Nonviolenza da Oscar


«Coda. I segni sul cuore» e «The Guilty», Il colpevole

Una ragazza, figlia di genitori sordi, scopre di avere un talento nel canto. Un poliziotto danese si lascia coinvolgere in un caso che non dovrebbe seguire. Due film diversi tra loro, ma accomunati dall’ascolto attivo dei protagonisti che affrontano i conflitti cambiando se stessi e le relazioni attorno a loro.

Coda. I segni sul cuore

A volte vincono. Sì, a volte – raramente – i film nonviolenti arrivano ai vertici del riconoscimento mondiale.

È stato così per Coda. I segni sul cuore che ha vinto tre Oscar nel 2022: il più ambito, quello per il miglior film, quello per l’attore non protagonista, Troy Kotsur, e quello per la migliore sceneggiatura non originale.

Coda è il remake statunitense di un film francese del 2014, La famiglia Bélier, una pellicola talmente bella che al Centro studi Sereno Regis, dove ci occupiamo di educazione alla pace, lo usiamo spesso nei nostri corsi.

Tra l’altro, Coda è passato come film fuori concorso anche all’edizione 2021 del Tff (Torino film festival, ndr) ed è uno dei film segnalati dal premio «Gli occhiali di Gandhi», il premio del Centro studi Sereno Regis, in collaborazione con il Tff, alla cinematografia nonviolenta.

È una storia che esemplifica in modo semplice, ma non superficiale, come un conflitto si può risolvere in modo nonviolento.

La trama è semplice: la diciassettenne Ruby, figlia di due persone sorde (c.o.d.a., dall’inglese child of deaf adults, figlia di adulti sordi), scopre di avere un talento nel canto. Inizia a prendere lezioni, finché il suo maestro le propone di continuare gli studi trasferendosi in un’altra città.

Il film racconta come Ruby riesca nel compito di accompagnare i genitori, impossibilitati a riconoscere la sua dote, a mettersi nei suoi panni, coinvolgendoli, rassicurandoli, e mettendosi a sua volta nei loro panni, cosa che rappresenta una delle lezioni basilari della nonviolenza: riconoscere i bisogni dell’altro, il quale non è un avversario, ma una persona con cui trovare il giusto modo di relazionarsi.

Le scene fondamentali che illustrano in modo magistrale la soluzione nonviolenta del conflitto sono tre.

La prima è quella nella quale emerge il problema ed esplode il conflitto: il desiderio della ragazza di trasferirsi si scontra con la contrarietà dei genitori, i quali, con la partenza della figlia che li aiuta nella loro azienda a conduzione famigliare, perderebbero un valido aiuto.

La seconda è la rappresentazione delle difficoltà oggettive dei genitori nel comprendere il talento della figlia (qui il regista mette anche il pubblico nella condizione di capire lo stato d’animo dei genitori). La terza è quella della soluzione finale del conflitto: la ragazza riesce a rendere partecipi i genitori della sua performance usando la lingua dei segni (uno dei motivi per cui è stato fatto il remake statunitense del film francese: la lingua dei segni europea è diversa da quella Usa).

Il film della regista Sian Heder si differenzia dall’originale francese di Éric Lartigau, per il fatto che i ruoli di persone sorde sono stati interpretati da attori effettivamente sordi, a cominciare da Marlee Matlin, che vinse l’oscar come migliore attrice per Figli di un dio minore del 1986.

Andatelo a vedere e, se possibile, guardate anche La famiglia Bélier: un confronto che vi riserverà delle belle sorprese.

D.C.

Il colpevole (The Guilty)

«Il colpevole (The Guilty)» è un thriller del 2018, terzo film del danese Gustav Möller.

Si potrebbe definire un film claustrofobico, incredibilmente ambientato in sole due stanze. Eppure ha una forte e determinante componente nonviolenta. Vediamo perché.

Asgar è un agente di polizia di Copenaghen, temporaneamente demansionato, per un motivo che scopriremo più avanti, al servizio di risposta alle chiamate di emergenza. È il classico lavoro da 112: smistare le telefonate. Una noia.

Un giorno, però, riceve la chiamata di una giovane donna che dichiara di essere stata rapita dall’ex marito, e Asgar decide di oltrepassare i limiti professionali prendendosi segretamente carico dell’investigazione e mettendosi in gioco per salvare la donna.

Svolgere un’indagine esclusivamente al telefono, però, è pericoloso, e il protagonista deve confrontarsi con un inaspettato ribaltamento della situazione.

Spesso, fare supposizioni partendo da poche informazioni, può portare a commettere gravi errori, anche se si hanno le migliori intenzioni.

Ciò che appare un limite del film, cioè la messa in scena in sole due stanze, amplifica la tensione, spingendo a entrare nello spazio emotivo dei protagonisti.

Il regista lancia una vera e propria sfida allo spettatore, cercando di emozionarlo con il semplice riferimento a «ciò che accade fuori». Una sfida indubbiamente vinta.

Così come è vinta la sfida della sostenibilità ambientale della produzione: niente sparatorie, niente auto incendiate, niente palazzi che crollano.

«Il colpevole», il cui titolo originale è Den Skyldige, merita di essere visto non solo perché è un thriller emozionante e magnetico, ma anche perché offre spunti di riflessione sulla nonviolenza.

La grande empatia di Asgar nell’aiutare la donna al telefono, a prescindere dai suoi doveri, ne è un esempio. Il protagonista va contro l’etica professionale per salvare una persona sconosciuta, facendosi coinvolgere dalla sua vicenda e mettendoci tutto il suo impegno.

Inoltre, è interessante notare come il dialogo sia l’unico strumento utilizzato per risolvere il conflitto e, in una situazione estrema, per salvare una vita.

Non solo. Il dialogo diventa cura e diventa perdono, per sé e per gli altri: mettendosi nei panni della donna, nel suo dramma, il poliziotto trova il coraggio di affrontare le proprie responsabilità (il motivo – che non sveliamo – per il quale è stato «messo a riposo» in ufficio) e, in definitiva, di perdonarsi.

Un chiaro esempio di come la relazione profonda tra esseri viventi, il vero ascolto, partecipe e responsabile, siano le basi fondanti di un percorso di risoluzione nonviolenta dei conflitti.

Giorgia Bettuzzi e Dario Cambiano




Fiori nei cannoni


La storiografia italiana sul «no» alle armi è ancora troppo ridotta rispetto al grande lavoro per la pace condotto nel nostro paese da molti attori. Alle panoramiche nazionali si affiancano studi utilissimi su luoghi specifici (come Torino) o personaggi che varrebbe la pena conoscere meglio.

Nella storia dell’obiezione di coscienza italiana, il 2022 che ci siamo lasciati da poco alle spalle ha coinciso con il cinquantesimo anniversario dalla promulgazione della legge 772/72, quella che ha riconosciuto l’obiezione di coscienza al servizio militare e istituito la possibilità di un servizio civile sostitutivo.

Per la storia dell’antimilitarismo italiano, quella dell’obiezione è stata una lotta di indubbio rilievo. Essa ha preso avvio nei primi anni del secondo dopoguerra e – nell’arco di un venticinquennio scandito dai processi agli obiettori e dall’attivismo intellettuale di un gruppo, piccolo ma prestigioso, di uomini di cultura – ha condotto a un risultato legislativo concreto: permettere che l’impegno richiesto dallo stato ai ragazzi maggiorenni potesse svolgersi non solo in forme militari ma anche nella modalità di un servizio civile.

Il caso torinese

Con Non un uomo né un soldo (Edizioni Gruppo Abele, 2022) Marco Labbate, ricercatore dell’Università di Urbino, ha ripercorso lo sviluppo di questa storia entro un ambito locale, quello torinese e piemontese.

Questa scelta ha la sua ragion d’essere nella considerazione di William G. Hoskins che Anna Tonelli riporta nelle prime righe della prefazione a questo libro: «Sempre più storici che lavorano su un quadro più grande hanno capito che per molte importanti domande nel loro campo le risposte dovranno essere ricercate negli studi al microscopio di regioni e luoghi particolari».

Il caso di Torino nella storia dell’obiezione di coscienza italiana si adatta perfettamente a questo schema, perché il piano locale e quello nazionale si intrecciano di continuo e servono a illuminarsi reciprocamente.

Da un lato, Torino può essere definita una capitale dell’obiezione di coscienza, dal momento che alcuni fatti che lì si sono svolti hanno avuto un rilievo nazionale: un esempio su tutti, il processo a Pietro Pinna, primo caso mediatico nel 1949 di obiettore di coscienza nell’Italia repubblicana, che portò l’obiezione al centro del dibattito pubblico.

Il Tribunale di Torino è stato poi teatro anche di altri importanti processi e dell’attivismo di Bruno Segre, che può ritenersi l’avvocato per antonomasia degli obiettori italiani.

Dall’altro lato, aspetti, temi, istanze di carattere nazionale hanno avuto una ricaduta nel contesto della realtà torinese. La contestazione dei cappellani militari, ad esempio, svoltasi in tutta Italia, ha registrato manifestazioni di protesta anche nel capoluogo piemontese. Segno di un serrato confronto sui temi della pace e della guerra che si è giocato in quegli anni all’interno dello stesso mondo cattolico e che ha rappresentato un aspetto non secondario della storia in questione.

Le lotte per i diritti civili

Il libro ricostruisce, dunque, con grande dettaglio e precisione, il microcosmo piemontese delle lotte per l’obiezione e degli attivisti e dei movimenti che le hanno portate avanti. Contribuisce, quindi, a chiarire questa vicenda nel suo complesso nazionale e rappresenta una sorta di integrazione a un altro libro dello stesso autore uscito in precedenza, Un’altra patria (Pacini, 2020), che ha come oggetto la storia dell’obiezione di coscienza sull’intero territorio italiano, tra il 1945 e il 1972, al momento lo studio più completo al riguardo.

Nella sua prospettiva d’insieme, la storia dell’obiezione al servizio militare può essere intesa come parte di un movimento più ampio di lotte per i diritti civili che hanno contribuito a consolidare le libertà individuali nel cammino dell’Italia repubblicana e a rafforzarne l’impianto democratico nel solco della Costituzione.

Obiettare negli anni ‘30

Non va dimenticato che, se è vero che l’obiezione di coscienza ha raggiunto la fase culminante della propria storia in età repubblicana a partire dalla fine degli anni Quaranta, è però altrettanto vero che, nei decenni precedenti, alcuni casi di obiettori avevano già fatto la loro comparsa.

Se ne possono trovare, ancorché pochi, sia negli anni della prima guerra mondiale, sia in epoca fascista.

Tra questi, ad esempio, figura Claudio Baglietto, amico di Aldo Capitini, il maggiore teorico della nonviolenza nell’Italia del Novecento.

Baglietto, all’inizio degli anni Trenta, sembrava avviato a una brillante carriera accademica alla Normale di Pisa, ma il corso delle cose sarebbe stato stravolto da un suo gesto dirompente: in seguito al conseguimento di una borsa di studio nel 1932, si recò a Friburgo dove decise di non fare più ritorno in Italia per non essere costretto a svolgere il servizio militare.

La morte lo colse ancora molto giovane a Basilea, nel 1940.

Da poco tempo un libro a più mani, esito di un convegno di studi e curato da Magda Tassinari, sua pronipote, e Beppe Olcese, intitolato Guerra, pace, nonviolenza. Attualità di Claudio Baglietto, Biblion, 2022, ci ha permesso di conoscere un po’ meglio la storia della sua vita, spesa all’insegna di una tensione morale che meriterebbe maggiore notorietà.

Pacifismo italiano

Si può, infine, considerare il tema dell’obiezione di coscienza con uno sguardo più ampio, che permetta di valutarne la sua storia inserendola all’interno dei movimenti pacifisti e antimilitaristi sviluppatisi in Italia nell’intero secolo XX.

È un tema del quale la ricerca storiografica italiana si è occupata raramente e nel quale molto rimane ancora da esplorare e da indagare con metodo critico.

Uno degli studi di riferimento a cui rimandare resta quello di Amoreno Martellini, Fiori nei cannoni (Donzelli, 2006), che fornisce un quadro d’insieme entro il quale collocare lo sviluppo delle idee pacifiste e nonviolente nell’Italia novecentesca, cercando di tratteggiare i principali itinerari sociali, politici e culturali sui quali si sono mosse. Tra questi, uno dei più rilevanti è, senza dubbio, l’ambito dell’obiezione di coscienza all’uso delle armi e alla sistematica preparazione della guerra.

Massimiliano Fortuna

 




Cristiani e musulmani: una parola comune


A partire dal documento firmato nel febbraio 2019 da papa Francesco e dal grande imam Ahmad Al-Tayyeb, un libro che segue le recenti tappe del dialogo tra le due più diffuse religioni al mondo, ricco di sfide difficili, ma belle.

Anche nel nostro tempo segnato da secolarizzazione e pluralismo, le religioni hanno un ruolo importante per la costruzione di un rapporto pacifico tra le culture.

Un segno di questo è la rilevanza assunta dal Documento di Abu Dhabi, poche pagine firmate da papa Francesco e da Ahmad Al-Tayyeb, grande imam di Al-Azhar, il 4 febbraio 2019, nell’ottavo centenario dell’incontro di san Francesco d’Assisi con il sultano d’Egitto.

Ne parlano nel loro volume: Per una fratellanza umana. Cristiani e musulmani uniti nella diversità, edito da Paoline nel 2021, Paolo Branca, docente di lingua e letteratura araba, e Antonio Cuciniello, assegnista di ricerca in studi islamici, entrambi presso l’Università cattolica del Sacro Cuore di Milano.

I due autori rileggono quel documento sotto il profilo dei rapporti tra la Chiesa cattolica e i musulmani, e lo inquadrano nel percorso compiuto negli ultimi decenni, indicandone gli orientamenti di fondo: il dovere dell’identità, il coraggio dell’alterità, la sincerità delle intenzioni (papa Francesco); il «proclamare con chiarezza ciò che abbiamo in comune» (Benedetto XVI); infine i quattro livelli della solidarietà spirituale enucleati da padre Maurice Borrmans, islamista francese e missionario dei Padri Bianchi: il dialogo dei cuori; il dialogo della vita; il dialogo audace su Dio e sull’uomo; il coraggioso dialogo del silenzio, in cui Dio parla al cuore di ciascuno.

Gli autori Barca e Cuciniello ripercorrono, quindi, alcune delle tappe del dialogo islamocristiano che hanno fatto maturare il Documento di Abu Dhabi.

Scrivono della Lettera aperta a sua santità papa Benedetto XVI inviatagli da trentotto sapienti musulmani nel 2006 dopo il suo famoso discorso di Ratisbona (per il quale il trascendentalismo islamico separava fede e ragione). In essa ribadivano che «l’unità di Dio, la necessità di amarlo e la necessità di amare il prossimo sono il terreno comune tra islam e cristianesimo», ricordando che Corano 16,125 invita i musulmani al dialogo con ebrei e cristiani.

I due studiosi della Cattolica ricordano poi la lettera indirizzata nel 2007 da 138 esponenti musulmani a capi religiosi cristiani, intitolata Una parola comune tra noi e voi, citazione del Corano 3,64: «Veniamo a una parola comune tra noi e voi». In essa si sostiene che le differenze tra le religioni non devono provocare odio e conflitto, ma il «gareggiare nelle opere buone» (Corano 5,48).

Nel 2016, trecento personalità musulmane da centoventi paesi, nella Dichiarazione di Marrakech sui diritti delle minoranze religiose nei paesi a maggioranza musulmana, auspicavano una «giurisprudenza della cittadinanza» come base comune per superare le discriminazioni religiose.

Infine, nel Documento di Abu Dhabi, breve e semplice, cristiani e musulmani hanno indicato insieme i valori che li accomunano e che appartengono anche all’etica laica delle dichiarazioni moderne dei diritti.

La fratellanza umana, in tutte le spiritualità, sostiene la dignità di poveri, deboli, vittime.

«In nome di Dio», musulmani e cristiani riconoscono questa fraternità e la cultura del dialogo.

Il pluralismo religioso è parte della volontà di Dio. I linguaggi religiosi orientano, più che definire. Il concetto occidentale di laicità è espresso col termine arabo che significa «civile», né militare, né confessionale.

In particolare, «Dio ha proibito di uccidere, perché chiunque uccide una persona è come se uccidesse tutta l’umanità e chiunque ne salva una è come se salvasse l’umanità intera», detto ebraico, poi islamico, ora anche cristiano, che suggerisce oggi l’illiceità di ogni guerra, incapace di realizzare giustizia.

Nel Documento sono affermati anche i diritti della donna.

Nasce un islam europeo che non è più solo importato. In Italia sono 2,7 milioni i musulmani residenti, tra cittadini italiani e stranieri.

Le giovani donne musulmane a scuola studiano più degli uomini, rispettano i genitori, ma non si riconoscono nel modello materno: cercano un compagno di vita da pari a pari. Se mettono il velo, lo fanno per scelta.

Nello stesso 2019, la dichiarazione, Una fratellanza per la conoscenza e la cooperazione, delle maggiori rappresentanze musulmane di Italia e Francia, ha aderito al Documento di Abu Dhabi e ha istituito, in scuole e università, consigli culturali per un patto educativo globale interreligioso.

Enrico Peyretti

Per approfondire

 

 

 

 

 

 

 

  • Fratelli tutti. Lettera enciclica sulla fraternità e l’amicizia sociale. Guida alla lettura di Giacomo Costa, Elledici 2021.
  • Teologia del pluralismo religioso, Pazzini Editore 2013.
  • Il Corano. A cura di Layla Mustapha Ammar. Introduzione, traduzione e commento di Alessandro Bausani, BUR, 2006.
  • Cristianesimo e Islam in dialogo, Claudiana 2004.
  • Islam italiano. Viaggio nella seconda religione del paese, Einaudi 2003.
  • Storie italiane di buona convivenza, EDB 2004.
  • Vite e detti di santi musulmani, TEA 1988.
  • Detti e fatti del profeta dell’Islām, Utet 2009.
  • Universalismo come pluralità delle vie, Marietti 2004.
  • Per un consenso etico tra culture, Marietti 1995.

 

 

 

 

 

 

 


Librarsi per la pace

Inizia con questo numero una nuova collaborazione tra Missioni Consolata e il Centro studi Sereno Regis. In un tempo di generale «chiamata alle armi», sentiamo il bisogno di tutti i contributi possibili per far crescere la cultura della pace.

I l Centro studi Sereno Regis (Cssr) è uno spazio culturale nato a Torino nel 1982 dall’iniziativa di alcune persone impegnate nei campi della pace, nonviolenza, obiezione di coscienza, disarmo, ma anche dell’ambiente, educazione e partecipazione dal basso (ad esempio con il sostegno al sorgere dei comitati di quartiere).

È oggi uno dei più importanti e riconosciuti centri italiani di documentazione e promozione della cultura della nonviolenza e della trasformazione nonviolenta dei conflitti con un patrimonio archivistico unico nel suo genere.

La «mission»

La mission del Cssr si declina in tre ambiti trasversali: ricerca, formazione e azione, e prevede un forte investimento nella condivisione del suo patrimonio archivistico e dei suoi studi, attraverso un programma di attività mirate a intensificare la relazione con il territorio e al coinvolgimento di ampi settori della società con un approccio libero, inclusivo e cooperativo.

La programmazione culturale, che si fonda sull’utilizzo di discipline diverse in dialogo tra loro (tra cui, ad esempio, le arti e il cinema, oltre alle iniziative educative, alle analisi offerte in convegni, e così via), è indirizzata all’approfondimento, alla discussione, al confronto sui temi cardine dell’ambiente, della pace, del dialogo, della partecipazione democratica.

Domenico Sereno Regis

Il Centro studi prende il nome da uno dei suoi fondatori, scomparso prematuramente nel 1984, Domenico Sereno Regis, partigiano nonviolento e, tra le altre cose, instancabile animatore dei primi comitati di quartiere nella Torino del dopoguerra. Il tema della partecipazione consapevole e diffusa, infatti, è da sempre una cifra della vita associativa del Centro. Facilitare i processi partecipativi, dare voce a chi non ne ha, accompagnare lo sviluppo di associazioni e movimenti verso il raggiungimento dei loro obiettivi, fa parte delle competenze che negli anni l’associazione ha sviluppato insieme all’approfondimento delle «tecnologie sociali» che permettono a questi processi di raggiungere i propri obiettivi con inclusività ed equità.

Nonviolenza e riconciliazione

Le figure di Domenico Sereno Regis (1921-1984) e di Nanni Salio (1943-2016), quest’ultimo presidente del Centro studi fino alla sua scomparsa, hanno dato le radici culturali e impersonato le motivazioni politiche e filosofiche dell’associazione.

L’ambito socioculturale di riferimento nel quale il Centro studi si riconosce è quello più ampio e complessivo del Movimento internazionale della riconciliazione (Mir) e del Movimento nonviolento (Mn), a livello internazionale rappresentato dall’Ifor (International fellowship of reconciliation, sei premi Nobel per la pace), di cui il Mir è la sezione italiana, e dalla War resisters’ international, di cui è sezione italiana il Movimento nonviolento.

Luca Lorusso e Cssr

MIR E MN

Il Mir (Movimento internazionale della riconciliazione) opera congiuntamente al Mn (Movimento nonviolento).
Sulla base dell’insegnamento dei maestri della nonviolenza (Gandhi, M. L. King e Aldo Capitini) il Mir è impegnato nella contestazione radicale della guerra e della dottrina militare, di un modello di sviluppo piramidale basato sulla rapina di risorse umane e naturali, di una democrazia formale che sancisce di fatto il sopruso del forte sul debole.

Persegue il fine di una società pacificata più che pacifica, dove cioè il conflitto venga risolto in modo nonviolento, ma non negato o rimosso. Per questo è attento alle dinamiche sociali, ai fatti politici locali e internazionali, a quanto si muove dal basso nella direzione di una crescita del «potere di tutti».
Gli strumenti del suo agire, in base al principio gandhiano della connessione tra mezzi e fini, rispondono integralmente ai criteri di verità, gradualità, lealtà verso l’avversario.
Il Mir, pur essendo di matrice religiosa, rispetta e valorizza la tradizione laica. Il Mn, pur essendo di matrice laica, rispetta e valorizza ogni fede religiosa.

Cssr

https://serenoregis.org
https://www.ifor.org
https://www.wri-irg.org




Donne e libertà senza frontiere

Una pluralità di sguardi al femminile

Una raccolta di interventi di donne su come far uscire dall’angolo il ruolo femminile nella società. Uno sguardo sulla deriva securitaria e punitiva della nostra democrazia. Un racconto laicale e femminile di missione ad gentes e di famiglia multiculturale tra Kenya e Italia.

Adesso tocca a noi

Mentre scrivo, in Iran le proteste durano già da qualche settimana. Iniziate dopo la morte, il 16 settembre scorso, di Mahsa Amini, una ragazza arrestata dalla «polizia morale» perché non portava correttamente il velo, ancora non si fermano.

Secondo l’Iran human rights, a inizio novembre, sono già morte 277 persone, tra cui 40 minori.

Al grido di «donna, vita, libertà», nel mondo si sono moltiplicate le manifestazioni a sostegno della contestazione.

Mi sembra quindi doveroso segnalare un’uscita recente per Edizioni Terrasanta: Adesso tocca a noi. Donne, leadership e altri misfatti. A curarlo è Chiara Tintori, politologa e saggista che ha svolto attività di ricerca e di docenza in varie università italiane. Fino al 2018 ha lavorato nella redazione della rivista «Aggiornamenti Sociali».

L’Italia non è l’Iran, certo, però anche qui, da anni, il ruolo della donna continua a essere marginale nei processi decisionali.

Adesso tocca a noi non è un libro rivendicativo sulla parità tra uomo e donna, ma porta la testimonianza di donne che, là dove sono, stanno provando a fare la differenza. Quella stessa differenza che, quando è assente, frena lo sviluppo sociale, politico ed economico del paese.

Le voci femminili di questo libro (da Susanna Camusso a Letizia Moratti, da Maura Gangitano a Cristina Simonelli) ci ricordano che riconoscere alle donne ciò che meritano, sulla base di competenze e talenti, è una questione di dignità che riguarda non solo il valore delle persone, ma anche la dimensione etica e culturale della nostra società.

Difficilmente il nostro ritardo verrà colmato dal fatto che oggi il presidente del Consiglio dei ministri in Italia è una donna, se non crescerà la consapevolezza che il «pinkwashing» dietro il quale spesso ci nascondiamo rivela debolezza culturale.

Per comprendere meglio le radici di quanto sta capitando nella regione persiana può essere utile recuperare un libro del 2016, edito da Bompiani: Finché non saremo liberi, del premio Nobel per la pace Shirin Ebadi, la prima donna musulmana a riceverlo. Con il suo impegno da avvocato per i diritti umani, difendendo soprattutto le donne e i bambini dal brutale regime iraniano, ha ispirato una generazione intera. Per questo il governo ha cercato di ostacolarla, ha intercettato le sue telefonate, ha messo sotto sorveglianza il suo ufficio, l’ha fatta pedinare, ha minacciato lei e i suoi cari con metodi violenti.

Nel libro ripercorre non solo la sua vicenda personale, ma la contestualizza rendendo comprensibile ai nostri occhi la follia alla quale stiamo assistendo in questi giorni.

Il malinteso della vittima

Guardando la questione femminile da un altro punto di vista, segnalo Il malinteso della vittima. Una lettura femminista della cultura punitiva, uscito in settembre per Edizioni Gruppo Abele e scritto dalla sociologa e filosofa del diritto Tamar Pitch.

Il libro è una critica serrata alla deriva securitaria della società che trasforma tutte le persone, e le donne in particolare, in potenziali vittime.

«Il termine “sicurezza” – spiega l’autrice – si è spogliato, ormai da parecchi anni, delle caratteristiche sociali cui era legato (lavoro, salute, diritti): oggi ci si sente al sicuro con condizioni che ci proteggono individualmente dal rischio di diventare “vittime” di comportamenti dannosi. Da qui l’assunto che tutte e tutti siamo vittime potenziali; quindi fenomeni sociali complessi vengono governati con il codice penale e, di fatto, si criminalizza la povertà, la marginalità sociale, l’immigrazione. Ma com’è successo tutto questo? E soprattutto, com’è successo che a questa deriva securitaria aderiscano “movimenti politici il cui obiettivo è la libertà dallo sfruttamento, dall’oppressione, dalla violenza dei gruppi di cui si fanno portavoce? Perché, in particolare, questo succede in un movimento come quello femminista, che è ri-nato (in Italia, ma non solo) contro la rappresentanza (ognuna parla per sé, a partire da sé), nel contesto delle spinte antiautoritarie degli anni Sessanta?”».

Senza frontiere

L’ultima segnalazione riguarda il volume Senza frontiere. Diario di una missionaria laica in Kenya. Arriva dall’Editrice Ave e porta la firma di Patrizia Manzone, originaria di Monforte d’Alba (Cn), classe 1979. Laureata in Scienze religiose e attiva nella pastorale giovanile e missionaria della diocesi di Alba, nel 2008 è inviata come laica missionaria a Marsabit, diocesi nel Nord del Kenya, legata fin dagli anni Sessanta a quella di Alba.

Trascorre quattordici anni in terra keniana, durante i quali si sposa con Michael, farmacista a Nairobi. Nel 2022, con il marito keniano e i tre figli, intraprende una nuova missione, in Italia, come «Famiglia missionaria a km 0» nella parrocchia di Cherasco, sempre nel cuneese.

«Ricordo il giorno in cui, incontrando il mio viceparroco in oratorio, gli dissi: “A diciotto anni andrò in Africa!” – racconta Patrizia Manzone -. Lui mi chiese stupito: “Per fare cosa?”. Sono rimasta in silenzio: io volevo solo “stare”. Ma stare per fare cosa? Niente di eccezionale, le stesse cose che faccio qui. “Essere cristiana con loro, tra loro”, mi viene da rispondere adesso. Vivere il più vicino possibile alla gente del posto, consapevole che io non sarò mai un’africana (perché ho sempre una garanzia, una casa, una famiglia, un ospedale europei dove posso tornare), e continuare a imparare da loro la libertà e la semplicità dei figli di Dio e dare quello che sono».

In un’intervista a «La Stampa» di qualche tempo fa raccontava: «In questi anni di permanenza in Kenya, abbiamo cercato di aprire gli occhi, abbandonando la nostra zona “comfort” che ci fa sentire giusti, sicuri e protetti, per metterci in ascolto di culture e modi di vivere diversi dal nostro […]. Alla base […] il concetto di scambio, per mettere a frutto le capacità della persona e non un’assistenza caritativa a senso unico, che intrappola e rende dipendenti».

Un piccolo semplice manifesto per un mondo migliore. Dall’Iran fino al Kenya, passando da casa nostra.

Sante Altizio




Ogni pace e ogni guerra hanno una storia


Una giornalista racconta alcuni dei molti conflitti dimenticati del mondo, e ci dice che ogni guerra insegna qualcosa su come si può fare la pace. Un diplomatico italiano racconta gli ultimi giorni della Nato in Afghanistan, cercando anzitutto le radici lontane di un fallimento e di una speranza.

La meccanica della pace

Quando La meccanica della pace, firmato da Elena Pasquini, esce a metà luglio con People, è piena estate, e la guerra in Ucraina ha compiuto molte devastazioni. All’orizzonte non c’è alcuna speranza né di un cessate il fuoco, né, tantomeno, di una pace tra le parti. Di fronte a questo scenario che non favorisce l’ottimismo, mi sembra cosa buona e giusta consigliarvene la lettura.

Pasquini è una brava e capace giornalista che, da oltre venti anni, con grande sensibilità, osserva da vicino le crisi internazionali. Soprattutto quelle umanitarie, che sono sempre tante, troppe e molto spesso fuori dal circuito dell’informazione.
Esistono, ma non esistono.

Nel suo La meccanica della pace, non solo ci porta nei luoghi dimenticati dalle cronache di guerra in Africa, Medio Oriente e America Latina, ma ci racconta esperienze che dicono una pace possibile da trovare.

«Ogni guerra è diversa, ogni guerra distrugge qualcosa in maniera definitiva, vite, beni, risorse, storia, radici – scrive l’autrice -, ma ogni guerra insegna qualcosa su come si può fare la pace e che la pace è possibile. La pace non è un cessate il fuoco e neppure un accordo. E non è data per sempre. Una pace possibile è fatica, impegno incessante, vigilanza anche quando sembra raggiunta o scontata. E la risoluzione dei conflitti armati è “il più drenante” e logorante dei lavori».

Esiste quindi un meccanismo che mette in relazione gli opposti. La diatriba tra Caino e Abele non deve avere per forza un finale scontato. A loro è mancato un mediatore, o una mediatrice.

Nelle dieci storie raccolte nel libro, non a caso, molte protagoniste dei processi di pacificazione sono donne.

Per costruire la pace senza usare la guerra serve tanta voglia di sporcarsi le mani, grande determinazione, enorme spirito di adattamento, rispetto per tutti, ma proprio tutti, gli attori in campo. E no, non servono eroi.

«Fare la pace è dolorosa pazienza che una vittoria militare non garantisce – scrive Elena Pasquini -. Pace compiuta o parziale, che inizia quando si accoglie l’esistenza dell’altro, il nemico, e dove “nessuno vince tutto e nessuno perde tutto”. Serve qualcuno che inneschi la scintilla, che accenda la luce, che riconosca la realtà e metta in moto il meccanismo».

Chissà se e quando questa logica lineare, semplice nella sua essenzialità, inizierà a prendere il sopravvento sul linguaggio della violenza.

 

L’ultimo aereo da Kabul

C’è un altro libro, uscito quasi in contemporanea con Piemme, che, invece, racconta la storia di un fallimento diplomatico e porta la firma di Stefano Pontecorvo, già ambasciatore italiano in Pakistan, ma soprattutto rappresentante civile della Nato in Afghanistan.

È lui l’uomo che ha coordinato, nell’aeroporto di Kabul, l’evacuazione dei civili afgani in fuga dal ritorno dei taliban, in un contesto che definire apocalittico pare misurato.

Era la fine del mese di agosto dello scorso anno.

L’ultimo aereo da Kabul. Cronaca di una missione impossibile è un libro fondamentale, soprattutto per un motivo: alla catastrofe finale il suo autore dedica solo due capitoli, il nono e il decimo. Gli altri otto sono una approfondita analisi storica del contesto che ha preceduto tutto quello che abbiamo visto un anno fa, partendo dagli albori della storia afgana, ed entrando nelle dinamiche tribali, religiose, economiche. Tutto quasi completamente ignorato nei vent’anni di presenza militare occidentale in quel paese.

Pontecorvo, che è figlio di diplomatici, già da bambino viveva in quella fetta di Asia e, in quell’aerea sospesa tra cultura araba e persiana, all’ombra di Cina e India, vi ha trascorso più tempo che in Italia.

«Alle 18.21 di venerdì 27 agosto 2021 terminò formalmente l’avventura afgana della Nato – scrive l’ex ambasciatore -. In quel momento il C130 italiano sul quale ero imbarcato, ultimo rappresentante dell’Alleanza atlantica a lasciare il paese, passò il confine tra l’Afghanistan e il Pakistan. Per la prima volta in vent’anni l’Afghanistan era senza presenza Nato. Lasciammo il paese e lo lasciammo male, in mano a quegli stessi talebani che avevamo cacciato dal potere in poche settimane venti anni prima. E lasciammo un paese che aveva creduto in noi e una popolazione condannata ancora una volta, non certo per scelta, a un futuro ben diverso da quello che le avevamo fatto intravedere».

Avere ignorato la storia del contesto, averne ignorato i meccanismi (per recuperare il lessico della Pasquini), ha prodotto una sequela di errori che alla fine si sono sommati alla decisione presa dall’allora presidente Donald Trump di lasciare del tutto e definitivamente l’Afghanistan per motivi di pura politica interna.

L’ultimo aereo da Kabul è una sorta di manuale, un compendio di «cose da non fare se» ti occupi di diplomazia, se devi sanare ferite, se devi chiedere a tribù che si odiano da secoli di fare un governo insieme.

Interessante è, ovviamente, anche il punto di vista di Pontecorvo: uomo occidentale, che ha vissuto l’Oriente, ne è stato contaminato ed è stato chiamato a scrivere una delle pagine più tragiche della sua storia recente.

Traspare spesso nelle sue parole un senso di amarezza che però attenua nelle ultime pagine del libro, quando si chiede: ne è valsa la pena andare laggiù per vent’anni se il risultato è stato questo? La risposta è: sì. «Conosciamo la storia del bambino che mette il dito nel foro di una parete della diga e impedisce all’acqua di […] allargare la falla, salvando il suo villaggio dall’inondazione. […] Quel bambino è la Nato. Fino a che abbiamo tenuto il dito […], il sistema ha retto per gli afgani e per noi. […] Abbiamo lasciato un Afghanistan ben diverso da come lo abbiamo trovato. Vent’anni fa non vi erano praticamente scuole, sanità, educazione, le donne vivevano nel Medioevo. […] Tutto questo è cambiato e lo abbiamo cambiato noi. […] L’età media afgana è di 28 anni, una intera generazione è crescita esposta alla guerra, ai troppi morti causati da essa, ma anche avendo negli occhi un modello alternativo e la consapevolezza di cosa significhi vivere una vita diversa. Per l’Afghanistan vi è ancora una speranza».

Sante Altizio




Il profeta, il vecchio e il minatore


Un ex muratore semianalfabeta diventa profeta e artista in Sicilia. Un coro collettivo di donne e uomini anziani di cinque regioni italiane porta alla luce un passato che rimane ancora presente. Un minatore peruviano compie un viaggio nell’aspetto infernale dell’oro.

Lassù

«È venuto il tempo di annientare coloro che distruggono la terra». Con questa citazione di Apocalisse 11,18, Bartolomeo
Pampaloni apre il suo ultimo film doc, Lassù, uscito nella primavera di quest’anno, prodotto da Graffiti Doc e Aeternam Film, e già vincitore sia del Trento Film Festival che del Nuovi Mondi Festival, due premi che pesano e che rendono la misura di quanta strada abbia fatto Pampaloni, già noto per il suo Roma Termini.

Lassù racconta la storia (reale) di Nino, ex muratore che viveva nella periferia di Palermo con la sua famiglia e che ora vive da solo in cima a una montagna facendo il profeta e facendosi chiamare Isravele («Elevarsi» letto al contrario).

Lassù, sul monte che sovrasta la Riserva naturale di Capo Gallo, c’è la sua dimora: una vecchia e abbandonata postazione di vedetta della Reale marina militare borbonica del Regno delle Due Sicilie che, negli ultimi vent’anni di lavoro solitario, Isravele ha trasformato in un portentoso tempio naïf, considerato uno dei più impressionanti esempi di outsider art in Europa.

Isravele sale e scende, ogni giorno, con lo zaino carico di sassolini e cemento. Porta in alto il basso, e così lo purifica. Trasforma l’incuria in bellezza, tramite un lavoro costante, al limite del disumano, che lui chiama preghiera.

Da qualche tempo turisti sempre più numerosi arrivano lassù, spinti dalla curiosità per quell’uomo misterioso che annuncia la venuta dell’Apocalisse e che in città viene chiamato l’eremita.

«Per raccontare quest’uomo – afferma l’autore del film doc – ho deciso di piantare la mia tenda nel terreno adiacente questo magnifico tempio e di passare le giornate assieme a lui. È così che, giorno dopo giorno, per quasi due anni, ho tentato di penetrare il mistero del meraviglioso artista che si è incarnato nel corpo di un muratore semi-analfabeta. Il risultato è un ritratto dell’artista, di ogni artista, la cui esistenza, in ogni tempo e luogo, non può nutrirsi d’altro che dell’irriducibilità assoluta rispetto alle logiche del mondo, di quel mondo che sorge ai piedi del monte sul quale si staglia l’opera di Nino. Un mondo che scorre sempre più veloce verso l’oblio di sé e per il quale l’artista non cessa di essere uno scandalo vivente».

Il tempo rimasto

Se la storia di Nino è quasi sospesa nella realtà, Il tempo rimasto di Daniele Gaglianone, classe 1966, è un poetico tuffo nella vita quotidiana di chi ha alle spalle molto tempo già trascorso e poco, davvero poco, ancora davanti a sé. Uscito nel gennaio scorso e prodotto da Zalab Film, Istituto Luce Cinecittà e Rai Cinema, Il tempo rimasto è una riflessione sulla vecchiaia e su cosa si può scoprire quando ci si ferma a recuperare i propri ricordi.

Il film nasce da un lungo percorso di ascolto di decine di persone in cinque regioni italiane, alla ricerca di un mondo che «fino a ieri» poteva apparire remotissimo e che invece sembra stranamente ancora presente.

Daniele Gaglianone è uno dei più importanti registi indipendenti del cinema italiano contemporaneo, in un’intervista rilasciata a Gabriella Mancini ha affermato: «Volevo a tutti i costi, al di là dell’ascolto delle parole, raccogliere i piccoli segnali meno evidenti: i gesti, i volti scavati dalle rughe, il segno del tempo che è trascorso. Così come i silenzi che nel film affiorano e sono silenzi non gratuiti, ma seguono l’onda emotiva del racconto. Sono storie tutte in bilico tra un futuro che forse non interessa più, che per quanto possa riservarci delle sorprese, è sempre all’ombra della luce di quanto già vissuto e un presente che è ancora intrecciato con il passato, perché chi racconta non si limita a ricordare ciò che è addietro, ma lo rivive. E lo rivive in modo talmente intenso da sorprendere prima di tutto chi racconta».

Il film di Gaglianone si gioca sul filo dell’emozione scatenata dal recupero della memoria di persone anziane, diverse tra loro, ma identiche nella capacità di ricostruire se stesse com’erano anni e anni prima, in un modo corale. «L’intento è quello di accompagnare lo spettatore dentro una storia nella quale non ci sono singoli protagonisti, dove non bisogna cercare un filo, perché se non lo cerchi sarà poi il filo a trovare lo spettatore».

C’è una domanda che aleggia nel film, a volte quasi esplicitata, però decisiva per cogliere la sua cifra poetica: di tutto ciò che ho vissuto, visto, provato, resterà qualcosa? Il film, grazie a Gaglianone, offre la risposta, ed è sì, resterà.

Mother Lode

Con Mother Lode, uscito nel 2021 per la regia di Matteo Tortone, lasciamo l’Italia e approdiamo in Sud America.

È la storia di Jorge che lascia la sua famiglia e il suo lavoro di mototaxi nei sobborghi di Lima per cercare fortuna nella miniera più elevata e più pericolosa delle Ande peruviane. Isolata su un ghiacciaio, La Rinconada è «la città più vicina al cielo». Qui arrivano ogni anno migliaia di lavoratori stagionali attratti dalla possibilità di far fortuna e dalla speranza di una vita migliore.

Da qui, Jorge inizia un viaggio fatto di premonizioni, dove la realtà e l’immaginazione si mescolano e dove il sogno della ricchezza viene pagato dal sacrificio umano: l’oro, infatti, appartiene al Diavolo e el Tio de la Mina reclama sacrifici. Occasionalmente dei giovani minatori scompaiono.

Una coproduzione italo-franco-svizzera davvero ben riuscita, in bianco e nero con un sapore di neorealismo italiano.

Nelle note di regia, Matteo Tortone scrive: «L’idea del film inizia in un villaggio di minatori, nella parte Nord della Tanzania. Ero attratto dall’aspetto metafisico dell’oro, controcampo delle implicazioni macroeconomiche del mercato dell’oro.

La Rinconada mi è sembrata il setting perfetto per raccontare la corsa all’oro contemporanea: una città di minatori situata a 5.300 metri d’altezza sulle Ande, una destinazione che attira masse di uomini a causa della crisi economica globale».

Nel lavoro di Tortone c’è molto più di una generica, seppur doverosa, denuncia del «sistema». C’è la capacità di fare di Jorge una sorta di Virgilio che ci accompagna negli inferi del mondo con una semplicità disarmante, mettendoci di fronte alle singole responsabilità personali. Il sistema siamo anche noi, nessuno escluso. Ognuno per la sua parte.

Sante Altizio




Di Guatemala, Roma e Senegal


Un prete torinese fidei donum in Guatemala, innamorato dei poveri. Un monsignore guatemalteco martire per la liberazione degli oppressi. Un francescano in missione nella movida di Trastevere. E una donna italiana «expat» felice in Senegal.

Prete con gli ultimi

Si intitola «Don Piero Nota. Un prete dalla parte degli ultimi», lo ha curato e pubblicato il gruppo famiglie della parrocchia Gesù Redentore di Torino; è un tributo a un sacerdote che in quella comunità si è speso a lungo lasciando un ricordo che andava raccolto, organizzato e condiviso.

Don Piero è morto il 18 gennaio del 2021, dopo una vita in missione: in Italia, nella periferia operaia della ex capitale dell’automobile, e in Centro America, in un quartiere della periferia di Ciudad Guatemala, in anni nei quali gli squadroni della morte, indisturbati, mietevano vittime in nome della presunta lotta al comunismo. Anni bui, di minacce di morte, che hanno costretto don Piero, prete fidei donum della diocesi, a far ritorno in Italia. Di nuovo a Torino, stesso quartiere.

Don Piero aveva fatto sua la «scelta preferenziale per i poveri» della chiesa latinoamericana, e il suo apostolato si è svolto sempre attorno a essa.

L’antologia di racconti e ricordi che il gruppo famiglie mette insieme nel libro è di grande intensità, e rende omaggio a don Nota come meglio non si potrebbe. La biografia è accompagnata da molte foto, documenti, ricostruzioni. Otto capitoli, duecento pagine, decine di amici che raccontano il loro don Piero.

Chi scrive lo ha incontrato per la prima volta nel 1987 nella sua parrocchia di El Limon, avevo poco più di vent’anni. Mi misurai per la prima volta con la chiesa missionaria e non lo scordai più.

Juan Gerardi

Rimaniamo in Guatemala grazie ad Anselmo Palini, saggista e insegnante che per la casa editrice Ave ha scritto la biografia Juan Gerardi uscita nella collana Testimoni.

Non è un caso se in esergo l’autore scriva «In memoria di don Piero Nota, che è stato un segno di speranza per i poveri e gli emarginati del Guatemala».

Monsignor Juan Josè Gerardi Conedera è stato uno dei vescovi latinoamericani più importanti dell’era post conciliare. Guatemalteco di nascita, dedicò la sua vita di sacerdote a fronteggiare la dittatura militare che devastò il paese per decenni.

Si espose in prima persona e fu la voce più alta nel chiedere giustizia per le vittime della violenza politica, perpetrata senza limite e pietà. Raccolse in un volume di migliaia di pagine, Guatemala, nunca mas («Guatemala mai più»), i nomi e le storie di 50mila donne e uomini uccisi dalla dittatura. Il libro venne presentato il 25 aprile del 1998. Due giorni dopo gli fracassarono la testa con un blocco di cemento. Aveva 75 anni.

Alla rivista online korazym.org Anselmo Palini ha recentemente dichiarato: «Questo libro si inserisce in un lungo percorso che ho avviato con l’editrice Ave di Roma, l’editrice dell’Azione cattolica, sul tema della memoria del bene, ossia sul proporre le storie e il pensiero di quanti, nella notte delle dittature e dei totalitarismi, hanno operato per la pace, per la giustizia, per la libertà».

Palini ha scritto di dom Helder Camara, di mons. Romero e delle stragi di gesuiti in Salvador. Gerardi è l’ultimo pezzo del puzzle. «La testimonianza di questo vescovo martire, ancora poco noto in Italia, continua oggi a interpellare la Chiesa e ognuno di noi e ci indica la strada per un altro mondo possibile, dove finalmente, come afferma il testo biblico, “sia osservato il diritto e praticata la giustizia”».

Frate Movida

Cambiamo scenario e arriviamo nel cuore della Roma di oggi grazie a Frate Movida. Mission possible sulle banchine del Tevere, scritto da Paolo Fiasconaro, frate francescano, e pubblicato da  Edizioni Messaggero.

Per sei anni, dal 2014 al 2019, nei mesi estivi, padre Paolo Fiasconaro è andato in «missione» nei luoghi della movida romana, una «periferia esistenziale», nel divertimento, nel relax serale e in mezzo alle passeggiate di migliaia romani e di turisti sulle sponde del Tevere.

Il Sud America e il Guatemala di don Piero e mons. Gerardi sono lontani anni luce, eppure anche questa è missione.

Padre Paolo ha vissuto tra e con la gente, e ha condiviso le vacanze come un momento di crescita e di promozione, come un tempo da valorizzare.

Il libro racconta alcuni incontri, dialoghi, lunghe conversazioni, momenti non convenzionali, per costruire ponti e relazioni. In fondo il carisma francescano è affascinante proprio per la sua capacità di vivere inserito nella contemporaneità.

Al giornalista di Radio Vaticana Fabrizio Mastrofini che lo ha recentemente intervistato, padre Fiasconaro ha detto: «Credo che la movida romana sia una periferia. E mi piacerebbe un maggiore coinvolgimento della Chiesa locale. Ne ho parlato col vescovo di settore già a suo tempo. Oggi a Trastevere ci sono otto parrocchie. Vorrei che la Chiesa locale facesse di più. Il Centro missionario si è mosso, sarebbe bello coinvolgere le parrocchie e celebrare la messa sulle banchine».

My beautiful Senegal

Chiudiamo facendo un salto in Senegal.

Segnaliamo il sito www.mybeatifulsenegal.com, da poco on line, costruito e curato da Fabrizia Galvagno, una giovane donna italiana, giornalista «afroentusiasta» (la definizione è sua), che da qualche anno vive in Senegal, a Dakar.

Lì si è sposata, ha avuto due figli, ha avviato una sua attività, ma soprattutto ha deciso di raccontare la vita di una expat (espatriata) in terra d’Africa. «My Beautiful Senegal – scrive Fabrizia Galvagno – nasce dalla curiosità che i miei amici e famiglia hanno sempre dimostrato per la mia vita di expat e dalla difficoltà che ho sempre incontrato a rispondere alle loro domande sul Senegal. Quando vivevo a New York era più facile, tutti avevano visto i film, letto i libri, un mucchio di gente ci era già stata almeno una volta nella vita. Raccontare di New York non è mai stato difficile. Ma il Senegal… è un altro pianeta!».

E nel suo pianeta Fabrizia ci accompagna con un blog che aggiorna spesso, una pagina dedicata alle Faq e un’altra ai preconcetti (da «Vivere in Africa costa poco» a «Sei sempre in spiaggia»). Fate un giro nel mondo di un’italiana a Dakar, ne vale la pena.

Sante Altizio

 




Fratelli di guerra


Un libro sul conflitto e sul dialogo, prendendo spunto dagli incontri di Gesù descritti dai Vangeli. Un secondo libro sulla fraternità, partendo dalle storie di fratelli raccontate nella Bibbia. Con l’auspicio di fare diversamente. Un terzo libro sulla città di Kiev dove sia il dialogo che la fraternità si sono interrotti con la violenza.

Dialoghi e Vangelo

Mentre scriviamo sono trascorse già diverse settimane dall’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina e anche il mondo dell’editoria, com’è normale, fa i conti con la guerra in Europa, con l’indicibile che bussa alle nostre porte.

Vita e Pensiero, la casa editrice dell’Università Cattolica, promuovendo l’uscita dell’ultimo libro di Johnny Dotti e Mario
Aldegani, imprenditore sociale il primo, sacerdote murialdino il secondo, lo presenta così: «Mandiamo in stampa il volume in quest’alba in chiaroscuro del nuovo millennio, quando bagliori e furori di guerra incredibilmente insanguinano di nuovo l’Europa e minacciano il mondo. Ancora una volta il conflitto, dimensione naturale di ogni relazione umana e sociale, diventa automaticamente violenza e guerra a dimostrazione dell’incapacità di dialogare anche dell’umanità del XXI secolo».

Il libro s’intitola Che cosa cercate? Dialoghi e Vangelo, e passa in rassegna i dialoghi di Gesù, o con Gesù, da cui nascono spunti di orientamento di natura politica, spirituale ed economica.

Il libro, uscito alla vigilia di Pasqua del 2022, si è trovato immerso nella contemporaneità.

Scrivono gli autori: «Il dialogo è una scienza e un’arte. Una scienza perché coinvolge la possibilità di approfondire con un altro o con altri i nostri pensieri e le nostre convinzioni, come anche di condividere le nostre incertezze; la scienza del conversare, nell’Occidente, è diventata principalmente dialettica, a partire dal mondo greco sino ai nostri giorni. Il dialogo, però, è anche un’arte. Non è solo l’incontro di due pensieri, ma di due persone. Non è solo lo scambio tra due intelligenze, ma tra due anime, tra due cuori».

Il percorso di analisi prosegue e focalizza bene il vulnus che stiamo vivendo: in nome della dignità umana, agiamo fino alle estreme conseguenze, avendo come unico risultato la negazione di quella dignità alla quale diciamo di voler finalizzare le nostre azioni.

«Noi, esseri viventi che siamo “mancanza d’essere”, esistiamo perché coesistiamo, perché dialoghiamo. Il dialogo, quindi, ci pare l’orizzonte più concreto per dare forma all’affermazione tanto sbandierata sulla centralità della dignità umana, perché impegna, cioè dà in pegno la nostra parola e ingaggia la nostra presenza; ci riconosce e ci fa riconoscere nel tu per tu come nella manifestazione più alta della nostra dignità e della nostra gioia di vivere».

C’è di che riflettere, e molto, in un momento nel quale la parola e il pensiero sono negati dal rumore dei cingoli dei carri armati e dallo strazio dei civili travolti dalla tragedia della guerra.

Prove di fraternità

Altri spunti di riflessione ce li offre don Luigi Maria Epicoco, il giovane sacerdote brindisino che si è ritagliato con merito un ruolo nell’empireo degli «influencer» del mondo ecclesiale.

In marzo è uscito il suo ultimo libro In principio erano fratelli con Tau editrice.

Il punto di partenza dell’analisi di don Epicoco è il conflitto che alberga in ciascuno di noi, letto partendo dalla Bibbia.

Caino e Abele, i figli di Noè: Sem, Cam e Jafet. Poi Esaù e Giacobbe, Giuseppe e i fratelli.

Scrive l’editore umbro presentando il volume: «Tutto il racconto della Genesi è abbracciato da una grande parentesi di fraternità fallite. La Bibbia mette queste vicende proprio all’inizio perché nella parte più profonda dell’uomo è sedimentata una ferita, un fallimento, un anello debole, non la capacità ideale di essere in relazione e in comunione. C’è una parte di noi che va presa in considerazione, offerta a Dio e redenta, affinché non diventi famelica e omicida. Soltanto questo farà di noi persone libere e capaci di amarsi. Figli (quindi fratelli) e non servi».

Pensando a quanta difficoltà ha la chiesa ortodossa russa nel denunciare la follia dell’uso delle armi, queste parole risuonano fortissime.

E lo stesso Epicoco aggiunge: «Viviamo in un tempo in cui si sente spesso parlare di fraternità, e questo può risultare davvero controcorrente in un’epoca come la nostra, dominata da un potente individualismo alimentato dalla cultura contemporanea. Nel mondo degli individualisti non esistono fratelli, ma solo figli unici».

Un mondo di figli unici: un’immagine forte, che rende bene il contesto che stiamo vivendo.

Kiev

Il contesto della guerra, quella attuale, lo ha descritto bene l’inviato speciale di «Avvenire», Nello Scavo, che per Garzanti ha scritto Kiev, un vero e proprio diario dei primissimi giorni di guerra.

Nello Scavo, esperto inviato di guerra, raggiunge la capitale ucraina a metà febbraio 2022, quando la minaccia di un attacco russo si fa sempre più insistente, ma ancora in pochi credono possibile l’invasione.

Da quel momento, il giornalista registra senza censure il rapido tracollo di una situazione che si fa sempre più pericolosa: la dichiarazione dello stato di emergenza, il trasferimento delle ambasciate, e poi le esplosioni, le colonne di carri armati, il disperato esodo dalle città.

Giorno dopo giorno Nello Scavo descrive i movimenti delle truppe russe e la resistenza degli ucraini; approfondisce le conseguenze politiche ed economiche dei combattimenti; svela le ragioni ideologiche alla base delle decisioni dei leader.

Allo stesso tempo non dimentica la dimensione umana del dramma in corso, raccogliendo le testimonianze dirette di chi da un momento all’altro ha dovuto abbandonare la casa, ha perso la famiglia, ha scelto di imbracciare un fucile.

«Kiev» è un diario personale dal conflitto nel cuore dell’Europa, scritto sul campo da un giornalista chiaro nello spiegare le ragioni di quanti la guerra la decidono, ma soprattutto capace di dare voce a coloro che questa tragedia sono costretti a subirla.

Il suo scritto è prezioso.

«Non esistono parole giuste per raccontare la guerra – sostiene -. Ma di certo esiste il modo migliore: in presa diretta».

Questa guerra è la prima che vede i social network e l’hackeraggio informatico schierati sui due fronti e usati come arma.

Se l’informazione ufficiale è poco attendibile, e lo è, non rimane che ascoltare la voce dei testimoni. Sono loro gli unici in grado di restituirci la realtà del momento, a raccontare il qui e ora senza possibilità di fraintendimenti.

Sante Altizio


Libro Emi del mese:

 




Il mondo al pronto soccorso


Il clima, la pandemia, la situazione in Ucraina precedente alla guerra. Tre film documentari sulle tre emergenze che, in modi diversi, stanno scuotendo il mondo. Quando il linguaggio cinematografico aiuta a guardare le cose per farsene carico.

A riveder le stelle

Emanuele Caruso, classe 1985, è un regista di cui si parla parecchio da alcuni anni, e non a caso.

Di origini siciliane e radici albesi, Caruso rappresenta, sia nella forma che nella sostanza, una sorta di piccola nuova frontiera della produzione cinematografica di casa nostra. Ha prodotto, tra il 2014 e il 2018, due film (E fu sera e fu mattina e La terra buona) finanziati interamente da compagne di crowdfunding di grande successo e, nonostante lo scetticismo che accompagna spesso chi ha il coraggio di buttare il cuore oltre l’ostacolo, anche nelle sale cinematografiche il pubblico ha risposto con un entusiasmo che ha di molto superato le attese.

Il 2 marzo, a Domodossola, è stata la volta della prima nazionale del suo nuovo film: A riveder le stelle, prodotto di nuovo con la sua Obiettivo Cinema.

Questa volta Caruso si è cimentato su un terreno già frequentato in gioventù: il documentario d’autore. Un gruppo di sei persone che non si conoscevano prima, tra cui gli attori Maya Sansa e Giuseppe Cederna, e il medico Franco Berrino, fondatore dell’associazione «La grande via», per sette giorni hanno macinato molta strada e scoperto la Val Grande, al confine tra Piemonte e Svizzera, 150 chilometri quadrati di natura selvaggia. A guidare il loro cammino c’era una semplice riflessione, che per il regista rappresenta il filo rosso che lega tutto il racconto: «Stiamo distruggendo il pianeta e nessuno fa niente. Nessuno, sono io».

Sulla pagina web dedicata al film, Emanuele Caruso scrive: «Quando, nei prossimi anni, il cambiamento climatico provocherà la più grande crisi che l’uomo dovrà mai affrontare, volgeremo il nostro sguardo al passato. Guardando indietro, ai tanti errori che con consapevolezza abbiamo commesso negli anni, ci porremo allora un’unica domanda: “Come abbiamo potuto permetterlo?”».

Il film è in distribuzione in alcune sale del Nord Italia, ma è possibile organizzare ovunque si voglia proiezioni per scuole e associazioni.

Tutti i dettagli sono sul sito www.obiettivocinema.com.

Ogni 90 secondi

Restando nell’ambito delle emergenze che ci riguardano tutti direttamente, va segnalato che il 31 marzo, giorno della fine ufficiale dello stato d’emergenza sanitaria in Italia, alle ore 23,30 su Rai1 è andato in onda Ogni 90 secondi. Storie di pronto soccorso tra emergenza e urgenza, un film documentario prodotto dalla Simeu, Società italiana medicina d’emergenza urgenza, firmato dal regista televisivo Davide Demichelis.

Il lavoro è un tributo a quei luoghi – sono 650 i pronto soccorso attivi in Italia -, che nel marzo del 2020 sono stati travolti dalla pandemia.

Uscendo dalla retorica dell’eroismo, Davide Demichelis viaggia da Nord a Sud alla scoperta della prima frontiera della sanità italiana e di chi, con dedizione e una professionalità altissima, permette che i pronto soccorso funzionino al meglio delle loro possibilità.

La forza del film è anche la rinuncia al catalogo delle debolezze del sistema. Quelle le conosciamo. Ciò che non conosciamo abbastanza, invece, sono le storie dei medici, degli infermieri, dei professionisti della medicina d’emergenza.

Li abbiamo scoperti a causa della pandemia, ma loro c’erano prima e ci saranno dopo. Certo per chi ha lavorato settimane di fila senza staccare mai, ha iniziato il turno a febbraio del 2020 e lo ha finito a maggio, nulla sarà davvero più come prima.

Quando la competenza e l’esperienza si fanno servizio e si mettono a disposizione, tutto sembra possibile. Il senso del dovere prende il sopravvento e il pronto soccorso diventa casa e famiglia, il luogo in cui rimarrai fino a quando sarà necessario. Non un minuto di meno.

In chiusura, un medico denuncia chiaramente quanto pesi ancora ciò che (forse) ci siamo lasciati alle spalle, afferma: «Se per assurdo dovesse restare un solo medico al mondo, quel medico sarà un medico di pronto soccorso. Non c’è nessuna alternativa possibile».

Per poter seguire la programmazione del film o organizzare una proiezione, scrivere a ufficio.stampa@simeu.it.

Il documentario è visibile anche sulla piattaforma di Raiplay.

Winter on fire

L’ultima emergenza, dopo quella ambientale e quella sanitaria, con cui chiudiamo questo numero di Librarsi, è la guerra in corso in Ucraina.

Su Netflix dal 2016 è presente un film documentario che ora è tempo, per chi non lo avesse fatto, di vedere. O magari anche di rivedere, perché alla luce degli avvenimenti e dello strano dibattito che circonda il conflitto, la visione di Winter on Fire del regista russo Evgeny Afineevsky può rivelarsi illuminante.

Il film, del 2015, è il racconto di quanto avvenne a Kiev dal novembre 2013 al febbraio del 2014 in Piazza Maidan.

Rileggere quei fatti, che portarono alla fuga del presidente Victor Yanukovic in Russia, oggi ha un sapore diverso. Evgeny Afineevsky compone un puzzle che rende con grande chiarezza la drammaticità di quelle settimane: da una parte c’era una grande fetta di opinione pubblica che voleva avvicinarsi all’Europa per dare all’Ucraina una vera indipendenza da Mosca, dall’altra una politica troppo debole e corrotta per andare fino in fondo e recidere il vincolo con la Federazione Russa.

Il film è crudo. La violenza dei Berkut, i corpi speciali della polizia poi disciolti, sui manifestanti è impressionante. Le scene dei cecchini che sparano sulla folla, che prendono di mira coloro che soccorrono i feriti, riporta alle pagine più buie dell’assedio serbo di Sarajevo. Ciò che però oggi più colpisce di Winter on Fire è la consapevolezza che quella vittoria di piazza è stata tradita di nuovo. A distanza di soli otto anni è ancora la voglia del popolo ucraino di essere Europa a segnare il tragico destino della sua nazione.

Sante Altizio




Un libro che parla di ferite nel cuore della Chiesa e uno di amore


Lo scisma e l’amore

Un giornalista e una teologa affrontano, senza peli sulla lingua, quella frangia di chiesa che si oppone a Francesco, parlando di scisma.

Una giovane laica missionaria parla, mettendo a nudo il suo cuore, del suo grande Amore: quello per Dio e per l’uomo, incontrati nella sua Italia, in Brasile, Benin, Palestina e Thailandia.

Lo scisma emerso

Si intitola Lo scisma emerso. Conflitti, lacerazioni e silenzi nella Chiesa del Terzo Millennio. Lo hanno scritto il giornalista Francesco Antonioli e la teologa Laura Verrani, ed è stato pubblicato in febbraio da Edizioni Terra Santa (dimostrando coraggio).

Il titolo è la perfetta sinossi di quanto hanno raccolto i due autori nelle 250 pagine del volume. Il mix è intrigante, da una parte c’è Antonioli che è un giornalista professionista dal curriculum importante e da sempre attento anche alle «cose di Chiesa»; dall’altra c’è Verrani, una teologa che da oltre venti anni si occupa di catechesi biblica. I loro saperi e i loro stili si fondono e raccontano, forse per la prima volta con così grande nettezza, ciò che purtroppo è sotto gli occhi di tutta la comunità ecclesiale: la spaccatura creata, nella Chiesa di Francesco, dall’ostilità di quella parte cosiddetta «tradizionalista», minoritaria, ma rumorosa. «Basta, chiamiamo le cose con il loro nome – si legge a pagina 13 -. E pronunciamole: senza il timore di tacere. È ben radicata una prassi corrosiva, nella Chiesa cattolica, che nasce dall’abitudine di edulcorare la verità, soprattutto quando risulta spiacevole o in grado di cambiare lo status quo». La vecchia abitudine dell’essere umano di accumulare polvere sotto il tappeto sta producendo danni enormi alla comunità ecclesiale. Dall’uso disinvolto del denaro, al recente caso torinese delle «vocazioni forzate», dalle discriminazioni di genere, agli abusi psicologici e sessuali, gli autori ricostruiscono la cronaca, ma danno anche una lettura di prospettiva, Vangelo alla mano.

La domanda di fondo offerta dal libro è: vista la spaccatura interna alla Chiesa, aperta anche dalla pessima abitudine di non dare i nomi giusti alle cose, quale Chiesa vogliono i cattolici? «Questa frattura profonda – scrivono gli autori – non è uno degli effetti della cosiddetta secolarizzazione. Per lo meno: anche, ma soltanto in parte. Il punto è che la pandemia […] ha divaricato ulteriormente le posizioni da quando, nel 2013, è salito al soglio pontificio Jorge
Mario Bergoglio. Una divaricazione sempre più evidente e graffiante. È questa la Chiesa del Vangelo? È questo il futuro della presenza dei cattolici nella società civile?».

Lo scisma emerso è una lettura che scorre veloce, non è per addetti ai lavori, per amanti delle analisi in filigrana, ma per tutti coloro che vivono e si muovono all’interno della comunità, credenti e non. Inevitabilmente è una lettura che lascia un po’ di amaro in bocca, ma tanto Laura Verrani quanto Francesco Antonioli, come si evince chiaramente dalla lettura del loro lavoro, non hanno alcuna intenzione di picconare una casa pericolante che sentono in tutto e per tutto anche la loro, anzi: «La Chiesa sta vivendo per la prima volta una chiamata al confronto sinodale capillare – scrivono -. Bisogna dirci ciò che non funziona. Senza livore, polemiche o anticlericalismo pregiudiziali. È invece proprio in quanto credenti e sinceramente appartenenti alla Chiesa che riteniamo importante mettere sul tavolo le questioni».


Amare, voce del verbo…

Nel febbraio scorso è uscita anche una piccola chicca che vale davvero la pena segnalare: Amare, voce del verbo… Come esperienze e vite intrecciate mi hanno fatto conoscere l’Amore, libro d’esordio della giovanissima Maristella Tommaso per le Edizioni San Paolo.

Nata a Conversano (Ba) ventotto anni fa, Maristella è stata segretaria regionale di Missio Giovani Puglia. Ora vive a Torino, è membro della Consulta del Centro missionario dell’arcidiocesi e collabora per la formazione missionaria dei giovani. Quella di Maristella
Tommaso è una riflessione ad alta voce, un mettere nero su bianco un flusso di parole che pone al centro di tutto l’Amore. Già, quello con la A maiuscola. Quell’Amore che si è fatto carne, il Verbo, e che è venuto in mezzo a noi. Gesù.

Non stupisca che l’autrice si sia spinta così avanti (o in alto): il suo non è un trattato teologico, né ha velleità filosofiche. Piuttosto è un percorso di scoperta di sé e di quell’Amore percepito con chiarezza, nel quale ha un peso determinante la missione, il tempo trascorso in Brasile, Benin, Palestina e Thailandia.

«Sono stata fortunata e lo dico spesso – scrive -. Sono sempre stata circondata da persone meravigliose che mi hanno rivelato l’Amore. L’Amore che si incarna, che si spoglia, che si fa povero con i poveri, che ci accarezza con tenerezza, ci sostiene e ci libera. L’Amore che si fa uomo e che cammina insieme a noi, che si fa strada, silenzio, speranza. L’Amore che ci spinge ad andare, a tendere verso gli altri, a prenderli per mano, che ci sprona a migliorare, che alimenta il nostro entusiasmo, che ci fa uscire per le strade e si fa presente negli occhi che incrociamo, nelle mani che stringiamo, nei volti che accarezziamo, nei piedi di chi decide di fare un pezzo di strada insieme a noi».

Un inno alla speranza in tempi che sembrano, forse per la prima volta da decenni a questa parte, davvero bui.

L’autrice traccia anche una piccola personale road map, un sentiero lessicale che ha ricostruito per dare senso e profondità alla voce del verbo amare. Tredici capitoli per declinare quel verbo in altrettanti verbi all’infinito: proteggere, attendere, camminare, stare, perdonare, vivere, sorridere, cadere, guarire, liberare, risorgere, (r)esistere, sognare.

In ogni capitolo c’è la vita vissuta di Maristella: gli incontri, le sofferenze, le rinascite, la fede, i dubbi. Racconta tutto con naturalezza e semplicità, accompagnando il lettore in un cammino di scoperta che, partendo dall’autrice, diventa, in qualche modo, corale.

«Siate sentieri, lasciatevi percorrere. Siate mani sempre spalancate che sappiano accogliere qualsiasi cosa come un dono, sappiano accarezzare e sappiano donare. Siate sorrisi in un mondo in cui, purtroppo, regnano l’odio, l’indifferenza, il razzismo, l’egoismo. Siate piedi per chi ha paura di cambiare strada, di camminare e di percorrere sempre insieme agli altri le strade che Dio vi metterà davanti. Siate occhi capaci di guardare oltre, capaci di oltrepassare muri, capaci di innamorarsi ancora, ancora e ancora. Siate costruttori di pace… innalzate ponti e abbiate sempre il cuore aperto al mondo. […] Quando vi dicono che siete il futuro non ci credete, voi siete il presente! Il presente. Impegnatevi oggi. Amate oggi. Sporcatevi le mani. Metteteci la faccia, ma oggi».