Seguire Cristo nell’islam

Mazhar Mallouhi: un musulmano discepolo e apostolo di Gesù Cristo

Scrittore ed editore arabo, Mazhar Mallouhi si definisce «musulmano sufi, seguace di Cristo»; con romanzi e teologia pratica cerca di colmare l’abisso di incomprensione tra islam e cristianesimo: partendo dalle radici mediorientali comuni alle due religioni, egli presenta Cristo senza i paludamenti religiosi e culturali occidentali con cui è associato nella mente dei musulmani.

È nato in Siria nel 1935, da una famiglia musulmana sunnita, orgogliosa della propria eredità religiosa: secondo l’albero genealogico appeso al muro, discende dal profeta Maometto. Una famiglia che ha prodotto vari chierici musulmani, attivisti politici comunisti, un folto numero di scrittori rinomati, tra i quali uno zio che ha tradotto in arabo tutte le opere del «Grande Capo» Mao Zedong… e un discepolo di Cristo: Mazhar Mallouhi, scrittore famoso anche lui.

VEDERE CRISTO
CON GLI OCCHI DI GANDHI

Avido lettore fin dall’infanzia, Mallouhi passava molto tempo da solo con i libri. Adolescente, cominciò a sentire problemi di religione, ma fu duramente scoraggiato a fare domande, poiché secondo l’islam è blasfemo porre Dio in questione. «Quando leggevo il Corano – racconta – mi raffiguravo Dio lassù in cielo, che fumava la sua pipa ad acqua. Mi aveva dato il suo libro, ma non era coinvolto nella mia vita quotidiana o nelle sofferenze umane qui in basso».
L’inquietudine spirituale portò Mallouhi a studiare le religioni orientali e poi le credenze religiose degli antichi greci e romani. La sua ricerca lo indusse a concludere che «Dio» fosse un’invenzione umana, per tacitare la coscienza dall’inferno creato dagli uomini sulla terra. Inoltre, notò che in tutte le religioni i capi predicavano cose che essi stessi non riuscivano a vivere e cercavano qualcosa senza mai riuscire a sperimentarla. E quando la famiglia gli propose di entrare a fare parte del clero islamico si rifiutò.
Benché i musulmani abbiano grande rispetto per Cristo, Mallouhi non studiò il cristianesimo: lo vedeva come uno strumento di oppressione dei colonialisti, una religione occidentale che continuava le sue crociate medioevali contro la popolazione araba. Paesi occidentali «cristiani» sostenevano a occhi chiusi le ingiustizie dello stato d’Israele contro il popolo palestinese. Notava inoltre che i cristiani chiamavano Cristo «Principe di pace», ma poi appoggiavano e facevano guerre. E diceva: «La parte più bella del vangelo, la croce, è diventata un’arma contro di noi in mano ai crociati: la croce, dove Dio aveva abbracciato l’umanità, era diventata una spada».
Durante gli anni ‘50, Mallouhi, come molti intellettuali moderati siriani, aderì a un partito politico popolare laico; cominciò a scrivere per giornali e pubblicare poesie. Iniziò pure a leggere le opere di Gandhi e fu conquistato dal suo movimento non violento e dalla sua grande devozione per Cristo come incarnazione della compassione, l’autore del Discorso della montagna. Visto con gli occhi di Gandhi, Cristo gli appariva differente da quello che aveva fino ad allora immaginato. 
«Rimasi affascinato – scrive Mallouhi – nel vedere come Gandhi avesse fatto propri i principi cristiani senza Cristo, come avesse lottato e vinto la sua battaglia contro una nazione cristiana (l’Inghilterra) senza principi cristiani». Confrontando la vita vissuta da entrambi, vita esemplare e di auto-sacrificio, dirà: «Gandhi mi ha spiegato nel modo più drammatico l’insegnamento di Cristo».
Mentre prestava il servizio militare  sulle contese Alture del Golan, Mallouhi decise di studiare la Bibbia. L’inquietudine spirituale cresceva e diventò così forte da ventilare l’idea di suicidarsi. Poi, dopo aver speso un anno a leggere le scritture, concluse che Cristo non era come gli altri leaders religiosi; sia in Gandhi che in Cristo l’insegnamento combaciava con la vita.
Benché non avesse avuto alcun contatto con una chiesa o qualsiasi altra forma di cristianesimo, Mallouhi fu attratto dalle parole di Cristo: «Venite a me voi tutti che siete affaticati e oppressi e io vi darò riposo». Il cuore gli scoppiò nel petto e gridò: «Questo Cristo è il mio Signore! Dammi questa nuova vita che prometti».
Aveva 24 anni. Mallouhi ricevette non solo nuova vita, ma il mondo intero gli cominciò a rivivere: invece di odiare la gente, ora non cercava altro che stare in compagnia.

Nuove direzioni

Da parte della sua famiglia, però, Mallouhi sperimentò immediatamente il rifiuto; uno zio tentò di sgozzarlo in pubblico, come testimonia la cicatrice al collo. Poco dopo, diventato membro attivo di un partito politico, stava per essere arrestato, ma se ne andò in esilio.
Mallouhi perseverò nella sua nuova fede: condividere con gli altri la ricchezza di Cristo era diventato il suo supremo desiderio. E cominciò a scrivere romanzi in arabo con temi spirituali, sul modello di Tolstoj e Dostojevski. La letteratura è per lui la via più naturale e uno dei metodi più efficaci per il mondo arabo, dove i racconti esercitano un fascino potente nella tradizione orientale.
Egli ha già scritto oltre una ventina di libri, che sono letti in tutto il Medio Oriente. ll suo primo romanzo, Il viaggiatore, storia del figlio prodigo impersonato da un arabo moderno, dalla prima edizione (1963) a oggi ha venduto più di 80 mila copie ed è stato letto da oltre un milione e mezzo di musulmani (si calcola che ogni libro è letto da 20-25 persone nel mondo arabo).
Nel 1975 Mazhar sposò Christine, un’australiana che ha dedicato la vita alla popolazione araba; hanno due figli. L’intera famiglia è impegnata nello stesso servizio: scrivere e pubblicare libri; insieme hanno lavorato in Egitto, Marocco, Tunisia, Siria, Giordania e infine in Libano.
E come il Mahatma Gandhi aveva presentato Cristo ai suoi correligionari indù, con lo stesso approccio Mazhar Mallouhi vive la fede in Cristo e la condivide con i suoi compagni musulmani.

Dichiarazione di pace    ai musulmani

Per comprendere meglio l’attività di Mallouhi bisogna tenere presente la sua «dichiarazione di pace ai musulmani». Sotto questo aspetto egli ha esercitato un forte influsso per portare pace e curare i contrasti tra musulmani e cristiani. Perché i musulmani riescano a vedere la vera natura di Cristo, è di cruciale importanza, secondo Mallouhi, che essi vedano prima la somiglianza tra Cristo e i suoi seguaci.
Mallouhi stesso si definisce «un musulmano che segue Gesù» e spiega che seguire Cristo nello spirito di Gandhi significa prendere ogni giorno il sentirnero dell’amore, della pace, del sacrificio e rinnegamento di se stesso. Egli stesso trasuda gentilezza, bontà, cordialità e allegria: attrae la gente come una calamita. I ragazzi lo adorano.
Ho avuto il piacere di passeggiare con lui in vecchi quartieri arabi e l’ho osservato mentre conversava con estranei: li legava a sé quasi all’istante con la sua calda e profonda umanità. È affascinante vederlo parlare e comunicare l’amabilità di Cristo a coloro che gli stanno attorno nei caffè arabi, mentre tira boccate di fumo da una pipa ad acqua e fa scorrere il rosario musulmano. In tutto il Nord Africa e Medio Oriente è conosciuto come uomo dal cuore grande.
L’esistenza dei coniugi Mallouhi è sempre aperta, col risultato che la loro casa è un continuo via vai di gente d’ogni tipo: fondamentalisti islamici, preti e suore cattoliche, pastori battisti, copti ortodossi, comunisti, rabbini giudei, baha’i e ogni sorte di stranieri occidentali.
Mentre viveva in Marocco, Mallouhi portava a casa gente trovata per la strada per nutrirla e aiutarla. A Fes, un milione e 300 mila abitanti, era conosciuto da così tanta gente, che una volta ricevette una lettera indirizzata semplicemente: «Mazhar Mallouhi – Fes».
Grazie alla sua straordinaria capacità di fare amicizia, in tutto il mondo ha centinaia di amici, di cui conosce a memoria i numeri di telefono; e li chiama regolarmente durante l’anno, si interessa di loro e promettendo preghiere. In qualunque città vada, organizza incontri settimanali che attirano intellettuali di ogni tipo.
Mallouhi vive la sua vita per gli altri. La sua gentilezza e giovialità disarmano perfino coloro che si oppongono alle sue credenze. In Egitto, una volta fu imprigionato insieme a dei fondamentalisti islamici, che gli domandarono perché fosse lì. «Perché condivido la mia fede in Cristo con altri musulmani» rispose: uno sceicco fondamentalista condivise con lui la sua coperta e un altro il cibo.
Spesso i musulmani gli dicono: «Non riesco a capirti. Perché ti metti in tanti guai per noi? Quali sono i tuoi secondi fini?». La sua risposta è semplice: «Se mi si presenta un’opportunità di fare del bene e non aiuto, è un peccato. L’opposto dell’amore è l’indifferenza».

CONDIVIDERE
LE SOFFERENZE DI CRISTO

Quando toò in patria dopo 25 anni di esilio, visse un’altra esperienza in prigione, che contribuì profondamente a fargli comprendere il significato sacrificale delle sofferenze di Cristo. Consegnatosi alle autorità, chiese che il suo caso fosse investigato, per avere l’opportunità di provare la sua innocenza. Invece, per 18 giorni fu tenuto in isolamento, in una cella sotterranea, in compagnia di topi, con una sottile coperta sul freddo pavimento di cemento.
Dio usò questa esperienza per insegnargli nuovamente ad «abbracciare le amarezze della vita, finché dalle ferite sgorgano gocce di dolcezza – testimonia Mallouhi -. Sentii come se venissi liberato dal tetro ambiente circostante e dalla prigione intea personale. Bevvi profondamente dell’amore e patimenti per noi del Padre in Cristo sulla croce».
Negli ultimi decenni si è notato un crescente interesse dei cristiani verso l’islam, insieme a sincere aperture per comprendere i musulmani. Altrettanto evidente è stato l’aumento dei reciproci dissensi: alcuni cristiani occidentali hanno cercato di demonizzare l’islam, dipingendolo come l’ultimo grande nemico da vincere.
Invece dello scontro tra cristiani e musulmani, che crea ulteriore allontanamento, Mallouhi propone un approccio opposto: egli dimostra l’importanza di costruire su valori comuni esistenti nell’islam e nella cristianità. I seguaci di Cristo devono impegnarsi in uno sforzo incondizionato per aiutare i musulmani, non per conquistarli, incarnando benevolenza, comprensione e solidarietà nello spirito di Cristo.
Proponendo rispetto e reciprocità, Mallouhi ha ottenuto una stupefacente apertura tra i musulmani verso la fede in Cristo. Per esempio, gli studenti musulmani che frequentano il prestigioso centro islamico Al-Azhar del Cairo, si sono seduti attorno a lui nel cortile della moschea mentre egli parlava di Cristo, esponendo loro le scritture.

Cristo: un mediorientale

Forse il contributo spirituale più significativo di Mallouhi è che ha spogliato Cristo delle sue bardature occidentali e lo ha presentato ai musulmani come uno che è nato, vissuto e morto nel Medio Oriente. Un Cristo così i musulmani lo possono comprendere; ed è il Cristo incontrato da Mallouhi, per cui si definisca semplicemente «un arabo siriano, seguace di Cristo», evitando l’etichetta di «cristiano».
I musulmani in generale percepiscono il cristianesimo come parte dell’agenda politica occidentale e vedono Cristo come un occidentale, senza alcuna relazione con la cultura orientale. Il cristianesimo, tuttavia, non è una fede dell’Occidente, ma ha origine nel Medio Oriente. Cristo, un mediorientale, era culturalmente molto più simile a un arabo odierno che a un cristiano occidentale.
Grazie alla sua personale esperienza, Mallouhi colma con successo questa lacuna. Quando egli divenne seguace di Cristo, i cristiani gli dissero che doveva lasciarsi alle spalle il suo passato culturale, cambiare il nome (prendere un nome «cristiano») cessare di socializzare nei caffè (principale luogo di incontro per gli arabi), non partecipare alle celebrazioni religiose della sua famiglia, stare alla larga da moschee e musulmani, cessare di digiunare, cambiare posa nella preghiera (non piegarsi o prostrarsi) e incominciare a mangiare carne suina (per dimostrare che era convertito).
Il risultato fu che, ben presto si alienò la famiglia e tutti i vecchi amici, e, ironia della sorte, non veniva del tutto accettato dalla comunità cristiana locale, poiché proveniva da un ambiente islamico.
Col tempo, tuttavia, Mallouhi si rese conto che seguire Cristo non significa rinnegare la propria lealtà alla cultura del Medio Oriente e diventare parte di una cultura straniera «cristiana». Pur essendo a servizio di Cristo, egli continua ad abbracciare le sue radici mediorientali, le stesse radici di colui che egli serve. Arrivò a capire che la sua famiglia lo rifiutava  non perché era diventato seguace di Cristo, ma piuttosto per il modo, impostogli dai cristiani, di comportarsi ed esprimere la sua nuova vita. Non era «Buona notizia» per i suoi familiari. Ai loro occhi egli stava voltando le spalle ai valori della famiglia e comunità a favore dell’individualismo occidentale, rigettava la fede monoteistica per il politeismo, e abbandonava forti tradizioni morali per stili di comportamento moralmente rilassati. Era come ribellarsi a tutti i migliori valori che gli avevano insegnato; allo stesso modo qualsiasi decente famiglia si sarebbe giustamente preoccupata.
A Mallouhi piace pregare e meditare nella quieta e riverente atmosfera di una moschea: si siede sul pavimento coperto da tappeto e legge la Bibbia. Spesso ne approfitta per far visita a sceicchi o imam suoi amici.
Mallouhi dice: «L’islam è mia eredità e Cristo è mio patrimonio»; di conseguenza ha mantenuto la sua cultura araba e islamica, pur essendo da oltre 40 anni discepolo di Cristo. La carta di identità siriana lo elenca come musulmano: il governo non permette il cambio della propria identità religiosa. Egli incoraggia i nuovi seguaci di Cristo provenienti da ambiente musulmano a non abbandonare la propria famiglia, popolo o cultura.
E sottolinea che seguire Cristo non richiede di prendere un nome cristiano, vestire in una foggia diversa, farsi il segno della croce (non usato dalla chiesa primitiva), cambiare il giorno di culto pubblico (la domenica al posto del venerdì), aderire a un rito differente in una chiesa, smettere di digiunare, mangiare cibi diversi, bere alcornolici, usare immagini di Cristo, molte illustrano un Cristo di discendenza europea.

Presentare la scrittura ai musulmani

Mallouhi spende la maggior parte del tempo ed energie nel presentare la Sacra Scrittura cristiana in modo che i musulmani la possano rispettare. A tale scopo, nel 1998, ha fondato Al Kalima («la parola» in arabo), che pubblica e distribuisce libri di carattere spirituale (vedi riquadro). I più importanti progetti editoriali di Al Kalima si concentrano nel ripresentare le scritture cristiane come scritti dell’antico Medio Oriente, come sono in realtà, riportandoli alla loro autentica origine culturale. In fin dei conti, la Bibbia non è un libro occidentale, essendo di fatto radicato nelle culture mediorientali, più antiche di quella alla base del Corano.
Per spazzare via stereotipi, vincere pregiudizi, illustrare e risolvere incomprensioni tipiche musulmane in fatto di Scrittura, Mallouhi cerca cooperazione e consiglio di influenti musulmani. Ha chiesto a centinaia di essi di leggere le scritture per identificare le difficoltà che incontrano per capire il testo; poi, in base ai suggerimenti, sviluppa un commento che risponda a tali questioni.
I primi due lavori «Una lettura orientale del vangelo di Luca» e «Genesi: l’origine del mondo e dell’umanità» (entrambi in arabo), pubblicati rispettivamente nel 1998 e nel 2001, includono testo biblico e commento mirato all’islam, che di fatto spiega le scritture e presenta Cristo nella sua realtà di mediorientale.
Termini come «messia» e «figlio di Dio» sono presentati in modo tale che i comuni lettori arabo-musulmani possano capirli nel contesto della propria cultura, aiutandoli a vedere in Cristo il compimento dell’alleanza di Dio con Abramo, considerato dai musulmani loro padre storico.
Nel 2004 Mallouhi ha pubblicato «Una lettura sufi del vangelo di Giovanni». Articoli e commenti di otto simboli o concetti chiave (in principio, vita, luce, amore, agnello, vino, acqua, pane), Gesù è presentato come il mistico definitivo e la parola vivente, mentre viene notato che molta poesia e letteratura sufi portano a Gesù Cristo e ai suoi insegnamenti.
Mallouhi cerca la collaborazione con articoli e introduzioni anche ai musulmani; uno di essi è Fadhel Jamali, ex primo ministro dell’Iraq, che nell’introduzione al Una lettura orientale del vangelo di Luca, scrive: «Noi musulmani conosciamo meno sulla fede cristiana di quanto i cristiani conoscono l’islam. Perciò io, come musulmano, vi incoraggio a leggere questo libro per capire ciò che essi credono veramente».
confezione e distribuzione
Tali pubblicazioni «orientalizzate» della scrittura sono state appoggiate da una vasta gamma di leader arabi musulmani, personalità politiche, ministri di governo, rettori e professori di università islamiche.
Oltre al contenuto dei libri, direttamente orientato ai musulmani, è altrettanto importante la confezione estea, insieme al modo in cui sono distribuiti. Per un musulmano, la sacra parola di Dio ha bisogno di essere presentata in una forma che esprima grande importanza e riverenza. Per cui le pubblicazioni di Al Kalima sono volumi elegantemente rilegati e curati nei dettagli, stampati con elaborata calligrafia arabica, come quella che i lettori arabi si spettano nelle edizioni del Corano.
Presentando le scritture come culturalmente mediorientali, Mallouhi si è guadagnato un successo e accoglienza senza precedenti. In una recente fiera del libro arabo, in un paese nordafricano con pochissimi cristiani locali, Una lettura orientale del vangelo di Luca è stato il best seller. Dopo averlo letto, un professore musulmano ha commentato: «Per la prima volta vediamo che Cristo ha radici mediorientali, imparentato alla nostra stessa cultura. Storicamente abbiamo ricevuto il cristianesimo solo attraverso la visione imposta dai colonialisti occidentali. Vogliamo che sia letto da tutti gli studenti nel nostro Dipartimento di studi islamici». Attualmente è usato come libro di testo di religione comparata in due università arabe.
Oltre alla presentazione e confezione estea delle scritture, Mallouhi è fortemente convinto che bisogna curare la distribuzione: deve avvenire esclusivamente attraverso canali di vendita legali, in opposizione a qualsiasi tipo di contrabbando o gratuita distribuzione di massa, come avviene per molta letteratura cristiana di produzione occidentale.
Tutte le pubblicazioni di Al Kalima sono state approvate dai censori governativi, per cui vengono vendute legalmente e apertamente attraverso normali punti vendita: dagli scaffali di supermercati, alle fiere del libro e librerie arabo-musulmane. In questo modo le scritture sono ufficialmente accettabili e largamente disponibili nella maggior parte dei paesi considerati «chiusi» alla Bibbia.
Da notare infine, che il più grande sostegno finanziario per tali pubblicazioni viene dagli stessi lettori musulmani, poiché i proventi dalle vendite sono reinvestiti per assicurare ristampe e ulteriori pubblicazioni.

Come Mahatma Gandhi ha permesso agli indiani di visualizzare Cristo che cammina lungo le loro strade dell’India, così Mazhar Mallouhi è impegnato nel restituire Cristo alle sue origini culturali, che cammina a suo agio per le strade del Medio Oriente. La sua visione per fare spazio alla parola di Dio nel cuore del mondo musulmano aiuta migliaia di musulmani a comprendere il vangelo e permettendo a molti di trovare la vera e duratura riconciliazione nel Principe della pace mediorientale. 

Di Paul-Gordon Chandler

Al Kalima

A l Kalima (in arabo: la parola) è frutto dell’intuizione dello scrittore arabo Mazhar Mallouhi e della sua moglie australiana Christine. Avendo una estesa rete di amici arabo-musulmani, avevano compreso che molti di essi volevano capire l’insegnamento della Bibbia, ma le pubblicazioni disponibili in arabo erano quasi nulle. Nel 1998, per rispondere a questa necessità, è nata Al Kalima, registrata l’anno seguente nel Regno Unito come casa editrice e di distribuzione, con base a Beirut.
La prima pubblicazione di Al Kalima è stato un commento al vangelo di Luca: «Una lettura orientale del vengelo di Luca». L’opera fu accolta con calore dai lettori arabi: in pochi anni sono state vendute oltre 50 mila copie e fatte varie riedizioni. Seguirono altri commenti biblici, «Genesi: origine del mondo e dell’umanita», «Una lettura sufi del vangelo di Giovanni», salutato da un giornale di editori arabi come libro dell’anno 2004, e «Il vero significato del vangelo di Cristo», che presenta i quattro vangeli e Atti degli apostoli, insieme alle rispettive introduzioni, articoli su temi-chiave come «Figlio di Dio» e ispirazione, note a piè di pagina sull’ambiente culturale per aiutare i lettori a comprendere il testo sacro. 
Nel piccolo catalogo di Al Kalima figurano cinque romanzi cristiani scritti da Mazhar Mallouhi: «Il fuggitivo» (144 p.) è la parabola del figliol prodigo ambientata nel mondo arabo moderno; e quattro sono commenti biblici a Luca, Genesi e Giovanni; «Perduta nella città» (424 p.) narra la storia di una donna, vittima della società, che ricostruisce positivamente la sua vita, superando le sue sofferenze e desideri di vendetta; «Momento di morte» (80 p.), una riflessione sulle scelte definitive dell’uomo, analizzando il significato dell’esperienza della sua fanciullezza, in cui ha ricevuto la vita attraverso il sacrificio di suo padre; «La lunga notte» (456 p.), ramanzo ambientato nella lotta della Siria contro il colonialismo, descrive la differenza tra diventare cristiani per scelta e l’essere nato in una famiglia cristiana; «Il fuggitivo» (190 p.) è uno dei più importanti romanzi spirituali in arabo, in cui viene descritta una nuova prospettiva sulla lotta tra bene e male, elaborando il concetto di rinascita nello spirito, che vive nel perdono e cresce nell’amore.

In arabo Al Kalima ha pubblicato altri libri vari, come traduzioni di racconti di Tolstoj e Dostojevski, testimonianze di palestinesi nel loro cammino spirituale verso la riconciliazione e lotta per la giustizia, e tre libri di carattere devozionale: «Fame di Dio» stimola il desiderio di Dio attraverso il digiuno, la preghiera e il rifiuto di ogni idolatria; «La passione di Cristo» risponde al perché della passione e morte di Cristo e ad altre domande; «Il maestro» racconta la vita di Cristo dall’inizio della sua missione fino alla sua morte e risurrezione.
La casa editrice ha pubblicato anche libri scritti in inglese da Christine Mallouhi, i più famosi dei quali sono: «Waging Peace on Islam» (dichiarare pace all’islam) e «Miniskirts, Mothers and Muslims» (minigonne, madri e musulmane).
Dei coniugi Mallouhi si è interessata anche la televisione Al Jazeera, che ha recentemente messo in onda un documentario sulla loro attività di scrittori ed editori di libri cristiani.

Paul-Gordon Chandler




Chiese vulnerabili a rischio estinzione

«Popoli e chiese dell’oriente cristiano»

Da più parti il cristianesimo è considerato essenzialmente occidentale, dimenticando le antiche comunità cristiane fiorite nel Vicino Oriente, prima dell’espansione islamica. Il volume «Popoli
e chiese dell’oriente cristiano» di Aldo Ferrari* vuole riparare a tale dimenticanza, presentando la loro tradizione storica e spirituale, la difficile situazione attuale di alcune chiese orientali, che rischiano
di scomparire dalle loro sedi millenarie.

Delle tre sedi patriarcali in cui era suddivisa la chiesa delle origini, due si trovavano sulla riva orientale del Mediterraneo, nelle città di Alessandria e Antiochia. Nulla di strano che nei primi secoli della nostra era il cristianesimo fosse vivo soprattutto in prossimità dei luoghi che avevano visto la predicazione di Gesù e da cui era partita l’azione evangelizzatrice degli apostoli. Proprio dalla Palestina il nuovo credo si era irradiato lungo le strade dell’Impero Romano, fino ai suoi estremi confini, e vi aveva trovato rapida diffusione, favorito da un clima culturale ricettivo, dalla tolleranza verso gli «dei stranieri», dall’ordine e dalla convivenza pacifica che la pax romana garantiva.
È, invece, più difficile da capire perché il cristianesimo occidentale abbia finito per oscurare la memoria della chiesa orientale, da cui esso ha tratto le proprie origini. Ben venga, dunque, la nuova monografia curata dal professor Aldo Ferrari, Popoli e chiese dell’oriente cristiano, che dà la possibilità di approfondire le ragioni di quest’oscuramento e riscoprire il patrimonio spirituale e culturale che in duemila anni la cristianità orientale non ha cessato di esprimere.
Pur necessariamente incompleto, per la difficoltà di contenere nello spazio di un volume la storia delle numerose comunità cristiane d’oriente, il panorama che ci è qui offerto si presenta di una sorprendente varietà: comprende le chiese copta ed eritrea in Africa, le chiese melkita, ortodossa e cattolica, e maronita nel vicino Oriente, la chiesa sira occidentale, ortodossa e cattolica, e sira orientale, assira e caldea, in Mesopotamia e Iran, le chiese armena, apostolica e cattolica, e georgiana ortodossa nel Caucaso.

LA FRATTURA DOTTRINALE
Come emerge chiaramente dalle pagine del volume, il quasi oblio in cui sono cadute le chiese orientali nella coscienza dei cristiani d’occidente si può spiegare con due ordini di ragioni: intee ed estee alla chiesa.
I primi secoli videro la chiesa, ancora unica e indivisa, impegnata in un intenso dibattito volto a stabilire i fondamenti del credo cristiano. Nel iv secolo fu affrontata la questione trinitaria e si arrivò a definire la formula della consustanzialità delle tre Persone. Già allora si corse il grave rischio di una spaccatura intea, a causa del consenso suscitato dalle tesi del prete alessandrino Ario, il quale non riconosceva al Figlio una natura uguale a quella del Padre. Questo pericolo fu evitato con la convocazione del primo concilio ecumenico a Nicea nel 325.
Non altrettanto felice fu l’esito delle controversie cristologiche, che nel v secolo contrapposero le scuole teologiche di Antiochia e Alessandria. La definizione dogmatica della duplice natura di Cristo, divina e umana, fu materia dei due concili di Efeso e Calcedonia, dove si scontrarono posizioni teologiche diverse. A Efeso, nel 431, fu condannato il patriarca Nestorio, che aveva portato alle estreme conseguenze la teologia duofisita della scuola di Antiochia e chiamava Maria madre di Cristo, ma non madre di Dio. Il concilio di Calcedonia, 20 anni più tardi, si concluse con la riabilitazione della scuola di Antiochia e la condanna della dottrina professata da quella di Alessandria.
Le diatribe cristologiche ebbero la nefasta conseguenza di aprire una frattura, non solo tra Oriente e Occidente, ma anche nella stessa cristianità orientale, che si divise in efesina e non efesina, calcedonese e non calcedonese. Non efesini sono i cristiani che fanno riferimento alla chiesa sira orientale, non calcedonesi sono i siri occidentali, gli armeni, i copti e gli eritrei. La «grande chiesa», cioè quella di tradizione calcedonese, sia greca che latina, chiamò nestoriani i primi e monofisiti i secondi, termini che, oltre a essere imprecisi, sono percepiti come offensivi dai diretti interessati.
Oggi si è fatta strada la coscienza che quelle controversie nacquero più a causa di fraintendimenti nell’uso e interpretazione dei termini teologici, che di vere e proprie divergenze nel modo di concepire la natura di Cristo. «In realtà, il linguaggio teologico delle due scuole era profondamente diverso e questo impediva una reale comprensione delle reciproche posizioni» leggiamo nel saggio di Paola Pizzi sui cristiani melkiti; mentre Alessandro Mengozzi, autore del saggio sulla chiesa sira, parla di una «frattura linguistica, culturale e politica tra il centro dell’impero bizantino e regioni periferiche, ma culturalmente e socialmente vivaci, come l’Egitto, la Siria, la Mesopotamia o l’Armenia».
E cita un passo di un teologo siro occidentale, che nel xiii secolo scriveva, con una perspicacia davvero sorprendente: «Dopo aver molto ponderato il problema, mi sono convinto che queste dispute dei cristiani fra loro (sulla cristologia) non riguardano nulla di sostanziale, ma piuttosto sono questioni di parole e termini, perché tutti confessano che Cristo nostro Signore è Dio perfetto e uomo perfetto, senza commistione, mescolanza e confusione delle nature».
Dopo sette secoli questa stessa convinzione ha ispirato le dichiarazioni congiunte di fede firmate da Giovanni Paolo ii e dai patriarchi della chiesa sira occidentale e della chiesa d’Oriente. Purtroppo, quelli che noi ora giudichiamo equivoci dovuti a consuetudini linguistiche diverse sono stati fonte di molti mali per i cristiani tutti. La presunzione di eresia ha inquinato i rapporti tra le chiese, aprendo un profondo solco d’incomprensione tra le diverse sponde del Mediterraneo.
Rende bene l’idea di quali siano state le conseguenze di questa divisione il fatto menzionato da A. Camplani e A. Elli nel saggio sulla chiesa copta. Essi ricordano che, dopo aver tolto la Palestina ai musulmani, i crociati confiscarono i beni dei cristiani orientali, che consideravano eretici, e impedirono loro l’accesso ai luoghi santi. Quando nel 1187 i crociati furono sconfitti dal Saladino e costretti ad andarsene, «i copti accolsero con gioia la riconquista di Gerusalemme, perché veniva così loro concesso di riprendere, dopo quasi 90 anni, i pellegrinaggi al Santo Sepolcro».

LA CONQUISTA ISLAMICA
Alla frattura dottrinale, nel vii secolo si aggiunse quella causata dalla conquista araba. Questa volta fu l’intervento di una forza estea a dividere tra loro le comunità cristiane. Il continuo stato di belligeranza tra la nuova potenza araba e l’Europa rese ancora più difficili i contatti tra una parte e l’altra del Mediterraneo, quando non li interruppe del tutto, e finì per isolare l’Oriente dall’Occidente cristiano, se si esclude il breve e controverso intervallo dei regni crociati.
Dalla metà del vii secolo, i cristiani che vivevano nei territori dell’Impero Romano d’Oriente, con l’eccezione della penisola anatolica, si trovarono soggetti a un potere teocratico, quello dei califfi, che assegnava loro una condizione d’inferiorità rispetto ai sudditi musulmani. Anche se ciò, in linea di principio non significava il divieto del culto, essere, o meglio, rimanere cristiani diventava oneroso, e non solo perché si era gravati di maggiori tasse rispetto a coloro che si erano convertiti all’islam.
Il rapporto tra le comunità cristiane e le autorità registrava continui alti e bassi: a periodi di convivenza pacifica si alternavano periodi di discriminazione, se non di vera e propria persecuzione. Ciò spiega la progressiva erosione del numero dei cristiani in terra islamica. Alla vigilia della conquista ottomana essi costituivano ormai meno del 10% della popolazione.
Paradossalmente, fu proprio l’arrivo degli ottomani, che fino alla fine del xvii secolo furono percepiti dalla cristianità occidentale come una minaccia alla sua sopravvivenza, a migliorare la vita dei cristiani in Oriente.
Sulla vita delle comunità cristiane influì positivamente il sistema dei millet istituito dal governo ottomano. Si trattava di una forma di autogoverno, che concedeva alle comunità religiose, ufficialmente riconosciute dalla Sublime Porta, una considerevole autonomia amministrativa. Questa nuova forma di organizzazione sociale diede ai cristiani maggiore stabilità e garanzie nei rapporti con le autorità islamiche e contribuì a una notevole ripresa demografica all’interno delle loro comunità.

RESISTENZA E ISOLAMENTO
Per i siri orientali l’isolamento dal resto dell’ecumene cristiano iniziò molto prima del vii secolo. La chiesa sira ebbe origine a Edessa, nell’alta Mesopotamia. In questa città già nella seconda metà del ii secolo è documentata la presenza di una vivace comunità cristiana, che si contraddistingueva per l’uso liturgico di una variante locale di aramaico.
Edessa si trovava all’estrema periferia dell’Impero Romano e una parte della comunità sira, quella orientale, che prese poi il nome di «Chiesa d’Oriente», si trovò ben presto a svilupparsi all’esterno dei suoi confini, nelle terre dei persiani, arcinemici di Roma. Ciò rese difficili i contatti con gli altri centri cristiani e ostacolò la partecipazione dei rappresentanti di questa comunità ai concili ecumenici. Costretta a contare sulle sue sole forze, la Chiesa d’Oriente si organizzò in totale autonomia, nella fedeltà al legame originario con la scuola di Antiochia e alla sua teologia duofisita.
Nonostante la precarietà in cui visse, seppe produrre uno straordinario slancio missionario, che portò i suoi monaci lungo le strade carovaniere fino in India, in Asia Centrale, in Mongolia e in Cina. Si pensi, ad esempio, che la fondazione della prima chiesa sira a Ch’ang-an, capitale della dinastia cinese dei T’ang, nonché punto di partenza della via della seta, risale al 638. Erano proprio gli anni in cui l’Impero Bizantino, da una parte, e quello persiano, dall’altra, stavano per essere travolti dalle schiere arabe.
Anche nei pochi casi in cui i cristiani in Oriente non si trovarono in condizione di minoranza tra fedeli di altre religioni, il loro destino non è mai stato facile. Le chiese etiope, armena e georgiana hanno rappresentato delle isole di cristianesimo in territori sempre più islamizzati.
Grazie alla sua posizione remota, lontana dal Mediterraneo e dalle grandi vie di passaggio, l’Etiopia riuscì a contenere l’espansione dell’islam, a prezzo, però, di un isolamento durato secoli. In Armenia e in Georgia il cristianesimo si affermò come religione nazionale dal iv secolo e si è mantenuto tale fino ai nostri giorni, ma ha dovuto opporre una strenua resistenza alla pressione dei vicini musulmani, cui gli armeni e, in parte, i georgiani, furono anche soggetti politicamente. La storia del cristianesimo in queste terre presenta un pesante bilancio di violenze e martirio.

RISCHIO ESTINZIONE
Leggendo questo volume, pagina dopo pagina, ci si rende conto di cosa abbia voluto dire essere cristiani in oriente. Rimanere nella chiesa è stata per gli orientali una scelta impegnativa, scomoda e mai scontata, ha spesso voluto dire vivere in condizioni d’inferiorità, con diritti limitati e limitate possibilità di sviluppo. Nonostante questo essi hanno saputo custodire intatta la propria fede e la bellezza delle loro liturgie.
La chiesa occidentale non può ignorare questo prezioso patrimonio di spiritualità, se non a prezzo di un suo enorme impoverimento. Il secolo precedente ha fatto molto per il riavvicinamento tra le chiese, non solo nella ripresa di contatti tra le gerarchie, ma anche in termini di reale conoscenza reciproca, dopo secoli di silenzi. Tuttavia, molto rimane da fare.
L’orizzonte dell’Occidente rimane ancora troppo autoreferenziale, e i cristiani non fanno eccezione, siano essi capi di stato o semplici cittadini. Spesso nelle questioni che riguardano l’Oriente, gli occidentali si muovono senza considerare quali conseguenze i loro interventi possono avere sul difficile equilibrio tra le minoranze cristiane e le società in cui sono inserite.
Quando papa Giovanni Paolo ii chiedeva accoratamente che al popolo iracheno fosse risparmiata l’esperienza di un’altra guerra, pochi capivano che il suo sguardo era rivolto con particolare preoccupazione alle comunità cristiane del Medio Oriente. Egli sapeva bene, infatti, che un conflitto avrebbe avuto su di loro gravi conseguenze, perché i cristiani sono visti come alleati dell’Occidente, con cui condividono la fede. La guerra ha provocato un vero e proprio esodo dei cristiani dall’Iraq e ne ha in pochi anni dimezzato la presenza nel paese.
Anche in condizioni di pace, i cristiani in Oriente rimangono a tutt’oggi un gruppo sociale tra i più vulnerabili. Le tensioni inteazionali e quelle intee ai rispettivi paesi si ripercuotono in modo particolare sulle loro comunità, spingendo molti a emigrare.
L’emigrazione verso l’Occidente, iniziata già a fine Ottocento, ha assunto in questi ultimi decenni proporzioni sempre maggiori ed è difficile prevedere un’inversione di tendenza, finché permangono le condizioni che spingono i cristiani ad andarsene: mancanza di libertà, mancanza di sicurezza personale e precarietà economica.
Il fenomeno è tale da far pensare all’estinzione dei cristiani, almeno in Medio Oriente. Se ciò accadesse sarebbe una perdita incalcolabile, non solo per il cristianesimo, ma anche per la stessa civiltà islamica, cui i cristiani hanno dato un contributo unico, nelle arti, nella letteratura, nel pensiero e nella modeizzazione.
Ci sarà, dunque, un futuro per le chiese in Oriente? È la domanda con cui si concludono alcuni dei saggi. Per i loro autori, come per chiunque abbia conosciuto e incontrato la realtà di queste chiese, pare impossibile che tutto ciò possa sparire. E allora si trova conforto nel loro passato, che le ha condotte fino a noi, pur tra infinite e dolorose prove; si trova conforto nei piccoli segni di cambiamento, che sembrano far intravedere l’avvento di tempi più benigni.
Ma anche questo non sarebbe niente, se non ci fosse la speranza, «forse la più mondana delle virtù teologali, quella intrecciata per natura alle vicende storiche di questo mondo e destinata con la fede a spegnersi a favore della carità nel mondo a venire» (A. Mengozzi). 


Di Biancamaria Balestra

Biancamaria Balestra




Voci e lacrime attraverso il muro

Essere cristiani in Terra Santa oggi

Esperienze di viaggio, pellegrinaggio e permanenza  in Terra Santa si trasformano nella narrazione di piccole storie quotidiane. Racconti che parlano di fatica, violenza, sofferenza e resistenza dei cristiani che vivono nei territori occupati.

Il 10 ottobre 2008, il Centro di animazione missionaria dell’Istituto Missioni Consolata di Torino ha ospitato l’incontro-dibattito «Essere cristiani in Terra Santa: affrontare l’occupazione, riscattare la speranza».
La serata è stata promossa dalla rivista «Missioni Consolata», dalle edizioni Paoline, da Pax Christi e dalla redazione di «Infopal.it».
Erano presenti don Nandino Capovilla, referente di Pax Christi per la Palestina; Betta Tusset, di Pax Christi; Gianluca Solera, cornordinatore del network Anna Lindh per il dialogo tra le culture; p. Ugo Pozzoli, direttore di «Missioni Consolata»; Filippo Fortunato Pilato, direttore di «www.Jerusalem-Holy-Land.org»; Angela Lano, direttrice dell’agenzia stampa «Infopal.it», moderatrice dell’incontro.
Durante la conferenza sono stati presentati i libri: «Bocche scucite», di N. Capovilla e B. Tusset, edizioni Paoline; «Voce che grida nel deserto», di Michel Sabbah, (a cura di Nandino Capovilla), edizioni Paoline; «Muri, lacrime e za’tar», di Gianluca Solera, edizioni Nuovadimensione. 
Abbiamo rivolto alcune domande a Solera e Capovilla sulla situazione che descrivono in dettaglio nei loro libri.

La difficile quotidianità dei cristiani in Terra Santa

Essere cristiani in Terra Santa, quali sono le difficoltà e le sfide, che, nella vostra esperienza di viaggio e pellegrinaggio, avete potuto constatare?

Gianluca Solera: «Credo che la grande sfida consista nel saper vivere la fede in una situazione di oppressione politico-militare che determina tutta la storia di un popolo, e farlo parlando di speranza e riscatto alla propria gente.
Vorrei rispondere raccontando anche dell’esperienza del pellegrinaggio in sé. Lo spirito dei pellegrinaggi in Terra Santa soffre di un problema di poca permeabilità, dell’incapacità di voler entrare in contatto con le comunità cristiane locali senza ridursi a percorrere itinerari «museali» tra Santo Sepolcro e Monte delle Beatitudini. Come vincere questa resistenza alla permeabilità? Innanzitutto bisogna sconfiggere una pigrizia di fondo da parte dei promotori di pellegrinaggi, che spesso sono ciechi alla condivisione dell’esperienza del pellegrinaggio con la chiesa incarnata di Terra Santa. Per un qualsiasi pellegrino che non conosce la realtà locale, è molto difficile entrare in contatto e comunione con le comunità cristiane del posto. In secondo luogo bisogna sfidare la politica di separazione e isolamento imposta dalle autorità israeliane su villaggi e città palestinesi, che rende complicato l’accesso alle comunità cristiane in Cisgiordania. Sono convinto che un pellegrinaggio che non sfida quest’isolamento, è un pellegrinaggio povero umanamente e già morto in partenza nello spirito».
Don Nandino Capovilla: «I cristiani di Terra Santa sono essi stessi un appello vivente, fortissimo, alla presenza, alla condivisione delle loro sofferenze. Dai vescovi al credente: tutti aspettano con trepidazione che, dall’Occidente, arrivi qualcuno a sostenerli, a portare solidarietà, a conoscere la drammatica situazione in cui sono costretti a vivere sotto occupazione».

Sia in «Muri, lacrime e za’tar» sia in «Voce che grida dal deserto» e in «Bocche scucite» emerge, a un certo punto, il tema dell’«insicurezza» dei cristiani che vivono a Gerusalemme e in Israele. Essi si sentono trattati dalle autorità israeliane come «cittadini di serie B». Qual è la vostra esperienza?

Solera: «Ho percepito i cristiani soffrire in silenzio, quel silenzio che è proprio di chi si sente minoranza. L’insicurezza dei cristiani è anche quella dei musulmani, ovvero di tutti gli arabi israeliani che vivono in un regime di effettiva discriminazione e di isolamento. D’altro lato, i cristiani in quanto minoranza sono più esposti al rischio di scomparire, di vedere i loro diritti umani e civili calpestati giorno dopo giorno, di vivere la tentazione del ripiegamento nel privato. Il sinodo diocesano delle chiese cattoliche di Terra Santa, conclusosi nel 2000, ha sollevato questa questione e ha chiesto un impegno pubblico maggiore da parte della comunità cristiana araba in Israele. I risultati delle ultime elezioni politiche nel paese hanno manifestato questa volontà di emergere e di farsi ascoltare, con l’elezione, per la prima volta, di tre arabi cristiani a membri della Knesset (parlamento israeliano, ndr). Credo che sia la pista giusta. Maggiore senso di responsabilità pubblica da parte dei cristiani arabi di Israele e Gerusalemme significherebbe maggiore attenzione ai problemi effettivi della convivenza e coesistenza inter-religiosa e soprattutto maggiore azione sociale contro la discriminazione etnica in Israele».
Capovilla: «Sì, in Israele si sentono cittadini di serie B, perché lo stato continua a sostenere l’ebraicità come valore assoluto, quindi sia i cittadini cristiani sia i musulmani – cioè, gli arabi palestinesi – soffrono per le discriminazioni che colpiscono tutti gli ambiti della loro vita. Interessante è la sintesi tracciata da Sabbah nel suo libro:  “Noi siamo discriminati in quanto palestinesi, non in quanto cristiani”».

Persecuzioni islamiche
anti-cristiane?

In entrambi i testi sopracitati si parla di cristiani che lasciano la Palestina. Una certa informazione, anche italiana, punta il dito contro i musulmani. Tuttavia, sia monsignor Sabbah sia i religiosi intervistati da Solera smorzano queste tesi e accusano, invece, l’occupazione israeliana. Qual è la vostra opinione?

Solera: «Credo che non vi sia una volontà egemonica da parte dei musulmani palestinesi. La questione è che i numeri fanno la differenza, e i musulmani si fanno demograficamente più numerosi che i cristiani, con conseguenze materiali sulle regole e gli spazi della convivenza. Ma credo che la convivenza sia possibile, anzi necessaria per preservare la diversità, che è una delle ricchezze fondanti del “carattere palestinese”. Che le autorità israeliane possano usare possibili tensioni intee alla società palestinese non è da escludere, e fa parte delle armi utilizzate per indebolire la coesione sociale palestinese e quindi la capacità di lotta nazionale. Ho personalmente conosciuto dei palestinesi cristiani che, alle ultime elezioni politiche hanno votato Hamas in distretti quali Betlemme o Ramallah, e questo la dice lunga sulla complessità delle relazioni intee, che non si possono semplificare in una visione conflittuale interreligiosa».
Capovilla: «I cristiani non lasciano la Palestina a causa dei musulmani. Lo confermano le dichiarazioni autorevoli di Sabbah che, in “Voce che grida dal deserto”, scrive:  “Da alcuni anni è in atto una campagna che vorrebbe far risaltare un’ipotetica persecuzione dei cristiani da parte dei musulmani. Che vi siano difficoltà nei rapporti, per una ragione o per l’altra, tra maggioranza e minoranza, è comprensibile e avviene qui come in ogni altro contesto. Noi palestinesi, cristiani e musulmani, siamo un solo popolo. Abbiamo le radici nella stessa terra, la Palestina. Le apparteniamo entrambi”.  Le sue parole sono una garanzia del nostro dovere di smontare tale propaganda, che è favorevole e funzionale, in Occidente, ad alimentare lo “scontro di civiltà” e quindi la “crociata anti-Islam” attualmente in corso. Il patriarca ripete sempre: “Siamo una piccola minoranza e quindi ci sono problemi di convivenza, come in qualsiasi  società, ma è ben altra cosa approfittare di piccoli episodi di criminalità trasformandoli in atti di discriminazione anti-cristiani e in propaganda”».

Cos’è cambiato da quando Hamas ha vinto le elezioni, nel gennaio 2006, e come viene considerato il movimento islamico tra i cristiani?

Solera: «Ripeto, molti cristiani votarono Hamas per ragioni politiche. Non so se farebbero lo stesso ora, dopo aver conosciuto le conseguenze dell’embargo imposto dalla comunità internazionale, ma questa è un’altra storia. Tra alcuni cristiani vi è apprensione, si teme che un movimento politico di ispirazione islamica possa marginalizzare la comunità cristiana e stimolare passioni irrazionali anti-cristiane. A metà settembre, quando stavo a Gaza, incontrai alcuni cristiani e feci la stessa domanda: ne ricevetti una risposta insperata, ovvero che non si sentivano minacciati da Hamas, ma piuttosto dai conflitti intestini, e che “Hamas li lasciava in pace”. La conclusione che ne traggo è che la comunità cristiana soffre certamente dell’animosità Hamas – Fatah, esponendo i suoi membri ai rischi della spirale di una lotta politica fratricida, ma che l’emersione di Hamas quale movimento di ispirazione islamica non comporta necessariamente l’affermazione di una politica di persecuzione su basi religiose».
Capovilla: «Purtroppo, il nostro modo di percepire e comprendere le varie dimensioni del conflitto è spesso lontano dai fatti reali. I cristiani, pur essendo contrari a radicalismi fondamentalisti che si scontrano con la natura laica della Palestina, non hanno problemi con Hamas. Il loro rapporto non è negativo: ad esempio, le autorità di Hamas nella Striscia di Gaza dimostrano rispetto nei loro confronti».

Il Muro che nasconde
la sofferenza dei palestinesi

I pellegrini si accorgono del «Muro di annessione»?

Solera: «Purtroppo no, nella maggior parte dei casi. Anche quando raggiungono Betlemme provenienti da Gerusalemme, passando con l’autobus attraverso quell’orrendo muro alto quasi nove metri, non si rendono conto di cosa significhi essere circondati da una barriera di cemento. Non fanno l’esperienza fisica dell’isolamento a cui è sottoposto un qualsiasi cittadino di Betlemme. Purtroppo, per “accorgersi” del Muro, è necessario vivee almeno un poco le conseguenze, mentre le facilitazioni al transito concesse esclusivamente ai pellegrini contribuiscono a rendere falsa l’immagine che uno straniero porta a casa della politica di segregazione imposta con la costruzione del Muro. Un poco di condivisione della sofferenza della segregazione in Terra Santa non farebbe male ai nostri pellegrini, e lo dico con franchezza».
Capovilla: «Lo vedono con gli occhi, ma non lo percepiscono. Vengono subito istruiti dalla guida sui “motivi di sicurezza” sottostanti… Ormai, con questa scusa tutto è possibile: anche chiudere milioni di persone in una grande prigione. Da qualche anno a questa parte, tutti i venerdì, alle 17, a Betlemme, in prossimità dell’apertura del Muro destinata a lasciar passare gli autobus dei pellegrini, un gruppo di suore organizza un rosario. Una preghiera contro il Muro. Nonviolenta. I pellegrini vengono invitati a scendere dai pullman e a unirsi alla preghiera, ma nessuno lo fa…».

Cosa si può fare, o si sta già facendo, per sensibilizzare l’opinione pubblica italiana, in particolare quella cattolica?

Solera: «Si sta facendo molto, ma sempre poco se compariamo gli sforzi di informazione e sensibilizzazione compiuti con il numero importante di pellegrini che visitano la Terra Santa senza un’adeguata preparazione culturale e politica. Quando si prega per la pace in Terra Santa, lo si fa spesso con quell’astrattezza e neutralità che rivela una mancanza di conoscenza della reale quotidianità delle comunità cristiane di Terra Santa. Credo che un buon modo di pregare per la pace sarebbe quello di gemellarsi con una delle molteplici parrocchie della Palestina, a cominciare da quelle più isolate, come quelle di Gaza o di Nablus. In altre parole, vedo necessaria una campagna di “adozione” delle parrocchie palestinesi da parte delle nostre e un lavoro pubblico che non esiterei a definire di contro-informazione sui cristiani di quella regione».
Capovilla:  «È importante preparare i pellegrini che partono, attraverso un lavoro paziente, spirituale e anche storico. Questa “apertura degli occhi” è un dovere morale e spirituale, pastorale, ancor più doveroso per noi, come cristiani».

Ebrei e israeliani «contro l’occupazione»

In Israele ci sono gruppi, movimenti, singoli cittadini ebrei che sostengono e lottano a fianco dei palestinesi. Sono gli «israeliani che chiedono giustizia»: Parents’ Circle, Icahd di Jeff Halper, i Refuseniks, i Naturei Karta, Bat Shalom, giornalisti come Amira Hass e Gideon Levy, storici come Ilan Pappe e tanti altri di cui i nostri media non parlano mai. Che peso hanno, secondo voi, queste organizzazioni e queste persone, in Israele?

Solera: «A metà settembre di quest’anno, ho incontrato Gideon Levy a Tel Aviv e Amira Hass a Ramallah, e ho posto loro la stessa domanda. Questi movimenti sono l’anima critica, la parte più sana della società civile israeliana che rifiuta di cadere nella logica dominante di disumanizzazione dei palestinesi e di compressione dei valori e delle libertà civili all’interno di Israele. Certo sono una minoranza, ma una minoranza necessaria, che rifiuta di parlare di pace senza giustizia. Debbo anche riconoscere, tuttavia, che la frustrazione e il pessimismo si sono accumulati in questi anni anche tra queste voci coraggiose. Gideon Levy riceve continuamente minacce verbali dal pubblico ebreo israeliano, e questo logoramento indebolisce anche lo spirito di un giornalista come lui. Amira Hass, che continua a vivere a Ramallah, è ancora più pessimista sul livello di apertura dei suoi concittadini verso un dibattito franco sulle cause profonde della crisi israelo-palestinese, e si aspetta un ciclico ritorno alla violenza, quasi che solamente la sofferenza possa scuotere le coscienze. Durante lo stesso viaggio, ho incontrato molte delle organizzazioni israeliane che lottano contro l’occupazione. Tutte hanno segnalato il rischio che alcuni settori del potere israeliano cerchino di “normalizzare” i rapporti israelo-palestinesi anche attraverso iniziative della cosiddetta società civile. La “normalizzazione” è una parola che non piace alle organizzazioni anti-occupazione, e l’unico modo per evitarla è avere propositi chiari ed espliciti ed azioni coerenti con essi, perché la “normalizzazione” è percepita dai palestinesi come un tentativo di pacificare senza giustizia. Oggi come oggi, queste organizzazioni sono in difficoltà anche logistica, e richiedono il nostro sostegno politico, civico e anche finanziario. Il loro successo starà nella capacità di creare spazi “binazionali” in cui ebrei israeliani e arabi lavorino insieme per un’alternativa alla politica di segregazione (come fanno ad esempio Parents’ Circle e Combatants for Peace). La loro missione consiste nel continuare a protestare sui cantieri del Muro e nel sensibilizzare israeliani e palestinesi sulla necessità di trasformare il loro modo di pensare il conflitto.
Queste organizzazioni sono accomunate da una visione critica del processo di pace e dell’iniziativa di Annapolis (Usa), del novembre 2007; credono che le parti che negoziano siano deboli e delegittimate di fronte all’opinione pubblica, e vogliono lavorare su un terreno più ampio che quello dell’opposizione alla costruzione degli insediamenti o del Muro di separazione. Ovvero, sulla memoria, sulla pianificazione territoriale alternativa, sulla demilitarizzazione della società, sugli stereotipi culturali, sulla preservazione delle risorse naturali come l’acqua, e soprattutto sulla formazione di un pensiero critico tra le persone. Gideon Levy mi diceva: “La società israeliana ha bisogno di uno scossone (breakthrough) emotivo”. Per questo, il lavoro coraggioso di queste organizzazioni che alcuni israeliani vorrebbero bollare come “traditrici della patria” è così importante».
Capovilla: «Io credo che la loro presenza incida più di quello che vediamo. Mons. Sabbah risponde a questa domanda puntando lo sguardo sulle future generazioni. Speriamo che esse possano superare i blocchi del passato e aprirsi alla dignità di tutti gli esseri umani e al rispetto dei diritti civili».

Violenza e nonviolenza
in Palestina

Il tema della «resistenza nonviolenta» è caro a molti cristiani e musulmani impegnati per la giusta soluzione alla causa palestinese, e mons. Sabbah ne parla ripetutamente nel suo libro. I villaggi palestinesi di Nil’in e Bil’in, ma non solo, ne sono un coraggioso esempio. Che cosa ne pensate?

Solera: «È sicuramente una strada da percorrere, e l’esempio di Bil’in, dove tutti i venerdì, da tre anni, gli abitanti del piccolo villaggio palestinese di Bil’in manifestano contro la costruzione del Muro è straordinario. Tuttavia, credo che non possa essere esclusiva. Come mi diceva Molly Malekar, direttrice dell’associazione di donne israeliane Bat Shalom che lavora per una giusta riconciliazione, i soldati del suo paese hanno picchiato pure lei durante una manifestazione non-violenta contro il Muro. Ovvero, il messaggio di Malekar era: “Non dobbiamo illuderci che la pratica non-violenta possa essere sufficiente a debellare la macchina dell’oppressione e a indebolire la forza militare e la volontà politica israeliana”. Condivido questa preoccupazione. Credo che si debba simultaneamente lavorare alla costruzione di un pensiero critico e alternativo dentro la società israeliana. D’altro lato, non possiamo neppure negare il diritto alla resistenza dei palestinesi, che potrebbe manifestarsi anche in modo armato, sempreché rispettino i canoni del diritto internazionale, che richiede, ad esempio, di non coinvolgere civili e inermi in eventuali scontri o azioni di difesa. Se da un lato dobbiamo ammettere che la resistenza palestinese non sia stata sufficientemente creativa e si sia definitivamente screditata con l’utilizzo dei kamikaze, d’altro lato dobbiamo riconoscere ai palestinesi il diritto all’autodifesa, e aiutarli a trovare il modo più efficace di esercitarlo, senza ulteriormente alimentare il vortice cieco della vendetta e della ritorsione violenta. Come cristiani è un dibattito difficile, ma necessario. Credo che la cultura della nonviolenza possa contribuire a ridisegnare i termini della legalità dell’uso della violenza stessa, che attualmente poteri statali come quello israeliano pretendono esercitare con diritto in forma esclusiva».
Capovilla:  «Con la nonviolenza si può: Michel Sabbah ha fiducia in questo mezzo. La forza sta nel lavoro sotterraneo e nel non valutare il risultato dall’effetto immediato, che è tipico, invece, della violenza».

«La pace è nelle mani di Israele», afferma Sabbah, che aggiunge: «l’ostacolo più grande alla pace è rappresentato dall’occupazione militare israeliana». Perché in Occidente si pensa che, invece, tutto dipenda dai palestinesi e che Israele non abbia «interlocutori validi»?

Solera: «Credo che tre siano le ragioni: il senso di responsabilità storica nei confronti degli ebrei, che ci porta a esser parziali nel nostro giudizio; il senso di prossimità culturale maggiore nei confronti degli israeliani, percepiti come europei rispetto agli arabi o ai musulmani, per i quali proviamo invece un inconscio sentimento di diffidenza, se non di ostilità; infine, la scarsa informazione disponibile in Occidente sulla vita che si svolge nei territori occupati. Quest’ultima ragione ha giocato un ruolo decisivo nel convincermi a scrivere il mio libro. Contribuire a diffondere in Occidente un’informazione corretta e prossima alle ragioni dei più oppressi è un imperativo per coloro che come noi hanno conosciuto la realtà dei territori occupati».
Capovilla: «Dobbiamo rilevare con amarezza che di fronte allo stato di Israele, ogni critica è avvertita come un attacco al popolo ebraico. Questo impedisce di accettare che la pace sia davvero nelle mani di Israele, come dice Sabbah».

Cisgiordania e Gaza sotto assedio

La popolazione palestinese, a Gaza e in Cisgiordania, è ormai allo stremo. Quali azioni di solidarietà ritenete valide e possibili?
Solera: «Due sono le azioni necessarie: rompere l’embargo e l’assedio a cui è sottoposta soprattutto la Striscia di Gaza, e sostenere politicamente i movimenti palestinesi. Molti dei palestinesi che ho incontrato mi dicevano:  “Non vogliamo il vostro pane, ma il vostro sostegno politico”. Ridurre la Palestina a un problema umanitario significa confondere le conseguenze con le cause, e contribuire indirettamente a mantenere lo status quo».
Capovilla: «Ci sono tantissime iniziative di solidarietà con il popolo palestinese, ma i media non ne parlano mai. Hanno prestato attenzione alla missione del Free Gaza Movement, forse perché più eclatante o forse perché a bordo delle due imbarcazioni, che ad agosto sono giunte al porto di Gaza rompendo virtualmente l’assedio, c’erano alcuni personaggi di spicco internazionale. In generale, i mezzi di informazione non parlano delle azioni di sostegno alla popolazione assediata, quindi, molti pensano che non si faccia nulla…».

Gerusalemme assiste a una forte ebraicizzazione, sia dal punto di vista urbanistico sia culturale e sociale. I luoghi santi cristiani e musulmani sono a rischio?

Solera: «Certamente lo sono in quanto luoghi di fede vivi, spazi sociali per cristiani e musulmani. Non credo che i luoghi sacri rischino la distruzione fisica. Ciò che mi preoccupa è che vengano trasformati in “reliquari” di archeologia religiosa, a cui non possono accedere i credenti locali per pregare o per incontrarsi. La giudaizzazione di Gerusalemme è anche questo: decomporre gli spazi comunitari e collettivi delle comunità cristiana e musulmana locali e banalizzare il patrimonio storico religioso a recinti di memoria».
Capovilla: «Non penso sia questo il problema reale, quanto piuttosto il fatto che il volto della Città Santa è ormai sfigurato. E ciò la mette a rischio di non poter diventare, un giorno, la capitale dello Stato palestinese. La stessa diplomazia internazionale che non concede a Israele di spostare a Gerusalemme le sedi delle ambasciate straniere dovrebbe impegnarsi affinché essa non diventi possesso di un solo Stato, di una sola comunità». 

Di Angela Lano

Angela Lano




Osanna nelle alture

Le montagne di dio nella bibbia e nelle religioni non cristiane

In quasi tutte le religioni il monte, a motivo della sua altezza e mistero di cui è circondato, è ritenuto
il punto in cui il cielo incontra la terra. Ogni paese ha il suo monte santo, dove abitano le divinità
da cui viene la salvezza. La bibbia ha conservato tali credenze, ma le ha purificate.

T ra tutti i fenomeni della natura la montagna come luogo sacro e seducente ha sempre affascinato gli uomini. Essa è considerata in modo del tutto particolare luogo delle ierofanie, delle manifestazioni del sacro. Fin dai tempi più remoti, in quasi tutte le religioni e in tutte le civiltà si credeva che l’altitudine avesse una virtù consacrante, che le regioni superiori fossero sature di forze sacre.
Tutto quello che più si avvicinava al cielo, partecipava con intensità variabile alla trascendenza. L’altitudine (monti, cime, colline, alture) veniva assimilata al trascendente, al sovrumano, punto d’incontro del cielo e della terra, simbolo della presenza del sacro e dell’ascensione umana verso Dio.
NEL MONDO BIBLICO
Le montagne hanno un compito importante nelle vicende del popolo d’Israele. Non sono solo menzionate come luoghi geografici; hanno anche un valore simbolico. Sono pieni di sacralità, producono determinati effetti religiosi, diventano luoghi di culto dai quali si rende gloria a Dio. Per tutti questi motivi i monti sono l’abitazione di Dio: «Dio ha scelto a sua dimora il monte di Basan, il monte delle alte cime; il Signore lo abiterà per sempre» (Sal 67, 14-17).
Nella bibbia, specialmente là dove si narrano gli avvenimenti più antichi del popolo ebraico, moltissimi luoghi di culto si trovano sulle «alture», parola che traduce il plurale ebraico bāmôt, luoghi normalmente situati sulla cima di una collina o di un monte, dove Dio abita e si rivela:  dal monte Ararat, sulla cui cima l’arca di Noé si arenò dopo il diluvio e dove Noé offrì olocausti al Signore (Gn 8, 1-22), al monte Sinai, il cuore dell’Esodo, la montagna «tutta fumante, perché su di essa era sceso il Signore nel fuoco» (Es 19,16-20).
Anche il Dio d’Israele, Jahvè, è sovente collegato strettamente alle montagne sacre. «Il loro Dio – dicevano gli aramei degli israeliti – è un Dio delle montagne, per questo ci sono stati superiori» (1Re 20,23).
I monti Sinai, Or, Ermon, Carmelo, Libano, Tabor, Garizim, Sion erano per eccellenza di Jahvè, gli appartenevano. In Sion era la cittadella di Dio, che dava sicurezza al suo popolo; era il monte santo, la dimora di Dio, la città del grande Sovrano (Sal 47,2-4; 52,7; Is 62,5). Su di esso abitava la magnificenza di Dio e da esso veniva «il mio aiuto» (Sal 120,1-2). Lo salirà solo «chi ha mani innocenti e cuore puro, chi non pronuncia menzogna e non giura a danno del suo prossimo» (Sal 23,3-4).
Il monte Sinai rappresenta ed è veramente il cuore di tutta la vicenda del popolo ebraico. È il monte della rivelazione di Dio e dell’alleanza con il suo popolo, è il monte Oreb della tradizione elohista e deuteronomista. Prima della grande teofania sul monte Sinai, Mosé si tolse i sandali dai piedi, «perché il luogo sul quale tu sali è una terra santa» (Es 3,5). Da Jahvè ricevette l’ordine di fissare tutto intorno al monte un confine. Nessuno doveva salire sul monte e neppure toccarne le falde (Es 19,12). Dopo questi avvertimenti, Jahvè parlò al suo popolo da un fuoco in mezzo al cielo, senza vedere alcuna figura, ma solo una voce (Es 20,22; Dt 4,12-18).
Nel racconto del Sinai hanno un particolare valore simbolico le espressioni come fuoco, fulmine e tuono. Sono immagini che sottolineano la potenza della parola di Dio. Così pure, tenebre, oscurità, nuvole e pioggia indicano il nascondimento di Dio. Il suono dei coi e delle trombe rinviano alla liturgia che si celebrava a Gerusalemme, sul monte Sion, dove Jahvè voleva essere sempre presente.
I monti sono il luogo delle manifestazioni di Dio anche  nel Nuovo Testamento. È il caso dell’alto monte delle tentazioni di Gesù (Mt 4, 8-10; Lc 3, 5-8). Su un’altra montagna, rimasta senza una precisa connotazione geografica, ma non certo priva di un linguaggio simbolico, quello del Sinai, Gesù fece il discorso delle beatitudini (Mt 5,1-12; Lc 6,20-23). Sul monte Tabor avvenne la trasfigurazione, benché molti esegeti pensino a una diversa montagna, quella dell’Ermon.
TRA GLI ANTICHI POPOLI MEDIORIENTALI
Molte forme del culto delle alture furono mutuate, specialmente durante l’epoca dei re, dalle popolazioni con cui gli ebrei nel loro peregrinare vennero a contatto, dalla Mesopotamia all’Egitto, dai sumeri agli ittiti, soprattutto dai cananei, che esercitarono una notevole influenza sulle tradizioni religiose ebraiche.
Il dio Baal di Ugarit, città sulla costa della Siria, che costituisce per noi la migliore testimonianza della civiltà cananea più antica, viene menzionato molte volte nella bibbia. Era il dio della tempesta, del tuono, dei fulmini, della pioggia, della fertilità e della fecondità, e come tale fu protagonista di un grande ciclo mitologico. Sua dimora era il Monte Lapanu, visibile da Ugarit con la sua cima avvolta dalle nubi.
Assai popolare in Canaan, il dio Baal costituì una tentazione permanente per Israele e Israele ne subì il fascino, così come accadde di fronte alle tradizioni religiose della civiltà egizia, babilonese e altre ancora.
La cosmogonia egizia esordisce con l’affiorare di un’altura dalle Acque primordiali. L’apparizione di questo «primo luogo» al di sopra dell’immensità delle acque significa l’emergere della terra, ma anche della luce e della vita. A Heliopolis la località chiamata «Collina della Sabbia» era identificata con la «Collina primordiale». Di fatto ogni città, ogni santuario, era considerato un «Centro del mondo», luogo in cui aveva avuto principio la creazione. L’altura primordiale talvolta diveniva la Montagna Cosmica, sulla quale il faraone saliva per incontrare il dio sole.
Per i cananei gli oggetti più comuni che rappresentavano simbolicamente la divinità erano le massebe (massebôth) e le ascere (asherim). Le massebe erano stele o cippi o pilastri, ritti, alti, stretti, rozzamente levigati, spesso con qualche emblema raffigurante la mascolinità, quando si trattava di pietre dedicate a un dio, o la femminilità, quando il cippo doveva raffigurare una dea. Non vi era, si può dire, «altura» (bāmôth) in terra di Canaan senza una o più massebe.
Nell’area indoiranica
Il tema della montagna come luogo abitato dalla divinità è evocato anche nella religione dell’antico Iran. I persiani usavano salire sulle più alte vette dei monti per offrire i sacrifici al loro dio. Questo fatto indica come nell’ideologia religiosa iranica le montagne avessero un posto molto importante. Ai monti si elevavano lodi e nel calendario zoroastriano il ventesimo giorno del mese era consacrato alla Terra, alle montagne e allo Khvarenah. Dietro questa concezione stava l’idea di una montagna cosmica come Axis Mundi, comune a tutta l’area indoiranica.
Al centro del mondo gli iranici collocavano il picco della grande catena montuosa dell’alta Harā, così come gli indiani dell’India ponevano il monte Meru, la vetta più alta della catena Lokāloka. La cima della Harā e il monte Meru (sameru nella cosmografia buddista) erano collocati «al centro di un continente o di una regione, Khavaniratha in Iran o Jambūdvīpa in India, a sua volta circondato da altri sei continenti o regioni, come sei grandi porzioni circolari in cui si suddivideva la terra».
In India la natura nel suo complesso è concepita come vibrante di vita: alberi, rocce, montagne, acque e cascate sono centri di forza per il sacro, e diventano santuari dove i fedeli trovano e danno senso alla loro esistenza. Le montagne e le foreste parlano agli indiani delle potenze divine che contrastano gli sforzi umani, e richiamano così alla loro mente la lotta che si svolge tra il bene e il male, tra le potenze divine e quelle demoniache.
Il mito di una montagna, di un albero, di una scala o di una corda, che collega la Terra al Cielo come Axis Mundi, lo si ritrova anche nelle religioni dell’Asia centrale e settentrionale. Antichissima è l’idea che il monte meriti venerazione come centro di forza della terra e che la terra viva là dove si solleva. Il «monte del mondo» che emerse dalle acque del caos primordiale, e sulla cui sommità troneggia En-lil, è il simbolo della terra per i babilonesi e ha la sua immagine nelle ziqqurat, torri a gradoni che s’innalzavano verso il cielo, come la torre di Babele (Gen 11,1-9). Si credeva infatti che la ziqqurat poggiasse la sua base sull’ombelico della terra e toccasse il cielo con la sommità e che come tale fosse un monte cosmico, un’immagine simbolica e viva del cosmo.
tra i popoli africani
Abitate dagli dei o venerate come divinità sono soprattutto le montagne vulcaniche e quelle coperte di nevi perenni, come il monte Kenya e il Kilimangiaro in Africa o l’Aconcagua e i picchi più elevati della Cordigliera delle Ande nell’America meridionale. «Gli uomini abitano nella valle, sui monti dimorano gli dei», dicono le popolazioni che vi abitano. Presso i popoli antichi esisteva la credenza che la terra vivesse là dove si sollevava.
La montagna, associata alla divinità e al simbolismo ascensionale celeste come evocazione della presenza di Dio, è tipico soprattutto dei popoli pastori, per esempio i masai, ma anche degli agricoltori, come i kikuyu del Kenya e gli yoruba della Nigeria. La montagna domina infatti il paesaggio. Da qualsiasi punto della pianura, della steppa o della savana, si vede la sua sommità. Essa emerge nella luce quando la terra è nell’ombra ed evoca l’elevazione dell’anima a Dio. Il culto a Dio può svolgersi sulla montagna oppure rivolto a essa. Su di essa si formano i temporali: il tuono che è voce del cielo e le piogge che distruggono o vivificano. Si deve però sottolineare che la montagna di per sé non raffigura Dio; essa non fa che evocare l’esperienza di una presenza trascendente il mondo e l’uomo.
Nell’Africa del sud alcune colline sono note come luoghi dove vive la divinità. Su di esse non pascola il bestiame e la gente raramente vi sale. «Solo quando imploriamo la pioggia saliamo su questa altura. Saliamo in silenzio, pieni di timore, tenendo gli occhi abbassati e camminando con umiltà. Non parliamo, perché colui alla cui presenza ci troviamo è terribile».
in america latina
Le popolazioni montane delle Ande vedono in Pachamama, la Terra Madre, la fonte e la protettrice della vita. Sulle cime alte innevate vivono gli spiriti Apu, «signori», che controllano ogni cosa. Gli spiriti delle cime più basse sono detti Anki e non sono potenti come gli Apu. Sia gli Apu che gli Anki portano il nome della montagna o collina su cui vivono. Essi sono gli dei principali della popolazione delle Ande.
Gli aztechi del Messico veneravano la grande montagna Iztacihmath (donna bianca) e il suo compagno Popocatepetl (montagna fumante); i tlascaltechi la montagna Matlalcueye (veste azzurra), ora chiamata Malinche.
Nel mese decimoterzo del loro calendario celebravano la festa dei numi delle montagne, rappresentati da quattro donne e un uomo; ognuno di essi, durante la festa e prima di essere sacrificato, portava il nome della sua divinità, ossia Tepechoch, Matlalquac, Xuchitecatl, Mayahuel e Minohuatl.
in asia centro-orientale
I monti più sacri sono, a seconda della tradizione religiosa del luogo, l’Olimpo in Grecia, il Fuji in Giappone, il Kailāš in India, i Monti Altai (mongolico: Ultain Ula, montagna d’oro) e i Monti celesti (Tängri Dag Tien Cian) nell’Asia centrale.
A Tängri, un nome che indicava sia il dio dei mongoli sia il cielo azzurro, venivano indirizzate preghiere di oranti solitari che s’inchinavano al suo cospetto sulle cime delle montagne, mentre in suo onore si bruciava incenso di ginepro. L’antica religione del Tibet si chiama bön. A somiglianza di molte religioni ritiene che le montagne, come il Kangchenjunga, siano la dimora degli dei.
Anche in Giappone lo shintornismo ha considerato oggetto privilegiato di venerazione le montagne, ritenute abitazione delle divinità o kami. Dallo shintornismo deriva l’amore che i giapponesi hanno per la natura, per la bellezza del paesaggio e la maestosità delle montagne, fonte di riconoscenza verso i kami e di godimento estetico.
Molte sono le montagne che ospitano santuari sulla loro cima. Famosissimo è il monte Fuji, una sorta di simbolo religioso della nazione. Secondo un’antica tradizione, Amaterasu, la dea solare, l’augusta dea che illumina il cielo, mandò suo figlio a governare le isole giapponesi. Egli sposò la figlia del Monte Fuji e un nipote divenne il primo imperatore del Giappone. Una delle principali correnti religiose scintorniste, la Jikko, rivolgendosi al Monte Fuji, prega per il bene e la continuità della famiglia imperiale, l’esistenza della nazione e l’assistenza divina nell’adempimento del proprio dovere.
Il culto delle montagne incoraggiò anche uno dei movimenti sincretistici più affascinanti della storia della religione, il movimento shugendo, che fuse insieme buddismo e shintornismo.
Proveniente dalla Corea e dalla Cina, il buddismo in Giappone è datato dall’inizio del VI secolo d.C. Nell’805 circa, sul Monte Hiei, vicino alla nuova capitale Kyoto, sorse uno dei più importanti insediamenti buddisti, che s’ispirava alla scuola cinese t’ien t’ai. Quasi subito dopo sul Monte Koya, a sud di Kyoto, fu fondato un altro insediamento che si ispirava al buddismo shingon, la scuola istituita dal monaco Kukai (744-835), venerato come un santo.

G li esempi segnalati non esauriscono il tema della montagna come abitazione della divinità. Sono comunque sufficienti per dimostrare una certa omogeneità d’ispirazione religiosa, un comune linguaggio sacrale, portatore di una comune nozione circolante fra i popoli del vicino Oriente nel II-I millennio prima di Cristo e diffusa in molte altre civiltà, anche se formulata in modo diverso a seconda delle tradizioni religiose. Questo fatto ci introduce in una comparazione storico-culturale e apre una prospettiva larghissima su orizzonti di gran lunga più vasti di quello del mondo ebraico, sui quali ci siamo soffermati brevemente.
Ci si potrebbe per esempio chiedere se il Dio che abita le alture sottintenda il classico «monoteismo biblico» o semplicemente la nozione di un «essere supremo», quale si riscontra sulla maggior parte delle religioni tradizionali. La pura e semplice affermazione dell’esistenza di un rigido monoteismo del Dio delle alture va certo almeno in parte ridimensionata, sia perché non vanno dimenticate le influenze della civiltà egizia, mesopotamica e specialmente cananea sulla religione ebraica, sia perché non si possono trasferire in blocco nell’idea di Dio propria della nostra civiltà occidentale, elaborata nell’Antico Testamento, passata nel Nuovo e poi definita chiaramente in seno al cristianesimo.

Così pure ci si potrebbe interrogare sugli attributi del Dio delle «alture», come l’onniscenza nella sua forma divina o magica. Le due forme sembrano talvolta coesistere nella stessa figura del Dio delle alture, all’interno di concezioni diverse a seconda dei gradi di civiltà dei popoli della terra: nomadi, pastori, cacciatori, agricoltori. 

Di Giampiero Casiraghi

Giampiero Casiraghi




Handan se ne deve andare

Reportage / Breve viaggio nei quartieri di Istanbul (2a): Ayazma e Tarlabashi

Dopo Sulukule (cfr. MC, maggio), dove gli abitanti sono (o erano rom), adesso sgombrare tocca a Ayazma e Tarlabashi, quartieri di Istanbul in cui vivono molti profughi. Anche in questo caso le autorità turche parlano di una riqualificazione urbanistica che porterà benefici per tutti. Ma anche in questo caso sono gli affari che muovono tutto. Con in più una motivazione politica: gli abitanti sono in maggioranza curdi…

Istanbul. «Era notte fonda quando è arrivata la polizia. Svegliati di soprassalto, siamo stati costretti a uscire dalle case. Io non volevo uscire così. Era dicembre ed era freddo: mi sono rifiutata. Sono stata picchiata e a mio padre hanno rotto un braccio». Handan è curda e dimostra più dei suoi 15 anni. È cresciuta in fretta ed ha l’aspetto di una donna. Le ciabatte che indossa sbucano dal lungo vestito colorato. Mentre cammina tra le macerie, la sua voce è rotta dall’emozione. Racconta, sistemandosi il velo e indicando le pietre e i calcinacci che ci circondano. «Siamo usciti tutti e, dopo qualche ora, le nostre case non c’erano più».
Siamo ad Ayazma, gecekondu curda nella periferia di Istanbul, vicino allo stadio Atatürk dove si giocò la finale di Champions League nel 2005. Gecekondu significa «sorto in una notte», ed è un’espressione che indica le baraccopoli (1). Continuiamo a camminare facendo gimcana tra i cumuli di macerie.  Quando incontriamo una baracca o una tornilette improvvisata (una «turca» in mezzo al nulla e senza acqua corrente, per cui ogni volta che la si usa c’è un andirivieni con i secchi), Handan mi spiega che «prima non era così, non eravamo costretti a uscire per andare in bagno, ma soprattutto non dovevamo arrivare fin qui per prendere l’acqua». Mi indica un contatore fissato su un tubo che viene fuori dal terreno e mi fa capire a gesti che per quell’acqua pagano una bolletta troppo cara.

«Portami in Italia» 

Entriamo in una delle baracche, dove troviamo il padre di Handan e un amico. Ci sediamo su un tappeto che copre tutto il terreno, in un ambiente ordinato e pulito nonostante gli spazi ridotti. I due uomini mi mostrano un documento ufficiale firmato dal sindaco della municipalità di Küçükçekmece, Aziz Yeniay, in cui si dichiara che le demolizioni saranno l’occasione per gli abitanti di Ayazma per cambiare vita. La municipalità di Istanbul, quella di Küçükçekmece e Toki, l’«Amministrazione centrale alloggi», provvederanno a fornire soluzioni abitative tagliate sulle esigenze di ogni nucleo familiare, sia esso proprietario di immobile o affittuario. Nuove modee case con tutte le comodità sono la soluzione proposta agli abitanti di Ayazma, che, sempre secondo il documento, non si saranno dispersi ma rimarranno uniti in una nuova comunità. Segue una sfilza di documenti da presentare al comune per avere diritto ad una nuova abitazione. Molti residenti non hanno quelle carte, perché la maggior parte degli immobili è ancora abusiva. E 18 famiglie hanno deciso di rimanere ad Ayazma per denunciare l’operazione delle autorità, che fingono di non sapere che la maggior parte degli abitanti della gecekondu è costituita da profughi, scappati senza nulla dal sud-est della Turchia.  Mentre lascio il campo Handan mi prende da parte, sorride, e mi rivolge una preghiera: «Portami in Italia…».
Anche Ahmad è curdo, ha una piccola attività dove vende pezzi di ricambio per lavandini e oggetti di ferramenta, vive nello storico quartiere di Tarlabashi, a 2 fermate di tram da Taksim, il cuore commerciale di Istanbul. «Sono arrivato nel 1994. Abitavo in un villaggio del sud est della Turchia vicino Diyarbakir, ma la tensione e la presenza costante dei militari erano stressanti, molti dei nostri villaggi sono stati distrutti. Inoltre in quella zona non c’è lavoro, quindi mi sono trasferito qui, a Tarlabashi». La vita della comunità curda di questo quartiere ruota intorno a una via centrale con piccole attività commerciali, bar, una piazza e una moschea. In questo modo si è ricreato il tessuto sociale dei villaggi d’origine interessati dalle forti migrazioni intee degli anni ’90 (2) .
Nel piccolo retro del negozio dove Ahmad ci offre il tè si raccoglie un gruppetto di giovani: è raro che stranieri e turchi si fermino a parlare con i curdi nel cuore di Tarlabashi. La zona è considerata pericolosa, il tasso di criminalità, secondo la municipalità di Istanbul, è uno dei più alti in città.

Terroristi o criminali 

«Ayazma è bollata come roccaforte del Pkk (3), mentre a Tarlabashi semplicemente sono tutti criminali. Ecco come le istituzioni turche cercano di creare il consenso tra la popolazione per realizzare i loro progetti di riqualificazione urbana», sostiene Cihan Baysal, attivista turca che sta scrivendo la sua tesi di laurea sui diritti dei residenti di Ayazma per la Istanbul Bilgi University. «Ayazma nasce negli anni ’80, ma cresce nella metà degli anni ‘90 in seguito alle migrazioni intee. Le circa 2.000 case del quartiere divennero molto affollate allora. La gente costruì le case sul terreno statale, fuori dalla legalità, ma nel tempo, con i condoni edilizi, molti sono riusciti a ottenere la proprietà degli immobili».
I quartieri, sebbene molto diversi perché uno ha l’aspetto di un campo profughi mentre l’altro ha un ricco patrimonio architettonico, sorgono entrambi su un terreno che si è apprezzato. Il piano di riqualificazione delle aree urbane storiche e fatiscenti  (4) coinvolge entrambi, e uno degli attori principali è il Toki: «Il Toki è un ente pubblico – spiega Cihan – che dovrebbe costruire case popolari per gli strati meno abbienti della popolazione, ma negli ultimi anni, soprattutto dopo l’ascesa al potere dell’Akp (il “Partito per la giustizia e lo sviluppo” di Tayyip Erdogan oggi al potere, ndr) , si è trasformato in un’impresa al servizio degli strati più ricchi della popolazione: costruisce case eleganti e molto costose».
È proprio il Toki l’organismo incaricato di reclutare le società di costruzione che dovranno ricostruire Tarlabashi e Ayazma: da una ricerca dell’associazione turca Human Settlement Association le imprese che vincono i bandi risultano essere direttamente collegate all’Akp di Tayyip Erdogan e portano avanti forti speculazioni edilizie. 
«Sulla carta i residenti di Ayazma e Tarlabashi hanno gli stessi diritti della popolazione turca, quelli sanciti dalla Costituzione – continua Cihan -, in quanto sono cittadini della Repubblica turca, ma la realtà è molto diversa. Non hanno neanche i diritti sociali ed economici di un cittadino medio, per esempio dovrebbero avere la cosiddetta “carta verde” per avere diritto all’assistenza sanitaria gratuita, ma molti di loro non riescono ad ottenerla. Spesso fanno lavori umili e pesanti senza contributi e senza tutele, con stipendi da fame». La discriminazione si esprime al meglio quando si giocano le partite della nazionale turca nello Atatürk Stadium, sulla collina di fronte ad Ayazma: gli abitanti vengono intimati dalla polizia a non uscire dalle baracche per evitare che il pubblico internazionale veda cosa c’è fuori dallo stadio. Tra non molto questa misura d’ordine pubblico non avrà più nessuna importanza: Ayazma sarà sinonimo di villette a due o tre piani con giardino, dove le classi abbienti potranno muoversi liberamente. 

Intanto, a Tarlabashi …

Il quartiere di Tarlabashi è leggermente più agiato di Ayazma e non si trova in periferia, ma nel cuore commerciale di Istanbul.
A Tarlabashi la Bilgi University di Istanbul è presente con un ufficio. Nel quartiere, i problemi relativi a educazione, povertà e discriminazione vengono affrontati con l’aiuto di operatori e assistenti sociali. Ceren lavora con i bambini: «I problemi principali sono la mancanza di scolarizzazione e di strutture per bambini e anziani, e ovviamente la povertà».
Il professor Alper Unlu della Istanbul Technical University ha tenuto conto di queste problematiche e ha capito che qualsiasi piano di riqualificazione urbana deve passare attraverso una loro soluzione. Il progetto di recupero dell’area che ha presentato alla municipalità prevede la costruzione di scuole, centri culturali e sportivi per i residenti, insieme al restauro degli edifici, ma la municipalità di Beyoğlu ha preferito il piano presentato da un commerciante che possiede un hotel nella zona e che è riuscito a mettersi d’accordo con gli enti locali. «Istanbul dovrebbe essere capitale europea della cultura nel 2010, ma, quando si valuteranno i risultati di questi progetti, il comune e gli enti locali dovranno affrontare problemi seri».
Dello stesso parere è Jean-François Perouse, sociologo urbano direttore dell’Osservatorio urbano di Istanbul, facente parte dell’Istituto francese di studi sull’Anatolia: «Gli enti locali hanno come obiettivo primario far lavorare le società di costruzione legate all’Akp, lo sviluppo del turismo e la diversificazione sociale. Presentano questo progetto come un restauro dell’intera città per il 2010, ma aree come Tarlabashi e Ayazma devono essere svuotate per essere riempite di residenti appartenenti alla classe borghese, che ha un reddito più elevato e può migliorare l’immagine della città, secondo le autorità locali. Ayazma verrà ricostruita con casette a pochi piani per nuovi ricchi. È una politica molto miope».
Le autorità centrali e locali promuovono il progetto di riqualificazione urbana facendolo passare per un’iniziativa sociale senza precedenti, un punto di svolta nella vita di migliaia di famiglie. I nuovi quartieri di Bezirganbahce e Basibuyuk, dove la maggior parte dei residenti verrà trasferita, si presentano come sobborghi con palazzoni coloratissimi a 20 e più piani, molto vicini l’uno all’altro. E nelle strade neanche un albero. A metà aprile il sindaco di Istanbul, Kadir Topbaş, ha accompagnato una delegazione di giornalisti della televisione giapponese, a Istanbul per girare un documentario sulla città, nel quartiere di Bezirganbahce: la visita doveva essere un’occasione per mostrare l’operato della sua amministrazione, e quanto i nuovi appartamenti del Toki siano modei e confortevoli. L’accoglienza dei nuovi abitanti è stata una violenta protesta infarcita di improperi che è finita su tutti i giornali, e che in qualche modo il sindaco avrà dovuto spiegare agli attoniti ospiti. La visita successiva, che sarebbe dovuta svolgersi ad Ayazma per illustrare il progetto di riqualificazione dell’area, è stata prontamente annullata.
Lo stipendio medio di una famiglia di Bezirganbahce si aggira intorno alle 600-650 lire turche, mentre le spese di un appartamento, gas, acqua, elettricità e affitto, superano le 750 lire turche. Coloro che non possono pagare sono perseguitati dalle banche: se non si paga l’affitto per più di cinque mesi la banca manda un avviso a domicilio. Se il debito non viene saldato entro i termini prescritti, l’appartamento viene confiscato. «Se una donna rimane vedova questo è l’ineluttabile destino che l’aspetta», spiega Cihan Baysal. «Inoltre, la vita in questi quartieri è molto diversa da quella di comunità all’aperto di Ayazma, dove bastava uscire di casa per incontrare i vicini e far giocare i bambini nei prati. Ora le persone si sentono come prigioniere in piccoli spazi al 18° piano di palazzoni di cemento».

Case nuove e scadenti

Matteo Pasi è un videomaker che, insieme a Marcello Dapporto, ha realizzato il documentario «Ayazma. Ghetto curdo nel cuore di Istanbul». Una parte del suo lavoro riguarda i nuovi edifici dove gli sfollati ottengono un appartamento, dove tra non molto anche Handan e Ahmad saranno costretti a trasferirsi.
«I nuovi edifici nel distretto di Bezirganbahce – racconta Matteo – sembrano accettabili e vivibili, ma abbiamo potuto verificare che sono costruiti con materiali di secondo ordine. Continuamente si riscontrano problemi idraulici e di manutenzione, sia per la singola abitazione che per l’intero condominio. Alcuni condomini anziani buttano la spazzatura dal sesto piano perché l’ascensore non funziona per settimane. Diventeranno quartieri discarica, abbandonati a loro stessi e con persone senza alcuna possibilità economica, il cui problema non potrà più essere la questione culturale e politica curda, ma la sopravvivenza». 

Di Alessandra Cappelletti

 

Alessandra Cappelletti




Chi vuole uccidere sulukule?

Reportage: breve viaggio nei quartieri di Istambul

È un antico distretto a poca distanza dal Topkapi, il palazzo del sultano. Insediamento rom da oltre mille anni, un tempo Sulukule era frequentato da turisti, che vi trovavano cibo, musica e danze. Poi arrivò il degrado, non spontaneo. Oggi le ruspe (e i gas lacrimogeni) lo stanno radendo al suolo. In nome della politica e della speculazione edilizia.

Istanbul. «Per la fine della primavera verranno a demolire le case rimaste, la prossima estate non saremo più qui», la signora Uyar parla con Ferdin Davaroglu in una stradina di Sulukule, i lembi del suo lungo vestito toccano l’asfalto, mentre si accarezza i pochi capelli che escono dal velo colorato. Con fronte corrugata e sguardo rassegnato continua: «Ma noi non sappiamo dove andare».
Ferdin, che ha vissuto in Svizzera ed è tornato a Istanbul per stare vicino agli anziani genitori, risponde: «Avete accettato di vendere le vostre case, ora cosa possiamo fare? Dovevate parlarne prima, dieci anni fa, quando l’area di Sulukule è stata inserita nel progetto di riqualificazione urbana del Comune di Fatih, essendo considerata una delle zone fatiscenti della città di Istanbul. Ma voi vi svegliate solo ora, oramai non vi resta che andarvene». Il piccolo gruppo di residenti che si è raccolto intorno a noi rimane in silenzio. I bambini continuano a giocare tra le macerie e nel frattempo passa un signore, Ferdin lo ferma: «Murat è stato coraggioso, non ha venduto la sua casa e forse c’è ancora qualche speranza». Murat annuisce ma non nasconde una certa ansia, mentre parla la sigaretta che tiene in mano trema leggermente: «Ho fatto la mia scelta, ma non nutro speranze, so che la legge non tutela noi residenti, ma serve a dare sempre più potere al Comune e alle società private che vincono gli appalti. Non so cosa succederà, l’unica cosa che posso fare è aspettare».

La notte di Sulukule 

È un susseguirsi di voci, passaparola, lettere e avvisi ufficiali: scadenze, ultimatum, numeri civici, cognomi, proprietari e affittuari, municipalità, gli elementi del dramma ci sono tutti, e si confondono in un’unica forte paura, poiché nessuno può dire con certezza cosa succederà nel futuro immediato a Sulukule. L’unica certezza si ha quando ci si sveglia la mattina e tre, quattro case vicine sono state demolite, come se la notte e il buio concedessero l’impunità a questi operatori nottui, e la luce del giorno, le voci e l’attività facessero svanire, come dopo un brutto sogno, i lati più controversi della questione.
Purtroppo non è così, e in una bella mattina primaverile di metà marzo gli abitanti di Sulukule sono usciti e hanno trovato delle croci rosse sui muri delle case.
«La Municipalità di Fatih ha fatto marchiare le case con grosse croci rosse realizzate con bombolette spray, – spiega Cihan Baysal, attivista che sta scrivendo un rapporto sulla difesa dei diritti dei residenti di varie parti della città per la Istanbul Bilgi Üniversitesi, famosa perché si occupa di temi sensibili per la Turchia, come il genocidio degli armeni – sono gli edifici che saranno demoliti nei prossimi giorni, forse nelle prossime ore. È una vera vergogna. Stiamo riunendo vari gruppi per contestare questa pratica, dipingeremo sulle croci e faremo stendere grandi lenzuoli bianchi fuori dai balconi. Nel distretto di Basibuyuk sono stati usati gas lacrimogeni contro i residenti, molti sono stati picchiati e feriti gravemente. Abbiamo tutti paura che succeda anche a Sulukule. Erdoğan ha fatto una conferenza stampa in cui ha accusato i manifestanti di non essere al corrente nel modo giusto dei piani del governo, ma è apparso nervoso e a disagio».

Quando James Bond 
era di casa

Antico distretto della città di Istanbul, Sulukule sorge a ridosso delle mura costruite dall’imperatore Teodosio nel V sec. d.C., nella municipalità di Fatih, a qualche fermata di autobus dal centro turistico di Sultan Hamet e da Topkapi, il palazzo del sultano.
Fonti scritte risalenti al 1054 attestano la presenza di musici, acrobati, giocolieri e domatori di orsi arrivati su cavalli, bambini e donne con lunghe gonne che praticano la chiromanzia, accampati lungo le mura bizantine. Scambiati al tempo per egiziani, in realtà arrivavano dal nord-est dell’India e fuggivano dalle invasioni musulmane. Sotto Mehmet il Conquistatore, nel XV sec., l’abitato da temporaneo divenne permanente: oggi rappresenta il più antico insediamento rom del mondo. Luogo unico, dal forte valore simbolico per una popolazione vittima di discriminazione e per un’Europa in cui la convivenza tra culture è un dichiarato obiettivo politico, i suoi 3.500 residenti ne rappresentano il vero patrimonio.
Nei secoli, all’ombra delle antiche mura, la comunità è cresciuta e ha dato vita a un tessuto sociale attivo e vivace: l’interazione degli abitanti di Sulukule con la città è uno dei rari esempi di integrazione riuscita di una comunità rom, che vive nel rispetto delle tradizioni e del proprio stile di vita.
È necessario fare un passo indietro fino al periodo precedente il 1992, quando gli abitanti erano circa 20.000 e il quartiere uno dei più vivaci e turistici di Istanbul. Il cuore della cultura rom, musica e danza, si era riproposto in vere e proprie attività redditizie: le case d’intrattenimento erano almeno 40, e costituivano il nucleo della socialità e dell’economia locali. In un’atmosfera calda e accogliente, il capo famiglia e i figli maschi suonavano, la moglie cucinava e le figlie danzavano. Gli abitanti di Istanbul e i numerosi turisti erano attratti dalle melodie e dalle danze orientali di famosi musicisti e danzatrici. «Nel 1992, quando Tayyip Erdogan era sindaco di Istanbul, il Comune e la Polizia hanno chiuso le attività, sostenendo che fossero illegali perché non si pagavano le tasse –  spiega Hacer Foggo di Sulukule Platform, gruppo di attivisti nato dalla Sulukule Romani Culture Solidarity and Development Association -. Gli abitanti sostengono che le tasse venivano pagate regolarmente, ma che non veniva rilasciata alcuna ricevuta di pagamento».
Da allora il quartiere si è spopolato e impoverito, alcune famiglie non possono permettersi di pagare i servizi base come acqua e luce. La disoccupazione e il tasso di criminalità sono aumentati, e l’area si è gradualmente trasformata in un vero e proprio slum in cui non mancano prostituzione, spaccio e delinquenza.
La storia di Sulukule è ora al capolinea: le sue stradine in salita, gli edifici bassi e colorati che si rincorrono lungo i vicoli fiancheggiati dalle antiche mura, le case in legno e pietra con gli interni variopinti e le decorazioni floreali dei soffitti, tra non molto rimarranno solo nella memoria degli anziani e nelle scene del film «Arkadas» di Yilmaz Guney girato nel 1974, o in quelle di «Agente 007. Dalla Russia con amore» del 1963, in cui James Bond si ritrova in una rissa in una Sulukule dall’atmosfera noir. Per il 2010, quando Istanbul sarà la capitale europea della cultura e il progetto della municipalità di Fatih sarà completato, nell’area ci saranno 480 nuove casette in stile ottomano, un palazzo di uffici, un centro culturale, un hotel e un grande parcheggio. 

Espropriazioni con la forza

Il progetto è stato definito nel 2003, ma è nel 2005 che il Parlamento turco approva la legge 5.366 sul recupero e il riutilizzo delle zone storiche fatiscenti, meglio conosciuta come «legge sugli espropri». «La legge 5.366 dà tutti i privilegi agli enti locali, mentre gli individui e i proprietari degli immobili non sono considerati – spiega il prof. Alper Unlu della Istanbul Technical University, uno degli istituti più prestigiosi del paese per gli studi di architettura e ingegneria -, così i diritti della popolazione rom sono brutalmente calpestati. Si sta verificando una sorta di inganno: il progetto è presentato come un piano di recupero sociale ma in realtà le autorità stanno mandando via le persone in modo poco chiaro. Le basi legali per procedere all’espropriazione e alla demolizioni non esistevano, gli enti locali hanno preso decisioni ad hoc per legittimare gli espropri».
Appellandosi a questa legge, il 13 luglio 2006 il Comune di Istanbul, la municipalità di Fatih e il Toki, l’«Amministrazione centrale alloggi», firmano un accordo in cui si rende operativo il progetto di recupero di diverse zone della Istanbul storica, tra cui Sulukule. Lo slogan del progetto è People first. A nulla servono le proteste degli abitanti del quartiere, che, non invitati a partecipare all’incontro, si riuniscono davanti alla sede centrale del Comune di Istanbul. Ong e associazioni per la tutela dei diritti umani vengono coinvolte, comincia una vera e propria campagna in difesa dei diritti dei residenti rom e per la tutela della loro cultura e del loro spazio vitale. La risposta del governo turco arriva nell’ottobre 2006: con un provvedimento ad hoc si autorizzano le espropriazioni forzate dei terreni di Sulukule, lasciando così un’unica possibilità, la vendita degli immobili.
«Queste persone dovrebbero avere la possibilità di integrarsi nel tessuto urbano: mancano occasioni di incontro, scuole, posti di lavoro – continua Alper Unlu -. La legge è dalla parte dei developers, le società private che prendono in gestione interi terreni e ne “riqualificano” lo status costruendo e vendendo gli immobili. Nei loro progetti l’aspetto sociale non è considerato. Non si tratta neanche di un vero restauro: si conservano le facciate degli edifici ma si demolisce tutto quello che c’è dietro, e si ricostruisce non rispettando le funzionalità originarie dell’immobile. Questo modo di procedere è contrario all’etica professionale e darà ai residenti il diritto di andare in tribunale. Dobbiamo aspettarci grossi conflitti».     
Nonostante il professor Unlu sostenga che, alle porte del 2010, quando Istanbul sarà «Capitale europea della cultura» (con Essen e Pécs) , Comunità europea e Unesco valuteranno negativamente i risultati di questo progetto mettendo in imbarazzo il governo turco, il sindaco di Istanbul Kadir Topbaş continua a presentare il progetto come una iniziativa sociale senza precedenti, dichiarando che la sua attuazione rappresenta la via diretta alla risoluzione dei problemi dei residenti. Le case saranno ricostruite e saranno dotate di tutti i servizi, il quartiere verrà rivalutato e gli immobili si apprezzeranno.

Una guerra 
contro i poveri

«Qui siamo poveri e ignoranti, il livello di scolarizzazione è molto basso, solo il 50% dei bambini va a scuola, le famiglie non hanno soldi per comprare i libri. Per questo la gente non si rende conto di quello che sta succedendo – dice Ferdin Davaroğlu – se non fosse stato per due o tre di noi che si sono ribellati saremmo già tutti sulla strada. Quello che dice il governo è pura propaganda, nessuno di noi qui ha i soldi per acquistare un immobile o pagare rate mensili. La maggior parte di noi non ha i servizi essenziali, vive in condizioni di pura sussistenza ed è impensabile chiederci dei soldi. Vogliono mandarci via ma noi non ce ne andremo, la mia famiglia vive qui da generazioni, non me ne andrò mai. Sono turco e amo questo paese, ma in questa situazione mi sento rom».
Il primo round di demolizioni riguarda 620 immobili di proprietà e 432 immobili in affitto, i terreni diventano proprietà statale. In ogni immobile vivono dalle due alle dieci famiglie, considerando che le condizioni di povertà costringono spesso più nuclei famigliari a una convivenza forzata. I 620 immobili verranno demoliti e ricostruiti, i proprietari possono decidere se andarsene e ricevere una compensazione calcolata su 500 lire turche al metro quadro, accontentandosi di un totale che varia dalle 7.000 alle 25.000 lire turche a seconda delle dimensioni dell’immobile, oppure possono acquistare il nuovo immobile a prezzi agevolati e con, a detta delle autorità, numerose facilitazioni. Il comune ha già ricevuto 314 richieste per comprare i nuovi immobili, solo 8 di queste sono state avanzate da famiglie rom. Il prezzo dei nuovi immobili è il triplo e spesso il quadruplo della compensazione. 
Gli affittuari dei 432 immobili da demolire saranno invece dislocati in appartamenti di periferia dove le rate mensili sono comunque troppo alte.
«Il piano sta procedendo molto velocemente – spiega Asli Kiyak, architetto e attivista di Human Settlement Association e Sulukule Platform -, siamo in tribunale ogni giorno per contestare il modo di procedere del Comune che non rispetta i diritti dei residenti e demolisce edifici storici senza autorizzazioni dal Ministero dei beni culturali.  Le persone sono state convocate singolarmente per colloqui con i responsabili della municipalità, per evitare che si creassero gruppi o comitati di solidarietà. La stampa è stata usata per far vedere che il Comune stava definendo il progetto insieme ai residenti, ma in realtà è stata un’operazione propagandistica per creare consenso e far sì che le case venissero vendute prima degli espropri».
 «Siamo stati minacciati – dice Hüseyin Küçükatasayci, 53 anni, guida di un carro trainato da cavalli -. Ho avuto paura che la mia casa venisse espropriata da un giorno all’altro, così ho venduto tutto. Ora vivo lontano da qui, in un palazzo in periferia, ma quando i vicini hanno visto il carro con i cavalli parcheggiato davanti al portone hanno protestato, e io sono tornato a Sulukule con la mia famiglia e il mio carro. Dormiamo da mia madre». Il lavoro di Hüseyin è trasportare i turisti, l’estate lavora nelle Princes Islands.
Nonostante i ricorsi alla Corte di giustizia e gli appelli alla Commissione europea per i diritti umani, 35 edifici sono stati demoliti. In Sulukule street è stata demolita la casa di legno a due piani della famiglia Güldür, che quel 21 febbraio 2007 alle 9.30 si trovava ad Ankara. La Municipalità di Fatih ha successivamente presentato scuse ufficiali alla famiglia.

«Lo facciamo per voi» 

Duecento  famiglie hanno venduto le loro case a privati e società, che da una ricerca dell’associazione Sulukule Platform risultano essere collegati all’AKP di Tayyip Erdoğan e che hanno intenzione di speculare sui nuovi immobili. «Sulukule non è un caso isolato – dice Hacer Foggo di Sulukule Platform – i distretti di Küçükbakkalköy e Kağıthane, abitati prevalentemente da rom, sono già stati distrutti e ricostruiti, e la popolazione dislocata». Il sospetto è che le autorità vogliano portare nelle periferie i rom, socialmente e politicamente molto deboli e senza strumenti per difendere i propri diritti. «Le nuove case che costruiranno a Sulukule hanno tutte il garage, considerando che qui solo il 5% della popolazione ha una macchina, è chiaro che il progetto non è fatto per gli attuali residenti. Se si va avanti di questo passo, le famiglie rom scompariranno dal quartiere» conclude Hacer.
La protesta ha raggiunto gli alti ranghi della politica e il CHP, il Partito repubblicano del popolo all’opposizione, ha invitato un gruppo di rappresentanti degli abitanti del quartiere al Parlamento di Ankara, dove il presidente della Sulukule Romani Culture Solidarity and Development Association, Şükrü Pündük, ha potuto illustrare la situazione e ha dichiarato di non essere contrario al recupero di Sulukule, ma di voler creare un tavolo di lavoro in cui insieme a governo e Comune di Istanbul sieda anche la popolazione rom.
«Non siamo contrari al risanamento degli immobili – afferma Şükrü,  ci sono situazioni veramente drammatiche e c’è bisogno di un intervento delle istituzioni. Pensiamo però che le decisioni non possano passare sulla testa di noi residenti, e che la popolazione rom abbia il diritto di proporre una propria soluzione che non rischi di tagliarci fuori da Sulukule».
Il parlamentare europeo Joost Lagendijk ha visitato l’area e ha proposto alle autorità un approccio partecipativo al problema. Due giorni dopo altri nove edifici sono stati demoliti. «Questa mossa ha confuso tutti» spiega Asli.
Il 20 marzo 2008 Tayyip Erdoğan, in uno dei suoi discorsi televisivi alla popolazione, afferma: «È molto strano quello che sta succedendo in merito al progetto su Sulukule. Quelli che protestano non ci sono mai stati, non ci hanno mai vissuto. Altrimenti si esprimerebbero in un altro modo. Se fossero sinceri e sensibili ci direbbero grazie, per aver salvato Sulukule dallo sfacelo e per trasformarlo in uno spazio moderno, in linea con la contemporaneità, dotato di tutti i servizi ma nello stesso tempo, storico. Questo è quello che stiamo facendo perché noi amiamo Istanbul». Nel frattempo elettricità e acqua sono state tagliate in molte altre case, dove «ancora bollivano le pentole sui fornelli», come riporta un comunicato stampa dei residenti. (1a puntata – continua)

Di Alessandra Cappelletti

Alessandra Cappelletti




Presenza scomoda

Cristiani a Urmia, nel Nord dell’Iran

La storia dei cristiani assiri, caldei, armeni è costellata di ostilità e persecuzioni; quelli che vivono a Urmia, nell’Azerbaigian occidentale (Iran), non fanno eccezione. L’emorragia di giovani in cerca di libertà continua; eppure la presenza cristiana nel mondo islamico ha ancora senso e costituisce un esempio per i cristiani che vivono nei paesi liberi.

Urmia è una tranquilla città nel nord dell’Iran, capoluogo della provincia dell’Azerbaigian occidentale. Pare che il suo nome significhi «culla d’acqua». L’acqua in questione potrebbe essere quella del lago omonimo, sulle cui rive è distesa la città: un’acqua salatissima, forse più di quella del Mar Morto, tanto che in alcuni punti il sale si raccoglie e diventa spiaggia e scogli. Oppure potrebbe essere l’acqua che scende dai monti Zagros, sulle cui propaggini hanno cominciato ad arrampicarsi i nuovi quartieri della città.
Se si attraversano gli Zagros e si scende dall’altro versante, quello iracheno, si arriverà nella piana del Tigri, non lontano dai resti di Ninive, l’antica capitale dell’impero assiro, un nome che rimanda d’istinto al manuale scolastico di storia antica.

IDENTITà CRISTIANA
Quello assiro fu uno dei tanti imperi, la cui gloria sorse e tramontò in quella parte d’Asia che si suole chiamare «fertile mezzaluna». Dei regni e popoli che vi si succedettero – medi, sumeri, accadi, babilonesi, cassiti, hittiti, mitanni – oggi rimangono solo pochi resti. Si stenta a credere che gli assiri, invece, siano riusciti a non sprofondare nell’abisso della storia e siano arrivati fino a noi attraverso i millenni.
La conversione alla fede cristiana li ha distinti come gruppo e li ha aiutati a mantenere viva la coscienza della propria identità in una terra dove hanno sempre predominato altre religioni: lo zoroastrismo sotto i parti e i sassanidi, l’islam a partire dalla conquista araba del vii secolo. Altro tratto distintivo di questa comunità è la lingua: essi parlano una lingua semitica del gruppo aramaico, che nella variante antica è rimasta fino a oggi la lingua della liturgia.
Gli assiri conobbero il cristianesimo già nel primo secolo; la loro evangelizzazione si fa risalire all’apostolo Tommaso, cui fu affidato il compito di portare la buona notizia alle genti della Mesopotamia. 
Centro spirituale dei cristiani della Mesopotamia era il patriarcato di Seleucia-Ctesifonte, la cui sede si trovava fuori dei confini orientali dell’impero romano; di qui la definizione di chiesa d’Oriente, o siriaco orientale, con cui furono indicate le comunità cristiane costituitesi nell’impero persiano. La circostanza di trovarsi nel territorio dei persiani, nemici di Roma, fu determinante per la chiesa d’Oriente, perché non poté partecipare ai concili della cristianità occidentale e seguì un percorso suo. Essa adottò la dottrina cristologica antiochena, un rappresentante della quale, Nestorio, fu sconfessato al concilio di Efeso del 431. Per questo motivo spesso si parla, impropriamente, di chiesa nestoriana. In realtà, i cristiani d’Oriente non si riconoscono in questo termine e Nestorio rimane per loro una figura secondaria.
In quanto minoranza, in Oriente i cristiani sperimentarono forme diverse di ostilità e subirono la persecuzione sotto i re sassanidi. Essendo loro preclusa la via dell’Occidente, essi rivolsero il proprio slancio missionario a est e portarono il cristianesimo in India, Cina e Mongolia. I loro monaci erano tenuti in grande considerazione alla corte del Gran Khan.
Quando gli eserciti mongoli di Hulagu distrussero Baghdad, nel 1258, e stabilirono il proprio dominio sulla Persia, i cristiani non solo furono risparmiati, ma godettero del favore dei conquistatori. Nuove chiese furono costruite in diversi centri dell’Azerbaigian: oltre che a Urmia, dove la presenza degli assiri è attestata dall’inizio del xii secolo, a Tabriz, Salmas, Marāghe. I cristiani non sfuggirono, invece, alla ferocia di Tamerlano, che alla fine del xiv secolo percorse a più riprese la Persia e la Mesopotamia, distruggendo e uccidendo. I secoli successivi furono più tranquilli, ma con l’inizio della prima guerra mondiale una nuova tragedia si abbatté su queste comunità.

FUGA DAL GENOCIDIO
Si calcola che all’inizio del Novecento nella regione di Urmia i cristiani, tra assiri, caldei e armeni, fossero circa il 40% della popolazione. Essi abitavano prevalentemente nei villaggi. Nell’Ottocento avevano cominciato ad arrivare in Persia i missionari occidentali, primi tra tutti i protestanti americani, che nel 1834 aprirono una missione a Urmia, subito seguiti dai lazzaristi francesi, poi dagli inglesi e, infine, dai russi.
A quei tempi la Russia si contendeva con l’impero britannico il dominio sulla Persia che, rimanendo formalmente uno stato indipendente, era stata divisa nel 1907 in due zone di influenza: quella inglese a sud e quella russa a nord. Quando la Russia entrò in guerra contro l’impero ottomano, benché la Persia fosse neutrale, le sue province settentrionali furono ben presto interessate dal conflitto.
Alla fine del 1914 gli ottomani attaccarono le posizioni russe nel Caucaso e cominciarono ad avanzare verso Tabriz e Urmia. Questo fatto non lasciava presagire niente di buono per i cristiani. Nella regione si sapeva dei massacri contro gli armeni avvenuti in Turchia negli anni 1894-96 e della politica dei «Giovani turchi», sfociata nel genocidio di un milione e mezzo di armeni e 275 mila cristiani assiri e siro-caldei.
Alla notizia dell’arrivo dei turchi molti cristiani fuggirono verso il Caucaso russo, quelli rimasti cercarono rifugio presso le missioni occidentali, mentre le truppe irregolari curde al seguito degli ottomani razziavano e distruggevano i villaggi. Si calcola che le missioni americane siano arrivate a ospitare fino a 15 mila rifugiati, quella francese 10 mila. Sebbene gli ottomani rispettassero la loro neutralità, le condizioni al loro interno erano così terribili che moltissimi morirono per malattie e stenti. Alla fine della guerra, dopo una seconda occupazione ottomana nel 1918, ai cristiani fu permesso di tornare, ma la loro presenza nella regione non toò mai più ai livelli di prima.

L’ESODO CONTINUA
Molte di queste cose mi erano ancora ignote quella mattina, mentre, seduta nel cortile della chiesa di Santa Maria, aspettavo di parlare con un rappresentante della comunità assira. Secondo una tradizione locale, questa chiesa fu eretta sulla tomba di uno dei magi che seguirono la stella di Gesù, ma nulla rimane dell’edificio originale e neppure di quello ricostruito dai russi a fine Ottocento, raso al suolo durante l’occupazione ottomana. Al suo posto è sorta una spartana cappella, accanto alla quale, in anni recenti, è stata costruita una chiesa molto più grande.
Era un venerdì, giorno di festa e di riposo in Iran; il cortile era pieno di giovani, venuti a fare lezione di aramaico. Sebbene lo parlino in famiglia, i ragazzi che frequentano le scuole statali non sempre imparano anche a scriverlo e a leggerlo.
Mentre osservavo i crocchi in attesa della lezione e meditavo su quale lingua avremmo utilizzato per comunicare, mi sono sentita salutare in perfetto italiano. No, non era uno sperduto connazionale capitato per caso in quel luogo, era padre Bengiamin, o Paolo, come si fa chiamare quando è in Italia. Non avrei potuto trovare una guida migliore.
Padre Bengiamin è in Italia dal 1996. È stato il patriarca Dinkha iv a chiedergli di venire a studiare nel nostro paese. Dopo essere stato ordinato sacerdote nel 2001 ha continuato gli studi. Ha alle spalle cinque anni di Gregoriana e adesso sta ultimando un master in diritto canonico presso il Pontificio istituto orientale.
Tanti anni in Italia, eppure ogni anno ha problemi con il permesso di soggiorno, come se fosse un novellino. In estate dà una mano all’altro sacerdote assiro di Urmia, padre Dariaush, che si trova da solo a provvedere a una comunità di 3-4 mila persone. Padre Bengiamin si ricorda di quando gli assiri erano 20 mila in città e provincia, quasi 50 mila in tutto l’Iran. Adesso i numeri sono diversi. A Teheran, dove c’è il gruppo più numeroso, sono meno di 6 mila. Anche la comunità assira, come quella armena, è afflitta dal fenomeno dell’emigrazione. Le mete principali sono America e Australia, più di rado l’Europa.

GIOCHI PANASSIRI
Proprio quel venerdì si concludevano i giochi panassiri, una manifestazione che si svolge ormai da sei anni e che raccoglie giovani da tutti i paesi in cui sono presenti le comunità assire: oltre all’Iran, la Georgia, l’Armenia, l’Iraq e la Siria. Tutti parlano la stessa lingua, con piccole differenze locali. I giochi si svolgono nel club assiro di Urmia; l’alloggio, invece, è offerto dal governo iraniano, che quest’anno ha messo a disposizione un albergo in riva al lago. La comunità non sarebbe in grado di pagare le spese della manifestazione, circa 50 mila euro, se non ci fossero i finanziamenti pubblici, ottenuti attraverso il proprio rappresentante in parlamento.
I giochi sono una grande occasione d’incontro: per 10 giorni i giovani stanno insieme, ne nascono amicizie, che proseguono con scambi di visite e che, a volte, hanno come esito il matrimonio. Per gli assiri iraniani questa possibilità non è irrilevante. I matrimoni misti in Iran non sono ammessi, a meno che l’uomo o la donna cristiani siano disposti ad abiurare la propria fede. Durante lo scià c’era libertà di culto, ma adesso la conversione a una fede diversa dall’islam è un delitto che prevede perfino la pena di morte.
Quando padre Bengiamin e padre Dariaush si recarono all’albergo per salutare i partecipanti ai giochi, mi invitarono ad accompagnarli. Gli iracheni erano già partiti, mentre gli altri gruppi si stavano raccogliendo nella hall e nello spiazzo davanti all’ingresso per godere degli ultimi momenti insieme. C’era un’atmosfera di festa. Per molti quello non voleva essere un addio, ma un arrivederci, ci si scambiava indirizzi, promesse di visite; qualcuno indossava la maglia della nostra nazionale di calcio, vincitrice della coppa del mondo.
Padre Bengiamin, che ben conosce le abitudini degli italiani, mi invitò a prendere il caffè preparato dagli armeni, gli unici a non condividere la predilezione orientale per il tè. Ne approfittai per scambiare qualche parola con loro.
L’Armenia, come la Georgia, è un paese cristiano, di conseguenza per gli assiri la vita è più facile che nei paesi di fede islamica. C’è, però, in agguato un pericolo d’altro genere, quello dell’assimilazione. Assimilarsi offre innegabili vantaggi: finché vengono percepiti come un gruppo a sé, gli assiri restano esclusi dalle reti di solidarietà, che favoriscono, nel lavoro e nella politica, gli armeni.
A questo proposito è interessante il ruolo che svolge la lingua. Si assimilano gli assiri che frequentano le scuole armene e che quindi finiscono per usare abitualmente la lingua locale, mentre quelli che frequentano le scuole russe mantengono la propria identità. Il fenomeno dell’assimilazione è massimamente diffuso tra coloro che sono emigrati in Occidente: difatti, mi diceva con un certo tono di recriminazione il rappresentante della comunità armena, gli unici a non partecipare ai giochi sono gli assiri della diaspora.

LIBERI…  A SAN SERGIO
Per il pomeriggio mi avevano consigliato di visitare la chiesa assira di san Sergio, appena fuori città, sulle pendici degli Zagros, che nei giorni di festa diventa meta di escursioni e picnic. Quando vi fui arrivata, capii perché il luogo è così popolare. Circondata da campi e ulivi, l’antica chiesa si trova a metà collina, in una posizione che domina la regione circostante. Da lì lo sguardo abbraccia tutta Urmia e arriva fino al lago e ai monti lontani.
L’edificio è di un’estrema semplicità: rettangolare, in pietra; all’interno è diviso in due cappelle comunicanti, le pareti sono completamente spoglie e solo la croce sul fondo sta a indicare dove ci troviamo. Mi sedetti sull’unica sedia a contemplare quella pace. Di tanto in tanto entrava qualche visitatore; i musulmani si comportavano come in moschea: lasciavano le scarpe all’ingresso, anche se non c’erano tappeti da calpestare.
Saranno state le cinque, ma di gente lì intorno non se ne vedeva molta. Ero un po’ delusa, perché mi aspettavo di trovarvi più animazione. Ma un’ora più tardi, discendendo da una passeggiata su per la collina, mi si presentò uno spettacolo del tutto imprevisto: vie e spiazzo intorno a san Sergio formicolavano di gente, macchine parcheggiate dappertutto, altre stavano riempiendo un ampio prato poco distante. Mi domandavo dove avrebbero trovato posto tutte quelle che stavano salendo, formando una sequenza ininterrotta fino a dove arrivava l’occhio.
Non meno sorprendente era vedere che le persone lì convenute avevano messo da parte l’etichetta islamica: i giovani si mischiavano tra loro, molte ragazze e signore erano senza velo e, a volte, addirittura sbracciate.
Uno dei motivi per cui i cristiani lasciano l’Iran è di riacquistare la libertà di comportarsi in luogo pubblico come ci si comporta nel privato, tra familiari e amici. I doppi standard nel vestirsi, nei rapporti interpersonali, cui tutti sono costretti, cristiani e musulmani allo stesso modo, sono un aspetto assai poco piacevole della vita in questo paese.
Si può, dunque, capire l’aspirazione a liberarsi per sempre dalle rigide regole di comportamento imposte dalla Repubblica islamica, e non solo per poche ore, su a san Sergio. Di una libertà di tal fatta coloro che si trasferiscono in Occidente ne trovano in abbondanza.
C’è, però, chi ritiene che la presenza dei cristiani in questi luoghi continui ad avere un senso, anche nelle non facili condizioni in cui si trovano a vivere. Ne ebbi una conferma il giorno dopo, nell’incontro con l’arcivescovo caldeo di Urmia, mons. Thomas Meram.

CATTOLICI ASSIRO-CALDEI
Seppellita tra i vicoli di un vecchio quartiere di Urmia, non molto distante da quella assira, si trova la chiesa cattolica caldea.
Nel 1552, a seguito di una disputa sull’elezione del nuovo patriarca, all’interno della chiesa d’Oriente si verificò uno scisma. Coloro che non lo riconobbero ne elessero un altro, il quale l’anno successivo chiese e ottenne il riconoscimento di papa Giulio iii. Per la parte entrata in comunione con Roma si affermò da allora il termine «caldea». Il vecchio nome legato alla nazionalità, però, continuò a esercitare una certa attrazione, tanto che nel 1973 i caldei lo reinserirono: ora si chiamano ufficialmente «cattolici assiro-caldei».
La chiesa caldea di Urmia, un ampio edificio di recente costruzione, al momento della mia visita era deserta, finché arrivò il sacrestano a riordinare l’altare. Saputo che ero italiana, il signor Michail mi prese in simpatia e, vista la mia curiosità, mi domandò a bruciapelo se mi sarebbe piaciuto parlare con l’arcivescovo Thomas Meram, sempre che egli avesse tempo per ricevermi.
Di lì a poco, mi trovai di fronte un uomo sulla sessantina, in maniche di camicia, dai modi semplici e risoluti. Un incontro inaspettato per tutti e due. Da persona abituata a non perdere tempo in convenevoli, monsignore attaccò subito a parlare della sua comunità; nelle sue parole è risuonata quella nota di rimpianto che ben conoscevo: ai tempi dello scià i cristiani caldei erano 30 mila, adesso arrivano a malapena a 5 mila.
Quando era sacerdote a Teheran, nel 1977, mons. Meram conosceva personalmente le 1.600 famiglie della città, più altre 200 che non figuravano nei registri. Si celebravano 110 battesimi all’anno, 40 matrimoni. Ma adesso…
Adesso la gente se ne va in America, senza sapere neanche perché. Molti partono per ricongiungersi a parenti che vi abitano di già e che li chiamano. Non ci sono motivi gravi per lasciare il paese. «Qui possiamo praticare la nostra fede senza problemi – continua mons. Meram -. Quattro anni fa ho ricostruito la chiesa e un rappresentante del governo è venuto alla consacrazione; adesso stiamo costruendo una nuova sede arcivescovile».
Le sue parole si stavano facendo sempre più accalorate. «Penso che dobbiamo ringraziare Dio di vivere in un paese musulmano, in questo modo teniamo salda la nostra fede. E sì, perché l’Europa si sta scristianizzando. Guardi la Spagna. Zapatero non è un agnostico, ma uno che ha dichiarato guerra al cristianesimo. Tutto è lecito, ogni tipo di comportamento sessuale, ogni forma di manipolazione della vita.
Per un musulmano questa è la dimostrazione della superiorità della loro fede, e sa perché? Perché per loro l’Europa è una terra tutta cristiana, così come nei paesi islamici tutti sono musulmani. Per loro vale l’equazione: Europa = cristianesimo. Quindi, nella loro testa tutto ciò che accade in Europa è opera di cristiani. Così, quando è scoppiato il caso delle barzellette su Maometto, l’impressione che se ne è avuta qui è che siano stati dei cristiani a pubblicarle.
Quando il governatore della nostra provincia è venuto ad assistere a una messa in occasione dei 27 anni della rivoluzione islamica, giorno che coincideva con la presentazione di Cristo al tempio, ne ho approfittato per affrontare l’argomento. Gli ho spiegato che non bisogna mettere in conto quelle barzellette alla cristianità, perché in Europa, come nel resto del mondo, non esistono governi cristiani, semmai il contrario».
Le parole di mons. Meram non ammettevano repliche, né, d’altronde, io avrei avuto alcunché da replicare. L’arcivescovo di Urmia, che parlava un ottimo inglese, dimostrava di essere bene informato sulla situazione europea: era venuto diverse volte in Occidente e in quel momento davanti a lui, sul tavolo, c’era una nota rivista italiana d’attualità e politica.

Alla luce dei fatti recenti, qualcosa, però, si potrebbe aggiungere al suo discorso. Se è vero che i cristiani assiri e caldei non hanno motivi seri per abbandonare l’Iran, ciò non vale, purtroppo, per un altro paese musulmano. I loro confratelli che vivono al di là degli Zagros, in territorio iracheno, stanno attraversando uno dei peggiori periodi della loro storia millenaria: sono perseguitati per la loro fede e oggetto di continue minacce e violenze da parte di gruppi ed elementi che mirano alla totale islamizzazione del paese.
La cronaca riporta una serie continua di intimidazioni, attacchi a chiese e uccisioni di fedeli e religiosi. Nessuno è in grado di garantire la loro incolumità. Dal 2003 il numero dei cristiani in Iraq si è dimezzato e continua a diminuire. E come non fuggire, se per il solo fatto di portare al petto una croce si può essere impunemente ammazzati, come sotto i «Giovani turchi», che all’inizio del Novecento svuotarono il proprio paese della presenza cristiana?
Allora gli eccidi furono organizzati dal governo, adesso le violenze trovano terreno favorevole grazie al caos e alla mancanza di istituzioni credibili, ma il risultato potrebbe essere lo stesso. 

di Bianca Maria Balestra

Bianca Maria Balestra




Ai pellegrini non s’ha da dire

Incontro con don Nandino Capovilla (Pax Christi)

L’occupazione non esiste. I problemi nemmeno.
La disinformazione sul conflitto non risparmia i pellegrini che si recano in Terra Santa.  Quanto al turismo, non deve lasciare neanche le briciole ai palestinesi. A tutto ciò si è ribellato un prete che ha detto «basta» e che ha iniziato ad organizzare pellegrinaggi «alternativi». Questa è la storia della sua sfida.

La Palestina è sotto assedio da sessant’anni, ma dopo gli accordi (fallimentari) di Oslo, nel 2003, la situazione è precipitata, anziché migliorare.
I pellegrini che affollano i luoghi santi della cristianità non s’accorgono della tragedia in cui il popolo palestinese è costretto a vivere a causa di una delle occupazioni più spietate della storia: quella israeliana.
La gestione dei «pellegrinaggi in Terra Santa», una volta fonte di sussistenza per tanti palestinesi a Betlemme, Gerusalemme e in altre città, da alcuni anni è esclusivo appannaggio di aziende israeliane, emanazione del ministero del turismo.
Ne abbiamo parlato con don Nandino Capovilla, parroco a Murano e referente di Pax Christi per i «pellegrinaggi di giustizia».

Don Nandino, da un paio di anni Pax Christi organizza i «Pellegrinaggi di giustizia». Di che si tratta?
«Sono pellegrinaggi “alternativi” a quelli tradizionali organizzati dalle grandi agenzie israeliane, i cui manuali raccontano che si tratta di viaggi “spirituali” e non “politici”».

In pratica, il «buon pellegrino» non deve accorgersi che la Cisgiordania è assediata e spezzettata dal muro di separazione e che i cristiani, come i musulmani, vivono in condizioni drammatiche?
«Esatto. Chi si reca in Palestina non deve vedere cosa accade ai palestinesi, non deve porsi domande, non deve studiare quella che gli organizzatori definiscono eufemisticamente “complessa situazione politica”. A Betlemme non si può sostare neanche una notte, perché in questo modo si utilizzerebbero le risorse palestinesi, e il governo israeliano non lo vuole. Le strutture palestinesi vengono bypassate. Al pellegrino viene nascosta la mastodontica situazione di occupazione. Il muro, che ormai è molto ben visibile, viene giustificato con la necessità della “sicurezza”.  Viene raccontato che è stato costruito anche per proteggere i turisti, i pellegrini, dagli attentati terroristici dei palestinesi».

Come sono promossi i pellegrinaggi tradizionali?
«Emissari del ministero del turismo israeliano si recano nelle varie diocesi italiane e offrono “pacchetti di pellegrinaggi” in Terra Santa, comprensivi di alberghi e pullman israeliani. Nel “kit del pellegrino” è inclusa una cartina geografica dove la Palestina non esiste. La Cisgiordania e Gaza non esistono. Ci sono solo la Galilea e la Samaria e i nomi riportati sono quelli biblici. La maggior parte del tempo viene trascorso nei territori israeliani».

E i vostri pellegrinaggi in cosa si distinguono?
«Noi facciamo il contrario: i nostri pellegrini incontrano i palestinesi, cristiani e musulmani. Ogni sera vengono organizzati incontri con testimoni, associazioni, realtà palestinesi.
Come per i pellegrinaggi “tradizionali”, anche noi iniziamo il percorso da Nazareth, ma poi ci spostiamo nei villaggi del ’48 distrutti da Israele. Queste visite creano subito un forte impatto, fanno riflettere. Poi proseguiamo per Qalqiliya, Aboud, Taibe…».

Com’è iniziato questo vostro progetto «alternativo» e indubbiamente coraggioso?
«Nel 2002, durante i giorni dell’assedio dell’esercito israeliano alla Basilica della Natività. Non riuscivo più a sopportare quella situazione, quelle notizie. Ho iniziato a recarmi in Palestina con AssoPace e con il presidio del Medical Relief di Nablus. Nel 2004 sono tornato con alcune persone di Pax Christi. Quell’anno abbiamo prodotto il video Né muri né silenzi. A quel punto, Pax Christi mi ha affidato l’incarico di strutturare programmi di viaggi e di tenere le relazioni con la Palestina.
Ero stufo di vedere tutti quegli autobus che scaricavano turisti o pellegrini davanti alle basiliche cristiane palestinesi, persone che non avrebbero mai conosciuto la vera realtà della popolazione, cristiana e musulmana. Così, ho iniziato a proporre periodici pellegrinaggi “di giustizia”.
Ciò che ci porta in Palestina è il desiderio di vedere e capire quanto sta accadendo in questa terra, la Terra Santa, méta di migliaia di pellegrini da tutto il mondo con il solo desiderio di visitare i luoghi sacri della cristianità.
Li vediamo giungere a gruppi numerosissimi e su autobus con targa israeliana, passare velocemente i controlli ai check point e altrettanto velocemente procedere verso quella che sembra la loro unica méta.
Allora, ci viene spontaneo domandarci come sia possibile andare in Palestina senza prendere consapevolezza di quello che sta accadendo. Per questo motivo per noi è importante sforzarci di osservare e denunciare un’ingiustizia così evidente».

I media spesso denunciano le persecuzioni dei cristiani ad opera dei musulmani in Terra Santa. Qual è la sua opinione?
«Musulmani e cristiani condividono la stessa tragedia e sono uniti nella sofferenza e nella lotta contro l’occupazione, sono entrambi vittime di un’aggressione tra le più scandalose di tutta la storia umana.
I rapporti tra di loro sono buoni. I cristiani affrontano le difficoltà tipiche delle minoranze: rappresentano il 2% della popolazione palestinese. Quanto alle persecuzioni, sono gli stessi cristiani, preti, suore, vescovi, che ci chiedono di smentire queste voci che aiutano molto Israele, come tutta la disinformazione sul conflitto israelo-palestinese.
Queste notizie, smentite dai diretti interessati, sono funzionali allo scontro di civiltà tra islam e cristianesimo, e certamente all’occupazione israeliana che cerca di spaccare l’unità tra cristiani e musulmani in Palestina. I media enfatizzano molto piccoli episodi, seppur tragici, come, ad esempio, l’assassinio del cristiano evangelico a Gaza, lo scorso ottobre. Tutto va ad alimentare la propaganda e distoglie l’attenzione dalle operazioni dell’esercito israeliano».

Gerusalemme Est sta perdendo le proprie caratteristiche arabe, cristiane e musulmane: gli scavi sotto la «Spianata delle moschee» stanno procedendo indisturbati, nel silenzio o nel disinteresse internazionale. I palestinesi musulmani non possono pregare nella splendida Moschea di al-Aqsa (terzo luogo santo per l’islam, dopo quelli di Mecca e Medina) e «patrimonio architettonico dell’umanità», e i cristiani fanno fatica a entrare nella basilica del Santo sepolcro. Che futuro prevede?
«È probabile che gli israeliani si impossesseranno di tutta la città, ma benché potente, lo stato di Israele non potrà eliminare tutti i palestinesi, cristiani e musulmani, dalla faccia di Gerusalemme.
L’anno scorso abbiamo organizzato una sorta di protesta contro il tentativo di cancellare l’identità palestinese da parte di Israele: abbiamo sepolto di cartoline un nostro amico, un anziano leader del movimento nonviolento gerusalemita. Nell’intestazione abbiamo scritto “Palestina” e non “Israele”.  Gliene abbiamo spedite da tutta l’Italia, tantissime. Ebbene, i postini hanno cancellato la parola “Palestine” e l’hanno sostituita con “Israel”». 

A cura di Angela Lano

Angela Lano




Cristiani in Kurdistan

Intervista a mons. Rabban Al Qas, vescovo di Amadhiya, Kurdistan iracheno

L’appoggio logistico dato dai curdi agli americani nella guerra contro Saddam Hussein ha fatto
del Nord dell’Iraq un’oasi di pace rispetto al resto del paese. Migliaia di profughi provenienti da Baghdad e da altre zone colpite dal conflitto cercano rifugio nel territorio amministrato dal Goveo regionale curdo. Tra di essi molti cristiani. Problemi attuali e prospettive future nelle parole del vescovo di Amadhiya.

Monsignor Rabban Al Qas è dal 2001 vescovo della diocesi caldea di Amadhiya. Dal 2005 è anche amministratore della sede vescovile di Erbil, rimasta vacante dopo la morte del precedente titolare, mons. Yacoub Scher. Entrambe le diocesi che mons. Al Qas guida si trovano in Kurdistan, la zona settentrionale dell’Iraq, un’area a maggioranza curda, di fatto semindipendente dal governo centrale di Baghdad, e controllata dal Goveo regionale curdo (Grc).
Il Kurdistan è anche la zona dove, specialmente negli ultimi tempi, si stanno rifugiando i cristiani iracheni che fuggono dalle violenze settarie che li vedono vittime prescelte da chi vorrebbe islamizzare il paese cancellando le minoranze non musulmane. I cristiani rifugiati in Kurdistan sono ormai decine di migliaia. Disperati, costretti a lasciare le proprie case senza portare via nulla, disoccupati e terrorizzati arrivano nel nord e cercano nella chiesa l’aiuto morale e materiale di cui hanno bisogno.
Approfittando di una sua breve visita in Italia, abbiamo rivolto a proposito alcune domande a mons. Al Qas.

Che difficoltà pratiche affronta un vescovo che da tempo gestisce due diocesi, una delle quali – Erbil – accoglie la maggioranza dei cristiani che fuggono dal centro e dal sud dell’Iraq?
Difficoltà legate non solo all’ingente flusso migratorio, ma soprattutto al fatto che la maggior parte di chi cerca rifugio nel nord è in condizione di estrema povertà, non ha nulla, neanche una casa. In questo senso l’aiuto ci è arrivato dal Grc attraverso il suo ministro delle finanze, Sarkis Aghajan. Ogni famiglia riceve dai 100 ai 150 dollari al mese e sono in costruzione molte case per ospitarle. I cristiani sono benvenuti e per quanto riguarda Ankawa, cittadina vicino a Erbil, ad esempio, è volontà del governo che essa mantenga la sua caratteristica di essere un centro della cristianità. Il Grc vuol fare di Ankawa una città modea e sa molto bene che i cristiani, grazie alla loro professionalità, possono tornare molto utili.
In genere le migrazioni di massa, specialmente se concentrate in un lasso di tempo breve, sono causa di tensioni sociali tra i vecchi abitanti della zona e i nuovi arrivati. Succede così anche in Kurdistan tra antichi abitanti e nuovi arrivati dal centro e dal sud del paese?
Non parlerei di tensioni sociali, ma sempre e solo di difficoltà economiche. Le persone che scappano nel nord sanno che si tratta di una situazione temporanea e non potrebbe essere altrimenti, visto che non si può provvedere a tutti. Così, ad esempio, un medico, che magari a Baghdad poteva arrivare a guadagnare 500 dollari al mese, qui ne guadagnerà 150 a fronte di prezzi molto alti.  La povertà è un problema che riguarda i cristiani ed anche gli arabi musulmani, specialmente d’inverno quando il prezzo di un barile di petrolio da 200 litri sale a 150/170 dollari quando prima costava un solo dollaro. L’embargo che c’era sotto Saddam è ora diventato l’embargo attuato dalla Turchia, che raffina il nostro petrolio e poi ce lo rivende a prezzo altissimo.

Perché questa emigrazione verso il Kurdistan?
Il problema è la mancanza di sicurezza nel resto dell’Iraq. Agli inizi degli anni ‘60 molti abitanti del nord si trasferirono nelle grandi città, a Baghdad o Mosul, e a metà degli anni ‘70 altri iniziarono a emigrare verso l’estero; ora molte di quelle famiglie sono costrette a lasciare i luoghi dove hanno vissuto per decenni per sfuggire alla morte. Molti sono fuggiti anche in Siria, Giordania e Turchia, ma la maggior parte arriva nel Kurdistan, dove il Grc sta facendo costruire per loro dei nuovi villaggi. Nella diocesi di Amadhiya, ad esempio, sono state costruite più di 800 case per accogliere i profughi. Le abitazioni vengono consegnate «chiavi in mano». Questa è la soluzione giusta perché i cristiani rimangano in Kurdistan, in Iraq.

Il Grc nell’ultimo anno ha iniziato ad appoggiare l’idea di una regione amministrativa cristiana sotto il suo controllo, può spiegare di che cosa si tratta?
I cristiani non vogliono l’autonomia per lasciare l’Iraq o il Kurdistan. Ciò che vogliono è un’autonomia amministrativa e non politica. La regione di Ninive, per la quale si chiede tale tipo di autonomia e che ospita villaggi cristiani, curdi e a maggioranza yazida, non fa geograficamente parte del Kurdistan, anche se a mio parere dovrebbe esserlo. In questi tempi difficili i cristiani sono più vicini ai curdi che agli arabi. Prendiamo ad esempio la città di Mosul: le chiese bruciate, i sacerdoti uccisi, le violenze compiute contro i cristiani. Come potrebbero questi desiderare di tornare a viverci?
Molti cristiani vorrebbero vivere nella regione di Ninive, dove godrebbero della libertà che è ora loro negata, ma non hanno un esercito per difendersi e per questa ragione hanno bisogno della protezione dei curdi. Essi non vorrebbero lasciare le proprie case e desidererebbero essere cittadini come tutti gli altri; ma sanno che nella nuova costituzione irachena sono invece considerati come cittadini di seconda categoria.
In Kurdistan è diverso; ora che si sta stilando la costituzione regionale io stesso ho chiesto che dai documenti sparisca l’indicazione della religione del titolare e che si cancelli la legge dell’epoca di Saddam, per la quale i figli di un cristiano o di una cristiana convertito/a all’Islam vengono automaticamente e immediatamente considerati e registrati come musulmani.
Nel maggio del 2006 il presidente del Kurdistan, Masoud Barzani, ha promesso al nostro patriarca di cancellare ogni punto della costituzione contro i cristiani. La situazione del Kurdistan è molto diversa da quella di Baghdad, noi siamo liberi di parlare, la stampa è libera; a natale ben tre canali televisivi, due curdi e uno cristiano, hanno diffuso in diretta le sante messe. Durante la mia omelia di natale ho detto che Gesù non è venuto solo per i cristiani, ma per tutto il mondo, una cosa che prima non era possibile dire e che purtroppo non lo è ancora nelle altre zone del paese.

Che contatti ci sono tra Kurdistan,  chiesa e resto del mondo?
La collaborazione tra l’estero e i kurdistani – è così che si chiamano gli abitanti del Kurdistan – è ottima dal punto di vista economico. Il Grc è libero di stilare contratti e fare affari, e anche le infrastrutture lo permettono, visto che ci sono due aeroporti che collegano il Kurdistan con l’estero: quello di Sulemainiya e quello di Erbil che è in fase di ampliamento. Come ha detto il primo ministro, Nechirvan Barzani, il Kurdistan può diventare un nuovo Dubai, dove sviluppare gli affari e l’economia.
Le relazioni con la chiesa estea all’Iraq avvengono tramite la nunziatura apostolica di Baghdad, attraverso la quale ci arrivano, ad esempio, le notizie da Roma, i messaggi del santo padre e l’Osservatore Romano, ma non ci sono contatti diretti. Personalmente, continuo a esprimere, anche a nome di altri vescovi del nord Iraq, il desiderio che tali legami si intensifichino e diventino diretti, non solo epistolari.
Oggi come oggi la situazione della comunità cristiana irachena è molto confusa. A gennaio il Babel College, la facoltà di teologia cristiana, e il seminario maggiore caldeo sono stati trasferiti da Baghdad ad Ankawa per ragioni di sicurezza.

Questo potrebbe portare a uno spostamento del patriarcato da Baghdad a una sede più sicura?
Personalmente, credo che la collocazione geografica della sede patriarcale non sia così importante. Essa deve essere dove sono i fedeli. Per ora sono state spostate queste due istituzioni, e il Grc ha anche concesso una vasta area dove costruire una casa per i religiosi. Se i cristiani dovessero sparire da Baghdad converrebbe spostare la sede patriarcale, ma per ora molti di essi vivono ancora nella capitale e dobbiamo essere ottimisti.

Come giudica la presenza della chiesa in Kurdistan?
Oltre al clero delle varie diocesi, si contano religiosi di vari ordini: i padri redentoristi belgi che vivono in Iraq da almeno 35 anni, domenicani e un gesuita americano che vive in Giordania e che viene ad Ankawa per insegnare. Cerchiamo di essere sensibili alle varie esigenze dei fedeli delle nostre comunità. Per esempio, molti dei cristiani che ora vivono in Kurdistan hanno vissuto per decenni lontano e, per questa ragione, non conoscono l’aramaico, che è la lingua ancestrale della maggioranza dei cristiani in Iraq ed è pure la lingua liturgica della chiesa caldea. Per questa ragione il venerdì c’è una messa in arabo per chi non capisce l’aramaico.
Pare strano che sia di venerdì e non di domenica, ma il venerdì è il giorno festivo islamico e siccome a questa messa partecipano anche fedeli che provengono da Mosul o da altre zone, cerchiamo di agevolarli facendo sì che possano approfittare del giorno festivo.

Se le forze inteazionali se ne andassero dall’Iraq, ci sarebbero conseguenze per la popolazione cristiana, e quali?
Questa è una domanda che bisognerebbe rivolgere a George Bush e non a me che sono un vescovo. Per quanto riguarda il Kurdistan la zona è stata affidata alle truppe coreane, con le quali la collaborazione è stata ottima. Il Kurdistan ha il proprio esercito – i peshmerga – e non ha bisogno di essere difeso da altri.
Dai coreani quindi abbiamo avuto modo di imparare molte cose che senza dubbio saranno utili in futuro. Oggi la presenza americana in Kurdistan è minima e i soldati Usa che vi risiedono dicono che per loro è come «essere in vacanza». Hanno ragione, chiunque abbia vissuto a Baghdad sa che è così: là la guerra, in Kurdistan la pace. 

Di Luigia Storti

Luigia Storti




Gianluca Iazzolino