto e il diritto scorrerà come un fiume che alimenta la vita. Solo allora sarà veramente iniziato il terzo millennio, un millennio in cui la Giustizia incontrerà la Pace che si baceranno davanti a Israele, davanti alla Palestina, coram mundo.
Auguri Mahmoud Abbas, che Dio Misericordioso abbia pietà di te e dei governanti israeliani e vi benedica nel vostro entrare e nel vostro uscire ( Dt 28,6).

Paolo Farinella




SIRIA-ITALIAIl complotto

Perseguitato per le sue idee politiche e religiose, Elias, cristiano della Siria, riesce a fuggire in Grecia con moglie e figli.
Lui solo riesce a raggiungere Venezia, mentre i suoi familiari spariscono nel nulla.

Il lavoro di mediatrice culturale mi porta spesso a contatto con uomini e donne costretti a lasciare la propria terra, perché continuamente perseguitati per la loro religione e per le loro idee dai governi al potere, come è successo a Elias, 75 anni, siriano, originario di Damasco.
Rientrava in un programma di accoglienza per richiedenti asilo gestito dal comune di Venezia. Ma dopo 9 mesi dal suo ingresso in Italia, nessuno era ancora riuscito a sapere il motivo per cui era scappato dalla Siria e per cui chiedeva asilo all’Italia. Non parlava, rifiutava di studiare l’italiano, stava quasi sempre ritirato in camera, non aveva instaurato legami con nessuno degli altri ospiti del centro di accoglienza.
La responsabile del centro mi aveva contattata, ritenendo che le mie conoscenze sulla società araba e la lunga permanenza in Siria potevano essere dei buoni elementi per creare un legame con Elias e aiutarlo ad aprirsi e a confidarsi.
Il nostro primo incontro fu nella sua camera, tranquilla e soprattutto ordinata. Non amava ricevere i suoi ospiti nella sala da pranzo, come era di norma fare nell’istituto: troppe persone presenti, troppa confusione.
Mi accolse molto amichevolmente. Mi aveva preparato una colazione, come si è soliti fare in Siria: pane, olive, pistacchi, dolci e tè nero molto zuccherato.
Rimase sorpreso e al tempo stesso entusiasta nel sentirmi parlare in arabo. Per me, ma soprattutto per lui, fu una cosa inaspettata scoprire che a Damasco avevo abitato proprio nel quartiere dove era nato e cresciuto. Fu piacevole per entrambi ricordare luoghi e persone che avremmo potuto avere in comune.
«Qui a Venezia mi trovo bene, ma mi manca molto la Siria, Damasco. Mi manca la confusione dei suq, l’odore delle spezie, il nostro cibo, soprattutto la mia gente». Senza rendersene conto iniziò a parlare di sé, della sua vita in Siria.
«Fino a tre anni fa conducevo una vita normale: casa, lavoro, famiglia, amici. Ero direttore di banca. Questa aveva rapporti commerciali con vari paesi europei, per questo parlo inglese, francese, tedesco e russo. Ho imparato tante lingue perché amo studiare: è il mio passatempo preferito. Alla sera, dopo cena mi ritiravo nel mio studio a leggere e studiare. Le lingue straniere sono sempre state la mia passione».
Elias continuava a parlare della sua casa, della sua famiglia, dei suoi libri e di Damasco. Io non lo interrompevo; lo ascoltavo e lo lasciavo parlare. Mi rendevo conto che era una cosa che voleva fare da molto tempo. Il suo viso era disteso, felice di vedere che lo capivo, che potevo condividere i suoi ricordi, perché conoscevo bene la sua città, la sua gente.
«Ho tre figli. Due gemelli di ventinove anni, un maschio e una femmina, e un’altra femmina di 37 anni, Habsa. Si è sposata quattro anni fa e si è trasferita in Canada. Gli altri due figli sono ancora in casa con me e mia moglie. Il ragazzo è ingegnere, la ragazza avvocato».

Seguirono molti altri incontri, nell’istituto e fuori, per fare una passeggiata o bere un caffè. Contrariamente a quanto mi aveva riferito la responsabile dell’istituto, Elias era riuscito a instaurare a Venezia varie amicizie, che incontrava quasi quotidianamente. Aveva conosciuto alcuni iracheni ed egiziani che risiedevano a Venezia; frequentava assiduamente una chiesa nel centro della città, dove partecipava alle varie attività di un gruppo di preghiera.
«Faccio molta fatica ad esprimermi e a comprendere l’italiano, ma sono riuscito a conoscere persone che parlano inglese e francese» mi diceva, spiegando il motivo per cui non si trovava bene al centro e preferiva mantenere una vita ritirata.
«In questo centro sono ospitate persone provenienti da vari paesi, con cultura, religione e estrazione sociale diverse. La maggioranza è musulmana. Inoltre, sono la persona più anziana, gli ospiti sono quasi tutti giovanissimi. Il nostro ritmo di vita è molto diverso. Io ho bisogno di tranquillità, soprattutto di dormire la notte. Purtroppo questo è impossibile. Alle sette di sera i responsabili del centro se ne vanno. Non c’è nessun guardiano: per tutta la notte c’è gente che va e che viene. Ci sono stati anche dei furti. In teoria è proibito far entrare amici o parenti, ma non essendoci controlli tutto è permesso. Poco tempo fa c’è stato il mese di ramadan, il mese del digiuno musulmano, ogni notte veniva organizzata una festa, come è tradizione per i musulmani. Musica alta e danze fino alle tre, le quattro del mattino.
Non riesco ad adattarmi alle abitudini dei vicini di stanza. Mi sento molto vecchio in confronto a loro. Tuttavia non dico niente, non voglio avere problemi con nessuno. Me ne resto ritirato nella stanza in attesa di essere convocato al più presto a Roma, presso l’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Acnur), con la speranza che mi venga concesso l’asilo. Se questo dovesse avvenire, potrei lasciare questo istituto, avrei la possibilità di lavorare, di guadagnare e permettermi una casa. Mi piacerebbe usare i miei risparmi per aprire un ristorante insieme alla mia famiglia, se Dio lo vorrà!».

Elias era molto devoto; molte le immagini sacre presenti nella sua stanza. Le sue letture preferite erano la bibbia e il vangelo. Mi mostrava il libro del vangelo, un’edizione molto bella, logicamente in arabo, che teneva esposto sopra uno scaffale, con davanti una candela accesa. «Quando ho lasciato la Siria, questo libro è stata la prima cosa che ho messo nella mia piccola valigia», continuava, dicendomi che nel vangelo trovava conforto e aiuto. E mi lesse alcuni passi, salmodiandoli come è tradizione nelle chiese cristiane d’Oriente.
Ormai si era instaurato un rapporto amichevole. Era arrivato il momento di chiedergli il motivo della sua fuga dalla Siria, per aiutarlo a presentare all’Acnur la richiesta d’asilo.
«Sono cristiano da generazioni. Il mio credo religioso e le mie idee politiche sono stati la causa della fine della mia vita. Appartenevo al partito comunista, partito d’opposizione al Ba’th, tutt’ora al potere in Siria.
Quattro anni fa sono stato incarcerato con l’accusa di complottare contro lo stato. Non avevo fatto e detto niente, ma in Siria solo il fatto di essere cristiano e per di più comunista crea sempre problemi.
Ho perso il lavoro. Sono stato in carcere, senza rendermi esattamente conto del motivo. L’accusa era di tramare contro l’islam.
Sono uscito dal carcere dopo tre anni e ho cercato di riprendere la mia vita, anche se non avevo più il mio lavoro. Cercavo di stare attento, evitando di parlare di politica. Ma non si è mai troppo prudenti.
Una settimana dopo la tragedia dell’11 settembre, mi trovavo con alcuni carissimi amici musulmani in un nadi, un club privato. C’era molta gente. I miei amici iniziarono a parlare della strage delle torri di New York. Io ascoltavo i loro discorsi. Parlavano di Berlusconi, di Bush: dicevano che entrambi erano contro l’islam e volevano cancellarlo dalla terra. Addirittura arrivarono a giustificare l’atto dei terroristi.
A quel punto non riuscii più a stare zitto. Mi limitai a dire che in quelle due torri morirono persone che non c’entravano niente, non solo cristiani, ma anche ebrei e musulmani.
Dal tavolo vicino si alzarono due uomini. Appartenevano alla mukabarat, la polizia segreta dello stato. Iniziarono a gridare: “Sei un kafir (infedele), stai complottando contro lo stato siriano, contro gli arabi e l’islam”. Mi presero, mi misero su un’auto e mi portarono alla prigione di Tadmur, sei ore da Damasco, una delle più dure carceri siriane.
Mia moglie e i miei figli non furono avvertiti. Iniziarono a cercarmi ovunque, ma nessuno gli diceva dove mi avevano portato. Solo dopo 50 giorni, durante una perquisizione nella mia casa, mia moglie venne a sapere che ero rinchiuso nella prigione di Tadmur, che ero vivo, ma non potevo ricevere visite».
Mentre mi raccontava questa storia, Elias aveva le lacrime agli occhi, ma volle continuare il suo racconto. «Ero chiuso in una cella di due metri per due. Ero solo e senza luce. Ogni due settimane potevo fare una doccia, per dieci minuti e alla presenza di due guardie. Una volta alla settimana avevo la possibilità di prendere 30 minuti d’aria, ma senza poter vedere il cielo. Ogni sera un po’ d’acqua e una zuppa mi venivano introdotte da un piccolo sportello. Vietati i colloqui con parenti e amici. Mi picchiavano perché dicessi i nomi dei cospiratori.
Tadmur è una prigione molto dura per prigionieri politici. Ma la maggior parte dei carcerati è cristiana. Dopo tre mesi fui mandato a casa, con l’obbligo di una firma al giorno presso la polizia del quartiere».

Negli ultimi 20 anni, molte famiglie cristiane hanno lasciato la Siria. Prima dell’arrivo del Ba’th al potere, la comunità cristiana godeva di maggiori libertà, era parte dello stato siriano alla pari di quella musulmana. Il nuovo governo ha introdotto varie restrizioni e limitazioni.
Elias sentiva che la sua vita in Siria non era più sicura: decise di fuggire con moglie e figli, che acconsentirono. Vendette la casa e altre proprietà; pagò una persona che, per 2 mila dollari, li aiutò a passare la frontiera tra Siria e Turchia e li condusse a Istanbul. Da lì raggiunsero Atene, dove un suo cugino viveva da 35 anni.
«È stato un viaggio molto duro: eravamo nascosti dentro un camion, senza poterci muovere e parlare -continua Elias -. Quando raggiungemmo Atene, avevo la febbre alta. Non potevo andare da nessun dottore, perché in Grecia i clandestini non hanno diritto alle cure mediche. La moglie di mio cugino riuscì a procurarmi delle medicine con il suo tesserino sanitario. Ma avevo bisogno di un medico, di essere ricoverato in un ospedale. Per questo mio cugino mi consigliò di venire in Italia, dove tutti, anche i clandestini, hanno diritto all’assistenza medica».
Con gli ultimi soldi rimasti riuscì a pagare degli uomini che lo aiutarono a raggiungere Venezia.
«A Venezia fui immediatamente ricoverato in ospedale, dove rimasi per una settimana. Ho problemi al cuore, devo stare sotto controllo, la mia pressione è molto alta».
I suoi familiari avrebbero dovuto raggiungerlo in Italia, ma non ci riuscirono. Si sentivano ogni tanto al telefono, li chiamava lui.

Erano passati 10 mesi dall’arrivo di Elias a Venezia. Da alcune settimane non era più riuscito a mettersi in contatto con la moglie e i figli. Temeva che fosse successo qualcosa. Sapeva che avevano lasciato la casa del cugino ad Atene e si erano diretti sulla costa, in attesa di trovare un passaggio su una nave per clandestini.
Nell’ultima telefonata lo avevano informato di avere pagato 4 mila dollari a uno scafista, per essere condotti a Bari, ma costui era scomparso con il denaro. Da allora non li aveva più sentiti.
Elias non aveva mai raccontato a nessuno questa storia, aveva paura che a Venezia ci fosse qualcuno in contatto con la polizia segreta siriana; temeva di compromettere la sua vita e, soprattutto, quella della sua famiglia. Solo quando fosse stato convocato a Roma, avrebbe raccontato tutto.
Nonostante i suoi timori, ritenne importante fidarsi di me; ma non so fino a che punto l’abbia fatto, e non lo saprò mai. Elias, infatti, abbandonò il centro. Mi lasciò un messaggio sulla segreteria telefonica, dicendomi che sarebbe andato a cercare la famiglia. Aveva bisogno di lui.
A una settimana dalla sua partenza, trovai un altro messaggio, in cui, piangendo, mi annunciava che i suoi familiari erano scomparsi. Aveva saputo che erano riusciti a imbarcarsi per Bari; a Bari non erano mai arrivati, ma non li credeva morti.
Mi disse che sarebbe andato a cercarli. Non rivelò dove; non mi lasciò un numero di telefono né un recapito. La responsabile del centro mi spiegò che aveva rinunciato al programma di accoglienza e che non aveva potuto obbligarlo a restare.

Elisabetta Bondavalle




IRAQIl braccio religioso dell’impero americano

Aggressivi nelle parole e nei fatti, convinti di essere gli unici depositari della verità, ricchi di sovvenzioni e di lobbies potentissime all’interno del congresso Usa, gli evangelici americani sono arrivati in Iraq al seguito dei marines per tentare l’assalto all’islam. In realtà
potrebbero mettere in pericolo la sopravvivenza della comunità cristiana, già provata dagli attentati.

John Llano viene da Houston (Texas) e nella primavera del 2004 era il cappellano militare del V Corpo d’Armata americano nella base di Camp Bushmaster, vicino a Najaf, nonché incaricato della gestione di una riserva d’acqua di quasi 2000 litri che pensò bene di far fruttare se non in termini di soldi in termini di anime.
Il baratto era semplice: il soldato di ritorno da un tuo avrebbe potuto trovare sollievo alla propria fatica e togliersi di dosso la finissima polvere del deserto iracheno con l’acqua del cappellano, ma in cambio avrebbe dovuto accettare di essere battezzato. Al cappellano John non interessava sapere quanti di quei neo battezzati fossero mossi da soli motivi igienici, per lui, in ogni caso, il sistema era giusto perché, con machiavellico convincimento, affermava la necessità di essere aggressivi per avvicinare la gente a Dio.
Le parole di Llano, che si definisce un evangelista battista del sud, a prima vista possono sembrare frutto di spregiudicatezza di carattere e di disinvoltura nel trattare un argomento delicato come l’eventuale conversione, ma in realtà sono spie di un atteggiamento generalizzato e fatto proprio dalle diverse confessioni evangeliche americane che sono arrivate in Iraq al seguito dei marines, e che va ben oltre l’eventuale avvicinamento a Dio dei soldati statunitensi (1).

IL MONDO PERDUTO
Lo scopo ufficiale di queste organizzazioni (tra le quali spicca per attivismo la Inteational Mission Board, legata alla chiesa battista del sud) è quello di dare un conforto materiale agli iracheni; quello ufficioso, però, parrebbe essere diverso: la conversione dei musulmani d’Iraq.
Per capirlo basta esaminare accuratamente i siti internet di queste organizzazioni e scoprire, ad esempio, come i fedeli islamici siano considerati parte del cosiddetto «mondo perduto» (2), quel mondo che a causa della sua fede deve essere aiutato ad avvicinarsi a Dio, al vero Dio.
Quel mondo che per avverse condizioni storico-geografiche non ha ancora beneficiato della Sua parola, e che sta «al di là del muro» o, più precisamente, nella zona chiamata «fascia resistente» o anche «finestra 10/40», alludendo a quell’area del globo che si estende dal 10° al 40° di latitudine a nord dell’equatore e che include la maggior parte dei musulmani, per non parlare degli induisti e dei buddisti, anch’essi da annoverare tra i popoli perduti.
Che lo scopo delle organizzazioni evangeliche americane sia quello di convertire le popolazioni non cristiane, nel caso specifico i musulmani, non è storia nuova, anche se gli ultimi decenni hanno visto crescere notevolmente questo sforzo. Alla metà degli anni ’80, ad esempio, i missionari battisti operanti nella finestra 10/40 erano l’1 per cento del totale mentre nel 2003 erano già diventati il 27%. In molti paesi sono arrivati come normali operatori umanitari, in altri invece, quelli effettivamente «resistenti» alla loro presenza, approfittando di eventi eccezionali che hanno convinto, o costretto, i governi a chiudere un occhio e ad accoglierli. È il caso dell’ultimo terremoto che ha distrutto un’intera regione iraniana o, appunto, della guerra all’Iraq.

LE GUERRE DEL GOLFO
Il primo tentativo di «avvicinamento dolce» alla regione mediorientale fatto in concomitanza con un periodo bellico risale al 1990-’91, al tempo della prima guerra del Golfo contro l’Iraq, quando l’icona dell’evangelismo americano d’assalto, il reverendo Franklin Graham varò l’operazione Dear Abby, con la quale invitò gli americani a spedire lettere di incoraggiamento ai soldati al fronte.
Tale iniziativa si rivelò una copertura utilizzata dai seguaci di Graham per spedire ai soldati 200.000 scritti di matrice cristiana in arabo con il chiaro, anche se non dichiarato, intento di diffonderli tra gli abitanti del luogo. Malgrado l’opposizione dell’allora capo di stato maggiore della coalizione anti-Saddam, il generale Norman Schwarzkopf, e del suo pari grado saudita, il principe Khaled Bin Sultan, l’operazione continuò per mano di alcuni cappellani militari che più che ai loro superiori risposero alla chiamata di Graham (3).
Eppure Baghdad rimaneva lontana. Un decreto governativo degli inizi degli anni ’80 aveva ristretto la presenza delle confessioni cristiane a quelle già esistenti, e neanche nei periodi più neri del paese, quando, piegati dalle sanzioni economiche e dal regime, gli iracheni morivano o fuggivano a milioni, gli evangelici riuscirono a mettervi piede con la scusa di fornire aiuti materiali. Con la caduta della statua del ra’is, nell’aprile 2003, la situazione è cambiata e si è aperta la «finestra d’opportunità» per la quale, come ha dichiarato John Brady, responsabile della branca mediorientale e nordafricana della Imb, i battisti del sud avevano a lungo pregato (4) e che ha permesso finalmente agli evangelici di «bagnarsi nelle acque di Abramo».
Una finestra di opportunità che però, come essi stessi riconoscono, sta per richiudersi. Non si fanno illusioni gli evangelici americani: sanno che, se in Iraq dovesse prevalere, come tutto fa per ora pensare, un governo di forte orientamento islamico, la loro presenza nel paese diventerebbe sgradita.
Eppure neanche con una finestra d’opportunità più lunga si sarebbe potuto ragionevolmente pensare di convertire i musulmani e togliere l’Iraq dalla lista dei paesi perduti. Certo, è possibile che qualche fedele di Maometto, al pari del soldato affaticato e sporco, abbia barattato un pasto ed una coperta per una lettura del Nuovo Testamento, ma la sempre maggiore influenza sciita non ha sicuramente contribuito al fenomeno. Se nell’Iraq «ufficialmente» laico di Saddam vigeva il reato di apostasia, il divieto cioè per ogni musulmano di convertirsi ad altra fede, niente fa pensare che tale reato possa venire abrogato, ed è dubbio, quindi, che folle di islamici possano desiderare di rischiare passando «dall’altra parte».

SE I PREDICATORI
CAMBIANO OBIETTIVO

«In America, la gente è libera di essere cristiana o musulmana, ma in Iraq chi decidesse di lasciare l’islam per convertirsi al cristianesimo verrebbe ucciso dalla sua stessa famiglia in applicazione della legge islamica», afferma a proposito il reverendo Ikram Mehanni, pastore di una chiesa presbiteriana di Baghdad, una delle chiese presenti in Iraq da circa un secolo.
Frustrati in questo tentativo gli evangelici potrebbero quindi rivolgere le loro attenzioni verso un obiettivo più a portata di mano: la conversione dei cristiani iracheni. Essi sono già «dall’altra parte», non rischierebbero nulla, e potrebbero essere affascinati dall’attivismo e dall’aggressiva retorica dei predicatori della bibbia, che tanto contrasta con il basso profilo che, in passato, le chiese autoctone sono sempre state costrette a tenere per non attirare sui propri fedeli inopportune attenzioni del governo ed ora quelle di chi le vuole legate, per comunanza di fede, ai nuovi crociati invasori.
I cristiani potrebbero sentirsi più «protetti» da queste nuove chiese evangeliche, almeno quelli che interpretano gli attacchi alle chiese del primo agosto (e del 16 ottobre) come un fallimento della politica del dialogo perseguita dalle proprie gerarchie ecclesiastiche.
Percentualmente, quindi, gli evangelici potrebbero avere più successo tra i cristiani che tra i musulmani, e la cosa non può non far paura alle chiese già esistenti preoccupate di preservare l’integrità delle loro piccole comunità. Una preoccupazione basata su dati obiettivi, come confermano le parole del reverendo Ikram Mehanni: «Queste chiese vogliono dividere la cristianità: il loro numero aumenta, ma i cristiani no».
Che ci stiano riuscendo è indubbio: a Baghdad ci sono già 26 nuove chiese evangeliche, ed almeno una di esse, la Evangelical Holiness Revival Church, come afferma il suo pastore, il reverendo Wissam Jamil, ha raccolto fedeli provenienti da altre chiese visto che il proselitismo tra i musulmani è vietato.
«Gli evangelici si concentrano nelle aree cristiane della città perché più sicure per loro, ed evitano quelle musulmane in cui sarebbero attaccati dalla popolazione – dice monsignor Matti Shaba Mattoka, vescovo siro-cattolico -. Perché distribuiscono bibbie e vangeli in arabo ai cristiani, pensano forse che essi non conoscano Gesù Cristo? Perché non vanno a distribuirle nei quartieri musulmani?».
«L’aggressività caritatevole» che contraddistingue gli evangelici potrebbe inoltre rafforzare l’idea che la guerra mossa all’Iraq, oltre che per motivi geostrategici ed economici, sia stata mossa per motivi religiosi in una sorta di riedizione delle crociate. Un pericolo messo in luce anche dallo sceicco sciita Fatih Kashif Ghitaa che ha sottolineato come già gli iracheni vedano l’occupazione americana del paese come una guerra di religione, e che ha riferito di un incontro tra capi sciiti e sunniti per valutare l’opportunità di emettere una fatwa di condanna nei confronti dei missionari cristiani.

QUEGLI AIUTI «FIRMATI»
I ripetuti riferimenti al divino fatti dal presidente Bush, ma soprattutto le stesse affermazioni dei capi evangelici che, come Graham hanno definito l’islam «una religione malvagia», non sono passati infatti inosservati ed i cristiani iracheni temono di essere confusi con loro.
Un punto di forza delle chiese autoctone rischia di vacillare: esse rappresentano solo il 3% della popolazione, ma nessuno può negare loro il primato delle origini che risalenti alla predicazione dell’apostolo Tommaso nel I secolo d.C. anticipa di secoli l’arrivo dell’islam in Mesopotamia.
«Rubando» i fedeli alle chiese del luogo, tentando l’assalto all’islam, usando linguaggi e comportamenti aggressivi, gli evangelici stanno quindi diventando un pericolo per gli stessi cristiani e stanno svelando il loro vero volto di «braccio religioso» dell’impero americano.
Se il loro scopo fosse stato veramente solo quello di aiutare la popolazione irachena senza tentare di convertirla sarebbe stato sufficiente convogliare gli aiuti verso le organizzazioni umanitarie, laiche o religiose, già operanti in Iraq da prima della guerra, ma in quel caso le scatole di aiuti inviate dalla Inteational Mission Board non avrebbero dovuto riportare le parole di Giovanni (1:17): «La legge fu data attraverso Mosè e la grazia e la verità furono realizzate attraverso Gesù Cristo». Firmato: «Un dono d’amore dalle chiese battiste americane».
Un dono che alla lunga rischia di risultare sgradito e persino pericoloso.

BOX 1

Intervista: «Sono chiese d’affari»

«Sono arrivate a seguito dei marines ed hanno iniziato a stabilire le loro sedi nelle zone abitate dai cristiani, e comunque vicino alle chiese. Il loro scopo è attirare i fedeli cristiani facendo leva sulle ingenti somme di denaro a loro disposizione, un metodo che ci mette in imbarazzo e in difficoltà. Nel natale dello scorso anno, ad esempio, è stato difficile spiegare ai bambini della mia parrocchia perché i loro pacchi dono erano poca cosa in confronto a quelli distribuiti dagli “americani.” Gli adulti sono attirati dai posti di lavoro e dai salari che queste chiese garantiscono, i giovani dal fatto che in esse trovano computers e collegamenti internet gratuiti.
Noi possiamo far leva sulla tradizione, sulla fede comune che ci ha permesso di resistere uniti in tutti gli anni di sofferenze, ma non so per quanto ancora. Il popolo iracheno (ed i cristiani non fanno eccezione) si risolleverà, perché il nostro è un paese ricco ed il petrolio, prima nelle mani di Saddam ed ora degli americani, prima o poi toerà a noi. Per ora, però, cibo, medicine, giocattoli e tecnologia sono ancora un buon sistema per “comprare” la fede».
«Certo, queste chiese d’affari non conquisteranno tutti, ma potrebbero diventare un pericolo. La mia parrocchia, la chiesa di Mar Mari (nella zona nord-est della città) contava all’inizio degli anni ’90, 350 famiglie. Oggi, la fuga verso il nord o verso l’estero le ha ridotte a 120, e la situazione instabile del paese, ed il suo trovarsi al confine dell’enorme quartiere sciita di Sadr City, roccaforte dell’integralismo islamico pronta a scoppiare, potrebbe ridurre ulteriormente questo numero. Se a ciò aggiungiamo l’eventuale conversione a queste nuove chiese, il conto è presto fatto: nel futuro la nostra chiesa potrebbe non avere più fedeli, e magari essere chiusa».
«La presenza delle chiese evangeliche, inoltre, ci mette in imbarazzo nei confronti dei musulmani che non apprezzano, ad esempio, le loro grandi croci luminose che spuntano un po’ d’ovunque. Quando capita di parlare con gli sceicchi delle moschee, che conosciamo da sempre, ed il discorso cade sulle nuove chiese, la nostra posizione si fa difficile e ci ritroviamo tra due fuochi. Da una parte non possiamo “sconfessarle”, perché, anche se le sappiamo “diverse” e non ne apprezziamo il dogma (che non prevede la centralità di Cristo ma solo della bibbia), ciò potrebbe portare ad una sorta di “via libera” per chi volesse attaccarle, mettendo a rischio anche la “nostra gente”. Sconfessare altri cristiani, poi, sarebbe agli occhi dei musulmani un segno di debolezza su cui eventualmente far leva per dividerci e toglierci i pochi spazi rimasti. Se, d’altra parte, le difendessimo a spada tratta presto anche noi, cristiani iracheni, presenti nel paese da prima dell’arrivo dell’islam, saremmo accomunati a loro, percepiti come i nuovi crociati».

Lu.S.

Luigia Storti




ISRAELEL’incredibile storia di Mordechai Vanunu

Nel 1986, il tecnico Mordechai Vanunu rivelò ad un giornale che Israele disponeva di un sofisticato sistema nucleare. Fu rapito dai servizi segreti
del Mossad a Roma ed incarcerato in Israele. Mordechai Vanunu è uscito lo scorso 21 aprile, dopo 18 anni di detenzione.
In questo articolo, ripercorriamo la sua storia da brividi. E ci poniamo qualche (ingenua) domanda: come mai Israele può detenere testate nucleari senza che nessuno (di importante) se ne preoccupi? Perché mai per Tel Aviv non si parla di ispezioni inteazionali come, ad esempio, per il vicino Iran?

La vicenda che vogliamo raccontare prende le mosse dalla liberazione dal carcere, dopo 18 anni di detenzione, di un tecnico nucleare israeliano, nato in Marocco da famiglia sefardita. La sua colpa era di aver rivelato informazioni segretissime sull’armamento atomico di Israele.
Dopo aver cercato inutilmente di entrare nello Shin Bet, il servizio di sicurezza interno israeliano, Mordechai Vanunu – questo il nome del protagonista – all’età di circa vent’anni venne assunto al centro di ricerche nucleari di Dimona, nel deserto del Negev in Israele. Questo impiego segnò il suo destino successivo.
Prima di ricordae le vicende, vale però la pena di esaminare con un minimo di dettaglio la storia dell’impianto, interessante ed esemplificativa di come le alleanze politiche e militari tra stati cambino radicalmente nel tempo e portino a risultati inattesi e talora imprevedibili.

L’ENERGIA NUCLEARE: MA PER QUALI SCOPI?

Dopo la seconda guerra mondiale la prospettiva di un uso diffuso e importante dell’energia nucleare ebbe sostenitori entusiasti ovunque, dato che in essa si vedeva la fonte energetica del futuro: potentissima, abbondante, economica. I benefici di questa fonte si auspicava fossero universali e a questa filosofia si ispirò il presidente americano Eisenhower quando, l’8 dicembre 1953, davanti all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, propose il programma Atomi per la Pace, mirato a fornire assistenza tecnica ai paesi che desideravano impegnarsi nel campo dell’utilizzo pacifico dell’energia nucleare.
In Israele la Commissione per l’energia atomica era nata un anno prima e si caratterizzò subito per una stretta collaborazione con gli ambienti militari, in ciò seguendo le direttive di uno dei padri dello stato sionista: David Ben Gurion. L’anno dopo gli israeliani riuscirono a mettere a punto un processo efficace per estrarre l’uranio presente nel deserto del Negev, nonché un nuovo metodo per produrre acqua pesante. Con questi due materiali i progetti atomici del paese potevano procedere, innanzitutto costruendo un reattore nucleare.
Per la complessa progettazione e realizzazione dell’impianto, Israele ebbe bisogno di assistenza. La cercò (e la ricevette) in Francia, che a quel tempo era fortemente impegnata a cercare di sconfiggere il movimento indipendentista algerino.
In quel periodo, Parigi si contrapponeva al mondo arabo (in primis all’Egitto, contro cui, nel 1956, Francia, Gran Bretagna e Israele combatterono la cosiddetta guerra di Suez) e quindi era interessata a sostenere uno stato mediorientale «naturalmente antiarabo». All’interno della collaborazione che ne scaturì, Israele ricevette pure assistenza militare diretta, sotto forma di aerei e altri armamenti sofisticati. Il pilastro fondamentale su cui reggeva questa tacita alleanza era comunque rappresentato dalla rivolta algerina e quando la nazione maghrebina ottenne finalmente l’indipendenza nel 1962 iniziò un lento processo di normalizzazione tra Parigi ed i vari stati arabi, che man mano vide il parallelo raffreddamento dei rapporti con Tel Aviv.
La centrale di Dimona venne realizzata alla fine degli anni ’50, in gran segreto. Ma gli Stati Uniti si accorsero che qualcosa di insolito stava succedendo. Effettuando dei sorvoli con gli aerei spia U2 nacque in loro il sospetto che Israele avesse ambizioni nucleari militari, tanto che espressero la loro preoccupazione in merito. Alla fine la natura nucleare dell’impianto fu ammessa apertamente da Ben Gurion, ma solo nel 1960, quando lo descrisse come «struttura di ricerca a scopo pacifico». Negli anni successivi Israele ribadì più volte che non sarebbe stato il primo a introdurre armi nucleari nel Medio Oriente.
L’impianto venne visitato negli anni ’60 da ispettori americani, che però non riuscirono a farsi un’idea chiara di quel che in esso avveniva, anche perché, secondo alcune fonti, gli israeliani camuffarono abilmente le installazioni, realizzando delle false sale controlli e addirittura murando intere sezioni, specialmente quelle sotterranee. Gli ispettori si fecero peraltro l’idea che non esistessero motivazioni scientifiche o civili sufficienti per giustificare un reattore nucleare di tali dimensioni – e ciò aumentò i sospetti che Israele avesse intenzione di farsi segretamente la bomba atomica – ma nemmeno trovarono prove di attività chiaramente mirate alla produzione di ordigni nucleari.
Si giunse così al 1968, quando la Cia americana concluse che Israele aveva iniziato a realizzare bombe nucleari. Negli anni successivi vi fu molta incertezza; non sull’esistenza, ma solo sulle dimensioni dell’arsenale atomico israeliano.
Risulta sorprendente l’incapacità ed il disinteresse mostrato a questo riguardo dal mondo intero: sia gli stati occidentali, come anche e soprattutto le nazioni arabe e l’Urss se ne restarono quieti relativamente all’armamento atomico israeliano. Questo tema non assunse mai grande importanza, né venne mai discusso pubblicamente ed Israele non subì particolari pressioni perché accettasse ispezioni inteazionali e rinunciasse ai propri programmi di armamento nucleare. Anche i principali leaders arabi avallarono questa «politica dello struzzo», evitando di sollevare la questione a livello internazionale. Forse per paura di non poter più utilizzare a fini interni l’infiammante retorica che auspicava la totale distruzione dello stato sionista.

LE «TESTATE» DI ISRAELE

Quando entrò in gioco Mordechai Vanunu? Egli rimase a lavorare a Dimona per quasi un decennio, fino al 1985. Licenziatosi, andò dapprima in Australia, ove si convertì alla religione anglicana. Spostatosi in Gran Bretagna, nel 1986 svelò al giornale britannico Sunday Times l’esistenza del segretissimo programma di armamento nucleare del suo paese. Grazie alle informazioni foite da Vanunu e alle 60 fotografie che egli era riuscito a scattare di nascosto nell’impianto (materiale vagliato e convalidato da noti esperti, come il fisico Frank Baaby), la comunità internazionale scoprì che l’arsenale di Israele era di tutto rispetto: 100 se non forse addirittura 200 testate atomiche.
Ci si sarebbe attesi che la notizia scatenasse un putiferio. Improvvisamente si affacciava sulla scena mondiale una sesta potenza, comparabile con Francia, Gran Bretagna e Cina. Gli stati arabi avrebbero potuto usare questa novità per mettere in cattiva luce lo stato sionista, incolpandolo di aggravare le tensioni nell’area e di introdurre -contrariamente a tutte le dichiarazioni pubbliche precedenti – armi di distruzione di massa dalle conseguenze imprevedibili. Invece nulla accadde e presto tutto finì nel dimenticatornio.
Ma non per Mordechai Vanunu, che per aver divulgato queste notizie dovette pagare un prezzo altissimo.

L’EFFICIENZA DEL MOSSAD E L’ITALIA

Israele si attivò subito e Vanunu cadde nella trappola preparatagli. Una trappola antica, ma sempre valida. Gli venne fatta incontrare una donna – agente segreto di Tel Aviv – di cui egli si invaghì. Da lei fu indotto a venire in Italia e precisamente a Roma. Giunto nella nostra capitale, fu immediatamente rapito, drogato, messo su una nave che aspettava al largo della costa e condotto illegalmente in Israele, ove nel 1988 venne processato e condannato a 18 anni di carcere per tradimento e spionaggio.
L’operazione dei servizi israeliani era chiaramente illegale e infrangeva tutte le leggi italiane e inteazionali. Sta di fatto che il rapimento venne eseguito con tale professionalità che nessuno si accorse di nulla. Ancora una volta il Mossad aveva mostrato la sua leggendaria efficienza.
Il fattaccio venne alla luce solo più tardi, quando Vanunu, durante un trasferimento in auto tra il carcere e il tribunale ove veniva processato a porte chiuse, riuscì a far arrivare ai giornalisti un messaggio. Con grande inventiva Vanunu aveva scritto sul palmo della propria mano poche righe in cui denunciava di essere stato rapito a Roma e la mostrò ai fotografi che stazionavano fuori del tribunale. La notizia fece il giro del mondo, ma ancora una volta la questione non suscitò grandi reazioni nel nostro paese.
Solo la magistratura fece qualcosa: il pubblico ministero Domenico Sica aprì un’inchiesta, ma questa fu presto archiviata con la motivazione che non c’era nessuna prova. L’Italia usciva così dalla vicenda in maniera vergognosa e inetta.
Viene da chiedersi perché i servizi israeliani scelsero di non agire contro Vanunu in Gran Bretagna, attraendolo invece in Italia. Dovevano avere fiducia nella nostra incapacità di intralciare i loro piani e nella mancanza di una reazione degna di una nazione civile. In quella occasione, anziché da democrazia attenta a salvaguardare la propria dignità e i principi di legge, l’Italia si comportò come una impotente «repubblica delle banane».

PERCHÉ LO FECE?NON PER DENARO

Sui motivi che hanno spinto Vanunu a denunciare le attività nucleari militari del proprio paese si è discettato molto. Prima di questa decisione egli aveva certamente vissuto un periodo difficile dal punto di vista psicologico, culminato con la crisi religiosa che lo aveva portato ad abbandonare la fede ebraica per quella cristiana anglicana. In ogni caso il suo ripensamento sulla «bontà» del programma nucleare israeliano doveva risalire a ben prima, dato che si era adoperato a scattare numerose immagini dell’impianto di Dimona e a trafugarle all’esterno. Sicuramente era anche conscio dei rischi cui si esponeva nel rivelare i segreti atomici israeliani, ma questo non gli impedì di agire, accettando la possibilità – come poi avvenne – di venir arrestato e pagare duramente per il suo gesto.
Da quel che si sa appare certo che egli non abbia agito per denaro, ma per motivi etici e morali. Vanunu decise di far sapere al mondo intero che il suo paese si era dotato dei più terribili ordigni di morte, introducendo nel Medio Oriente un elemento fortemente destabilizzante, che avrebbe potuto accrescere i rischi di un disastro totale.
Alcuni, ad esempio lo scrittore israeliano A. Yehoshua, sostengono come l’arsenale atomico israeliano giochi in realtà un ruolo favorevole per le prospettive di pace nel Medio Oriente. Esso permetterebbe infatti alle colombe israeliane di avanzare con maggiore efficacia proposte di rinuncia ai territori occupati e ad altre concessioni, a fronte della garanzia foita dalla presenza delle bombe atomiche, che dovrebbe essere in grado di dissuadere ogni stato arabo da un eventuale attacco finale. Un esempio di questo efficace ruolo di deterrenza viene individuato anche nell’improvviso arresto della notevole avanzata militare di egiziani e soprattutto di siriani nei primi giorni della guerra del Kippur nel 1973; «una sconfitta troppo bruciante avrebbe potuto spingere Israele a far uso delle sue armi letali».
Supponendo, per ipotesi, che il possesso delle bombe atomiche favorisca davvero i moderati israeliani, non si può certo dire che questi abbiano avuto grande successo politico negli ultimi anni!

NELLE CARCERI ISRAELIANE

Il trattamento carcerario in cui è stato tenuto Vanunu è stato spietato. Ha trascorso oltre 11 anni in isolamento completo, senza che gli fosse consentito alcun contatto umano, se non sporadici colloqui con i familiari, il suo avvocato e un prete. Durante questi incontri egli era peraltro sempre separato dai suoi interlocutori da una grata metallica. Fino a tempi recenti non gli venne nemmeno concessa l’ora d’aria, come a tutti gli altri detenuti.
I numerosi appelli inteazionali per la sua liberazione, o almeno per un ammorbidimento delle condizioni di detenzione, vennero sempre rifiutati dalle autorità israeliane. Per loro Vanunu aveva tradito la patria e come tale andava trattato in modo severissimo.
Nonostante questo trattamento disumano, Vanunu non è impazzito e a fine aprile di quest’anno, scontata la sua lunghissima pena, è stato rimesso in libertà.

«LIBERO» E SENZA DIRITTI

L’odissea di Mordechai Vanunu non è purtroppo terminata. Come denuncia Amnesty Inteational, lo stato di Israele continua a violare i diritti fondamentali di Vanunu, anche ora che è uscito di prigione. Gli vengono imposte restrizioni assolutamente arbitrarie; ad esempio non gli viene rilasciato il passaporto e, per la durata di un anno, non potrà nemmeno lasciare il paese (come invece egli desidererebbe).
Inoltre, gli è proibito entrare in contatto con cittadini stranieri, se non con uno specifico permesso; non può visitare nessuna ambasciata di stati esteri (in un primo tempo gli era stato imposto di non avvicinarvisi nemmeno); non può rilasciare interviste.
Questa sembra una vera persecuzione, anche perché Vanunu afferma di non essere in possesso di nessun ulteriore segreto atomico. Ciò nonostante non gli è permesso discutere con nessuno (nemmeno per telefono o per posta elettronica) di argomenti nucleari, e gli è anche vietato ripetere le affermazioni già pubblicate nel 1988 dal Sunday Times.
Tutto questo va contro quanto previsto dall’articolo 12 dell’accordo internazionale sui diritti politici e civili. Questo accordo (ratificato anche da Israele, che quindi sarebbe tenuto a non violarlo) recita che «chiunque si trovi legalmente all’interno di uno stato, avrà – all’interno di quella nazione – diritto alla libertà di movimento e la libertà di scegliersi la propria residenza» e «ognuno sarà libero di lasciare qualunque paese, incluso il proprio». Inoltre i diritti alla libertà di espressione e di associazione sono garantiti dagli articoli 19 e 21 dello stesso accordo.
Secondo Amnesty Inteational, «Vanunu non deve essere sottoposto a restrizioni arbitrarie e a violazioni dei suoi diritti fondamentali, sulla base di pretesti o di sospetti nei riguardi di ciò che egli potrebbe fare nel futuro».

ISRAELE: «STATO CANAGLIA»?

La questione Vanunu non è importante solo per l’aspetto umano, ma ha una valenza ben più ampia.
Si è fatta la guerra contro l’Iraq motivandola con la supposta presenza di armi di distruzione di massa, mai rinvenute. Libia, Iran e Corea del Nord erano state inserite tra gli «stati canaglia» perché sospettate (peraltro a ragione) di voler sviluppare armamenti nucleari.
Di Israele e delle sue centinaia di bombe nucleari non si dice invece nulla, incuranti del fatto che questo arsenale, mai dichiarato ufficialmente, sia all’origine delle ambizioni atomiche di molti governi della regione mediorientale.
Stupefacente appare l’uso di due pesi e di due misure e l’incapacità della stampa e dei media liberi inteazionali di evidenziare i problemi posti dall’arsenale israeliano. Nel caso della stampa nazionale e dei maîtres à penser nostrani, suscita inoltre tristi riflessioni l’assoluta mancanza di autocritica nei confronti di come il rapimento di Vanunu sul suolo nazionale sia stato gestito.
Ulteriore punto importante riguarda la mancanza di clausole di protezione, sia nella legge italiana che in quella internazionale, per chi decida di divulgare informazioni che sono sì segreti di stato, ma che è invece utile siano noti alla collettività internazionale, in primo luogo nel settore della realizzazione di bombe atomiche. Chi lo fa è in tal modo abbandonato alla vendetta dei governi, che spesso hanno molto da nascondere. Questi misconosciuti benefattori dell’umanità non godono nemmeno del trattamento riservato ai prigionieri politici. Pensiamo a quel che succederebbe se uno di questi coraggiosi personaggi si presentasse un giorno alle nostre frontiere, chiedendo asilo politico dopo aver divulgato ai media notizie riservate sul conto del proprio paese. Sarebbe rispedito in patria e abbandonato alla vendetta delle autorità, come è stato per Vanunu?
Si impone, a livello internazionale, un’iniziativa di protezione di queste persone e sarebbe auspicabile che l’Italia e l’Europa si facessero parti attive a questo riguardo.

L’INSEGNAMENTO DI MORDECHAI

Vogliamo chiudere con le parole di speranza espresse da Mordechai Vanunu poco prima del suo rilascio dal carcere: «Siamo riusciti a superare questo lungo periodo di silenzio. Grazie a tutti gli attivisti e ai sostenitori che hanno lavorato in molte nazioni. Siete stati la mia voce, la mia coscienza. (…) Sarò lieto di incontrarvi e di condividere con voi le mie esperienze, le mie opinioni e di lavorare (…) per l’abolizione delle bombe nucleari in tutto il mondo (seguono varie parole censurate). Quella è la nostra missione e il nostro obiettivo futuro. Ci fermeremo solo nel momento in cui si avrà un nuovo accordo internazionale che metta al bando e abolisca tutti i tipi di bombe nucleari. (…) Crediamo che ciò sia possibile e che potremo vedere questo momento nel corso della nostra vita, proprio come è successo con la fine della guerra fredda. Il nostro messaggio è: “la fine delle bombe nucleari è possibile!”».

Mirco Elena




Propaganda ad una guerra travestita


Don Tonio, che Italia è uscita dalle commemorazioni per la strage di Nassiriya? Non le sembra che la pietas per i morti sia stata quantomeno messa in secondo piano?

«Abbiamo vissuto momenti di forte ed intensa commozione, ma come sempre, questi sono sentimenti che devono essere compostamente vissuti nell’intimità delle lacrime e non in una sorta di liturgia civile che ricicla parole e simboli vecchi. Se ne è approfittato in maniera sciacalla per far propaganda alla guerra travestita, per riproporre una retorica patriottica che speravamo ormai sepolta. Persino un maresciallo dei carabinieri, confidandosi, mi ha detto che si sentiva molto “usato” e che non vedeva l’ora che la cosa avesse termine! Non sono poi mancati coloro che hanno fatto i conti e i confronti tra bandiere arcobaleno e bandiere tricolore, tra gente in piazza il 15 febbraio e i partecipanti ai funerali… Insomma una brutta pagina in cui, ancora una volta, il ruolo più importante è stato svolto dalle televisioni che hanno fatto leva sui sentimenti e sulle emozioni».

Quella italiana a Nassiriya era tutto fuorché una missione di pace. Ma pare che non si possa dirlo…

«Come Pax Christi lo abbiamo ribadito anche nello stesso giorno dell’attentato. La missione italiana non si svolge nel rispetto del diritto internazionale e si propone accanto ad un esercito che ha occupato militarmente un paese straniero dopo un pesante bombardamento. D’altra parte, se continuiamo a mettere in evidenza il buon rapporto con le popolazioni locali e gli aspetti umani dei carabinieri, significa che sono queste le cose che contano. Sarebbe stato meglio allora essere lì come italiani, ma senza armi, accanto alla gente, per aiutare e sostenere la ricostruzione, per riconciliare le parti… E per la verità c’è chi, anche in queste ore, lo sta facendo ma senza meritare nemmeno una citazione nel telegiornale di mezzanotte».

Sembra che ci siano due chiese cattoliche, ben contrapposte. Quella personificata dal cardinale Ruini e quella del papa e di monsignor Nogaro. È d’accordo?

«Basta leggere i passaggi dell’omelia ai funerali e le prese di posizione dei mesi scorsi del pontefice per rendersene conto! Il problema semmai è che non abbiamo una forte attenzione pastorale sui temi della pace e questo fa sì che un sostegno all’uso della forza, giustificato a partire dalla dottrina sociale o dal vangelo, non scandalizza i cristiani come dovrebbe. Sono altrettanto convinto però che, sia pure a fatica, questa sensibilità sui temi della pace e della nonviolenza vadano diffondendosi all’interno della comunità cristiana».

Il popolo delle bandiere della pace è assediato. Come fare ad uscire allo scoperto per reclamare, ancora più fortemente, le ragioni della pace e l’assurdità della guerra?

«Le bandiere sono una rappresentazione, un simbolo che indicano una realtà più vasta che ha bisogno di un migliore radicamento. Il compito che ci attende è soprattutto di carattere educativo per far crescere nella coscienza della gente il valore della nonviolenza, che è l’unico linguaggio della croce. Dovremmo concentrare gli sforzi per dare priorità a questo compito nella comunità e nella società italiane».

Lei è nella redazione del mensile Mosaico di pace. Da Nassiriya come ne esce il giornalismo italiano?

«Rassegnatamente, succube del punto di vista dei potenti. Se si presentassero le testimonianze di vita di tanti missionari e volontari con la stessa dovizia di particolari e la stessa enfasi mediatica con cui ci sono state raccontate le storie dei morti di Nassiriya… avremmo fatto un servizio vero alla pace soprattutto nei confronti delle giovani generazioni. Missioni Consolata si è spesa molto per presentare la testimonianza di Carlo Urbani.
Penso a lui, ad Annalena Tonelli, ai tanti che ho conosciuto in questi anni, pur diversi tra loro, ma accomunati dalla vocazione di servire i poveri, la pace, la giustizia. Ecco, stasera pregherò per quei giornalisti che non hanno ancora conosciuto il valore vero che si nasconde in queste persone e non hanno trovato il coraggio di proporlo ai propri lettori».

Paolo Moiola




Troppo facile piangere quando ci fa comodo


È assurdo rispondere al terrorismo con la guerra.

«Qualcuno vuole “uno scontro di civiltà”».

Non è facile trovarlo, ma quando ti risponde ha una voce calda e sicura e soprattutto parole chiare, ancorché concilianti. Padre Giulio Albanese è il vulcanico direttore della Misna, l’agenzia di informazione missionaria che già tanta credibilità si è guadagnata in pochi anni di attività.
Non nasconde la propria preoccupazione: per la guerra, il terrorismo, la pace, il giornalismo asservito o svilito a gossip.
Sulla chiesa rimane cauto e non vuole tornare sulle polemiche che hanno accompagnato l’omelia funebre del cardinale Camillo Ruini, pronunciata durante le esequie di stato per le vittime della strage di Nassiriya. E men che meno vuole commentare i virulenti attacchi subiti da monsignor Raffaele Nogaro, vescovo di Caserta, colpevole di aver detto verità troppo scomode per essere ammesse in pubblico.

Direttore, ci sono stati i morti iracheni, i morti statunitensi ed alla fine anche i morti italiani. Più che dalla giusta pietas il nostro paese è stato travolto da un’ondata di patriottismo non proprio disinteressato...

«Che senso ha questo patriottismo in un’epoca di villaggio globale? Se i confini nazionali sono ormai soltanto virtuali, allora anche la percezione del patriottismo dovrebbe essere cambiata.
Dobbiamo piangere per le sorti del mondo intero e di tante vittime innocenti delle quali spesso neppure sappiamo l’esistenza.
Noi della Misna siamo tra i pochi che danno notizia delle stragi quotidiane che avvengono, ad esempio, nei paesi africani.
Il patriottismo del 2003 dovrebbe avere un respiro globale. Insomma, è troppo facile piangere quando ci fa comodo…».

La guerra fa male e va male. Gli Stati Uniti lasceranno l’Iraq?

«Lo avrebbero lasciato se non ci fossero troppi interessi legati al petrolio e al business della ricostruzione. Certo di sbagli ne hanno fatti, anche dal punto di vista operativo. Tra l’altro, ormai hanno aizzato una guerra intrairachena in quello che prima del loro arrivo era il paese più laico del mondo islamico».

Il presidente Bush sostiene che la guerra in Iraq andava fatta per difendere il mondo dal terrorismo internazionale…

«Combattere il terrorismo con degli eserciti convenzionali? Già questo mi sembra uno sbaglio operativo clamoroso. Detto questo, l’unica lotta lecita è quella fatta attraverso la legge internazionale, l’unica in grado di difendere interessi non particolari».

Ma in un’epoca dominata dall’unilateralismo statunitense non è semplice parlare di diritto internazionale…

«Il papa ha detto che bisognava rispettare il diritto internazionale, che è stato palesemente violato. Questo significa che l’Onu deve tornare a svolgere un ruolo centrale e super partes. Sappiamo tutti che è un’istituzione burocratica, mastodontica, eccessiva, ma nonostante i limiti le Nazioni Unite rappresentano l’unica via d’uscita».

Come spiega il fenomeno del terrorismo?

«Prima di tutto una cosa va detta a voce alta: il terrorismo va condannato comunque, senza se e senza ma. Sempre. È vero che i terroristi trovano terreno fertile dove le situazioni di privazione e ingiustizia sono maggiori. Ma sicuramente essi non combattono per porre fine a ciò, come dimostra il fatto che le vittime delle loro azioni sono quasi sempre gente innocente. In realtà, credo si voglia arrivare al cosiddetto clash of civilizations, lo scontro di civiltà».

Cioè sta dicendo che qualcuno spinge verso questa direzione?

«Sì».

E chi perseguirebbe questo obiettivo?

«Io non posso dirlo, ma le dò un suggerimento. Pensi alla storia italiana e a quanti attori c’erano dietro la stagione del terrorismo negli anni ’70 ed ’80. Ora è su scala globale…».

Mi permetto di tornare alla domanda iniziale alla quale ha preferito non rispondere. Le tematiche della guerra, del terrorismo, della pace continueranno a dividere la chiesa italiana?

«Continuo a non rispondere. Però, un piccolo suggerimento ce l’avrei. Non è un’idea né nuova né originale, ma potrebbe essere qualcosa di positivo. Sto pensando ad un Osservatorio internazionale della chiesa cattolica italiana, formato da personalità religiose e laiche, che studi e valuti le problematiche inteazionali».

Nel suo libro lei è molto critico con il giornalismo italiano. Ora si dice che la guerra e la strage di Nassiriya lo abbiano ucciso…

«Il giornalismo italiano era in crisi già prima della strage di Nassiriya. Prigioniero del provincialismo e del gossip». •

Paolo Moila




Perché «sparare» sulla Fiat?

L’autore parla di aziende senza profitto, «articolo 18» e altro ancora.

Leggo esterrefatto sulla rivista Missioni Consolata di
luglio/agosto 2002 «È giusto scegliere tra lavoro e
profitto?» di Francesco Rondina.
Ove un’azienda lavori senza profitto, consuma il capitale
e non può che ridurre il personale e i salari con prontezza,
se non vuole che tutto vada in distruzione. Non c’è
da scegliere tra lavoro e profitto, ma il lavoro deve essere
profittevole sia per l’azienda sia per chi lavora.
Buttare poi le accuse più avventate, più sventate, su chi
gestisce le nostre aziende non può che portare sfiducia, disimpegno,
fuga. Perché, assurdamente quanto indeterminatamente,
accusare la Fiat di produzione di mine? Proprio
in questo difficile momento si vuole dare un contributo alla
sua distruzione?
Parlare di aziende che licenziano per aumentare il valore
delle azioni è fantasia scriteriata. Si licenzia? Gli investitori
si spaventano e si allontanano dall’azienda in questione.
Si vuole far passare (giustamente) il professor Biagi
come un martire e poi… si spara su chi vuol modificare
l’«articolo 18» secondo le sue proposte: questo è ragionevole?
Una migliore formulazione di questo dibattuto articolo
aiuta e non aiuta la creazione di nuovi stabili posti di
lavoro? Se questo aiutasse, concorrerebbe alla riduzione di
uno dei mali del mondo: la disoccupazione. Di più non si
propone. Per altri mali occorreranno altri
rimedi.
Il pensare che esista il capitalista
cattivo, che vuole licenziare il lavoratore
buono che gli rende tanto, è cosa
risibile, che può affermare un
comunista come l’onorevole
Diliberto, ma non chi felicemente
tale non è: il capitalista
che gli rende se
lo tiene caro, salvo il caso
limite del capitalista
drogato od alcolizzato. E poi: quali diritti hanno i lavoratori
in Cina, Corea del Nord e Cuba, nazioni tanto amate da
Diliberto?
Queste sono alcune osservazioni su un articolo che, dall’inizio
alla fine, non sta razionalmente in piedi. Non si può
costruire sulla demagogia. Questo va detto a chi ha scritto
l’articolo ed anche a chi l’ha pubblicato. Cristianesimo è ricerca
del bene comune, ma anche serietà e responsabilità,
ben consci che «chi di spada ferisce, di spada perisce».

RENZO MATTEI