IRAN, un paese da rispettare

La Repubblica islamica e il suo presidente sono un vero pericolo?

Mahamoud Ahmadinejad è presidente dell’Iran dal giugno 2005. Con le sue dichiarazioni è arrivato subito sulle prime pagine dei media mondiali.  Oggi la repubblica islamica (sciita) è “sotto osservazione” per i suoi progetti nucleari.
Ma la realtà ha molte sfaccettature, troppo spesso taciute. Per interesse…

Di certo il presidente Mahamoud Ahmadinejad avrebbe molti requisiti per essere scelto dal settimanale Time come il “Personaggio dell’Anno 2006” (Person of the Year 2006), come lo era stato nel 1979 il grande ayatollah, Segno di Dio, Khomeini. E così, 27 anni dopo la rivoluzione che dette vita alla Repubblica islamica, l’Iran sarebbe di nuovo sulla prima pagina del periodico statunitense che, nel 1927, varò questo Oscar editoriale ormai diventato una tradizione consolidata. Naturalmente non è detto che la scelta cada  su Ahmadinejad, poiché quando Time nominò Khomeini, mentre era ancora in atto il sequestro del personale dell’ambasciata Usa a Teheran, ricevette ben 14 mila lettere di lettori, che si lamentavano di quella nomina. Dopotutto fin da quando è apparso sulla scena internazionale Ahmadinejad, nonostante il suo sorriso raggiante,  non è che riscuota, anche lui, grandi simpatie.
La sua elezione a presidente dell’Iran sorprese persino i suoi connazionali. Figurarsi il resto del mondo. Infatti, a poche ore dalla sua nomina  i mezzibusti dei telegiornali si affannavano a pronunciae il cognome producendo suoni surreali. Ma nel giro di pochissimi mesi ci ha pensato lui a costringere tutti a imparae la pronuncia esatta e lo ha fatto con una brutale dichiarazione con la quale si è guadagnato le prime pagine dei giornali di tutto il mondo: “Israele va cancellata dalle carte geografiche”. Apriti cielo. Da allora ci ha abituati ad un linguaggio di singolare durezza. Come quando, intervenendo all’Assemblea generale dell’Onu, ha ammesso di aver avuto un’illuminazione di fronte ad una recente tragedia aerea a Teheran e ha affermato che le 108 vittime hanno “indicato la strada che dobbiamo seguire”. Sulla questione religiosa è tornato quando il suo governo è entrato in carica e i ministri hanno sottoscritto i comuni obiettivi in una lettera indirizzata all’”imam nascosto”, che è stata poi gettata nella fonte di Jamkaran, poco distante dalla città santa di Qom, dove si cela. Poiché il dodicesimo imam al-Mahdi, scomparso nel 939 d.C., secondo la credenza sciita, toerà a vivere e darà la vittoria.

I “pasdaran”
Ahmadinejad  ha aderito a questo messianesimo fin da quando ha mosso i primi passi nella politica. L’apprendistato l’ha svolto tra i pasdaran, i guardiani della rivoluzione iraniana, il corpo scelto dell’esercito creato dopo la rivoluzione. E ad essi deve il sostegno, al limite della regolarità, nelle elezioni vinte nel giugno 2005. Costoro formano il gruppo politico della “nuova destra” neoconservatrice, composto prevalentemente dai comandanti dei pasdaran, da uomini della milizia e dei servizi, di età compresa tra i 40 e i 50 anni, formati sui campi di battaglia di diversi fronti: da quelli contro le opposizioni a quelli della guerra contro Saddam Hussein che durò 8 anni. I pasdaran combatterono negli anni Ottanta contro l’Iraq che a quel tempo era armato dagli Stati Uniti: sono uomini fortemente ideologizzati, che hanno visto cadere centinaia di migliaia di loro commilitoni sui campi di battaglia, chiamati i “campi della morte”.  Sono pervasi di un nazionalismo estremo, che si alimenta con la visione messianica religiosa appunto, con connotazioni millenariste e apocalittiche tipiche degli uomini che si votano alla morte; una falange di coetanei che, considerandosi inflessibili e forti, non tollerano alcuna variazione sulla visione piena, totale e organica del loro credo.

L’ingegnere conservatore
Nato nel 1956 ad Aradan, nella provincia di Semnam, un centinaio di chilometri a sud est di Teheran, figlio di un fabbro, Ahmadinejad arriva con i genitori a Teheran l’anno seguente. Laureato in ingegneria civile, consegue il dottorato in pianificazione del traffico e dei trasporti. Nel 1979 sostiene – secondo le affermazioni di Said Hajarian, ideologo del riformismo islamico e consigliere di Khatami – che bisogna occupare l’ambasciata sovietica e non quella degli Stati Uniti come di fatto accadde. Tuttavia alcune voci insistenti (di provenienza prevalentemente statunitense) lo collocano tra gli studenti che partecipano al sequestro del personale dell’ambasciata Usa a Teheran, ma sono voci non supportate da prove concrete. È il 4 novembre quando un gruppo di studenti che si definiscono “seguaci dell’imam Khomeini” prendono in ostaggio 55 persone tra funzionari e impiegati con il pretesto di volere l’estradizione dello scià rifugiatosi a New York. Il sequestro durerà 444 giorni durante i quali nel deserto iraniano muore un intero reparto dei Navy Seals, truppe d’élite e fiore all’occhiello della macchina bellica statunitense, commandos inviati dal presidente Carter per liberare gli ostaggi con un blitz. Su quella tragedia non fu mai fatta completa chiarezza, certo è che Carter subì un crollo d’immagine tale che non fu rieletto. Sarà Ronald Reagan, insediatosi alla Casa Bianca il 20 gennaio 1981, ad annunciare la liberazione degli ostaggi.
Nel 1985 Ahmadinejad è al fronte nella guerra contro l’Iraq (1980-1988). Come membro della brigata Qods partecipa a diverse operazioni oltre confine. Conclusa la guerra, diventa governatore delle città di Maku e Khoi, vicino al confine con la Turchia; poi per due anni è consigliere del governatore generale del Kurdistan iraniano e infine per tre anni è governatore generale della provincia di Ardebil, sempre nella zona nord ovest del Paese. Nel maggio 2003 viene eletto sindaco di Teheran grazie all’altissima astensione dell’elettorato nelle elezioni municipali di quell’anno che premiano i conservatori. Infine, nel giugno 2005 diventa presidente sconfiggendo al ballottaggio l’ex presidente pragmatico Akbar Hashemi Rafsanjani.

Teheran e Mosca: l’alleanza del gas
Quando a metà gennaio 2006 Teheran annuncia di voler riaprire le centrali nucleari, riprendono a suonare i tamburi di guerra, si diffondono di nuovo parole come fondamentalismo, radicalismo, islamismo e via dicendo. L’immagine del presidente Ahmadinejad e le sue dichiarazioni scatenano un’ansia planetaria che a ogni suo intervento si rinnova.
Eppure pochi sanno che nello stato iraniano esiste una legge che vieta al governo e a vari enti e organismi governativi di intraprendere qualsiasi attività nel settore militare relativo al nucleare. Come sostiene Rajab Saparov, consigliere della Duma, il parlamento russo, l’Iran è l’unico paese al mondo dove la costruzione delle armi di distruzione di massa è vietata per legge. Secondo Saparov, le pressioni che gli Stati Uniti esercitano sull’Iran riguardo la questione nucleare sono dovute alla presenza e all’influenza che la Repubblica islamica ha in Iraq, in Afghanistan, nel Caucaso e nell’Asia centrale. Buoni, se non ottimi sono anche i rapporti con la Russia di Putin, che non perde occasione per reclamare il suo diritto a una poltrona tra “i grandi della Terra” (il G8) con le enormi riserve di gas e petrolio a sua disposizione, in un pianeta sempre più affamato di energia. A luglio 2006 a San Pietroburgo, grazie all’Iran, Putin si è potuto presentare ai suoi ospiti del G8 forte di un altro successo raccolto a  margine del vertice dell’”Organizzazione di cooperazione di Shanghai” (OcS), poche settimane prima. In quell’occasione i due più importanti produttori di gas del mondo, la Russia appunto e l’Iran, avevano concluso un accordo strategico che tutela non solo i loro interessi, ma anche quelli del Pakistan e dell’India e, probabilmente, del Turkmenistan e della Cina. La Gazprom, compagnia statale russa, finanzierà la costruzione del gasdotto che dal 2009 collegherà l’Iran all’India passando per il Pakistan, un progetto invano osteggiato da Washington. L’idea di un gasdotto che colleghi l’Iran al Pakistan e all’India era stata avanzata da Teheran già nel 1996. La canalizzazione sarà lunga 2.775 chilometri e costerà 7 miliardi di dollari. A partire dal 2010, l’India e il Pakistan potranno ricevere 35 miliardi di metri cubi di gas all’anno e 70 miliardi nel 2015. Secondo alcuni osservatori, questo riavvicinamento tra la Russia e l’Iran nel settore del gas creerà le condizioni necessarie all’emergere di un’organizzazione di paesi produttori di gas, analoga al cartello petroliero. L’unificazione delle reti di trasporto di gas russo e iraniano permetterà a Gazprom di partecipare alla gestione della quasi totalità del sistema di gasdotti asiatici. Tanto più che il Turkmenistan ha in vista l’integrazione in questo sistema (grazie al già esistente gasdotto Turkmenistan-Iran). Seguirà l’Asia centrale e ne risulterà un mercato del gas che riunirà il Turkmenistan, l’Iran, il Pakistan, l’India e la Cina. Il futuro economico di buona parte dell’Asia sembra assicurato, nel momento in cui quello degli Stati Uniti e, in misura minore, dell’Europa occidentale sono minacciati.
Pochi sanno che i pragmatici ayatollah si sono rivelati da sempre maestri come pochi altri nel conciliare “il diavolo con l’acqua santa” e si sono mantenuti sempre cauti anche quando l’Urss era sull’orlo del collasso. Con la Russia del resto c’è una salda amicizia. Tra il 1989 e il 1993 l’Iran ha acquistato armamenti russi per 10 miliardi di dollari per riequipaggiare le sue forze armate dopo la devastante guerra con l’Iraq. Poi ha cominciato a comprare missilistica e tecnologia nucleare, a stringere le relazioni commerciali e a incrementare gli scambi energetici con Mosca.
Il rapporto di amicizia si è consolidato su una preoccupazione comune ai due paesi: considerare i talebani e l’influenza statunitense i due maggiori pericoli per la stabilità regionale. Sullo sfondo, l’impegno di non permettere agli Stati Uniti il controllo delle esportazioni di energia – gas e petrolio – in Asia centrale. È un’attenzione che Mosca coglie, apprezza, incoraggia. Infatti in nessun Paese dell’Asia centrale gli ayatollah propagandano i precetti della religione sciita o della rivoluzione islamica così come fanno in Medio Oriente. Il motivo è semplice e di natura religiosa: essi hanno capito che l’ideologia sciita non sarebbe bene accetta nell’Asia centrale di radicata tradizione sunnita. Molto meglio stringere relazioni tra stato e stato e saldarle con contratti commerciali cementati dalla riconoscenza, perché l’Iran è stato il maggior fornitore di armamenti dell’alleanza antitalebana e la sua caparbia volontà di tener testa ai talebani ne ha incrementato la stima nella regione. Naturalmente la Russia ha tratto un enorme vantaggio dal fatto di avere un alleato solido e non minaccioso nell’ambito dell’islam radicale, sebbene l’Iran appartenga alla fazione minoritaria sciita.

“No” al nucleare (ma non per tutti)
L’Iran è retto  da una teocrazia che non è la democrazia di tipo occidentale, ma non può essere nemmeno confusa con una dittatura. L’Iran non ha nella sua storia episodi di aggressività tali da allarmare la comunità internazionale. È membro dell’Onu e ha firmato quasi tutti i trattati inteazionali tra i quali  il Trattato di non proliferazione nucleare (Tnp), nel rispetto del quale ha accettato le ispezioni dell’Aiea ai siti deputati allo sviluppo del programma nucleare civile. Nonostante le rotture diplomatiche, Teheran si è detta sempre disponibile a proseguire nelle trattative.
Anche il Pakistan è una potenza nucleare, ma è pure un paese amico degli Stati Uniti, quindi non gli si può chieder conto di nulla. Lo stesso accade con l’India, potenza nucleare che ha stipulato accordi per interscambi di tecnologia nucleare con Washington. Né Israele né il Pakistan né l’India hanno firmato il Trattato di non proliferazione nucleare. Eppure tutti e tre hanno armi nucleari. Tutti e tre hanno sistemi aerei e missilistici in grado di trasportare le bombe atomiche sugli obiettivi nemici. Tutti e tre sono in aperta violazione delle risoluzioni del Consiglio di sicurezza dell’Onu. L’Iran rappresenta l’esatto contrario: non ha armi nucleari, non ha sistemi missilistici per portarle a destinazione, ha ratificato il Tnp e dichiara di volerlo rispettare. Per completare lo scenario va aggiunto che neppure la ricerca nucleare condotta dal Brasile ha sollevato i timori del mondo come quella dell’Iran, sebbene questo paese, membro del Tnp, abbia opposto e continui a opporre resistenza alle ispezioni dell’Aiea ai suoi impianti nucleari. Il Brasile ha realizzato quanto sta cercando di fare l’Iran, ma gli Stati Uniti non gli hanno chiesto di smantellare il suo programma nucleare e non lo hanno neppure criticato per la sua riluttanza ad aprire le porte agli ispettori Aiea.
Gli Usa  non hanno mostrato nei confronti del programma nucleare del Brasile l’ostilità riservata all’Iran in quanto se il primo è loro alleato strategico nel continente sudamericano nel ruolo di moderatore del Venezuela del bolivarista Chávez, il secondo è loro inconciliabile antagonista nella fascia strategica del Rimland (fascia marittima e costiera, ndr) eurasiatico. Mentre stigmatizza il programma nucleare di Teheran, Washington, senza preoccuparsi delle critiche generalizzate alla sua politica dei “due pesi, due misure”, continua a stanziare 27 miliardi di dollari l’anno per conservare e costruire nuove armi nucleari (in piena trasgressione del Tnp che impone agli stati nucleari il disarmo progressivo) e prepara nuovi piani per l’impiego delle stesse.

“Sì” alle sanzioni (ma non per tutti)
Bisogna ricordare, inoltre, che con le loro sanzioni gli Stati Uniti ostacolano lo sviluppo dei progetti iraniani nel settore del gas e petrolio.
Gli Usa con l’Iran Non-Proliferation Act del 2000 (firmato da Clinton) impongono sanzioni agli individui e alle società che aiutano i programmi iraniani per la costruzione di armi di distruzione di massa, ma colpiscono anche quelle società che investono nel settore energetico in Iran. In questo modo, le capacità estrattive rimangono modeste determinando minori introiti. E quindi l’economia va in crisi, aumentano i poveri  delle grandi metropoli come Teheran, quelle masse delle grandi periferie sensibili ai proclami populisti e nazionalistici che hanno determinato la vittoria di Ahmadinejad. Infatti, egli ha ottenuto i loro voti in cambio di grandi promesse di ridistribuzione del reddito e di un miglioramento delle condizioni economiche. Nessuno di questi impegni è stato fino a ora tradotto nei fatti. Anzi, nel bilancio di quest’anno – 1385 dell’Egira secondo il calendario persiano – che si concluderà il 20  marzo 2007, l’inflazione sta viaggiando, secondo le stime degli osservatori più ottimisti, intorno al 45 per cento, 15 punti in più di quanto aveva pianificato il governo. Che non entrerà comunque in crisi poiché da quando gli Usa continuano ad esercitare la pressione sull’Iran, inevitabilmente si rafforza il blocco conservatore che ha vinto le elezioni e governa il paese. Non credo che così agendo si possa esportare la democrazia in Medio Oriente   come predica il presidente Bush. Molto più realistiche le conclusioni dello studioso statunitense John Mearsheimer quando sostiene che lo scopo della politica di non proliferazione non è affatto quello di scongiurare possibili pericoli nucleari, “ma di prevenire tutto ciò che può limitare la libertà d’azione degli Stati Uniti nei loro rapporti con gli altri paesi: perché uno stato dotato di armi nucleari diventa inattaccabile”.
Dopotutto l’Iran per molti versi inattaccabile già lo è anche senza l’atomica, se si tiene conto che è un paese con una forte tradizione di nazionalismo e che è una delle più antiche nazioni del mondo.  Resta comunque il fatto che il diritto dell’Iran ad avere il nucleare civile costituisce un collante universale. Il 90 per cento degli iraniani, di destra o di centro (o della sinistra, ridotta però alla clandestinità), laici o religiosi, filostatunitensi o filo Hamas non tollerano un’imposizione dall’esterno. Su questo non c’è ombra di dubbio. Infatti in tutti questi mesi di affannose trattative l’Iran non ha ceduto di un millimetro, e il presidente non manca occasione per ribadire che mai Teheran fermerà il proprio programma nucleare, anche in presenza di sanzioni.
Quindi ben si comprende perché gli ayatollah al vertice del “Supremo Consiglio nazionale di sicurezza”, l’organismo che, tra le altre cose, gestisce e negozia appunto la politica nucleare di Teheran abbiano nominato come negoziatore il filosofo e matematico Mohammad Ali Ardashir Larijani. Larijani appartiene a una famiglia di religiosi di alto rango (con il padre e il suocero, entrambi  ayatollah), di cui ha acquisito lo stile, anche formale: la giacca di buon taglio, i capelli in piega, la compostezza sobria e disciplinata, i toni pacati. Non ha insomma l’aspetto trasandato e non usa le frasi terremotanti del presidente Ahmadinejad. È perciò uomo di fiducia del regime come pochi altri.
La guida suprema Khamenei non può che essee soddisfatto. Il fatto  che l’abbia scelto per negoziare il nucleare iraniano è l’ennesima riprova di quanto sia oculata la strategia degli ayatollah al potere in Iran. Se ci si ostina a ignorarla o a negarla, come fanno i neocon statunitensi e i loro simpatizzanti europei, ben difficilmente si raggiungerà la pace in Medio Oriente. 

Vincenzo Maddaloni

Un (ottimo) saggio di geopolitica

TEHERAN, WASHINGTON E GLI ALTRI

Dopo l’Afghanistan e l’Iraq, ora la Casa Bianca ha nel mirino l’Iran.
Cosa c’è dietro questo desiderio di una nuova “guerra preventiva”?

“In questi tempi ammorbati da una rabbia endemica che stringe ed indurisce i cuori”. La frase si legge nella premessa de L’atomica degli ayatollah, un appassionante (e appassionato) saggio  di geopolitica scritto da Vincenzo Maddaloni e Amir Modini. Gli autori, un cristiano italiano e un musulmano iraniano, nell’ultima parte del libro si confrontano in un dibattito, anche aspro, sulle rispettive fedi, ma il lavoro non trova i motivi della “questione iraniana” nei contrasti religiosi. Al contrario, li trova in fatti tangibili come gli interessi petroliferi, il mercato, il businness, i rapporti di forza tra i paesi.  
L’interpretazione più semplicistica ed acritica della questione iraniana divide il campo in due: da una parte la teocrazia iraniana, dall’altra la democrazia statunitense.   

Iran, un grande paese. “L’Iran è una grande nazione, di raffinata cultura, di lunga storia. I suoi dirigenti non possono essere trattati come fossero dei criminali. Perché non sono dei criminali. Usano i toni forti? Qual è il paese che non li usa quando si sente stretto in una morsa? Certamente la Repubblica islamica dell’Iran non ha mai aggredito alcun paese. Al contrario è stata aggredita – è storia – da Saddam Hussein al quale gli occidentali avevano fornito le armi chimiche quando stava per soccombere agli iraniani” (pag. 62).

Dio e mercato. Negli ultimi anni la politica Usa è stata scritta dai cosiddetti “neocon”, neoconservatori, insostituibili sostenitori della famiglia Bush. “Essi hanno due archetipi a cui si riferiscono uno è il mercato che domina tutti ed assicura la ricchezza ai pochi che lo controllano; l’altro è il divino, cioè il mostrarsi al mondo in comunione con Dio, come i veri messaggeri della sua volontà. (…) È opinione diffusa che il free trade favorisca solo il grande business, danneggi il medio-piccolo, riduca lo Stato a servire gli interessi di bottega. I neoconservatori supporter dell’amministrazione Bush sono l’espressione dell’ala più aggressiva del capitalismo contemporaneo” (pag. 217).

Il dominio sulle risorse energetiche. L’Iran è un grande produttore ed esportatore di petrolio e gas naturale. Ed ha pessimi rapporti con Washington dal 1979, anno della rivoluzione islamica guidata dall’ayatollah Khomeini. I neocon statunitensi vogliono porre fine a questa situazione inaccettabile per un paese che vuole essere unica guida del mondo come previsto nel progetto del New American Century (nuovo secolo americano). “L’obiettivo dichiarato è quello di ridisegnare la mappa del Medio Oriente e mettere definitivamente le mani sulla quasi totalità delle risorse energetiche dell’area per assicurarsi il dominio sull’intero globo. Di conseguenza, dopo l’Afghanistan e l’Iraq, il “presidente di guerra” George W. Bush avrebbe chiesto ai propri consiglieri: “Who is the next?” (Chi è il prossimo?). Questi ultimi, essendo la diretta espressione dei potentati economici nordamericani, gli hanno ricordato che l’obiettivo è sempre lo stesso: l’Iran. (…) La riconquista dell’Iran significa prima di ogni altra cosa: controllare quasi completamente tutte le aree circostanti e le risorse energetiche racchiuse tra il Golfo Persico e il Mar Caspio; mettere l’Europa e il Giappone, la Cina e l’India – gli attuali e futuri maggiori importatori e consumatori di idrocarburi – in una condizione di dipendenza dal nuovo assetto impostato da Washington. Poi gli consentirebbero di tenere sempre sotto osservazione Russia, Cina, India e di esercitare un’influenza diretta sull’Asia centrale ex sovietica, sul mondo arabo e sul subcontinente indiano” (pag. 23-25).

Dollaro ed euro. Gli Stati Uniti sono il paese più indebitato del mondo, ma stampano il dollaro, moneta internazionale per antonomasia. “Alcuni analisti – scrivono Maddaloni e Modini (pag. 96) – ritengono che il reale motivo del contrasto tra Washington e Teheran – e quindi la causa di un probabile conflitto armato –  non sia il programma nucleare ma il suo progetto di borsa petrolifera in euro. La stessa decisione era stata presa da Saddam Hussein prima di essere rimosso dal potere con l’attacco del marzo 2003. (…) In effetti, la guerra preventiva contro Saddam non aveva avuto niente a che vedere con gli armamenti di distruzione di massa, con la difesa dei diritti umani, con la volontà di difendere la democrazia e neppure con il desiderio di volersi accaparrare i campi di petrolio; lo scopo prioritario era invece quello di salvaguardare il valore del dollaro, di salvaguardare cioè il fondamento dell’impero americano. Due mesi dopo che gli Stati Uniti avevano invaso l’Iraq (…) il mondo non poteva più comprare in euro il petrolio dell’Iraq. In questo modo la supremazia globale del dollaro venne ristabilita. (…) Tuttavia l’Iran ha deciso di raccogliere la sfida decretando di aprire entro l’anno 2006 la sua borsa petrolifera in euro in modo da inaugurare un circuito alternativo a quello del dollaro. Se ciò dovesse accadere, moltissimi clienti se ne avvantaggerebbero; per prima l’Europa che non sarebbe più costretta a comprare e mantenere riserve in dollari al fine di assicurarsi la moneta di pagamento per il petrolio perché potrebbe pagarlo con la propria valuta”. Anche Cina, Giappone, Russia e paesi arabi ne trarrebbero vantaggio, diversificando le proprie riserve e proteggendosi dalla svalutazione del dollaro. “Naturalmente gli americani non potrebbero permettere che ciò accada”. Naturalmente.

Questo e molto altro racconta L’atomica degli ayatollah, un libro che si legge con crescente interesse perché i tasselli – di storia, politica, economia, religione – non sono buttati lì alla rinfusa, ma si fondono in un collage complesso eppure comprensibile e quasi sempre condivisibile.

Paolo Moiola

L’atomica degli
ayatollah, Nutrimenti, Roma 2006.

Anno 632, la scissione musulmana

ISLAM: SCIITI E SUNNITI

Gli sciiti rappresentano il 10-15 per cento del miliardo e 300 milioni di musulmani del mondo. Di questi, 180 milioni (sia persiani sia arabi) vivono in Medio Oriente. Sono la maggioranza religiosa in Iran, Iraq, Libano, Azerbaijan e Bahrain e rappresentano una significativa minoranza in Afghanistan, Pakistan, India, Siria, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti. In cosa il loro islam è differente da quello dei sunniti? Il profeta Maometto muore nel 632, senza eredi maschi e senza aver designato un successore. Ali è il cugino di Maometto e sposo di sua figlia Fatima. Tra i musulmani si apre la lotta alla successione. La maggioranza di loro (sunniti, da sunna, “tradizione”) crede che sia necessario individuare nella comunità il successore (in arabo khalifa, da cui califfo) di Maometto. Un piccolo gruppo di musulmani (shi’ha, “partito”, da cui sciiti) crede invece che la guida dell’Islam spetti ad Ali, unico rappresentante della famiglia del profeta. Ali, proclamato imam (originariamente “colui che guida la preghiera”), rimane al potere per soli cinque anni, finché non viene ucciso in un agguato. I suoi due figli Hassan e Hussein moriranno in battaglia.
Nei secoli successivi il potere rimane nelle mani delle dinastie sunnite degli ommiadi, poi degli abbasidi e infine degli ottomani. Il califfato diventa una monarchia ereditaria. Gli sciiti passano all’opposizione. Contrariamente ai sunniti essi non credono che il corano sia esistito da sempre, bensì che sia stato creato  e quindi non enfatizzano l’interpretazione testuale delle scritture e la loro applicazione giuridica, ma designano uno o più studiosi eletti dalla comunità dei fedeli a interpretare il corano e le altre fonti del diritto islamico. Diverso è anche il loro atteggiamento nei confronti del potere: nei Paesi a maggioranza sunnita i sacerdoti sono pagati dal governo e vi sono sottomessi, quelli sciiti sono indipendenti, vivono con le offerte dei fedeli, non riconoscono alcun potere temporale, perché secondo loro il potere legittimo appartiene al dodicesimo imam ritiratosi dal mondo visibile e che riapparirà un giorno trionfalmente per aprire un’era di pace e di giustizia.
È nel 1502 che lo sciismo diventa la religione di stato dei persiani fino ad allora, nella grande maggioranza, sunniti. Ad  imporlo – ben 10 secoli dopo la morte di Ali e gli avvenimenti che hanno originato la shi’ha –  è la dinastia turca dei safawidi, i quali fanno venire dalla Siria meridionale e dal Bahrain i predicatori e i propagandisti necessari alla loro opera di sciitizzazione del paese. Le motivazioni sono in realtà puramente politiche: lo si può capire dall’alleanza che i regnanti stringono con la chiesa di Roma per combattere gli ottomani. Messo al riparo dalla persecuzione sunnita, lo sciismo diventa il carattere fondante dell’Iran.

Quattrocento anni dopo lo sciismo (più che il clero sciita) è protagonista dell’ultima rivoluzione del XX secolo. Al pari di sant’Agostino, Khomeini sostiene la tesi secondo cui tutti i governi sono artificiali. Ma a differenza del filosofo cristiano, l’ayatollah non indica soltanto “la Città di Dio” come la soluzione ideale di riferimento. Egli ritiene indispensabile che ci sia sulla terra un governo islamico, composto dal collettivo dei giuristi, i fuqaha (i giureconsulti musulmani), uomini di grande virtù ai quali spetta il diritto di governare. È un richiamo forte alla tradizione degli sciiti che, diversamente dai sunniti che riconoscono fin dal VII secolo la legittimità dei califfi, accettano soltanto quella degli imam. In attesa della fine dei tempi e dell’imam nascosto, che verrà a ristabilire un regno di giustizia sulla terra, a chi spetta il compito di guidare la comunità dei credenti? Per l’ayatollah Khomeini tale ruolo spetta ai mullah (“teologi”) e al faqih (“il saggio”), vicario dell’imam nascosto e delegato alla sovranità divina. Questa dottrina del “governo del saggio” (velayat-e-faqih), che accorda ai mullah enormi poteri e che orienta il potere iraniano, è stata contestata in passato – e lo è tuttora – da altri ayatollah. È l’onda di questa dottrina che ha travolto lo scià e che oggi, come detto, è al centro di una controversia che rischia di spaccare il clero sciita e che ha avuto nell’ayatollah Montazeri, uno dei “padri della rivoluzione”, la sua vittima più illustre. Massima convergenza invece su un altro punto nel quale la teologia sciita si differenzia da quella ortodossa sunnita: il valore dato all’ideale, all’utopia, basato esclusivamente sulla sofferenza, sul martirio che nello sciismo assume un carattere quasi redentivo (dall’evento dell’anno 680, quando Hussein viene ucciso a Kerbala). La rivalutazione del dolore, della sofferenza, della sconfitta sulla terra diventano fatti religiosamente positivi. Non a caso Khomeini esalterà la figura dello shaid, del martire, durante la lunga guerra contro l’Iraq di Saddam. Da allora le missioni dei martiri (diverse da quelle suicide, sunnite) diventano una costante nella lotta armata di matrice islamica.                                                                               

Vi.Ma.

Se ogni mezzo diventa lecito

LA LEGGE DI WASHINGTON

Interrogatori “pesanti”, prigioni segrete, tribunali militari.

Il premio Pulitzer Thomas Friedman, sul New York Times non è stato tanto tenero con  Bush. “Il mondo -ha scritto – detesta George Bush più di qualsiasi altro presidente statunitense che io ricordi da quando sono nato. Bush è radioattivo, ed è così invischiato nella sua stessa bolla ideologica da essere incapace di concepire o predisporre strategie alternative”. Infatti, i fondamenti teorici del progetto americano che hanno portato alla guerra all’Iraq sono il risultato del lavoro intellettuale e politico di un piccolo nucleo di neoconservatori (neocon), a iniziare da Norman Podhoretz, Richard Pearle, David Frum, Beard Lewis, Fuad Ajami e dal “prediletto” del presidente Bush, l’ex dissidente sovietico e politico israeliano di destra Natan Sharansky. Sono uomini accomunati dalla stessa visione del mondo musulmano, descritto come un universo in decadenza continua, dovuta ai difetti culturali, psicologici e religiosi delle società islamiche. Questa caratteristica “genetica” spiegherebbe, secondo costoro, l’ondata di violenza terrorista sempre più virulenta cui assistiamo e si frapporrebbe come ostacolo ad una democratizzazione concepita come l’unico rimedio possibile a tutti questi mali. Di fronte alla quale l’America, secondo i neocon, non può aspettare, ma deve agire per modificare il corso della storia nel mondo arabo-islamico, ricorrendo anche alla forza, e se necessario con l’aiuto di Israele.
È una strategia politica che mette insieme il fondamentalismo cristiano di destra, il sionismo americano militante e un militarismo senza limiti. Questo spiega anche la facilità con cui si tollera la tortura e si investe di poteri illimitati il presidente, consentendogli di tenere in carcere indefinitamente persone che non sono state non solo giudicate, ma neppure accusate.

Si aprono pagine nere per la democrazia. Secondo Amnesty Inteational, dopo l’11 settembre oltre 1.200  persone di origine mediorientale (o appartenenti a comunità musulmane) sono state arrestate. L’attenzione pubblica si è soffermata sui sospetti membri di al-Qaida e sui talebani catturati in Afghanistan e deportati al campo X-Ray di Guantanamo, ma la questione della “sicurezza nazionale” ha portato ad abusi ed ha implicazioni che scavalcano il drammaticamente famoso reticolato delle basi militari.
Infatti, subito dopo i tragici eventi dell’11 settembre, circa 5 mila uomini tra i 18 e i 33 anni, provenienti da paesi del Medio Oriente sono stati interrogati, in quelle che venivano ufficialmente denominate “interviste volontarie” ma che di fatto costituivano una schedatura a sfondo etnico. Diecimila persone di origine musulmana, araba, sud-asiatica sono diventate obiettivo di investigazione. Uomini di tutte le età, provenienti da 25 paesi target (paesi  prevalentemente musulmani), senza che esistesse alcuna accusa nei loro confronti, sono stati richiamati dall’ufficio immigrazione per essere interrogati  e sono state loro prelevate le impronte digitali. Più di 82 mila  persone hanno dovuto subire questa “special registration”, per oltre 13 mila si è tradotta in espulsione. Tutto questo facilitato da una legge creata ad hoc, il 26 ottobre 2001, l’ormai triste e famoso Patriot Act. “U.S.A. P.A.T.R.I.O.T.” è, infatti, un acronimo che sta per “Uniting and Strengthening America by Providing Appropriate Tools Required to Intercept and Obstruct Terrorism” (“unire e fortificare l’America foendo strumenti appropriati per intercettare e ostruire il terrorismo”). È una legge approvata dal Congresso alla quale sono seguiti – 21 marzo e 21 giugno 2003 – i più incisivi “Military Commission Orders” del presidente e le 8 “Military Instructions” che li attuano.

Il 17 ottobre 2006, ecco il Military Commissions Act, la legge sui tribunali militari che è stata firmata da Bush e che consentirà alla Cia e in genere alle agenzie antiterrorismo americane di detenere a tempo indeterminato e senza la necessità di prove qualsiasi persona considerata un “nemico degli Stati Uniti”. E per i detenuti di Guantanamo si apriranno i processi davanti alle military commission, tribunali militari dove saranno giudicati senza la necessità che siano esibite prove contro di loro e senza che siano assistiti da un avvocato. La legge autorizza anche gli interrogatori “pesanti” – ma la Casa Bianca nega che si tratti di tortura – e la creazione di prigioni in luoghi segreti. “Sono rare le occasioni – ha detto il presidente Bush alla cerimonia della firma – in cui un presidente può firmare una legge che sa che salverà vite americane. Oggi io ho questo privilegio”. Un privilegio che però non gli è bastato per evitare la pesante sconfitta elettorale del 7 novembre.                 

V. Maddaloni

Vincenzo Maddaloni




«Refusenik», obiettori in Israele

Ricercatore di fisica presso l’Università ebraica di Gerusalemme, 27 anni, Itai Ryb è un refusenik: militare che rifiuta di prestare servizio nei Territori occupati; per questo è finito più volte in prigione. Fa parte di Yesh G’vul (c’è un limite). Durante l’assedio alla basilica della Natività (2002), a Betlemme, era stato richiamato alle armi come riservista: il suo rifiuto gli è costato un mese di carcere.

Quanti refusenik ci sono attualmente in Israele?
Sono più di mille, tra soldati e ufficiali che rifiutano il servizio di leva e che hanno firmato la petizione che sta circolando via internet.

Come vi considerano i vostri connazionali?
Molti ci definiscono «traditori», antidemocratici. L’atmosfera generale è molto dura. Il sostegno ci arriva dagli accademici, alcuni intellettuali, persone di strada. Ma alcuni gruppi ortodossi sostengono che sia giusto uccidere i refusenik.

Ha ricevuto delle minacce?
Per lo più e-mail cattive. Durante le dimostrazioni capita che qualcuno venga picchiato o addirittura ucciso. Soprattutto fra coloro che svolgono attività di protezione dei contadini palestinesi durante la raccolta delle olive: vengono attaccati da coloni israeliani ultraortodossi.

Si considera un pacifista?
Nel movimento dei refusenik esistono tante tendenze. Non tutti sono pacifisti nel senso generale del termine. Spesso si tratta non tanto del rifiuto a servire nell’esercito, ma a far parte delle forze di occupazione nei territori arabi. È una forma di obiezione «selettiva». Personalmente mi considero un obiettore di coscienza alla politica di Sharon, basata su un progetto di «pulizia etnica» contro i palestinesi.

Qual è il ruolo dei refusenik e delle organizzazioni pacifiste israeliane nell’attuale scenario di conflitto?
Può essere cruciale la presa di coscienza di un numero sempre crescente di militari e riservisti: molti refusenik, infatti, arrivano dalle «prime linee», cioè da postazioni importantissime per l’esercito; l’acquisire consapevolezza del proprio ruolo e possibilità di opporsi al programma previsto da Sharon, potrà essere fondamentale per fermare l’escalation della guerra e dei massacri. Alla violenza e alle brutalità si può opporre un rifiuto. Da ambedue le parti. Ecco perché parte delle mie attività sociali e culturali sono destinate ai ragazzi palestinesi.

Quali sono i progetti in cui Yesh G’vul è impegnata?
Principalmente si tratta di azioni per «fermare la distruzione», come «protezione» o interposizione nei confronti dei palestinesi, ma anche attività di sensibilizzazione. Altri gruppi svolgono attività indirizzate alla «costruzione», come il sostegno ai soldati che si rifiutano di combattere, progetti educativi e culturali sia tra gli israeliani che tra i palestinesi, azioni specificamente nonviolente, petizioni, raccolta fondi da consegnare alle famiglie dei refusenik (senza stipendio per tutto il tempo della prigionia), sostegno psicologico e legale.

A quale figura si ispira. Chi è il suo eroe?
Mordechai Vanunu, il tecnico israeliano rapito a Roma dal Mossad nel 1986, perché aveva denunciato la presenza di una base per la costruzione di armi nucleari nel deserto del Negev. Da 16 anni sta pagando con il carcere duro e l’isolamento quel suo atto di coraggio: aveva capito la responsabilità di ciò di cui era stato testimone e non si è mai tirato indietro.

Qual è la cosa più terribile per lei in Israele?
Che stia crescendo una generazione senza speranza e senza strumenti per un cambiamento costruttivo. I giovani pensano sia impossibile uscire dall’attuale situazione di guerra e di violenza. Per questo la soluzione deve giungere al più presto, altrimenti sarà impossibile modificare la loro mentalità.

E qual è la soluzione per lei?
Due stati dai confini labili, senza muri, dove palestinesi e israeliani possano spostarsi liberamente, vivere vicini, in pace e in amicizia.

Angela Lano (*)

(*) La seguente intervista è stata rilasciata nel 2003.

Angela Lano




ISRAELE – Si guardano, ma non si parlano

Il blocco dei territori strangola l’economia palestinese.
Il 40% dei lavoratori ha perso l’impiego.
Intanto gli insediamenti ebraici nascono come funghi.
E sono i civili palestinesi a sentirsi prigionieri a casa loro.

Betlemme, città chiusa

«Le città sono isolate. Esistono stradine dove si riesce a passare, ma bisogna conoscerle» ci dice il direttore del Christian information center a Gerusalemme, parlando della Cisgiordania. Vogliamo andare a Betlemme, a pochi chilometri dalla città santa: è il primo centro sotto il controllo dell’Autorità nazionale palestinese (Anp).
Il minibus pubblico è guidato da un arabo israeliano e ha la targa gialla, le uniche ammesse in Israele. Sfreccia attraverso i quartieri modei della Gerusalemme nuova e, in 15 minuti, giunge sull’ampio corso che porta a Betlemme. Rallenta e si ferma: la gente scende diligentemente. Poi fa inversione e riparte verso il centro città.
Ad una cinquantina di metri, alcuni grossi blocchi di cemento in mezzo alla strada costringono i mezzi ad un’insolita gimcana. Ci sono pure modei autobus turistici, parcheggiati in fila.
Siamo giunti al check point israeliano (controllo) e a nessun veicolo è permesso di proseguire. Si continua a piedi. Un giovane militare in tenuta da combattimento, con il mitragliatore «m16» a tracolla, conversa con una ragazza: sembra rilassato. Intoo, alcuni gruppuscoli di stranieri: pochi pellegrini in visita ai luoghi santi. Passiamo senza essere controllati. Forse è vero che «ci si riconosce dalla faccia», come ci aveva detto qualcuno. Subito dopo il posto di controllo, troviamo altri taxi e bus. Hanno la targa verde, quella palestinese.
La seconda Intifada
Da quando è scoppiata la seconda Intifada, alla fine dello scorso settembre, Israele ha «chiuso» i Territori occupati (costituiti da Gaza e Cisgiordania): ha imposto sanzioni economiche e ridotto la circolazione di persone tra questi e il suo territorio nazionale.
Il 28 settembre Ariel Sharon (leader del partito di destra, Likud, e dal 6 febbraio primo ministro) si recò sulla «spianata delle moschee» a Gerusalemme, accompagnato da oltre mille militari, profanando così il terzo luogo santo dell’islam (dopo Mecca e Medina). Questo ha creato la reazione degli arabi musulmani di Israele e manifestazioni di solidarietà dei palestinesi (arabi dei territori occupati). Presto le manifestazioni sono degenerate e la reazione dell’Israel defence force (Idf, l’ultra moderno esercito israeliano) e della polizia ha lasciato sul terreno parecchi morti. A Nazaret, città della Galilea, in pochi giorni sono stati uccisi 13 arabo-israeliani.
Gli estremisti islamici dei gruppi di Hamas e Jihad islamica hanno ricominciato gli attentati suicidi in Israele, creando un clima di paura nelle grandi città, come Tel Aviv, inducendo il nuovo governo di destra a sigillare ancor più i Territori, dove i terroristi hanno le loro basi. Le città palestinesi, amministrate dall’Anp, sono state accerchiate dall’esercito israeliano, che controlla ancora l’88% della Cisgiordania e il 20% di Gaza. A metà marzo si contavano quasi 400 morti e 14 mila feriti tra i palestinesi e 65 ebrei israeliani tra le vittime.
L’incontro
A Betlemme c’è poca gente per le strade: soprattutto nei pressi della tomba di Rachele, luogo santo per gli ebrei, dove spesso ci sono scontri.
Clara e Nabil ci invitano a casa loro. Sono una coppia sulla sessantina, palestinesi, e appartengono alla minoranza cristiana (il 2% in Terra Santa), ma che a Betlemme è una presenza numerosa (arrivano al 15% nella confinante cittadina di Beit Jala). È una casa della media borghesia, curata da lei senza sfarzo, ma con buon gusto. Lui è commerciante di beni di consumo e, prima che incominciasse l’Intifada, gli affari andavano bene.
Oggi la crisi economica colpisce i Territori. I turisti sono quasi scomparsi e la strada è interrotta. «I nostri fornitori sono tutti a Gerusalemme – rileva Nabil – e ora, per far passare la merce, bisogna scaricare tutto dal lato israeliano del check point, per poi ricaricarla su un altro mezzo da questa parte».
L’economia dei Territori è dipendente da quella israeliana. L’Autonomia palestinese è composta da città-isole in Cisgiordania e da gran parte della striscia di Gaza: non solo non confinano tra loro (perché circondate da Israele o da zone sotto il suo controllo militare), ma non hanno alcuna frontiera con il mondo esterno; non controllano né aeroporti (quello di Gaza è tenuto dagli israeliani) né porti. «Con il blocco, le nostre esportazioni si sono ridotte del 60-70% e le importazioni rese più difficili» ci aveva spiegato un commerciante di Ramallah, il centro economico più importante della Cisgiordania.
Secondo fonti palestinesi, l’economia ha perso 1,3 miliardi di dollari nei primi cinque mesi di guerra. Da ottobre, inoltre, la disoccupazione attanaglia le famiglie palestinesi. Oltre il 40% dei lavoratori era pendolare in Israele, dove svolgeva attività in settori poco qualificati. Oggi le aziende israeliane importano operai da Romania e Filippine. «Li portano in aereo, danno loro una sistemazione presso i cantieri e un salario. Terminato il lavoro, li rispediscono a casa».
Clara prende la parola: «Oggi è molto difficile andare a Gerusalemme; per gli uomini sotto i 40 anni è impossibile». La figlia Nasrin lavora proprio nella città santa e ogni giorno deve trovare il modo per andarci e tornare. Clara e Nabil hanno anche tre figli maschi, tutti emigrati negli Stati Uniti. «Un medico e due ingegneri – dice la madre con fierezza, mostrando una vecchia foto in cui la famiglia era riunita –; qui non avrebbero una vita decente. Se non ci fosse la guerra toerebbero; però oggi non potrebbero neanche raggiungere la città vicina».
È quello che succede a molti giovani arabi (ma anche israeliani), soprattutto cristiani, i quali, vista la mancanza di prospettive, cercano di emigrare. Negli Stati Uniti e in Australia ci sono già città popolate da arabi della Terra Santa.
In Cisgiordania vivono anche tanti rifugiati del 1948, quando nacque lo stato israeliano. Clara è una di loro. Nell’aprile di quell’anno la sua famiglia fu cacciata dalla propria casa di Lod (Tel Aviv): «I soldati israeliani arrivarono e ci mandarono via dicendo che dovevano allontanarci per due settimane. In realtà non siamo mai potuti tornare. Camminammo tre giorni e tre notti senza mangiare, solo con i vestiti che indossavamo. Tutto era rimasto a Lod, documenti compresi. Arrivammo a Betlemme, dove ci siamo stabiliti».
È una storia simile a quella degli abitanti dei 531 villaggi arabi distrutti nella Palestina, nel 1948 protettorato britannico, nell’avanzata israeliana che causò quattro milioni di rifugiati. «Alcuni conservano ancora le chiavi di casa. È come dire che il ricordo non è morto».
I pellegrini non arrivano più
Betlemme è una cittadina di circa 35 mila abitanti ed è stata tirata a lucido per i pellegrinaggi dell’anno giubilare. Nel centro cittadino, rimodeato, le case sono costruite con blocchi di pietra color crema, di cui abbondano le cave nella zona. Anche gli scaloni e i passaggi pedonali sono lastricati con lo stesso materiale, che conferisce un alone di antico. Qua e là, sui muri, alcuni cartelli mostrano la bandiera dello stato che ha finanziato la ristrutturazione di un palazzo o di una via: Belgio, Italia, Germania, Giappone. Ma i turisti e pellegrini che percorrono via della Stella o via Vergine Maria oggi sono davvero pochi.
Arrivati in piazza della Mangiatornia, davanti alla chiesa della Natività, un cordiale poliziotto palestinese in divisa nera ci chiede la nazionalità, con qualche domanda sul check point, cercando di capire se abbiamo avuto problemi a passare. Annota tutto su un foglio.
La visione idilliaca del centro storico si infrange quando entriamo nella più importante via commerciale della città. Qui lo scheletro di un palazzo moderno, senza vetri, si staglia verso il cielo. «È stato bombardato – spiega chi ci accompagna – come anche il villaggio di Beit Jala, qui vicino, dove fino a due sere fa continuavano a piovere bombe». Ci ricordiamo delle parole di una suora, incontrata a Ramallah: «Sono palestinese e vivo a Beit Jala. La stanno distruggendo a cannonate. L’altra notte sono cadute 25 bombe. Un giovane è morto dilaniato: io non riuscivo a guardargli il volto».
Facciamo un giro. Attraversata la via in fondo a una discesa, passiamo da una parte all’altra della città senza accorgercene. Risaliamo una collina su cui è costruito un quartiere per giungere all’altro versante. «La gente che abitava su questo lato si è trasferita presso famiglie di parenti o amici in altri quartieri». Andiamo a vedere le case: alcune sono signorili di 2 o 3 piani; una ha un’intera parete distrutta dalle bombe e il tetto sfondato; un’altra mostra i muri di blocchi bianchi con enormi buchi ovali (causati dagli obici) e molti segni di mitragliate.
Di fronte, in cima ad un’altra collina, troneggia la nuova colonia israeliana di Ghilo e la sua postazione militare. Le case dei due agglomerati quasi si fronteggiano.
Insediamenti ebraici in Cisgiordania e Gaza: le colonie sono centri autosufficienti, collegati da autostrade riservate ai coloni e protette dai militari dell’Idf; sono state aperte per controllare i territori conquistati da Israele nel 1967, ma non ufficialmente annessi. Gli insediamenti vantano i servizi di un’alta qualità di vita, facilitazioni economiche per chi ci va a vivere e, grazie alla rete stradale, sono a mezz’ora di macchina dalle città israeliane della costa, quindi dagli uffici. Sono 200 mila i coloni israeliani in Cisgiordania, Gaza e Golan (Siria).
Le case sono bianche con tetti di tegole rosse, circondate da giardini. Ne vediamo alcune in costruzione molto vicino a Betlemme. In vetta alle colline (sempre in posizione dominante), assumono pure un effetto psicologico. Sono una presenza inquietante: ben visibili, ma inavvicinabili. Due mondi che si guardano in faccia, ma non si parlano.
Ci dicono che Beit Jala sia stata bombardata come rappresaglia, perché Ghilo è stata a sua volta colpita dal fuoco di musulmani infiltrati. Però la colonia, come spesso accade, è stata costruita su terra confiscata agli abitanti di Beit Jala.
Perché l’Intifada?
Sul perché della nuova Intifada ascoltiamo diverse analisi.
C’è chi sostiene che si tratta di una reazione alla provocazione di Sharon. Il leader della destra voleva prendere il posto di Barak (allora primo ministro laburista), che stava concedendo troppo ai palestinesi, e bloccare il processo di pace. In questo modo ci sarebbe riuscito… Altri dicono che l’Intifada era nell’aria. «I palestinesi erano già organizzati per reagire in quel modo».
Fonti israeliane imputano la questione alla fine strategia di Arafat, leader dell’Anp. La nuova guerra sarebbe una sua mossa per riacquistare la popolarità persa a causa del fallimento del vertice di Camp David (luglio 2000), ma anche del malgoverno dei suoi uomini.
La proposta di Camp David non era favorevole ai palestinesi. All’Anp veniva offerto il 50% della Cisgiordania suddiviso in zone separate; il 10% sarebbe rimasto agli israeliani, mentre il 40% non entrava nella discussione (restando all’Idf). L’ultima porzione (che comprende la valle del Giordano) permette di continuare l’accerchiamento delle «isole» palestinesi. Le colonie ebraiche non erano in discussione, come neppure la restituzione di Gerusalemme est.

L asciamo Betlemme a piedi lungo la strada principale. «È successo qualcosa alla tomba di Rachele» ci viene detto. Al check point i militari israeliani appaiono più nervosi. Dall’altra parte, le camionette della polizia seguono una manifestazione. I poliziotti in tenuta antisommossa tengono a bada una quarantina di pacifici manifestanti, che mostrano cartelli scritti in arabo, ebraico e inglese: «Rivogliamo i confini del 1967»; «No alla chiusura delle frontiere». Sembrano stranieri; hanno anche il cartellino con il nome che, di norma, portano i pellegrini. Una signora di mezza età dice di essere americana e di appartenere ad un’associazione di donne per la pace. Intanto un poliziotto filma i manifestanti.
Forse così gli efficienti servizi di sicurezza all’aeroporto potranno dimostrare che sono stati nei Territori occupati e perquisire minuziosamente i loro bagagli.

Marco Bello




Casa mia, casa mia …

Dietro portoni anonimi, si nascondono piccoli angoli di paradiso, con cortili, saloni per ricevere gli ospiti, stanze private, terrazzi, giardini… Sono le abitazioni della città storica di Damasco: esse rispecchiano le antiche tradizioni della famiglia patriarcale estesa. Ma il progresso sta introducendo nuovi stili di vita, a scapito dell’unità familiare sia nelle comunità arabe che in quelle musulmane.

Nel passato la struttura della casa araba corrispondeva generalmente alla struttura della famiglia patriarcale estesa. La casa non solo come luogo in cui una famiglia viveva ma anche come spazio di incontro e scambio con l’altro. Spazio in cui vivere tutti i momenti e le circostanze importanti della storia di una famiglia. Infatti veniva utilizzata soprattutto nell’organizzazione di matrimoni, battesimi, circoncisioni e anche momenti meno felici come i funerali. Nella società attuale la casa ha mantenuto in parte questa sua funzione sociale, anche se il progresso, il cambiare dei costumi e il distaccamento dalle tradizioni ha, in certe classi sociali, introdotto nuovi stili di vita.
L’abitazione araba tradizionale si sviluppa tutta verso l’interno. Una corte sulla quale si affacciano la cucina, il salone per gli ospiti, la sala da pranzo e le camere da letto. Generalmente nelle campagne è a un solo piano mentre nelle città possono esserci uno o più piani. La sua struttura, le cui origini risalgono all’antica Mesopotamia, ai greci e ai romani, la possiamo ritrovare in molti paesi mediterranei, come il Marocco, Tunisia, Egitto oltre naturalmente ai paesi della penisola araba.

Più volte, durante i miei soggiorni a Damasco, ho avuto l’occasione di entrare in una delle abitazioni tradizionali nella parte storica della città. La cosa che mi colpì molto è che nel groviglio di vie della medina (così chiamato in arabo il centro storico) si possono vedere solo le porte delle case. Porte semplici, tutte uguali, molto piccole. Ma dietro queste porte possiamo scoprire dei piccoli paradisi.
Nelle case di Damasco, prima di entrare nella loro intimità, un ospite deve attraversare un corridoio, chiamato dihliz, che rappresenta con la porta il passaggio dalla vita pubblica a quella privata, un modo per preservare, in un certo senso, la privacy della famiglia. Esso conduce alla corte, la diyyara.
In alcune case sulla corte si apre il liwan, un ambiente a volta, al riparo dai raggi del sole, spesso più alto rispetto al cortile, dove, durante i mesi estivi si accolgono gli ospiti. Il suo arco ricorda quello dell’entrata alla moschea. Durante i mesi invernali, invece, gli ospiti vengono accolti nella murabb’a, un salone di forma quadrata, (in arabo arb’a significa quattro), che si affaccia sulla corte.
Questo salone rappresenta per la famiglia damascena l’ambiente di rappresentanza per eccellenza. In ogni casa, anche tra quelle più modeste, c’è sempre una stanza dedicata agli ospiti. Una stanza aperta solo per occasioni speciali. Una stanza in cui mettere le foto della famiglia, in cui custodire regali e oggetti importanti. Nelle abitazioni più antiche questo luogo è rifinito con decorazioni e stucchi. La luce filtra da alcune piccole finestre colorate con mosaici di vetro. Esse permettono l’entrata dei raggi del sole e della luna. Per questo sono chiamate shamsiat o qamariat (shams in arabo vuole dire sole e qamar luna).
La mashrabiyya è l’unica finestra della murabb’a che si affaccia sulla strada, interamente di legno, permette alle donne di vedere la strada senza essere viste. La mashrabiyya prende il nome dallo schermo che la compone, uno schermo fatto con minuscoli fori di legno tenuti insieme da dei tasselli. Il nome mashrabiyya, infatti, significa tessitura o legno intrecciato.
Le famiglie damascene custodiscono gelosamente questo salone. Spesso infatti la sua porta è chiusa, il padrone di casa è restio a mostrarlo a semplici avventori. Viene aperto per occasioni importanti, come matrimoni o fidanzamenti, oppure per ricevere ospiti di un certo riguardo.
Le altre stanze che si affacciano sulla corte damascena normalmente non sono comunicanti; per andare da una all’altra bisogna attraversare la corte stessa. Ogni stanza, durante i mesi invernali, viene riscaldata con il kanun, la stufa a carbone che durante il periodo estivo viene tolta.
Nel piano superiore si trovano le stanze da letto. Un corridoio, che percorre tutto intorno la corte, fa da anticamera. Esso è generalmente chiuso sul lato esterno da vetrate per proteggere dalla pioggia le stanze. Nelle pareti delle stanze da letto vengono ricavati degli armadi per contenere coperte e tappeti da utilizzare durante la notte e da riporre durante il giorno. Infatti queste stanze durante le ore diue vengono adibite ad altri usi, in base alle necessità di una famiglia.
Sopra la casa c’è la tayara, la terrazza coperta in parte da un pergolato di viti. La terrazza non è solo un luogo di incontro ma è un luogo di lavoro, il luogo dove le donne svolgono parte dei lavori domestici, soprattutto nei mesi estivi. Madri, figlie, nonne, cugine amiche e vicine di casa si ritrovano nella terrazza a sbattere tappeti e materassi, stendere la biancheria, fare essiccare erbe, preparare marmellate, verdure, sciroppi, da conservare per le stagioni fredde.

La bellezza delle case damascene sta nella giunaina, il giardinetto. All’interno di ogni abitazione, grande o piccola che sia, è consuetudine coltivare sia piante oamentali, sia piante aromatiche, da utilizzarsi nella preparazione di cibi e tisane. Non mancano mai l’albero di arance amare, il cedro, il limone, piante di gelsomino e di rose.
Al centro, generalmente, si trova una vasca di marmo bicromo, al-bahirat, di forma rotonda o geometrica, dal cui interno spillano zampilli d’acqua.
Il giardino per i musulmani è molto importante, rappresenta il paradiso, il paradiso che ci attenderà dopo la morte. Dall’oasi del deserto ai giardini sontuosi dei palazzi reali, a quelli più semplici delle case, l’arte del giardino in islam conobbe un’epopea rimarcabile. Il giardino è uno dei luoghi privilegiati dall’uomo arabo. Gli arabi definiscono il giardino una sorta di paradiso terrestre, che simbolizza l’unione del celeste e del terrestre.
Le corti damascene non presentano la stessa ricchezza decorativa e la stessa lussureggiante vegetazione, ma qualunque sia la loro grandezza, la loro bellezza o la loro esuberanza oamentale, esse costituiscono il luogo d’ incontro e di passaggio. È nella corte che le donne e gli uomini della casa, insieme o in orari diversi, si ritrovano a conversare, a svolgere attività inerenti la casa o la famiglia, ma soprattutto accolgono parenti, amici e vicini di casa.
Nella società siriana la famiglia è molto numerosa. Notevole importanza infatti viene data al matrimonio e alla procreazione. Il matrimonio è raccomandato dall’islam. Il suo fine principale è il creare una «cellula» famigliare e preservare i buoni costumi tra gli uomini e le donne, ma anche, e soprattutto, garantire la conservazione della specie e la continuità della razza umana. In poche parole per i musulmani la famiglia è la struttura essenziale sulla quale si basa l’avvenire dell’umanità.
Purtroppo la crisi economica e l’inflazione hanno investito anche il Medio Oriente, con la conseguente diminuzione dei matrimoni ma soprattutto il conseguente controllo delle nascite. Questo è riscontrabile specialmente nelle città, dove la vita è più costosa e le necessità più elevate rispetto alla campagna.
In alcune classi della società siriana si tende a mantenere la famiglia unita. I figli maschi quando si sposano rimangono a vivere nella casa dei genitori, dove spesso ci sono anche i nonni e gli zii. Una ragazza, invece, con il matrimonio si trasferisce nell’abitazione del futuro sposo.
Nel focolare famigliare non solo trova accoglienza un figlio appena sposato, ma anche membri della famiglia rimasti soli, o che per lavoro o studio devono trasferirsi dalla campagna in città. Difficile che una ragazza viva da sola. Generalmente una ragazza, che per studio o per lavoro deve lasciare la famiglia di origine, affitta una stanza presso una famiglia di sua conoscenza o va a vivere con dei parenti. Raramente una ragazza sola divide un appartamento con delle amiche.
Oltre a tutto questo non dobbiamo dimenticare che nei paesi arabi, in questo caso la Siria, esiste la poligamia. Anche per questo fattore molte famiglie sono numerose.
La struttura della casa araba tradizionale è adatta in questo senso ad accogliere famiglie allargate. All’interno della casa ci sono degli spazi dedicati agli uomini e altri alle donne. A Damasco non di rado mi è capitato di vedere che in certe famiglie la madre dorme in una stanza grande con le figlie e il padre in un’altra stanza con i figli maschi. Questo sia presso famiglie cristiane che famiglie musulmane.

Elisabetta Bondavalli




C’era una volta … il regno di Saba

Passato in pochi anni dal medioevo alla modeizzazione, grazie anche alla scoperta del petrolio, nello Yemen permangono gravi problemi di arretratezza sociale ed economica, che provocano ribellioni e insicurezza. Nonostante i frequenti sequestri di stranieri, la sua storia millenaria e le stupefacenti architetture continuano ad attrarre masse di turisti. Solo l’isola di Socotra, meravigliosa oasi naturale, sembra, essere risparmiata, per ora, dal turismo selvaggio.

Quando lo visitai per la prima volta, 15 anni fa, lo Yemen era da poco uscito dal medioevo. Era emozionante scoprire l’incanto di antichi villaggi, dei mercati, di gente fieramente legata alle tradizioni.
Oggi, si atterra in un moderno aeroporto e si incontrano subito tecnici americani che lavorano per conto di multinazionali del petrolio; in un’ampia superstrada si attraversa la vera città di Sana’a, modea e piena di attività, mentre la parte storica della capitale sta diventando un museo, al pari di Venezia. Una specie di trincea permette alle auto di attraversare la città antica e raggiungere i vari quartieri, in gran parte restaurati.
Il nostro albergo è stato ricavato da una di quelle case torri, fatte di pietra ai piani bassi, con elaborati fregi in gesso e finestre a lunetta, con vetri colorati e alabastro. Il cortile dove si cena è in comunicazione con un vasto appezzamento di terreno, che ora appare trascurato. Al tempo della mia prima visita, ricordo gli orti ben coltivati e le pecore che la mattina uscivano dai piani bassi delle case del centro.
La sera salgo sulla terrazza per godere del tramonto e mi rendo conto dei cambiamenti avvenuti: molti edifici nuovi e tante paraboliche su terrazze e tetti. Nonostante tali mutamenti, la medina (così è chiamato il centro storico) appare intatta, il souk (mercato) è affollato di uomini col pugnale alla cintola e donne velate di nero. Un tempo le abitanti di Sana’a usavano mantelle colorate e un velo nero e rosso che copriva totalmente il viso.
È cambiato anche l’ antico villaggio di Bayt Bows, che risale al tempo della regina di Saba, almeno 3.000 a.C. Oggi vi resta solo una famiglia, anche se il governo ha fatto portare l’acqua e ha costruito una scuola, ai piedi della collina. Dall’alto dell’abitato si può constatare quanto la capitale si sia dilatata nelle periferie, tra cui spicca una grande moschea in costruzione, voluta e finanziata dai paesi del Golfo.
Nello Yemen non si può generalmente entrare nelle moschee. Ve ne sono di bellissime, antiche e ben armonizzate nei centri abitati o nelle campagne. Questo edificio, moderno e gigantesco, mi pare una pesante stonatura, in un paese che persino nelle periferie ha voluto mantenere lo stile della tradizione nelle forme delle finestre, nei serramenti e nel rivestimento in pietra delle pareti delle case.

NEL REGNO DI SABA

Due giorni di viaggio attraverso il deserto, con peottamento a Mareb, dove vi fioriva il mitico regno di Saba, e raggiungo il Wadi Hadramaut, la regione dove è stato trovato il petrolio ed è diventata teatro di rapimenti di stranieri.
Una comoda strada asfaltata, costruita proprio per lo sfruttamento petrolifero, consente ora di arrivare a Say’un in poche ore. Ne approfittiamo per un tratto, per poi inoltrarci nel mare di sabbia, scortati dalla guida beduina, e scoprire città carovaniere, dove gli archeologi hanno trovato antichi templi dedicati al culto del sole e della luna. La vista della città di Shibam, mi emoziona come la prima volta, per la bellezza del paesaggio e delle architetture di fango crudo.
Nell’aprile del ’94 mi trovavo a Sana’a quando scoppiò la breve guerra civile tra il nord e il sud, appena unificati. «Prendi l’aereo per Say’un – mi avevano detto gli amici yemeniti -, laggiù sarai tranquilla, la gente è pacifica e non ci sono problemi». Mi ero sistemata in un albergo ricavato da vecchi prefabbricati russi. Ero l’unica ospite, insieme a uno studioso di rettili tedesco. Tutte le sere spesse nubi si addensavano sul ciglione roccioso, per poi scaricarsi in una pioggia fitta, preziosa per le intense coltivazioni del Wadi, che consentono la vita di oltre 200 mila persone. La sera la passavo in compagnia delle famiglie dei custodi, eritrei cristiani, che mi offrivano la cerimonia del caffè.
Oggi scendo in uno degli alberghi appena costruiti e vi trovo uomini d’affari giordani, cinesi e coreani. Seyun ha strade ampie e asfaltate, scuole, campi sportivi e molte costruzioni nuove e belle, che non deturpano l’armonia del paesaggio.
La gente invece è ferma nel tempo, specialmente le donne, velate di nero, con i tipici altissimi cappelli di paglia. Gli uomini sono occupati in antichi mestieri, come la fabbricazione di mattoni di fango, lavorato con mani e piedi e seccati al sole, la produzione della calce, ricavata dalle rocce.
Nei precedenti viaggi non avevo mai visto mendicanti. L’obolo era obbligatorio per lebbrosi e handicappati, fermi sul ciglio della strada. Perché ora, nei mercati, incontro donne velate col bimbo in braccio che premono insistenti per l’elemosina? Forse si è rotta un’armonia sociale, che manteneva la dignità delle persone.

IL PAESE DI BIN LADEN

«Bin Laden saudi group» dice il cartello dell’impresa che sta terminando la strada che collega Wadi Doan alla costa dell’Oceano Indiano, attraverso aride e scoscese montagne. I Bin Laden sono una grande famiglia di imprenditori, le cui splendide case dipinte si possono ammirare percorrendo le valli scavate dal Wadi Doan e dai suoi numerosi affluenti.
Il fondo valle è una lunga oasi ricca di verde e punteggiata da villaggi dorati. «La gente qui è molto benestante» spiega Mahdi, la guida che ci ha accompagnato da Sana’a.
Mahdi parla perfettamente l’italiano, avendo studiato in Somalia presso le suore della Consolata. I genitori erano emigrati, come molti yemeniti, per migliorare la propria condizione. Da anni ormai sono stati costretti a ritornare in patria a causa delle guerre. Con quattro figlie e due ragazzi da mantenere agli studi, l’affitto di una modesta casa di periferia da pagare, per Mahdi è importante lavorare nel turismo, dove si guadagna bene, ma si è soggetti a brusche interruzioni, a causa dei ricorrenti sequestri. Gli italiani sono tra i più assidui visitatori del paese, insieme ai tedeschi francesi e spagnoli.
Anche in questa parte del paese molte cose sono cambiate, rispetto al passato: non ho più notato, specialmente in città, uomini che, nell’ora della preghiera, si fermano, si radunano, anche nei cantieri, per pregare. Mahdi e gli autisti fanno eccezione: per tutto il viaggio sostano in preghiera cinque volte al giorno.

SOCOTRA

Da Mukalla, antico porto sul Mare Arabico, raggiungiamo in aereo Socotra, isola situata non lontano dalla Somalia, rimasta isolata nei secoli e miracolosamente intatta nella sua biodiversità. Qui si trovano specie di animali e vegetali uniche al mondo; per questo è in corso un progetto di collaborazione tra il governo yemenita e il Programma di sviluppo delle Nazioni Unite per proteggere l’isola dall’aggressione di un turismo e sviluppo poco rispettoso.
Gli italiani sono i principali finanziatori di tale progetto e alcuni nostri connazionali stanno lavorando nel centro Saving Socotra, cornordinati da Ismael Mohammed. Algerino, sposato con una toscana di Castiglioncello, mi invita a fermarmi per collaborare con loro. Bisogna insegnare l’inglese (e magari anche l’italiano) ai giovani socotrini che si stanno formando come guide ecologiche per accompagnare i visitatori.
Fino a due anni fa non c’erano strade, ma piste durissime, percorribili con difficoltà. Ora si stanno costruendo le prime strade e i turisti cominciano ad arrivare, incuriositi dalla storia e dalla natura particolare di un luogo che ha conservato miracolosamente l’habitat primitivo.
Gli abitanti dell’isola si sono dati da sempre le regole per salvaguardare l’ambiente, dal quale dipende la loro sopravvivenza. Il consiglio degli anziani del villaggio decide se e quando si possono tagliare gli alberi, quando è possibile effettuare la pesca e dove devono gettare le reti. Le condizioni di vita degli abitanti sono molto povere, per cui accettano volentieri gli aiuti che tengano anche presente la salvaguardia dell’ambiente.
I rari villaggi hanno basse case di pietra col tetto piatto; alcuni hanno una scuola nuova, frequentata anche dalle bambine. I 60 mila abitanti sono per lo più dediti alla pastorizia e alla pesca, mentre le coltivazioni sono in pratica impossibili, a causa del vento impietoso. Piccoli giardini circondati da muri di pietra consentono di avere palme da datteri e banane; tutto il resto viene importato.
Per le donne è nata una cornoperativa per promuovere l’artigianato della ceramica e tessitura. Vasi molto originali nelle forme, decorati col succo della pianta del drago (dracarnena) e stuoie tessute a mano con lana di pecora bianca e grigia vengono venduti nel negozio del centro di Hadibu.
Tra i primi 10 paradisi botanici al mondo, l’arcipelago di Socotra, che comprende altre tre isolette, è stato definito le Galapagos dell’Oceano Indiano. Alcuni torrenti scendono dai monti sempre avvolti da nuvole, formando pozze di acqua limpida. Le spiagge sono intatte, coperte di corallo e conchiglie che ancora nessuno ha raccolto. Numerose sono le colonie di uccelli marini nelle aree di riproduzione protette. La varietà di coralli e pesci comprende tutti quelli del mar Rosso e molti degli oceani.

MEZZALUNA ROSSA

L’appuntamento è alle 5,30 del mattino, sull’unica strada che taglia a metà l’abitato del villaggio. Mi unisco a un gruppo di medici yemeniti per raggiungere la spiaggia e fare il bagno all’alba.
Saleh è nato e cresciuto in un villaggio presso Aden, nello Yemen più laico e socialista, dove le donne giravano senza velo e dove risiedono ancora i suoi genitori. Gli studi li ha fatti a Leningrado e a Kiev, dove conobbe la moglie Irina. Ora abita e lavora a Abu Dhabi, presso due cliniche private, perché Irina, che è medico e ha una casa anche a Kiev, non vuole vivere nello Yemen. «Le mogli russe sono di supporto al marito. Sono forti e ben educate» mi dice convinto, mostrandomi le foto della famiglia.
Con 4 mila dollari al mese, auto e casa pagate, Saleh può permettersi di mandare a scuola privata le due figlie, di cui è molto orgoglioso. Degli anni vissuti in Russia Saleh ricorda con gratitudine la possibilità avuta di avvicinarsi alla vasta cultura del paese. Teatro, musica, letteratura lo hanno affascinato e segnato.
Mohammed, invece, ha studiato a Praga; è otorinolaringoiatra, ma meno loquace. L’esperienza interculturale che hanno fatto questi yemeniti è stata eccezionale. Rispetto ai connazionali, hanno la mente aperta e concordano sul fatto che la religione nel loro paese non ha un ruolo positivo.
Erano ragazzi diciottenni quando furono mandati a studiare in Unione Sovietica. Alcuni anni li passarono a studiare il russo, ucraino, ceco. Poi il latino, avendo scelto la facoltà di medicina. Dopo 14-15 anni di studi, il ritorno a casa, in uno Yemen appena uscito dal medioevo. Anche il direttore del piccolo ospedale di Socotra ha studiato in Unione Sovietica.
Tawfik è il più anziano del gruppo e invece di farsi una nuotata va alla ricerca di carcasse e spine di pesci, intatte e molto belle. Ha studiato in Pakistan e Sudan, a Khartoum; poi è ritornato a Sana’a, la sua città, dove ha lo studio ed è assistente di oculistica all’università.
Nel gruppo c’è anche una donna del Qatar, molto riservata, medico oculista. Ha il velo sul capo, veste di nero, ma il viso è scoperto; vi è pure un ingegnere di Abu Dabi che sta progettando il nuovo ospedale.
Dopo colazione, i medici raggiungono l’ospedale per operare, aiutati da infermieri, tutti della Mezzaluna rossa, mentre io vado alla scoperta dell’isola. Ci rivediamo a cena, nella trattoria di Hadibu, con gli ospiti dei due alberghi del luogo: qualche spagnolo, un gruppo di italiani e una signora di New York, accompagnata da due guide.
L’ultima sera prima della partenza, al ritorno da una lunga gita, siamo testimoni di un grave incidente. Un pick up carico di tifosi della locale squadra di calcio si è rovesciato, causando 17 feriti, che subito trasportiamo in ospedale. Due sono molto gravi e verranno portati a Sana’a la mattina dopo, su un aereo militare. La presenza della delegazione della Mezzaluna rossa è provvidenziale, i nostri amici medici passeranno la notte in ospedale a operare.

Claudia Caramanti




LA COLLERA DEI POVERI

Dopo che le elezioni democratiche nei territori palestinesi hanno dato la maggioranza assoluta ad Hamas, il movimento nato con lo scopo di distruggere Israele, che accadrà? Cosa dovrebbe succedere, per riavviare il cammino di pace
tra israeliani e palestinesi? Sono domande cui non è facile rispondere; tuttavia stimolano ad approfondire una situazione molto complessa.

Il 25 gennaio 2006 si sono svolte per la prima volta le elezioni politiche nei territori palestinesi. Queste elezioni sono state volute fortemente dagli Stati Uniti e contrastate da Israele: i primi perché volevano il rafforzamento della dirigenza di Abu Mazen e Abu Ala; gli altri perché vi scorgevano il principio della fine di un’occupazione ormai non più sostenibile, dopo che lo stesso «falco» Sharon si era convinto della necessità di ritirare una parte degli insediamenti.
I pronostici della vigilia sono stati smentiti clamorosamente: il popolo palestinese, da 60 anni in campi-lager, usando la scheda elettorale ha fatto piazza pulita di un’intera classe dirigente, identificata nel gruppo di Al Fatah, fondato da Arafat, e ha dato la maggioranza assoluta ad Hamas (Movimento di resistenza islamico).
Fondato dallo sceicco Ahmed Yassin e Mohammed Taha nel 1987 con il solo obiettivo di distruggere lo stato d’Israele e impiantare al suo posto uno stato palestinese islamico, Hamas è il gruppo armato più irriducibile, che nell’ultima intifada (2000-2002) ha inventato e utilizzato i kamikaze come bombe umane contro i civili israeliani, causando stragi nel cuore stesso di Israele: i propri figli carne da macello per macellare i figli del nemico.
Da un punto di vista geopolitico, peggio di così non poteva andare. Una domanda preme su tutte: che succederà adesso?
Hamas è nella lista nera dei terroristi, stilata dal governo Bush e condivisa dai governi europei incollati alla politica degli Usa. In Israele è fuori scena Sharon, le cui ultime scelte, prima della malattia invalidante, avevano aperto un fronte interno, rimettendo in moto un processo politico nuovo, approdato in un nuovo partito, Kadìma (Avanti), nato dalla scissione dello storico partito Likud (Rafforzamento).
Il primo contraccolpo si avrà proprio in Israele: alle elezioni di marzo Israele non voterà liberamente, perché la vittoria di Hamas lo condizionerà. Già dal giorno dopo il risultato elettorale, anche Ehud Olmert, sostituto di Sharon a capo di Kadìma, ha cominciato a rincorrere la destra di Netanyhau in dichiarazioni di totale chiusura senza se e senza ma.
Quando vivevo a Gerusalemme, nelle mie corrispondenze durante l’ultima intifada, pronosticavo che la Palestina negli anni a venire avrebbe visto ancora due guerre civili. Una all’interno delle fazioni armate palestinesi: evento che si sta verificando già, perché difficilmente il braccio armato di Al Fatah cederà il potere ad Hamas senza muovere muscolo. La seconda in Israele, che deve decidersi se essere uno stato laico o uno stato teocratico. La scissione di Sharon dal Likud e la formazione di un nuovo soggetto politico è una pietra verso questa soluzione.
L’effetto più sconcertante del risultato, infatti, è la radicalizzazione delle posizioni dentro Israele e il panico in cui sono cadute le organizzazioni estremiste all’interno della striscia di Gaza. Israele torna ad avere paura; Hamas e altri gruppi armati sono nel panico di non sapere come comportarsi. Hamas stesso, infatti, non aveva messo in conto una sua vittoria maggioritaria, ma solo una vittoria di minoranza, che gli avrebbe permesso di condizionare il governo di Al Fatah e restare estremista e all’opposizione.

D a queste elezioni tutti speravano un sussulto di «democrazia», come primo passo verso una soluzione graduale del cancro mediorientale. Il sussulto è accaduto e le regole della democrazia, su schema occidentale, hanno sancito che ha vinto Hamas, il nemico di Israele e Stati Uniti.
Questa vittoria ha un significato, oserei dire, psicoanalitico: il popolo palestinese, frustrato e represso, in parte consapevolmente, ha voluto punire il mondo occidentale per il suo atteggiamento pilatesco nei suoi confronti, eleggendo con lo strumento occidentale delle elezioni il gruppo che per l’Occidente è «puro fumo negli occhi».
Per fare questo, ha punito se stesso, perché Hamas significa isolamento, perdita dell’ingente sostegno economico occidentale, aumento della miseria, sconfinamento nell’inferno della non-vita, che potrebbe proseguire per almeno un altro decennio. È la logica illogica dei processi psichici: mi distruggo pur di distruggerti.

C he accadrà adesso? Nell’ultimo anno, oltre a parlare della Palestina religiosa, abbiamo dedicato due lunghi articoli alla Palestina «politica», intitolati: «Matassa imbrogliata» (MC maggio 2004) e «Abu Mazen tenta l’impresa» (MC marzo 2005). In essi mettevamo in evidenza i nodi geopolitici e quelli strettamente più locali che sarebbe stato necessario risolvere prima di giungere alla posa della prima pietra di un processo di pace.
Dicevamo anche che il cammino sarebbe stato lungo e avrebbe percorso almeno il primo secolo dell’incipiente primo millennio. Il groviglio Palestina è talmente annodato che soltanto chi avrà sapienza storica e intelligenza di stato avrà il privilegio di cominciare la lunga marcia nel deserto verso la Terra Promessa della pace in Palestina.
Abu Mazen è stato certamente un sapiente della storia e uno statista delle possibilità, finché non esercitò alcun potere. Nel momento in cui assunse l’eredità di Arafat, con la speranza ereditò anche una situazione di degenerazione abissale: struttura amministrativa inesistente, governo a immagine e somiglianza del rais, frantumazione di gruppi armati e rete di corruttela che ha soffocato ogni spiraglio di soluzione.
La corruzione diffusa da Arafat sopravvisse alla sua morte. Abu Mazen, uomo onesto e di valore, non ebbe la forza di tagliare l’intreccio mafioso con forza e immediatezza, di denunciare apertamente corrotti e corruttori.
Hamas ebbe facile gioco: fuori dei gangli del potere, si schierò dalla parte del popolo e da questo è stato sempre ricambiato. Il popolo che vive nella miseria, condannato a vita in lager a cielo aperto, come quello di Gaza, sperimenta la vicinanza di Hamas, che si incarica dell’assistenza degli anziani, paga le bollette, mantiene vedove e orfani, si prende cura delle famiglie dei carcerati, vive «con» i baraccati, si fa carico dei problemi spiccioli… Hamas è uno di loro.
Demagogia? Strumentalizzazione? Populismo? C’è tutto questo e anche di più; ma la gente vede che Hamas c’è sempre. Hamas non è un benefattore dell’umanità né del popolo palestinese; egli mira al potere, ma non al governo, perché governare significa scegliere, confrontarsi, prevedere; mentre potere significa essere sempre contro chi pensa in modo diverso, eliminare chi ostacola, distruggere stando all’opposizione senza l’onere delle responsabilità.

H amas è uno di quei frutti proibiti che nascono in Oriente, ma seminati dall’Occidente: è figlio di interessi incrociati. Chiunque ha interesse a destabilizzare la regione (Siria, Iran, Iraq, Arabia Saudita, Emirati Arabi e in modo sotterraneo anche Usa) crea o sostiene gruppi terroristici, finanziandoli con le armi a basso costo finché sono funzionali.
Quando Hamas cominciò a opporsi ad Arafat e la sua politica, giudicata remissiva, armi e finanziamenti provenivano da Usa e Russia, Europa (attraverso le frontiere dell’Egitto) e Israele, senza rigurgiti morali per chi da quegli armamenti traeva profitto. Per un certo tempo, Israele credette di poterlo manovrare, insieme agli altri gruppi terroristici, ma senza riuscirvi. Dopo la 2a intifada, Hamas divenne per Israele il nemico principale da distruggere. L’incapacità degli Usa di gestire una politica organica in tutto l’Oriente (dall’Afghanistan all’Iraq) e l’inesistenza di una politica estera comune europea hanno permesso la radicalizzazione della cancrena mediorientale.
La grandezza di Abu Mazen consiste nell’avere portato il suo popolo e tutti i gruppi a confrontarsi con un sistema quasi democratico. Convinse Hamas a entrare nella dialettica politica accettando il confronto delle elezioni, svoltesi sotto il controllo di Stati Uniti, Europa e Onu.
Tutte le proiezioni davano per vincente Abu Mazen e il suo gruppo Al Fatah. Fin dalla vigilia del voto, gli «esportatori» di democrazia dicevano che finalmente il popolo palestinese poteva cominciare una nuova èra; erano certi che, eleggendo Abu Mazen contando i voti con il criterio «una testa un voto», avrebbero isolato gli estremisti e dato impulso al processo di pace, come inteso e voluto dall’Occidente: una pace sbilanciata verso Israele.
Invece, la democrazia all’occidentale ha scelto Hamas, contro il volere occidentale. Per spirito anti-Bush, certo; per dare una lezione a Israele, sicuro; per chiedere rispetto dai predicatori di libertà, senza dubbio. Il popolo palestinese, esercitando un suo diritto fondamentale e primario, votando liberamente ha scelto contro tutte le aspettative degli altri.

R itorna la domanda iniziale: che cosa accadrà adesso? Anzi, cosa dovrebbe accadere adesso? Cominciamo a rispondere alla seconda domanda: non dovrebbe succedere «niente», perché ci aspettiamo che Stati Uniti, Israele, Europa e l’Onu prendano atto delle elezioni e della lezione di democrazia del popolo palestinese e s’inchinino, senza distinguo, ai risultati.
Hamas ha l’onere del governo e verrà giudicato non «preventivamente», ma solo in base alle scelte che farà e alle posizioni che assumerà nei consessi inteazionali, come si giudica e si esige da qualsiasi altro stato democratico.
Sappiamo che non accadrà, perché alcuni occidentali hanno della democrazia un concetto di sovranità limitata, contrariamente all’attuale governo palestinese di Abu Ala, che a ue ancora aperte si è dimesso, riconoscendo l’esito del voto come volontà del popolo libero e sovrano.
Non così l’ala armata di Al Fatah che, passando all’opposizione, assumerà quella che fu la posizione fino a oggi di Hamas. La guerra civile è sulla soglia.
Pur di non riconoscere Hamas, Israele e Usa cominceranno il balletto di richieste di supplemento di democrazia, come condizione per il riconoscimento. Nessuna risposta di Hamas sarà mai esauriente: di richiesta in richiesta si concluderà con un nulla di fatto.
Hamas risponderà per le rime, almeno in principio, rafforzando le dichiarazioni sulla propria radicalità, per non perdere la faccia davanti al suo popolo. Si ammorbidirà molto lentamente; ma così i tempi della pace si allontanano drasticamente.
In compenso faranno affari i venditori di armi d’Oriente e Occidente.

L a prima domanda è più complessa, ma possiamo azzardare alcune conseguenze, già iscritte nella realtà dei fatti. Hamas ha la maggioranza assoluta e può governare da solo. Bene ha fatto Abu Mazen a rifiutare, almeno per ora, qualsiasi accordo di coalizione: è bene che Hamas si cimenti e si misuri con i suoi progetti, il suo popolo, lo scenario mondiale.
Il primo anno trascorrerà in salamoia: ognuno resterà sulle sue posizioni. Hamas strillerà e inveirà per non perdere la faccia; ma, ogni giorno che passa, strillerà e inveirà un po’ meno. Sa infatti che, se rompe con l’Occidente, dovrà dire addio ai miliardi di euro e dollari stanziati e stanziabili per il rafforzamento democratico e la ricostruzione.
Dall’altra parte, Israele e Bush diranno ogni sorta di contumelia contro Hamas, ma questo fa parte del giochino della politica all’acqua minerale: si andrà avanti senza alcuna scelta perché adesso non scegliere è interesse di Israele.
Un’altra conseguenza riguarda le elezioni in Israele a marzo: si rimescolano le carte e si radicalizzerà lo scontro all’interno di Israele; perde la politica di Sharon e si rafforza quella di Netanyhau, cioè la destra oltranzista e i sionisti radicali.
Da parte sua, Hamas non è all’altezza di governo: non ne ha l’esperienza e la maggior parte dei suoi adepti e capi sono alquanto ignoranti. Cercherà a tutti i costi di governare con Al Fatah, che alla fine accetterà per senso di responsabilità, alzando la posta di contrattazione e imponendo figure estee nella compagine governativa. Alla fine del tira e molla, si avrà un governo «misto»: il nome sarà di Hamas, ma il potere reale sarà nelle mani di Abu Mazen, che goveerà nell’ombra, per garantire l’Occidente e per permettere ad Hamas di fare quei passi dolorosi, ma necessari verso un sistema parlamentare di confronto politico.
Questa soluzione permetterà ad Hamas di giocare la carta governativa e internazionale, l’unica che le permetterà di uscire dall’isolamento e principalmente dalla lista di proscrizione di Bush, con alcune conseguenze ovvie: da gruppo di pressione militare, vissuto di guerra e guerriglia senza esclusione di colpi, si riciclerà in soggetto politico, dichiarerà di abbandonare le armi, ma senza consegnarle; gli altri non gli crederanno, facendo finta di credergli.
Il popolo palestinese sa che con Hamas rischia ancora di più la miseria e la fame; ma quando i poveri sono costretti dalla cecità del mondo a vivere per tutta la vita nei campi profughi (dovevano essere provvisori, ma durano dal 1948), avendone avuto l’occasione, ha preferito levarsi una soddisfazione, facendo saltare d’un colpo tutte le cancellerie del mondo: il bisogno di onore spesso è più nutriente del pane. Per una volta i palestinesi sono sulle prime pagine dei giornali, come liberi democratici in democratiche elezioni. Lasciamogli godere in pace questo orgoglio di «popolo senza terra».
Nel 1967, Paolo vi aveva messo in guardia dalla «collera dei poveri» (Populorum progressio 49), perché avrebbe prodotto «conseguenze imprevedibili». Come volevasi dimostrare.

Paolo Farinella




C’era una volta… il regno di SABA

Passato in pochi anni dal medioevo alla modeizzazione, grazie anche alla scoperta del petrolio, nello Yemen permangono gravi problemi di arretratezza sociale ed economica, che provocano ribellioni e insicurezza. Nonostante
i frequenti sequestri di stranieri, la sua storia millenaria e le stupefacenti architetture continuano ad attrarre masse di turisti. Solo l’isola di Socotra, meravigliosa oasi naturale, sembra, essere risparmiata, per ora, dal turismo selvaggio.

Quando lo visitai per la prima volta, 15 anni fa, lo Yemen era da poco uscito dal medioevo. Era emozionante scoprire l’incanto di antichi villaggi, dei mercati, di gente fieramente legata alle tradizioni.
Oggi, si atterra in un moderno aeroporto e si incontrano subito tecnici americani che lavorano per conto di multinazionali del petrolio; in un’ampia superstrada si attraversa la vera città di Sana’a, modea e piena di attività, mentre la parte storica della capitale sta diventando un museo, al pari di Venezia. Una specie di trincea permette alle auto di attraversare la città antica e raggiungere i vari quartieri, in gran parte restaurati.

Il nostro albergo è stato ricavato da una di quelle case torri, fatte di pietra ai piani bassi, con elaborati fregi in gesso e finestre a lunetta, con vetri colorati e alabastro. Il cortile dove si cena è in comunicazione con un vasto appezzamento di terreno, che ora appare trascurato. Al tempo della mia prima visita, ricordo gli orti ben coltivati e le pecore che la mattina uscivano dai piani bassi delle case del centro.
La sera salgo sulla terrazza per godere del tramonto e mi rendo conto dei cambiamenti avvenuti: molti edifici nuovi e tante paraboliche su terrazze e tetti. Nonostante tali mutamenti, la medina (così è chiamato il centro storico) appare intatta, il souk (mercato) è affollato di uomini col pugnale alla cintola e donne velate di nero. Un tempo le abitanti di Sana’a usavano mantelle colorate e un velo nero e rosso che copriva totalmente il viso.
È cambiato anche l’ antico villaggio di Bayt Bows, che risale al tempo della regina di Saba, almeno 3.000 a.C. Oggi vi resta solo una famiglia, anche se il governo ha fatto portare l’acqua e ha costruito una scuola, ai piedi della collina. Dall’alto dell’abitato si può constatare quanto la capitale si sia dilatata nelle periferie, tra cui spicca una grande moschea in costruzione, voluta e finanziata dai paesi del Golfo.
Nello Yemen non si può generalmente entrare nelle moschee. Ve ne sono di bellissime, antiche e ben armonizzate nei centri abitati o nelle campagne. Questo edificio, moderno e gigantesco, mi pare una pesante stonatura, in un paese che persino nelle periferie ha voluto mantenere lo stile della tradizione nelle forme delle finestre, nei serramenti e nel rivestimento in pietra delle pareti delle case.
NEL REGNO DI SABA
Due giorni di viaggio attraverso il deserto, con peottamento a Mareb, dove vi fioriva il mitico regno di Saba, e raggiungo il Wadi Hadramaut, la regione dove è stato trovato il petrolio ed è diventata teatro di rapimenti di stranieri.
Una comoda strada asfaltata, costruita proprio per lo sfruttamento petrolifero, consente ora di arrivare a Say’un in poche ore. Ne approfittiamo per un tratto, per poi inoltrarci nel mare di sabbia, scortati dalla guida beduina, e scoprire città carovaniere, dove gli archeologi hanno trovato antichi templi dedicati al culto del sole e della luna. La vista della città di Shibam, mi emoziona come la prima volta, per la bellezza del paesaggio e delle architetture di fango crudo.
Nell’aprile del ’94 mi trovavo a Sana’a quando scoppiò la breve guerra civile tra il nord e il sud, appena unificati. «Prendi l’aereo per Say’un – mi avevano detto gli amici yemeniti -, laggiù sarai tranquilla, la gente è pacifica e non ci sono problemi». Mi ero sistemata in un albergo ricavato da vecchi prefabbricati russi. Ero l’unica ospite, insieme a uno studioso di rettili tedesco. Tutte le sere spesse nubi si addensavano sul ciglione roccioso, per poi scaricarsi in una pioggia fitta, preziosa per le intense coltivazioni del Wadi, che consentono la vita di oltre 200 mila persone. La sera la passavo in compagnia delle famiglie dei custodi, eritrei cristiani, che mi offrivano la cerimonia del caffè.
Oggi scendo in uno degli alberghi appena costruiti e vi trovo uomini d’affari giordani, cinesi e coreani. Seyun ha strade ampie e asfaltate, scuole, campi sportivi e molte costruzioni nuove e belle, che non deturpano l’armonia del paesaggio.
La gente invece è ferma nel tempo, specialmente le donne, velate di nero, con i tipici altissimi cappelli di paglia. Gli uomini sono occupati in antichi mestieri, come la fabbricazione di mattoni di fango, lavorato con mani e piedi e seccati al sole, la produzione della calce, ricavata dalle rocce.
Nei precedenti viaggi non avevo mai visto mendicanti. L’obolo era obbligatorio per lebbrosi e handicappati, fermi sul ciglio della strada. Perché ora, nei mercati, incontro donne velate col bimbo in braccio che premono insistenti per l’elemosina? Forse si è rotta un’armonia sociale, che manteneva la dignità delle persone.
Il paese di Bin Laden
«Bin Laden saudi group» dice il cartello dell’impresa che sta terminando la strada che collega Wadi Doan alla costa dell’Oceano Indiano, attraverso aride e scoscese montagne. I Bin Laden sono una grande famiglia di imprenditori, le cui splendide case dipinte si possono ammirare percorrendo le valli scavate dal Wadi Doan e dai suoi numerosi affluenti.
Il fondo valle è una lunga oasi ricca di verde e punteggiata da villaggi dorati. «La gente qui è molto benestante» spiega Mahdi, la guida che ci ha accompagnato da Sana’a.
Mahdi parla perfettamente l’italiano, avendo studiato in Somalia presso le suore della Consolata. I genitori erano emigrati, come molti yemeniti, per migliorare la propria condizione. Da anni ormai sono stati costretti a ritornare in patria a causa delle guerre. Con quattro figlie e due ragazzi da mantenere agli studi, l’affitto di una modesta casa di periferia da pagare, per Mahdi è importante lavorare nel turismo, dove si guadagna bene, ma si è soggetti a brusche interruzioni, a causa dei ricorrenti sequestri. Gli italiani sono tra i più assidui visitatori del paese, insieme ai tedeschi francesi e spagnoli.
Anche in questa parte del paese molte cose sono cambiate, rispetto al passato: non ho più notato, specialmente in città, uomini che, nell’ora della preghiera, si fermano, si radunano, anche nei cantieri, per pregare. Mahdi e gli autisti fanno eccezione: per tutto il viaggio sostano in preghiera cinque volte al giorno.
SOCOTRA
Da Mukalla, antico porto sul Mare Arabico, raggiungiamo in aereo Socotra, isola situata non lontano dalla Somalia, rimasta isolata nei secoli e miracolosamente intatta nella sua biodiversità. Qui si trovano specie di animali e vegetali uniche al mondo; per questo è in corso un progetto di collaborazione tra il governo yemenita e il Programma di sviluppo delle Nazioni Unite per proteggere l’isola dall’aggressione di un turismo e sviluppo poco rispettoso.
Gli italiani sono i principali finanziatori di tale progetto e alcuni nostri connazionali stanno lavorando nel centro Saving Socotra, cornordinati da Ismael Mohammed. Algerino, sposato con una toscana di Castiglioncello, mi invita a fermarmi per collaborare con loro. Bisogna insegnare l’inglese (e magari anche l’italiano) ai giovani socotrini che si stanno formando come guide ecologiche per accompagnare i visitatori.
Fino a due anni fa non c’erano strade, ma piste durissime, percorribili con difficoltà. Ora si stanno costruendo le prime strade e i turisti cominciano ad arrivare, incuriositi dalla storia e dalla natura particolare di un luogo che ha conservato miracolosamente l’habitat primitivo.
Gli abitanti dell’isola si sono dati da sempre le regole per salvaguardare l’ambiente, dal quale dipende la loro sopravvivenza. Il consiglio degli anziani del villaggio decide se e quando si possono tagliare gli alberi, quando è possibile effettuare la pesca e dove devono gettare le reti. Le condizioni di vita degli abitanti sono molto povere, per cui accettano volentieri gli aiuti che tengano anche presente la salvaguardia dell’ambiente.
I rari villaggi hanno basse case di pietra col tetto piatto; alcuni hanno una scuola nuova, frequentata anche dalle bambine. I 60 mila abitanti sono per lo più dediti alla pastorizia e alla pesca, mentre le coltivazioni sono in pratica impossibili, a causa del vento impietoso. Piccoli giardini circondati da muri di pietra consentono di avere palme da datteri e banane; tutto il resto viene importato.
Per le donne è nata una cornoperativa per promuovere l’artigianato della ceramica e tessitura. Vasi molto originali nelle forme, decorati col succo della pianta del drago (dracarnena) e stuoie tessute a mano con lana di pecora bianca e grigia vengono venduti nel negozio del centro di Hadibu.
Tra i primi 10 paradisi botanici al mondo, l’arcipelago di Socotra, che comprende altre tre isolette, è stato definito le Galapagos dell’Oceano Indiano. Alcuni torrenti scendono dai monti sempre avvolti da nuvole, formando pozze di acqua limpida. Le spiagge sono intatte, coperte di corallo e conchiglie che ancora nessuno ha raccolto. Numerose sono le colonie di uccelli marini nelle aree di riproduzione protette. La varietà di coralli e pesci comprende tutti quelli del mar Rosso e molti degli oceani.
Mezzaluna ROSSA
L’appuntamento è alle 5,30 del mattino, sull’unica strada che taglia a metà l’abitato del villaggio. Mi unisco a un gruppo di medici yemeniti per raggiungere la spiaggia e fare il bagno all’alba.
Saleh è nato e cresciuto in un villaggio presso Aden, nello Yemen più laico e socialista, dove le donne giravano senza velo e dove risiedono ancora i suoi genitori. Gli studi li ha fatti a Leningrado e a Kiev, dove conobbe la moglie Irina. Ora abita e lavora a Abu Dhabi, presso due cliniche private, perché Irina, che è medico e ha una casa anche a Kiev, non vuole vivere nello Yemen. «Le mogli russe sono di supporto al marito. Sono forti e ben educate» mi dice convinto, mostrandomi le foto della famiglia.
Con 4 mila dollari al mese, auto e casa pagate, Saleh può permettersi di mandare a scuola privata le due figlie, di cui è molto orgoglioso. Degli anni vissuti in Russia Saleh ricorda con gratitudine la possibilità avuta di avvicinarsi alla vasta cultura del paese. Teatro, musica, letteratura lo hanno affascinato e segnato.
Mohammed, invece, ha studiato a Praga; è otorinolaringoiatra, ma meno loquace. L’esperienza interculturale che hanno fatto questi yemeniti è stata eccezionale. Rispetto ai connazionali, hanno la mente aperta e concordano sul fatto che la religione nel loro paese non ha un ruolo positivo.
Erano ragazzi diciottenni quando furono mandati a studiare in Unione Sovietica. Alcuni anni li passarono a studiare il russo, ucraino, ceco. Poi il latino, avendo scelto la facoltà di medicina. Dopo 14-15 anni di studi, il ritorno a casa, in uno Yemen appena uscito dal medioevo. Anche il direttore del piccolo ospedale di Socotra ha studiato in Unione Sovietica.
Tawfik è il più anziano del gruppo e invece di farsi una nuotata va alla ricerca di carcasse e spine di pesci, intatte e molto belle. Ha studiato in Pakistan e Sudan, a Khartoum; poi è ritornato a Sana’a, la sua città, dove ha lo studio ed è assistente di oculistica all’università.
Nel gruppo c’è anche una donna del Qatar, molto riservata, medico oculista. Ha il velo sul capo, veste di nero, ma il viso è scoperto; vi è pure un ingegnere di Abu Dabi che sta progettando il nuovo ospedale.
Dopo colazione, i medici raggiungono l’ospedale per operare, aiutati da infermieri, tutti della Mezzaluna rossa, mentre io vado alla scoperta dell’isola. Ci rivediamo a cena, nella trattoria di Hadibu, con gli ospiti dei due alberghi del luogo: qualche spagnolo, un gruppo di italiani e una signora di New York, accompagnata da due guide.
L’ultima sera prima della partenza, al ritorno da una lunga gita, siamo testimoni di un grave incidente. Un pick up carico di tifosi della locale squadra di calcio si è rovesciato, causando 17 feriti, che subito trasportiamo in ospedale. Due sono molto gravi e verranno portati a Sana’a la mattina dopo, su un aereo militare. La presenza della delegazione della Mezzaluna rossa è provvidenziale, i nostri amici medici passeranno la notte in ospedale a operare.

Claudia Caramanti




ISLAMLe donne di Allah

Erano alla ricerca di un’identità e di un ruolo. Hanno trovato un universo ordinato, dove uomini e donne hanno uno spazio e compiti ben delimitati. I diritti negati o ristretti sono «compensati» dalla mancanza di confusione nei ruoli e dalla certezza delle regole islamiche. Le storie di Nadia, Aziza, Chiara, Barbara, Maryam, Nura. Senza dimenticare che «non è tutto oro ciò che luccica».

NADIA: EX-FEMMINISTA, EX-COMUNISTA

Nadia ha 40 anni. È un’insegnante d’italiano, ex femminista, ex comunista.
Ha incontrato l’islam attraverso Yassin, un giovane algerino immigrato in Italia cinque anni fa. Lui le ha parlato della sua terra, della sua religione, le ha prospettato un universo ordinato, piuttosto semplice, organizzato per scale di valori e ruoli ben determinati, dove la figura femminile e maschile ha una connotazione, uno spazio e dei compiti ben precisi. Un’identità, insomma, riconoscibile sia all’interno della famiglia, sia nella società (islamica, s’intende).
Nessun dubbio, dunque, nessuna confusione, niente più crisi esistenziali. Neanche quando lei, abituata per decenni a rivendicare i propri diritti di donna libera, se li è visti negare o restringere all’ambito delle mura domestiche e delle poche attività religiose.
Foulard beige e un lungo soprabito celeste la proteggono dagli sguardi maschili, che potrebbero ferirla nella sua dignità più profonda. «In questo modo – afferma con severa dolcezza – la donna è tutelata e non rischia di essere ridotta ad oggetto sessuale».
L’esperienza di Nadia non è singola: altre donne, anche molto giovani, sono attratte dall’islam. Confusione nei ruoli tra maschile e femminile, identità sessuali traballanti, vuoto ideologico e spirituale, profonde insicurezze personali e caratteriali, trovano per loro una risposta e una risoluzione. Per alcune, l’adesione all’islam è anche una sorta di reazione allo sfruttamen- to per fini commerciali che l’Occidente attua nei confronti dell’immagine femminile attraverso l’ambiguo e discutibile richiamo sessuale.

AZIZA: LA «PRINCIPESSA» TIMIDA

Aziza ha 26 anni. Ha iniziato ad interessarsi all’islam quando, verso i 15, ha conosciuto un gruppo di ragazzi maghrebini. Torinese d’adozione, proviene da una famiglia pugliese molto cattolica. Timida, un po’ impacciata, con lineamenti poco aggraziati dietro a un enorme paio di occhiali e a un hijab che le nasconde i capelli – peraltro già molto corti. Ha imparato l’arabo classico e il dialetto marocchino, ha letto molti testi islamici, ha visitato alcuni paesi arabi e ha fatto il pellegrinaggio sacro, lo hajj, alla Mecca.
«Indossare il velo è stata una mia scelta – sostiene – per essere più coerente e rispettare la shari ‘a, la legge islamica». Forte è il suo desiderio di adeguarsi al «gruppo», di corrispondere anche esteriormente alle «regole», di essere accolta e accettata all’interno della comunità islamica locale. Di compiacere forse il «padre», quella figura maschile che, nella sua storia personale, ha abbandonato la famiglia quando lei era ancora piccina.
Nella piccola moschea ricavata da un magazzino, al centro di Torino, dove lei si occupa dei bimbi immigrati e dei figli delle coppie miste educati secondo i precetti coranici, tutti la stimano e le vogliono bene. E come non volergliene con quell’aria mite e disponibile e con quella voce che pare uscire a fatica dalla sua gola avvolta nel foulard?
Ha trovato la sua identità, Aziza, che aveva perso durante un’adolescenza un po’ buia e solitaria. Ha scoperto il suo ruolo e un mezzo per superare i momenti di agitazione e tristezza.
«La mia famiglia non vedeva di buon grado questa mia scelta, avrebbe preferito sapermi come altre ragazze che si divertono, che frequentano le discoteche e si vestono in un certo modo. Anch’io esco, vado al ristorante o al cinema, ma tutto entro certi limiti. Non comprendo come molti giovani possano distruggere le loro vite con droghe, alcornol, musica assordante, corse in autostrada a folle velocità…».
«Adesso mia madre e i miei fratelli hanno accettato e mi rispettano, come io ho sempre fatto con loro senza pretendere che seguissero le mie orme».
Eri cattolica praticante prima di convertirti all’islam? «Ritornare all’islam, vuoi dire? Sai, siamo tutti musulmani, alle origini, anche se molti hanno abbracciato altre fedi o non ne hanno neanche più una. Nella sura “al-Nasr” si legge che molta gente del Libro (gli ebrei e i cristiani, ndr) si convertiranno all’islam. Andavo a messa con mia madre, ma non ero a mio agio lì, in chiesa. Avvertivo una sensazione di vuoto interiore, di insoddisfazione, come se quella non fosse la mia strada. E, quando ho preso a frequentare gruppi di amici arabi e a leggere il corano, ho capito che quello era il mio posto».
I musulmani della tua comunità come ti considerano? «Come una di loro, un’italiana entrata nell’islam. Mi rispettano molto. Gli uomini addirittura esagerano: mi trattano come una principessa».
Sei felice? Sorride e risponde con un allegro «al-hamdu li-llah», «grazie a Dio», alla maniera araba.
Vuoto esistenziale da colmare, profondo richiamo verso una dimensione spirituale, ma anche motivazioni sentimentali sono alla base di un certo successo dell’islam fra le donne in tutta l’Europa.

CHIARA: SOLO CON IL PERMESSO DEL MARITO

Chiara, maestra di scuola nel cuneese, trent’anni, bionda e simpatica, due bellissimi figli piccoli, ha abbracciato l’islam per amore, anche se, assicura lei, suo marito, egiziano, non glielo aveva chiesto.
Perché l’ha fatto, allora? «Ero alla ricerca di qualcosa, a livello spirituale, che mi convincesse. Il cattolicesimo non mi aveva mai entusiasmato. Quando ho conosciuto mio marito ho iniziato a leggere il corano e gli ahadith; ho preso a frequentare la moschea e alcune donne arabe che mi hanno seguito nei miei studi. L’islam ha riempito il vuoto che sentivo dentro».
Ora lei si è totalmente adeguata allo stile di vita e alle idee del marito, dicono le sue colleghe, e a quelle della cultura a cui lui fa riferimento: non può uscire di casa senza il suo permesso e, quando lui è fuori per lavoro, deve andare con i bimbi dalla madre. In casa, a cena, c’è un andirivieni di amici a cui lei prepara continuamente cene…
Ma sembra felice, Chiara, nei suoi grandi occhi azzurri, mentre ci fa vedere come ha imparato bene ad eseguire alcune flessuose danze locali. Già, pare proprio una donna araba!

BARBARA-AISHA:
LA «SECONDA MOGLIE»

Carmagnola (Torino). Case di proprietà comunale. Prima di lasciarci salire nel suo appartamento, Aisha si accerta che non vi siano uomini nelle vicinanze. «Sa, in casa nostra pratichiamo la separazione tra i sessi, e quando ci sono degli uomini io mi ritiro in un’altra stanza» afferma con un sorriso che le illumina il giovane volto incoiciato dallo hijab.
Barbara Farina, 25 anni, è sposata con solo rito islamico ad un sociologo senegalese, ex-imam della moschea di Carmagnola, ed è madre di un bimbo di due anni.
Aisha-Barbara è una «mujahidat-Allah», cioè una «combattente per la guerra santa di Allah». Direttrice di un giornalino chiamato «al-Mujahidah», arrivato al suo terzo numero, raccoglie e pubblica opinioni giuridiche (fatwa), scritti e riflessioni sulla donna musulmana, sulla morale e sul retto comportamento islamico, per aiutare, afferma lei, le altre sorelle italiane nel cammino di fede.
Nel 1994 il suo nome e il suo viso fecero il giro dei mass-media italiani: portavoce di tutte le altre musulmane residenti nel nostro paese, era la prima a rivendicare il diritto di essere ritratta con il velo islamico sulla carta d’identità.
Ma che cosa dell’islam ha attratto lei, ragazza occidentale? «Il senso di giustizia sociale, il rispetto per valori come quello della famiglia e del ruolo della donna, che la cultura europea ha perso. Più leggevo il corano e più sentivo di appartenere a quel mondo, dove fede e pratica sono congiunte indissolubilmente».
Quando è avvenuta la sua conversione? «Ho incontrato l’islam nel 1993, a seguito di un corso di studi orientali all’Ismeo di Milano».
Religiosa praticante e convinta, sogna di andare a vivere in uno stato dove la shari‘a, la legge islamica, sia applicata in tutti gli ambiti dell’esistenza umana, dove ai ladri e ai disonesti vengano mozzate le mani e dove gli adulteri siano duramente puniti. Nell’attesa, indossa la jallabiyya, una lunga veste che le arriva sino ai piedi, si nasconde i capelli sotto lo hijab e, quando esce di casa, si copre il viso con il burqa, un velo nero integrale e il corpo con la abaya.
Corano alla mano, ad un certo punto Barbara- Aisha è entrata nella vita di un’altra coppia, quella di Abdelkader Fall Mamour, il ricercatore senegalese con cui ha contratto, nel 1995, matrimonio religioso, e di Patrizia Venturella, una giovane operaia della provincia torinese, ed è divenuta la «seconda moglie». Fino al momento in cui la «prima» consorte, esasperata, ridotta all’anoressia e all’indigenza, non è scappata portandosi dietro il proprio figlioletto.
Per lo stato italiano, dunque, suo marito era bigamo? «Per la nostra legge no. Un uomo, se può permetterselo, è autorizzato a contrarre matrimonio anche con quattro donne».
E lei è d’accordo con questo? «Sì, se serve per aiutare una donna vedova, con figli e in difficoltà; oppure per dare dei bambini ad un uomo la cui prima moglie è sterile o malata. La poligamia non è ammessa sempre e comunque. Non è un capriccio, bensì una necessità».
Allora, nel vostro caso si è trattato di una necessità? Quale? «Patrizia non era musulmana e mio marito voleva una moglie che potesse condividere con lui la fede, educare islamicamente i suoi figli… e lei non poteva assumersi questo compito. Si era, infatti, avvicinata alla religione e alla cultura di Abdelkader solo per compiacerlo, non perché veramente le interessasse questa realtà. Io fui invitata a casa loro proprio per “educare” Patrizia all’islam e unirla maggiormente a suo marito. Tuttavia, lui capì che io ero la donna giusta e così ci sposammo in moschea. Patrizia, inizialmente, sembrava d’accordo, ma poi decise di andarsene via con il bambino. Da lì a poco sporse denuncia per maltrattamenti».
Barbara parla con slancio, senza fermarsi un attimo. Pare molto sicura del fatto suo e della sua posizione. Ma cosa può averla spinta a convertirsi all’islam prima, e ad insinuarsi all’interno di una coppia già sposata, dopo?
«L’islam protegge le donne, non le lascia sole, anche in caso di divorzio. Eppoi, in Occidente, quanti uomini mollano le mogli per altre donne o le tradiscono di nascosto, e ciononostante si professano monogami? Allora, non è meglio essere sinceri e fare tutto nella legalità?».
La scelta radicale di Barbara può forse trovare una spiegazione nella sua storia personale. Sembra infatti che, quando era piccola, suo padre abbia abbandonato la famiglia per un’altra donna. Questo, secondo Aisha-Barbara, egli fosse stato musulmano e, semplicemente, avesse potuto prendere una seconda moglie.
In realtà, neanche nelle società islamiche le cose funzionano sempre così: molte mogli vengono, infatti, facilmente ripudiate e messe per strada insieme ai loro figli. E per loro questo significa miseria, disperazione e, spesso, prostituzione.

MARYAM E NURA:
COL VELO, SERENE E FELICI

Arcevia delle Marche, fine agosto 1998, campeggio estivo dell’«Unione delle comunità e delle organizzazioni islamiche in Italia» (UCOII). Tra le tante donne presenti spiccano alcune italiane convertite all’islam, mogli di musulmani maghrebini o egiziani. Concordi nell’esprimere una totale e «non condizionata» libertà nella scelta religiosa da loro compiuta, hanno anche evidenziato un’adesione a princìpi religiosi e sociali islamici che ben oltrepassano l’ortodossia per sconfinare, come per molte altre persone ivi presenti, in un integralismo di vedute e di prospettive. Non a caso, infatti, tra i testi di lettura proposti dagli stand comparivano saggi di Sayd Qutub, l’ideologo dei Fratelli Musulmani.
Dal rumoroso gruppo di signore sedute in circolo si fa avanti un’italiana, Maryam, giovanissima e timida moglie di un ragazzo tunisino, coinvolta dall’amica Nura a spiegare la sua conversione all’islam e di indossare lo hijab. Tuttavia quest’ultima, toscana ventinovenne, è più sicura di sé e più decisa a prendere la parola al posto dell’altra: «Molti ci domandano se siamo state costrette a convertirci sposando i nostri uomini. Ma come avremmo potuto fare una scelta tanto importante, senza essee sinceramente convinte? Per quanto mi riguarda, già da tempo ero alla ricerca di un ideale morale, spirituale. Il cristianesimo non dava alcuna risposta ai miei dubbi: così, quando ho conosciuto mio marito e la sua religione, è stato come trovare la soluzione alla mia ricerca, quella strada che avevo inseguito per anni».
E lo hijab, il velo che ora indossa? «Io non do molta importanza all’abbigliamento: mi sono avvicinata all’islam a partire da Dio ed è per rispettare le sue regole che metto il velo. Nessuno mi ha costretta a farlo».
Cos’ha significato l’islam nella sua storia personale? «Aver trovato certezze, forza interiore, un senso nella mia esistenza. Ho sconfitto paure che mi trascinavo dietro da anni, come quella della morte. Grazie alla fede in Dio e alla speranza del paradiso, le ho superate e riesco ad affrontare la vita quotidiana, i problemi che ne derivano, le difficoltà, con più sicurezza. Mi sento serena. Felice».

PER SCELTA
O PER AMORE?

Le motivazioni alla base delle conversioni femminili sono molteplici e ben s’adattano alle tendenze caratteriali e psicologiche di ognuna, al loro background culturale e familiare, alle loro aspettative sociali e interiori.
Fra le intervistate, molte hanno abbracciato l’islam a seguito di matrimoni con uomini musulmani, anche se ciò non rappresenta un obbligo della shari‘a. Si tratta spesso di scelte che, almeno inizialmente, scaturiscono da coinvolgimenti sentimentali ed emotivi, per poi radicarsi più profondamente nella loro vita. Scelte che coronano un desiderio di rivestire un ruolo sociale e personale preciso, di essere accettate completamente dal partner e dal suo ambiente. Di essere amate, insomma.
Spesso, ma non sempre, sono donne semplici, di media cultura, prive di personalità forti e di solide identità; alcune hanno alle spalle trascorsi familiari dolorosi, separazioni dei genitori, padri autoritari, fallimenti matrimoniali… Donne insicure e con una precedente scarsa valorizzazione di sé, hanno ottenuto nell’islam certezze e forza, ammirazione all’interno della comunità e rispetto.
Per alcune, invece, seguire questa via ha significato, al di là delle spiegazioni psicologiche e sociali, «ritrovare» radici lontane, le proprie, da portare alla luce realizzando, in questa esistenza, un «percorso» già inscritto profondamente nella loro storia personale: una sorta di destino o di «karma». E, quindi, il raggiungimento di una dimensione di pienezza spirituale, di superamento di ansie e paure (non ultima quella della morte) e la graduale scomparsa di una sensazione di vuoto e insignificanza esistenziale.
Queste donne si sono dimostrate sicure, volitive, con idee chiare in mente, fortemente motivate nella loro scelta. Persone a cui la religione, anziché limitare gli orizzonti ha spalancato le porte della vita stessa.

BOX 1

L’ISLAM ITALIANO

Si calcola che, in Italia, circa 50 mila (ma la cifra è probabilmente sovrastimata) nostri connazionali abbiano abbracciato la religione islamica. Attraverso la formalizzazione della shahada, la professione di fede islamica, nei circa 250 luoghi di culto presenti sul territorio vengono registrate diverse migliaia di conversioni ogni anno, prevalentemente di uomini.
Ma chi sono le persone che, ad un certo punto della loro vita, si convertono all’islam? In che realtà vanno a inserirsi? Proviamo a scoprirlo.

Questo lavoro sull’islam in Italia si articolerà in quattro puntate: 1) le donne convertite (islam sunnita ortodosso); 2) gli uomini (islam sunnita ortodosso); 3) le comunità islamiche in Italia e l’intesa con lo stato (il «concordato»); 4) sciiti, sufi, baha’i.
Angela Lano

BOX 2

Glossario

LEGGE E PRECETTI

Fatwa: sentenza giuridica, parere autorevole fondato sulla legge coranica ed emesso da un muftî (giudice).

Hadith (plurale: ahadith): i detti e i fatti del profeta, raccolti da vari autori, il cui insieme forma la sunnah.

Hajj: pellegrinaggio. Costituisce uno dei 5 pilastri (arkan) dell’islam: è dovere di ogni musulmano recarsi in pellegrinaggio alla Mecca almeno una volta nel corso della propria vita.

Sufi: da sufi, lana: mistica islamica.

Shahada: da shahida, essere testimone, dare testimonianza: formula dottrinale musulmana, per mezzo della quale si attesta che «non vi è altro dio se non Iddio e che Muhammad è il suo inviato».

Shari‘a: la legge sacra islamica, che deriva dal corano, dalla sunnah (la tradizione basata sull’esempio del profeta), dalla ijma’ (il consenso dei dotti, gli ‘ulama’ o i fuqaha’) e dal principio analogico, che comprende i precetti religiosi inerenti ogni aspetto della vita del credente (norme relative al culto, leggi politico-sociali e giuridiche). Il fiqh è la scienza della shari‘a.

PERSONE

Imam: guida del culto islamico (attenzione: non corrisponde affatto al prete o al vescovo cattolico).
Muezzin: colui che invita alla preghiera.

Mujahid (m.), mujahidah (f.): da jihad, sforzo, lotta, guerra santa: colui o colei che si sforzano, o che lottano, anche con le armi, sulla via di Dio e contro gli infedeli.

Shaikh: uomo vecchio e degno di rispetto, capo, patriarca, titolo usato per tutti i regnanti dell’area del Golfo Persico, membro di un ordine religioso, maestro di una confrateita sufi.

ABBIGLIAMENTO

‘Abaya: manto nero che nasconde interamente il corpo femminile.

Burqu‘a: lungo velo nero femminile che lascia scoperti solo gli occhi.

Hijab: velo femminile islamico.

Jallabiyya: lungo abito unisex usato in vari paesi arabi.

Neqab: velo (di solito, nero) che copre completamente il volto della donna.

Angela Lano




ISLAM – “Incontri” di civiltà

In tempo di tensioni e diffidenze tra mondo islamico e Occidente,
è bene ricordare i contributi della cultura araba dei secoli migliori al nostro sviluppo culturale e scientifico, per scongiurare un paventato «scontro di civiltà».

Chi non ha mai sentito parlare degli hammam, i bagni turchi dove passare qualche ora prendendosi cura del proprio corpo? Chi non si è mai tinto i capelli con la henna, un colorante naturale, o non ha mai acquistato prodotti di bellezza e profumi dalle fragranze orientali? O cucinato usando spezie, o arredato la propria casa con qualche pezzo di artigianato orientale? Chi non usa, qualche volta, durante le conversazioni con gli amici, termini come ramadan, imam, hijab, salam, shari‘a, jihad?
Ebbene, questo e altro ancora, ormai parte integrante della nostra quotidianità, si chiama «contaminazione o prestito culturale» e ci arriva dal mondo arabo-islamico. Proprio da quella realtà composita e vasta che, in questo periodo storico, a causa della manipolazione dei media e degli pseudo-esperti da salotto tv, incute paura a molti.
Eppure, nonostante gli sforzi di tanti «seminatori di discordia» e di sfrontata ignoranza, questo mondo continua a incuriosirci. Nelle librerie dominano i saggi sull’islam e sui paesi arabi, mentre nelle scuole molti insegnanti e studenti richiedono corsi di approfondimento sulla civiltà arabo-islamica.
L’attenzione è forte e a vari livelli. Ma forse sono proprio gli avvenimenti inteazionali degli ultimi anni (attacco alle Twin Towers, guerre in Afghanistan e Iraq) ad accendere curiosità e interessi su tematiche che spaziano dalle tradizioni popolari a quelle letterarie e filosofiche.
L’Europa non è nuova alle «mode islamiche». Molte delle nostre abitudini consolidate da generazioni (colori preferiti per abiti estivi o invernali, pratiche igieniche e bellezza come taglio corto dei capelli per l’uomo e depilazione per la donna), dei nostri cibi, delle discipline che studiamo (chimica, matematica, algebra, filosofia greca, medicina, botanica, agronomia, astronomia…), sono giunte a noi dal medioevo attraverso la colta e raffinata civiltà arabo-islamica.
«La contrapposizione tra mondo islamico e Occidente – spiega Michele Vallaro, docente di Lingua e letteratura araba presso l’Università di Torino – è storia recente, non antica: il vero scontro era tra gli imperi, non tra i popoli. E oggi, questi ultimi sono accomunati da un passato di prestiti culturali, linguistici, scientifici e di usanze. Le abitudini quotidiane dell’Europa dall’viii secolo in poi, per esempio, furono completamente rivoluzionate da un eclettico artista iracheno, trasferitosi nella Spagna musulmana: Ziryab. Egli infatti introdusse l’uso della forchetta, l’ordine delle portate a tavola, creò mode nell’abbigliamento che si diffusero rapidamente divenendo patrimonio di tanti paesi».
L’occupazione araba della Spagna, durata 8 secoli, ha lasciato una grande eredità scientifica e culturale. Taluni storici considerano la Spagna islamica come il più importante centro culturale del mondo di quei tempi. L’attività intellettuale è il tratto dominante dell’élite andalusa: musica, poesia, giochi di spirito, amore per le scienze, per i libri e la pratica religiosa, avevano molto spazio.
Dai colti e raffinati arabi dell’Andalusia medioevale giungevano in Europa mode, innovazioni tecnologiche e scientifiche, opere letterarie. Anche gli studi filosofici hanno beneficiato dell’apporto islamico: i commentari in lingua araba di Averroè (Ibn Rushd) alle opere di Aristotele furono tradotti in latino e in ebraico ed esercitarono un grande influsso sul pensiero cristiano nell’Europa medioevale. Le «influenze arabe» nella Divina Commedia di Dante Alighieri sono oggi ampiamente riconosciute.
L’introduzione delle cifre arabe (notazione posizionale) e la risoluzione delle equazioni di 3° grado, si devono ai viaggi che Leonardo Fibonacci da Pisa, vissuto nel xii secolo, fece nel mondo arabo.
Agli arabi si devono anche importanti innovazioni in materia urbanistica, come la creazione del sistema fognario, bagni pubblici, costruzione di vie di comunicazione; l’introduzione della «noria» in agricoltura permise una miglior irrigazione dei campi e la coltivazione di piante come l’albicocco, melanzana, carciofo, asparago, riso, canna da zucchero, fino ad allora sconosciute.
La stessa lingua araba, nel medioevo, era considerata lo strumento della comunicazione scientifica internazionale. Essa era sinonimo di raffinatezza ed erudizione, e veniva utilizzata sia dai musulmani che dai cristiani ed ebrei che vivevano in paesi sotto dominio islamico.
Quanto alle moschee erano luoghi frequentati non solo per pregare, ma anche per riunioni e attività educative e culturali.
Vediamo alcuni ambiti specifici.

Filosofia
Durante il periodo della conquista araba in Spagna furono tradotti in arabo, per la prima volta, le opere dei filosofi greci: a seguito di questo grande lavoro si sviluppò un notevole interesse per la filosofia, nonostante l’avversione delle autorità religiose islamiche.
Tra le figure di spicco del mondo della cultura, Ibn Rushd, passato alla storia occidentale con il nome di Averroè, medico e filosofo arabo nella Cordova del xii secolo (1126-1198), esercitò un’enorme influenza sia sul pensiero cristiano e filosofico dell’Europa medievale sia su quello islamico, grazie alle traduzioni delle opere di Aristotele, a loro volta tradotte in latino e in ebraico.
La storia di Averroè è stata narrata nel film Il destino, del regista Youssef Chahine, premiata al Festival di Cannes nel 1997.
«Come aveva fatto per le altre discipline, anche in campo filosofico la civiltà islamica si era impegnata in una grandiosa opera di recupero: il crollo dell’impero romano aveva lasciato sussistere ben poco del pensiero classico e l’Occidente del primo medioevo conosceva appena i nomi dei grandi filosofi greci. In Oriente, al contrario, il movimento di traduzione dal greco all’arabo (per lo più per intermediario del siriaco) aveva salvaguardato un ingente patrimonio intellettuale, che era andato ad arricchire la cultura araba e a foirle un ulteriore motivo di attrazione su quella europea.
In questo campo, tuttavia, a differenza di quanto era avvenuto per la cultura materiale o le varie scienze, i rapporti tra islam e Occidente dovevano creare molti problemi e difficoltà: il pensiero filosofico, infatti, era difficilmente separabile nel medioevo da quello religioso.
Tuttavia, se si vuole combattere un avversario, lo si deve, per quanto poco, conoscere; nasce così l’esigenza di studiare e approfondire le idee altrui: in questo modo, quasi inavvertitamente all’inizio, l’Europa incomincia poco a poco a rendersi conto di quanto possa ricavare dal pensiero musulmano. Il patrimonio più propriamente e originariamente islamico viene pur sempre rifiutato, è vero, ma non si deve ignorare ciò che in questo patrimonio è rappresentato dalla cultura greca rielaborata dai musulmani»1.
In questo modo si scoprono le figure degli studiosi e commentatori di quella filosofia: al-Kindi, al-Farabi, al-Ghazali, ibn Sina (Avicenna) e Ibn Rushd (Averroè). Gli ultimi due saranno collocati da Dante Alighieri tra gli «spiriti magni» del Limbo nella sua Commedia.

Scienze
In campo scientifico e tecnologico innumerevoli furono le innovazioni introdotte dagli studiosi arabi: matematica, astronomia, astrologia, medicina, agronomia, botanica e chimica furono oggetto di importanti «rivoluzioni». I testi prodotti influenzarono a lungo l’Europa, e giunsero a grandi come Copeico e Galileo.
Harun al-Rashid, califfo della dinastia degli abbasidi (786-813), si dedicò a portare la cultura nella sua corte e nelle città dell’impero arabo-islamico, che si estendeva dal Mediterraneo all’India. La sua opera fu poi proseguita dal figlio al-Mamun, che a Baghdad fondò un’accademia chiamata Bayt al-Hikma (Casa della saggezza), dove venivano tradotte le opere filosofiche e scientifiche greche e studiate materie come algebra, geometria e astronomia. Inoltre, a lui si deve la costruzione della prima grande biblioteca dopo quella dei tempi di Alessandria.
In questa stimolante e dotta epoca visse il grande matematico al-Khwarizmi, che fu tra gli studiosi della Casa della saggezza. Dal titolo del suo più importante e famoso lavoro, Hisab al-jabr w’al-muqabala, ci è giunta la parola «algebra»: fu il primo libro sull’argomento e venne tradotto tre secoli dopo, facendo conoscere all’Occidente la numerazione araba e lo zero. Da al-Khwarizmi deriva l’italiano «algoritmo».
Tra le altre figure di spicco ricordiamo ‘Abd al-Wafah (997), che sviluppò la trigonometria, la geometria della sfera e scoprì le variazioni del moto lunare; Omar Khayyam (1123), grande matematico (risolse le equazioni di 3° e 4° grado) e rinomato poeta; al-Battani, che quantificò la durata dell’anno solare e misurò la circonferenza della terra.
E ancora: Ibn al-Haytham (1039), pioniere dell’ottica: il suo Thesaurus opticus fu copiato da Ruggero Bacone, Leonardo da Vinci, Keplero e tanti altri; Gabir ibn Hayyan (813), figura di passaggio tra l’alchimia e la chimica; Abu Bakr al-Razi (935) classificò le sostanze chimiche nelle categorie minerali, animali e vegetali; al-Maghriti (1007) dimostrò il «principio di conservazione chimica della massa», di cui Lavoisier, molti secoli dopo, se ne aggiudicò il merito.
Il contributo scientifico dei musulmani si estese anche in campo botanico, zoologico, storico, archeologico, geografico, astronomico, artistico, architettonico, calligrafico, musicale, urbanistico, delle scienze naturali e sociali.

Biblioteche e amore per i libri
Dai cinesi i musulmani appresero la tecnica della fabbricazione della carta; poi la trasformarono in industria. Già nell’800 essa era molto diffusa nella comunicazione scritta e veniva utilizzata dai bottegai per avvolgere gli alimenti.
I libri venivano trascritti dai «copiatori» o warraqin: le loro edicole ante litteram erano sparse qua e là nelle città. Per ciò che concee le librerie, a fine 800 Baghdad ne aveva oltre 100: le principali erano veri e propri centri culturali, frequentati dalle élite colte dell’epoca!
Quanto a biblioteche ne sorgevano tante: nel 1200, sempre a Baghdad, ce n’erano 36 pubbliche e altre private. Al Cairo, la Khinzana al-Kutub vantava oltre 1 milione e 600 mila manoscritti, quella di Cordova 40 mila, mentre la vaticana ne racchiudeva un migliaio. Insieme ai libri e biblioteche troviamo sistemi di classificazione e consultazione, enciclopedie, glossari, ecc.
A chi obietta che tutto ciò era patrimonio di una minoranza di ricchi intellettuali, ricordiamo che scuole e università erano invece molto diffuse. L’università al-Azhar del Cairo venne fondata nel 970: è la più vecchia del mondo.

Medicina
Con i musulmani la medicina raggiunse alti livelli e gli ospedali furono una realtà diffusa ovunque e accessibile a tutte le classi sociali. Il primo, destinato ai lebbrosi, venne edificato a Damasco nel 707: le «fatture» venivano pagate dal califfo. In seguito Baghdad arrivò a vantare una sessantina di nosocomi.
Tra i più grandi medici arabi ricordiamo ar-Razi (925), che istituì la specializzazione dell’ostetricia e diede la prima descrizione scientifica di vaiolo e morbillo; al-Zahrah (939), che compilò un trattato di chirurgia, divenuto famoso, in cui spiegava come effettuare varie operazioni e descriveva numerosi strumenti chirurgici. Egli si occupò anche di odontorniatria e di «estetica odontorniatrica», correggendo irregolarità dentali.
Ibn Sina (Avicenna 980-1037) è conosciuto in tutto il mondo grazie alle sue opere scientifiche: il Qanun fi at-Tibb (Canone di medicina) è il testo più noto e utilizzato fino al xvi secolo: sono illustrati 760 rimedi medico-farmacologici. Venne tradotto in latino da Gherardo da Cremona nel xii secolo e rappresentò per secoli la maggiore guida medica.
Ibn Nafis (1288) ebbe il merito di definire con precisione il meccanismo della circolazione sanguigna, ma nei manuali di medicina tale scoperta venne attribuita, nel 1628, all’inglese Harvey.
Agli arabi si deve, inoltre, la costruzione dei primi ospedali psichiatrici: quello del Cairo risale all’872. Anche in campo farmaceutico erano molto preparati. Inoltre, i sufi, i mistici dell’islam, erano molto ferrati nelle cure psichiatriche e psicologiche e si avvalevano di metodi «modei».

Vita quotidiana
La vita quotidiana del bacino mediterraneo fu rivoluzionata da innovazioni e sperimentazioni in moltissimi ambiti. La società urbana fu strutturata in modo da rendere la vita di tutti i giorni più confortevole: nelle città gli arabo-islamici crearono il sistema fognario, migliorarono le condizioni igieniche, edificando bagni pubblici e hammam, questi ultimi oggi di nuovo molto noti nelle nostre città. Svilupparono le vie di comunicazione, grazie a grandi strade commerciali.
In tema di rapporti sociali, l’etichetta era molto apprezzata: a tavola si mangiava con le posate, introdotte dalla Spagna musulmana, e il cibo era tagliato a piccoli pezzi; aglio e cipolla non erano molto apprezzati, perché producevano odori sgradevoli e imbarazzanti; era considerato riprovevole portare le dita alla bocca per eliminare i residui di alimenti presenti nei denti.
La pulizia personale era molto accurata: ci si lavava quotidianamente facendo largo uso di profumi; gli uomini si radevano e le donne si depilavano. L’abbigliamento era ricercato e all’«ultima moda».

L’eclettico Ziryab
Un personaggio in particolare merita attenzione in fatto di novità: ‘Abul Hasan Ali ibn Nafi, popolarmente noto come Ziryab. Musicista, cantante, poeta, di origini irachene, ma residente in Spagna, fondò una scuola di musica, innovando l’arte musicale dell’epoca, inventò il liuto a 5 corde; introdusse l’uso del dentifricio, deodoranti per le ascelle, nuovi look per i capelli e la rasatura per gli uomini; diede vita a una sorta di istituti di bellezza, dove s’imparava l’arte dell’acconciatura, dell’estetica e della moda stagionale.
Ebbe un ruolo determinante anche nella diffusione tra gli andalusi del consumo di vino, che, a causa del grande successo popolare, venne dichiarato «lecito», nonostante la proibizione del Corano.
Nell’Andalusia musulmana come nella Sicilia fatimide, le abitudini arabo-islamiche si diffusero rapidamente. Vennero erette moschee, i cui minareti, successivamente, forse influenzarono architettonicamente i nostri campanili.
Quanto alle abitazioni, esse venivano costruite con criteri arabeggianti: ampi spazi, prevalente utilizzo del colore bianco, cortili e porticati interni dalle pareti rivestite di azulejos (piastrelle colorate di azzurro), abbelliti con fontane e piante.

«Nel 1919 un sacerdote spagnolo, Miguel Asín-Palacios, dotto islamista e docente all’Università di Madrid, pubblicò i risultati di una sua lunga ricerca: La escatologia musulmana en la Divina Comedia. In sintesi, lavorando su testi arabi fino ad allora quasi sconosciuti in Occidente, Asín-Palacios rilevò la somiglianza tra numerosi elementi simbolici presenti nella Commedia dantesca e certi racconti arabi sull’aldilà, in particolare quello del miraj, l’ascensione al cielo di Maometto. Arrivò addirittura ad affermare che lo spirito stesso della Commedia è di ispirazione musulmana»2.
«Nella tradizione culturale dei paesi islamici era particolarmente diffuso, in varie versioni, il Kitab al-Mi’rag, racconto del viaggio ultraterreno del profeta; diffusione testimoniata dalle numerose miniature persiane e turche su tale viaggio. Solo nel 1949 lo studioso italiano Enrico Cerulli pubblicava nella Biblioteca Apostolica Vaticana per la prima volta l’edizione nei testi francesi e latino del Libro della scala di Maometto, che alla corte del re Alfonso x il Savio fu dapprima tradotto in castigliano dal medico ebreo Abraham e in seguito ritradotto in francese e latino dal notaio senese Bonaventura (maggio del 1264). A Firenze la traduzione di Bonaventura giunse forse tramite Brunetto Latini, che era stato per un certo periodo ambasciatore alla corte di Alfonso x. Pare infatti che, recentemente, sia stato scoperto che il titolo si trovi menzionato in una lista di libri formanti la sua biblioteca.
La traduzione dal latino in italiano del Liber scalae Machomethi avvenne solo molto più tardi, alla fine del xx secolo, essendo sorto da noi un interesse alla cultura islamica, interesse suscitato dagli immigrati provenienti dai paesi di cultura e religione islamica»3.

note
1 – Da: Maometto in Europa, Ed. Mondadori 1982
2 – Da: www.airesis.net/IlGiardinoDeiMagi/Giardino% 201/
GiordanoBerti1.htm
3- Da: www.dismec.unige.it/testi/cosmo/poeta.htm
4 – Da: www.arab.it

Bibliografia
G. B. Pellegrini, Gli arabismi nelle lingue neolatine, Paideia 1972
Maometto in Europa, Mondadori 1982
Europa islamica, Ist. geografico De Agostini, Cde 1991-2000
Il libro della Scala di Maometto, Se 1991
Avicenna, Il poema della Medicina, S. Zamorani editore 1996
Stefano Allievi, Islam italiano, Einaudi 2003

BOX 1

Scontro di civiltà
Intervista a Paolo Branca, docente di lingua araba alla cattolica di milano


Angela Lano




SIRIA – Il monastero di san Mosè

IL DESERTO STA FIORENDO

Nel deserto siriano, un prete italiano ha rivitalizzato un antico monastero e raccolto attorno a sé una comunità che si propone, oltre alla preghiera e contemplazione, il dialogo tra culture e religioni, per far fiorire la pace in Medio Oriente.

Conobbi il Monastero di San Mosè l’abissino (Deir Mar Musa el-Habashi) nel 2000. Mi trovavo a Damasco. Raife, la signora presso cui vivevo, mi parlava sempre di un padre italiano, padre Paolo, che da qualche anno viveva in un antico monastero nel deserto, a una ottantina di chilometri da Damasco, nei pressi di Nebek a circa 1.400 metri di altezza.
Presi un autobus per Nebek; dove avrei potuto trovare un passaggio da qualche contadino che mi avrebbe accompagnata in prossimità del monastero. Non fu difficile trovare qualcuno che mi aiutasse, tutti conoscevano Deir Mar Musa, tutti conoscevano padre Paolo. Mi unii a due abitanti del luogo, anch’essi diretti al monastero.
Il ragazzo che ci aveva fatto salire sul suo motocarro ci accompagnò fino all’ultimo punto raggiungibile con mezzi di trasporto. Da lì avremmo dovuto continuare a piedi, perché l’unica via che portava direttamente al monastero era uno stretto sentirnero in salita tra le rocce. Il ragazzo ci disse di fare attenzione alle indicazioni che avremmo trovato, di non sbagliare sentirnero perché era quasi notte e poteva essere facile per noi perdere la strada.
Dopo 40 minuti di cammino, intravedemmo tra le rocce il lato posteriore di Deir Mar Musa. Entrammo attraverso una piccolissima porta di ferro, alta poco più di mezzo metro; questo era l’unico ingresso.
Ci venne incontro padre Paolo, che ci invitò a dividere con lui e alcuni compagni un piatto di patate e pomodori. Ci fece strada e ci condusse su un’enorme terrazza affacciata sulla valle.
A tutti gli ospiti e pellegrini che arrivavano al monastero non veniva chiesto niente a livello economico, solo di condividere tutto con la comunità, non solo il cibo e le stanze per dormire, ma anche partecipare attivamente alla vita quotidiana, aiutandoli nella cucina, nei lavori di pulizia, nell’organizzazione dei pasti e anche in lavori di costruzione e manutenzione dentro e fuori il monastero.

Ci sedemmo attorno alla tavola e padre Paolo iniziò a raccontare alcuni episodi della sua vita e del motivo per cui si trovava nel cuore del deserto siriano, a 1.400 metri di altezza.
Disse che è originario di Roma. Fu allievo dei gesuiti; dal 1977 è in Medio Oriente per servire l’impegno della chiesa nel mondo islamico. Nel 1982 arrivò alle rovine di Deir Mar Musa e se ne innamorò. Qui trovò la possibilità di realizzare i suoi sogni e desideri, quelli mistici, ma anche comunitari, culturali e politici.
Con l’aiuto di volontari del luogo e persone di passaggio iniziò i lavori di restauro del monastero e il recupero di oggetti e libri sparsi tra le macerie. Piano piano arrivarono altre persone, uomini e donne provenienti da diverse chiese e paesi. Nel 1991 nacque una comunità.
Raccontò che, fin dal tempo di Maometto, il monastero svolgeva una funzione socio-spirituale, nota, apprezzata e rispettata nel mondo musulmano. Costituiva un testimone della vita spirituale della regione. Diceva che, con l’impegno e lavoro suo e dei suoi compagni, voleva recuperare tale funzione e riproporla nel mondo attuale.
Deir Mar Musa si affaccia su una valle tra le montagne a oriente di Nebek. Quest’area era inizialmente abitata da cacciatori di gazzelle, pastori di capre e briganti. Era una zona ideale per il pascolo delle capre. Forse i romani avevano costruito inizialmente una torre di guardia.
In seguito i cristiani eremiti usarono le grotte naturali formatesi nella montagna come luoghi per la meditazione. Si creò quindi il primo centro monastico.
Sulla base della tradizione locale, San Mosè era il figlio del re dell’Etiopia. Rifiutò di accettare la corona, gli onori e un matrimonio, per dedicarsi alla ricerca di Dio. Iniziò a viaggiare in Egitto e in terra santa. Visse come un monaco a Qara, un villaggio siriano, e poi come un eremita tra queste montagne. Morì martirizzato dai soldati bizantini.
Con l’ausilio di studi storico-archeologici sappiamo, spiegava padre Paolo, che il monastero esisteva dalla metà del vi secolo, apparteneva al rito siriaco di Antiochia. Dalla traduzione delle iscrizioni arabe che si possono leggere sui muri, il monastero sarebbe stato costruito nel 450 dell’epoca islamica (1058 d.C.). Nel xv secolo è stato parzialmente ricostruito e allargato; ma dalla prima metà del xix secolo è stato completamente abbandonato. Lentamente cadde in rovina. Tuttavia rimase nella proprietà della diocesi siriana cattolica di Homs, Hama e Nebek. Gli abitanti di Nebek hanno sempre continuato a visitare il monastero con devozione e la parrocchia locale lottò per conservarlo.
Nel 1984 iniziarono i lavori di restauro, grazie a una comune iniziativa dello stato siriano, chiesa locale e un gruppo di volontari arabi e europei. Il restauro è stato completato nel 1994 grazie alla cooperazione tra gli stati italiano e siriano.

Il suono di una campanella ci informò che stava per iniziare, come ogni sera, l’ora del silenzio. Un’ora da dedicare interamente alla preghiera e riflessione. Improvvisamente ogni conversazione e ogni attività furono interrotte.
Terminato il silenzio, all’interno della chiesa padre Paolo iniziò a recitare i vespri secondo il rito siro-cattolico. Eravamo seduti attorno a lui, sopra dei grandi tappeti, con in mano una candela, perché il generatore di corrente non sempre riusciva a fornire energia sufficiente a illuminare tutte le stanze.
Dopo i vespri iniziò la messa.Terminata la lettura del vangelo, completamente in arabo, chi voleva poteva esprimere un suo giudizio, un suo pensiero, una sua riflessione sui brani letti. Poi nel momento della comunione, vennero fatti passare una ciotola con vino e una pagnotta di pane, con cui ognuno poteva condividere con gli altri il corpo e il sangue di Cristo.
Terminata la funzione padre Paolo mi indicò gli alloggi riservati alle donne, mentre gli uomini dormivano in stanze ricavate nella roccia fuori del monastero.

Il giorno seguente Elena, una ricercatrice in studi islamici, che avevo incontrato all’università di lingue orientali a Venezia e che per caso trovai lì, mi portò a fare un giro dell’edificio. Mi disse che, come padre Paolo, anch’essa era arrivata a Deir Mar Musa e se ne era innamorata. Aveva deciso di rimanere per aiutare, soprattutto nella riorganizzazione della biblioteca.
Mi accompagnò all’interno della chiesa dove, con la luce del sole, era più facile poter ammirare il ciclo di affreschi. Essi vengono fatti risalire al secolo xi-xii e rappresentano l’unico ciclo completo di affreschi sul giudizio universale scoperto in Siria.
La chiesa era stata costruita nel 1058. Lo spazio, circa 10×10 metri, era suddiviso in due parti: la più grande è a una navata centrale, illuminata da due piccole finestre; la seconda è il santuario con l’altare e l’abside. La piccola chiesa si affaccia sulla terrazza ed è situata nel cuore della costruzione.
Nelle altre zone si trovano la cucina, le stanze per dormire, un piccolo museo e una biblioteca, nati grazie al recupero di oggetti vari e libri.
Attraverso uno stretto passaggio, dove erano custodite delle enormi anfore di terracotta per conservare l’acqua, mi condusse fuori dal monastero dove stavano iniziando la costruzione di alloggi per i monaci e per gli ospiti. Al momento venivano utilizzate principalmente le grotte che servivano anche come stalle per il riparo degli animali. Ma la comunità si stava piano piano allargando, per questo risultavano necessarie nuove costruzioni.
Il materiale veniva portato dal paese con l’aiuto di muli e una piccola carrucola. Elena mi disse che moltissime persone del paese offrivano il loro aiuto, sia nel trasporto del materiale che nella costruzione degli edifici. Molto importante per loro era l’acqua. Stavano iniziando gli scavi di un pozzo, con il quale avrebbero non solo coperto il fabbisogno giornaliero degli ospiti, ma anche potuto creare un orto e frutteto.
Le parole di Elena, la vita della comunità con i suoi progetti, idee e sogni, il monastero con quell’atmosfera di pace e serenità, ma soprattutto di calore umano che regnava, mi avevano affascinata. Capivo benissimo le persone arrivate fin quassù e poi non più ripartite.
Quasi ogni volta che too in Siria passo da Deir Mar Musa, ogni anno ci sono dei cambiamenti, degli sviluppi. Ora è arrivato internet, c’è il telefono, il computer, anche se spesso le linee non funzionano.

La comunità che negli anni si è formata a Deir Mar Musa è una comunità di silenzio e preghiera. Attraverso la riscoperta dell’attività manuale e del valore del corpo e delle cose, vuole elaborare una vita di semplicità evangelica, in armonia con il creato e la società circostante.
L’ospitalità sta alla base di questa concezione di vita, punto di partenza anche per gli antichi monaci che popolavano questa zona. Il monastero è inteso come luogo di incontro, di approfondimento, di cultura, di comunione, dialogo e unità tra le chiese, senza perdere nulla della specificità siriaca e siro-cattolica del monastero stesso.
Vengono organizzati incontri interreligiosi a tema, cercando la mutua comprensione. La visita viene restituita andando a visitare moschee e centri islamici.
La relazione islamo-cristiana è l’obiettivo primario che cerca di raggiungere la comunità. Per questo viene utilizzata la lingua araba, non solo per la vita liturgica, ma anche per quella sociale, perché è lo strumento necessario per arrivare allo scopo prefisso.
Questo progetto, di approfondimento della collaborazione interculturale e interreligiosa, riceve aiuti dalla Comunità Europea, nell’ambito del programma per la diffusione della democrazia nel Mediterraneo, dalla Fondazione Remo Orseri di Roma e da altre associazioni.
A questo proposito, vengono organizzati seminari di studio e scambio di esperienze nel campo del discorso interculturale e interreligioso, sia sul piano locale che su quello internazionale. Attraverso gli scambi e i rapporti con altre realtà simili, favoriti dall’arrivo di internet, la comunità vuole partecipare alla creazione di una cultura condivisa, centrata sui valori della pace.
Sul piano sociale la comunità di Deir Mar Musa è impegnata nell’aiuto alle famiglie cristiane delle cittadine limitrofe. Il progetto di un dialogo interreligioso è infatti messo a rischio dalla continua migrazione di famiglie cristiane verso altri paesi, costrette a lasciare la Siria per motivi economici.
Un tempo il pluralismo culturale era molto importante in questa regione, era considerato un valore: un valore che la comunità di Deir Mar Musa vuole salvaguardare. Quindi il monastero aiuta, con il restauro di case tradizionali e con la costruzione di nuove, giovani famiglie della parrocchia, che non sarebbero in grado altrimenti di comprare o affittare una casa.
Su un piano puramente ambientale, la comunità ha avviato alcuni programmi di sviluppo agrario destinati alla pastorizia e alla coltivazione in luoghi desertici. Tale connessione di scopi ha favorito l’effettiva riconciliazione tra la comunità cristiana e musulmana per le quali il monastero è tornato a essere un simbolo di condivisione e riconciliazione.
La piccola biblioteca curata dai monaci, nata inizialmente dal recupero di testi trovati tra le rovine, si è negli anni sviluppata. L’intento è stato quello di raccogliere testi che potranno servire a operatori e formatori nel campo del dialogo. Essa non è esclusivamente specializzata sulle scienze religiose cristiane e musulmane, ma è anche foita di testi di antropologia, psicologia, sociologia e filosofia, discipline indispensabili per lo sviluppo del dialogo e la sua comprensione.
Un’attenzione particolare viene data agli studi di Louis Massignon (1883-1962). Questi fu uno dei precursori del dialogo tra cristiani e musulmani. Dedicò la sua vita al contatto spirituale tra il cristianesimo e l’islam. Le sue impegnate riflessioni e stile di vita sono fonte di costante ispirazione per la comunità.

Elisabetta Bondavalli