Contro l’economia di guerra


Un’opera collaborativa che evidenzia la violenza del modello economico dominante ed esplora alternative virtuose. In nome del rispetto degli esseri umani e della natura. Alla ricerca di una economia di pace.

Cittadella editrice ha il merito di aver pubblicato un agile libro che raccoglie i contributi di diversi attivisti e studiosi per mettere a fuoco le dinamiche dell’economia di guerra nella quale siamo immersi, e individuare percorsi virtuosi verso un’alternativa di pace.

La prima parte del testo è dedicata all’analisi delle drammatiche crisi in atto: il clima, le guerre, l’eclissi della democrazia, dell’uguaglianza e della giustizia. Esse sono prodotte dal modello neoliberista dominante nel quale sono riconoscibili almeno tre tendenze generali.

Tendenze del capitalismo

La prima è la tendenza alla concentrazione del potere economico in poche mani, frutto della lotta per la conquista dei mercati che ha alimentato una polarizzazione tra paesi creditori, come Cina, Russia, Arabia Saudita, e paesi debitori, come gli Stati Uniti. Relazioni internazionali più tese stanno portando allo sviluppo di politiche protezionistiche e alla creazione di aree amiche o nemiche, in un pericoloso «equilibrio di guerra» che rischia di saltare in ogni momento, anche a causa delle crescenti spese militari, le quali, ad esempio nei paesi Nato dell’Unione europea, sono aumentate di quasi il 50% in 10 anni: da 145 miliardi nel 2014 a 215 nel 2023.

Una seconda tendenza è la corsa al controllo delle fonti di energia fossile. I conflitti armati del secondo dopoguerra sono scoppiati per quasi la metà a causa degli idrocarburi: o per conquistare i territori che ne sono ricchi, o per impedire che un paese produttore acquisisse una posizione dominante nel mercato internazionale, o per controllare le rotte di trasporto di petrolio e gas.

È utile sapere che il 64% della spesa italiana per missioni militari all’estero è assorbita da operazioni connesse alla difesa delle fonti fossili. Non si può, poi, evitare di considerare che, nella guerra russo-ucraina, le zone contese del Donbass sono ricche di carbone e petrolio.

Una terza tendenza è l’impossibilità di mettere in atto una seria transizione ecologica, necessaria per affrontare la crisi climatica. Risulta infatti evidente che il cambiamento dovrebbe essere fondato su una conversione economica che sappia rinunciare a un modello di sviluppo centrato sullo sfruttamento degli esseri umani e della natura. Oggi invece «l’inquinamento ambientale è causato dalla difesa armata dell’unica ideologia esistente, il capitalismo» (pag. 145).

Dunque, la «radice della guerra […] va ricercata nella violenza strutturale su cui si basano i modi di produzione, distribuzione e riproduzione oggi trionfanti […]. Un sistema mortifero, biocida. Perché genera guerre, colonizza e militarizza le menti, recide ogni relazione con chi è diverso da sé, distrugge la biosfera, riduce gli spazi vitali di ogni specie vivente.

Per ripudiare la guerra è necessario estirpare le sue radici profonde ed inventare un’economia di pace» (pag. 97).

Alternative concrete

Nella seconda parte del testo, «Appunti per un’economia di pace», sono presentati alcuni contributi che propongono alternative possibili allo scenario descritto in precedenza.

Un cambiamento di paradigma è rappresentato dal modello dell’economia gandhiana, fondato su sei concetti chiave: nonviolenza, non sfruttamento, autolimitazione e sobrietà, lavoro autodiretto al servizio dello sviluppo proprio e della comunità di appartenenza, sviluppo locale autocentrato, amministrazione fiduciaria per gestire le attività economiche.

In questa prospettiva si collocano le esperienze di decentramento, autogestione e cittadinanza attiva come i Gas (Gruppi di acquisto solidale), le comunità energetiche per l’autoproduzione di energia a livello locale, le forme di boicottaggio nei confronti di prodotti insostenibili a livello sociale e ambientale. Queste iniziative rappresentano l’esercizio del potere del consumatore che diventa consum-attore contribuendo a indirizzare l’economia con le sue scelte di acquisto anche attraverso campagne collettive e organizzate (quelle, ad esempio, contro le banche armate).

Se le fonti fossili sono strettamente legate a un’economia di guerra, le fonti rinnovabili, decentrate e controllabili dal basso, rappresentano un diverso modello di società e di economia, un’economia di pace.

Oltre a queste sono presentate nel libro una molteplicità di esperienze e mobilitazioni civili che si battono per rendere i territori, le società e perfino le scuole sempre meno legate all’industria e alla mentalità bellica: dal comitato che ha creato il marchio etico «war free» alla mobilitazione della società civile della valle Sacco, a sud di Roma, contro l’industria bellica e chimica che inquina, dal movimento No base a Pisa Rossore contro la base militare Usa di Camp Darby, all’osservatorio contro la militarizzazione delle scuole (vedi MC ottobre 2023).

Un nuovo paradigma

Il testo si chiude con alcune proposte che invitano il lettore a ripensare i paradigmi economici della società nella direzione del rispetto e della convivenza con il resto dell’umanità e con la Terra.

Si parla quindi di decolonizzare la mente e il pianeta (sviluppare il senso del limite e della cura al posto della paura del nemico e della precarietà), di decostruire la retorica della sicurezza (riumanizzare l’altro, perseguire la giustizia economica), di porre la pace disarmata alla base della politica (obiezione fiscale per la conversione delle spese militari; costruzione dei Corpi civili di pace; riconversione industriale; disarmo e ripudio della guerra; difesa popolare nonviolenta), di mobilitarsi in reti e movimenti territoriali per costruire la pace dal basso, rifondare l’economia passando dai principi di guadagno, crescita, concorrenza, a quelli di equità, sostenibilità, cooperazione.

Un libro ricco di spunti da conoscere, sviluppare, promuovere, e tradurre in azioni concrete.

Angela Dogliotti




Nuova speranza, nuove azioni


Davanti ai processi di distruzione del mondo, sono necessarie resilienza e azioni. Ognuno di noi può dare un contributo unico e significativo.

«Il tratto costante del suo impegno […] è la consapevolezza che il lavoro culturale, politico e spirituale per rafforzare la resilienza e la capacità di azione di individui e gruppi è l’unico modo per far fronte alla catastrofe dei processi di distruzione in atto nel mondo».

Così scrive Giovanni Scotto, curatore dell’edizione italiana di «Speranza attiva», a proposito di Joanna Macy, autrice del libro assieme a Chris Johnstone.

Attivista nonviolenta fin dagli anni Settanta, Macy ci invita a trasformare le nostre relazioni in una «rete della vita», attraverso un «lavoro che riconnette» gli esseri umani e il mondo, per superare il diffuso senso di disconnessione che sta alla radice delle crisi contemporanee.

La «speranza attiva» è l’asse portante del percorso, perché coltivarla «significa diventare partecipi nel realizzare ciò che più vogliamo». Ma come fare per metterci in gioco? Le tre parti del libro ce lo spiegano.

La grande svolta

Nella prima parte, intitolata La grande svolta, l’autrice analizza la crisi della modernità attraverso tre narrazioni: quella «dell’ordinaria amministrazione», nella quale tutto «va bene così», «non si può cambiare nulla», l’obiettivo è «andare avanti»; quella del collasso ambientale e sociale cui ci sta portando il mondo dell’ordinaria amministrazione; infine, quella della «grande svolta» che narra l’emergere di risposte creative capaci di avviare la transizione dalla società industriale della crescita a una che cura la vita.

Non c’è dubbio che la crescita infinita perseguita dal capitalismo liberista abbia prodotto i disastri cui oggi assistiamo. Nel XX secolo il consumo globale di combustibili fossili è aumentato di 20 volte. L’industria, l’agricoltura moderna, la crescita demografica, gli stili di vita occidentali, hanno sestuplicato l’uso di acqua e incrementato la siccità dal 15 al 30% delle terre emerse. Secondo il Millennium project delle Nazioni Unite, povertà estrema e fame potrebbero essere cancellate entro il 2030 con 160 miliardi di dollari l’anno, mentre la spesa militare mondiale nel solo 2022 è stata di 2.240 miliardi.

È evidente, dunque, che il collasso del pianeta deriva anche da scelte politiche orientate alle armi, invece che all’utilizzo delle risorse contro le diseguaglianze e il cambiamento climatico.

Per cambiare occorre diventare consapevoli delle scelte fatte e delle alternative esistenti.

Nei grandi processi di cambiamento, all’inizio le cose succedono solo ai margini, poi però le nuove idee e i nuovi comportamenti si diffondono fino a raggiungere una massa critica e un punto di svolta.

Nella narrazione della grande svolta Macy mostra che l’azione di cambiare noi stessi, accrescendo compassione ed empatia, e quella di cambiare il mondo sono essenziali entrambe e si rinforzano a vicenda.

L’autrice propone, dunque, un percorso di cambiamento che si articola in un processo di empowerment in diverse tappe: le prime due descritte nei capitoli Cominciare dalla gratitudine e Onorare il dolore del mondo, contenuti nella prima parte del volume, le altre nei capitoli delle due parti a seguire: Vedere con occhi nuovi e Andare avanti.

La gratitudine ci disintossica dal consumismo, basato sull’insoddisfazione: negli ultimi 50 anni sono state consumate più risorse che durante tutto il resto della storia umana. Nonostante questo non siamo più felici e la depressione ha raggiunto livelli da «epidemia». La gratitudine ci offre una via di uscita perché sposta l’attenzione da «cosa manca» a «cosa c’è» ed è essenziale per la sopravvivenza, come sanno i popoli nativi che ringraziano costantemente la Natura.

L’intelligenza ecologica riconosce che il nostro benessere personale dipende dal benessere del mondo naturale, da rispettare, preservare e ringraziare.

Per poter affrontare le sfide, dobbiamo sviluppare modi di parlarne che non diventino battaglie per determinare di chi sia la colpa, né attivino meccanismi di evitamento, ma sviluppino piuttosto la consapevolezza che il dolore del mondo è il nostro dolore. Scegliendo di onorare il dolore della perdita invece di ignorarlo, spezziamo l’incantesimo che ci rende insensibili davanti alla dissoluzione del mondo.

Vedere con occhi nuovi

Nella seconda parte, intitolata Vedere con occhi nuovi, l’autrice propone quattro tappe, ciascuna descritta in un capitolo.

Espandere l’identità è la prima: l’idea di un separato dagli altri non è l’unica possibile. Il nostro sé può diventare un «sé ecologico», più ampio e profondo, sentendo il mondo naturale come parte di noi. La natura ci insegna che la vita non si espande combattendo, ma facendo rete.

Per fare rete occorre Un altro tipo di potere (la seconda tappa), la collaborazione, il «potere con» anziché il «potere su».

Ognuno di noi deve sentirsi protagonista del processo di guarigione e riparazione a livello globale, ma, perché esso avvenga, ciascuno deve giocare il proprio ruolo per attivare il «potere con». Sentirci troppo autosufficienti rischia di farci dimenticare che abbiamo bisogno gli uni degli altri. Nell’aiuto reciproco le nostre vite diventano ricche di senso e insieme possiamo Arricchire la comunità (la terza tappa).

Oltre allo sviluppo di una comunità che sappia estendersi a tutta l’umanità, è importante anche ampliare il nostro punto di vista sul tempo, Estendere il tempo (quarta tappa): per assicurare il legno necessario per la manutenzione del tetto della sala comune del New College dell’Università di Oxford, costruito nel 1379 con travi di quercia, i forestali piantarono grandi querce che crescevano lentamente. Oggi il nostro sistema economico fissa obiettivi e misura il successo in base alla rapidità della crescita. Ma sappiamo che perseguire una crescita infinita in un mondo limitato è una ricetta per il disastro.

Per comprenderne l’entità, immaginiamo che il viaggio della vita sulla Terra fino a oggi sia racchiuso in una giornata di 24 ore: ogni minuto equivale a 3 milioni di anni. Due minuti prima della mezzanotte compare una scimmietta africana, l’antenato comune a umani e scimpanzé. L’intera storia dell’homo sapiens, dai primi passi a oggi, si svolge negli ultimi 5 secondi.

Se poi immaginiamo di rappresentare in 24 ore i 250mila anni della storia umana, scopriamo che per quasi 23 ore siamo stati cacciatori raccoglitori. A due minuti dalla mezzanotte avviene la rivoluzione industriale. Nell’ultimo minuto la popolazione cresce da uno a sette miliardi. Negli ultimi 20 secondi (dal 1950 a oggi) l’umanità ha usato più risorse di quanto non abbia fatto in tutto il resto della sua storia.

Andare avanti

Nella terza parte del volume, Andare avanti, Joanna Macy invita a immaginare futuri possibili per diventare lungimiranti. La realtà è un processo in continuo movimento. Per sostenere il cambiamento nella direzione che ci appare giusta occorre credere che sia possibile, sapendo che le scelte che si fanno lo influenzano, poi occorre chiedersi: «Cosa stiamo facendo per aiutare a costruire il futuro che vogliamo?», infine è importante trovare dei punti di riferimento che indichino cosa è possibile: andare a conoscere e portare alla luce esempi di lotte che hanno avuto successo.

Il cambiamento è un fenomeno discontinuo: possono avvenire passaggi improvvisi e imprevisti, eventi apparentemente insignificanti possono portare a profonde trasformazioni. Esistono delle «soglie» passate le quali succede qualcosa di nuovo, come avviene per l’acqua che, a un certo punto, rapidamente cristallizza.

Ognuno può

Viviamo in un’epoca in cui il corpo della terra è sotto attacco. Allo stesso tempo, sta avvenendo uno straordinario processo di rigenerazione, una risposta creativa e vitale, la Grande svolta.

Troviamo la forza di affrontare la situazione nel momento in cui riconosciamo che ciascuno di noi ha un ruolo significativo da giocare, un contributo unico e specifico. Accettando la sfida di fare del nostro meglio, scopriamo una perla preziosa che arricchisce la nostra vita e, allo stesso tempo, contribuisce a guarire il Pianeta.

Angela Dogliotti
Centro Studi Sereno Regis

Altre letture sul tema:

  •  – Helena Norberg-Hodge, Ispirarsi al passato per progettare il futuro. Dal Ladakh una lezione universale per la localizzazione e la decrescita, Arianna Editrice, Bologna 2013.
  • – Rob Hopkins, Immagina se, Chiarelettere, 2020.
  • – Rebecca Solnit, Un paradiso all’inferno, Fandango, 2009.
  • – Daniel Tarozzi, Io faccio così. Viaggio in camper alla scoperta dell’Italia che cambia, Chiarelettere, 2013.
  • – Melania Bigi, Martina Francesca, Deborah Rim Moiso, Facilitiamoci! Prendersi cura di gruppi e comunità, La Meridiana, 2016.
  • – Elena Pulcini, La cura del mondo, Bollati Boringhieri, 2009.



Dare uno schermo alla pace


La prima edizione del festival di cinema e nonviolenza, «Give peace a screen», è stato un successo: 1.848 cortometraggi di registi da 111 paesi del mondo per raccontare drammi, gioie e modi per fare la pace.

Gli inizi sono sempre difficili, scriveva Chaim Potock. Ma sono anche strabilianti, entusiasmanti. Ispiranti. Specie se si tratta della nascita di un nuovo festival.

Il Centro studi Sereno Regis si occupa di cinema dal 2010 lavorando sulla relazione tra cinema e nonviolenza.

Esiste un cinema di pace? Che promuova la risoluzione creativa e nonviolenta dei conflitti? Si può educare alla pace con il cinema?

Abbiamo posto la domanda a registi di tutto il mondo, organizzando il festival Give peace a screen (Gpas), per capire se è possibile «dare uno schermo alla pace», darle voce, farla vivere nelle immagini di un film.

Non ci aspettavamo una risposta così importante: 1.848 cortometraggi da 111 paesi. Un panorama stupefacente sulla nostra contemporaneità: dalla guerra in Ucraina agli sfruttamenti minerari in Turchia, dal recupero dei bambini-soldato colombiani al dramma dell’utero in affitto scelto per sopravvivenza.

Mostrare un mondo che urla

Il lavoro di selezione è stato duro. Alla fine, abbiamo presentato al pubblico 137 lavori di giovani registi: la visione di un mondo che urla, lotta, si ribella, e, soprattutto, desidera la pace.

Il programma è stato presentato al pubblico dal 19 al 22 ottobre 2023 a Torino: un successo, ma soprattutto l’apertura di un canale di dialogo con il mondo tramite il racconto di drammi, gioie e diversi modi di fare la pace.

Perché fare un festival significa fare rete con il mondo. Significa sostenere il regista camerunese scappato da casa a causa delle scorribande delle milizie islamiste; aiutarne uno turco al quale la polizia ha sottratto i suoi hard disk; tradurre in italiano decine di opere di registi senza risorse economiche. Significa creare una rete di solidarietà per mostrare al pubblico come si può parlare di pace in mezzo ai conflitti.

Al Give peace a screen è andato in scena il mondo che vuole la pace, che si ribella al silenzio imposto dai regimi (è un caso che la nazione più rappresentata sia stata l’Iran, con 223 cortometraggi?), che cerca di far conoscere le ingiustizie affinché si possa partecipare, solidarizzare, intervenire.

La forza dei cortometraggi

La prima edizione del festival è stata dedicata alla «costituzione del mondo», per celebrare i 75 anni della Carta fondamentale italiana: i cortometraggi sono stati proposti secondo gli articoli delle Costituzioni attualmente in vigore nel mondo, per sottolineare come sia necessario dare loro un’attuazione completa, creare un nuovo patto tra gli esseri umani che contempli anche un nuovo «accordo» con la natura.

Un evento speciale l’ha inaugurato: l’opera Migrants, del pluripremiato regista iraniano Masoud Ahmadi, una lirica e coreografica visione del dramma delle migrazioni moderne.

Il festival ha ospitato anche il documentario di Lorenzo Muscoso, Io e Paolo, emozionante ricordo di Salvo Borsellino, fratello di Paolo, il giudice ucciso dalla mafia a Palermo nel 1992.

Give peace a screen è stato chiuso dall’ultimo lavoro di Adonella Marena, film maker ambientalista recentemente scomparsa, montato dal figlio Davide Balistreri: Gli altri animali, una riflessione sul nostro rapporto con i «non umani».

«Questo festival è la dimostrazione che il cortometraggio è uno strumento che sempre più persone usano per denunciare ingiustizie, documentare sfruttamenti e violenze, all’interno della società e sulla natura», afferma Loredana Arcidiacono, coordinatrice di Gpas per i documentari: «È uno strumento economico che si può girare con un telefono, e la sua brevità diventa risorsa, perché costringe alla chiarezza espositiva».

I premiati

Tre giurie diverse hanno attribuito alle opere in gara tre premi da 1.000 euro.

La prima ha assegnato l’ormai tradizionale premio Gli occhiali di Gandhi a La voix des autres, di Fatima Kaci, Francia, 2023: «Perché accade di rado di incontrare film come questo che incantano, inducono a riflettere e sono costruiti alla perfezione».

Il premio Aurora alla miglior sceneggiatura è stato assegnato a The borders never die, di Hamidreza Arjomandi, Iran, 2023, «per l’idea efficace di intrecciare crudo realismo e dimensione onirica».

Il premio Pertinace alla miglior regia è stato assegnato a Things unheard of, di Ramazan Kılıç, Turchia, 2023: «Per la grande capacità di dirigere attori giovanissimi e rendere lieve una situazione drammatica».

La giuria del premio, La pace preventiva, ha assegnato la vittoria a Out of the lines, di Sajjad Aslani, Iran, 2023, «perché interpreta perfettamente il concetto di pace preventiva e regala in un minuto il pathos e l’energia dei grandi film».

È stata attribuita una Menzione d’onore a Danpatra, di Abhijit Dagaduji Chavan, India, 2022, «per il coraggio di anteporre l’urgenza dell’educazione al rispetto dovuto alla religione». E una Menzione d’onore a Ezequiel Baraja, di Juan Fernández Gebauer, Argentina, 2021, «perché evidenzia il valore dello sport come motore di riscatto sociale, strumento di consapevolezza individuale e di libertà».

La giuria ha assegnato il Premio Adonella Marena sul tema della sostenibilità a Magos das plantas di Diogo Linhares, Portogallo, 2023, «perché attraverso le parole di un personaggio semplice e profondo, pone in evidenza il legame fisico che c’è, ma viene ignorato, tra piante e umani». Una Menzione d’onore a Dear Animal, di Younes Kafashian, Iran, 2023: «Una storia tenera e ironica che non ha bisogno di parole per illustrare un atto di amore, e insieme un insegnamento, da un anziano a un giovane». Altra Menzione d’onore a The Fledgeling, di Murtaza Ansari, Pakistan, 2023: «È sufficiente un minuto per esprimere il contrasto tra la violenza del gesto umano e la tenerezza delle creature indifese. Un flash semplice ed emozionante».

Un tesoro da valorizzare

Il festival non finisce: i 1.848 cortometraggi arrivati costituiscono un tesoro prezioso che sarà utilizzato per serate a tema e dedicate ai paesi che hanno partecipato.

Soprattutto, il Give peace a screen, ci auguriamo, diventerà un appuntamento fisso nel panorama cinematografico torinese.

Dario Cambiano

Centro Studi Sereno Regis




Il tempo delle non cose


Uno stile semplice e diretto. Libri sottili ma corposi. Il filosofo Byung-Chul Han, docente a Berlino, accende la luce sui malesseri tipici della vita contemporanea. In particolare, sul senso di irrealtà legato all’uso di computer, smartphone, intelligenza artificiale. E prova a suggerire possibili antidoti.

Byung-Chul Han, nato a Seul nel 1959, attualmente vive e insegna filosofia e cultural studies all’Universià di Berlino. Analizza da anni le conseguenze politiche e psicosociali del modello economico neoliberista nelle società occidentali e soprattutto l’influenza del digitale nelle nostre vite, sempre più dipendenti dalle tecnologie.

Nel suo Le non cose, edito da Einaudi, ci offre una lucida riflessione sulla società che stiamo costruendo. Lo fa tramite uno stile semplice e diretto, efficace nell’accendere una nuova luce sulla realtà che ci sta intorno.

Il testo offre una lettura immersiva del mondo attuale, e ha il dono di sorprenderci ricomponendo i diversi sensi delle cose che ci accadono.

Non è una critica, ma una lettura e interpretazione di quel senso di estraneazione che ci prende mentre compiamo i nostri atti quotidiani circondati da strumenti come smartphone e computer, nostri compagni di vita.

Scrive Han: «L’ordine terreno, l’ordine planetario, è costituito da cose che assumono una forma durevole e creano un ambiente stabile, abitabile. […] Oggi all’ordine terreno subentra l’ordine digitale. L’ordine digitale derealizza il mondo informatizzandolo». Non sono più gli oggetti ad arredare il mondo, ma le informazioni. Non è più la mano che costruisce oggetti a fondare l’essere in senso heideggeriano, ma l’informazione.

La sintesi di questa nuova ontologia diventa lo smartphone. Esso ci fornisce l’illusione di avere il mondo a portata di mano. Nella comunicazione digitale l’altro è sempre meno presente, preferiamo, infatti, mandare un messaggio piuttosto che chiamare per non esporci al dialogo. È così che ci ritiriamo in una bolla narcisistica, facendo scomparire di fatto l’empatia, le relazioni, e finendo per sentirci soli. E in questo vuoto nasce la depressione come sintomo di mancanza di nutrimento che solo il sentirsi all’interno di una comunità può guarire.

Quando Han affronta il tema dell’intelligenza artificiale, la definisce «senza cuore», perché mette insieme dati già esistenti, senza far apparire nuovi scenari di senso. Calcola ma non crea nulla di nuovo, si limita a scegliere tra opzioni già esistenti.

Anche la memoria del computer è senza cuore. È «additiva», mentre la nostra memoria è «narrativa». Questo è uno dei nodi interessanti del libro: la differenza tra dato e ricordo. I dati memorizzati dal computer sono messi in fila e conservati così come sono stati inseriti, senza essere elaborati. Il ricordo invece è evocativo, possiede una profondità che risuona nell’interiore e riorganizza gli eventi spesso con significati nuovi.

Byung-Chul Han ci offre anche una via di uscita da questa irrealtà: il silenzio.

Solo nel silenzio si riesce a ritrovare il contatto con la parte più profonda del nostro essere. Nel silenzio si sta in ascolto, si è in relazione con il tutto che ci circonda, si avverte la profondità che è verticale tanto in alto quanto in basso. Nel silenzio si esercita quello sguardo contemplativo dotato di pazienza per il lungo e il lento che diventa preghiera. E come afferma a pag. 105: «È il silenzio a salvare» la nostra vita.

Dello stesso autore

Infocrazia. Le nostre vite manipolate dalla rete, Einaudi, 2023.

Il filosofo si domanda quali sono gli effetti della digitalizzazione sulla democrazia, rispondendo che ci troviamo in una fase di passaggio a un regime totalitario basato sui «dati» e su nuove figure come gli influencer.

Iperculturalità. Cultura e globalizzazione, Nottetempo, 2023.

In questo testo Han ragiona sulla smaterializzazione degli spazi e dei confini della cultura grazie alla globalizzazione degli ultimi decenni. Se prima la cultura di ciascuno era un elemento di costruzione della sua identità, ora tutte le culture appaiono importanti. Ma forse questo significa che non ci si sente davvero a casa in nessun luogo.

Elogio della Terra. Un viaggio in giardino, Nottetempo, 2022.

Han incentra questo libro sulla cura del suo giardino a Berlino, attraverso cui ha riscoperto la felicità legata ai ritmi della natura. Mentre il mondo digitale allontana dalle esperienze sensoriali, estranea da dolore e corporeità, il ritorno alla terra aiuta a ritrovare una spiritualità nella quale i colori, i suoni, la relazione con gli insetti, restituiscono all’uomo la sua vera appartenenza.

La società senza dolore. Perché abbiamo bandito la sofferenza dalle nostre vite, Einaudi, 2022.

Han sottolinea come la nostra società sia caratterizzata dalla paura del dolore e della morte e imponga di essere sempre positivi, in salute e felici. Le persone cercano, allora, forme di anestesia simbolica e concreta per liberarsi da ciò che le rende sofferenti e mortali: una rimozione sociale della morte e del dolore.

Psicopolitica. Il neoliberismo e le nuove tecniche del potere, Nottetempo, 2016.

Han analizza le nuove forme di potere che inchiodano l’individuo: non siamo più di fronte a un potere coercitivo e punitivo, ma a soggetti che si sfruttano da soli per diventare «imprenditori di se stessi». Alla conquista di sempre nuove competenze e motivazioni per raggiungere il successo, senza orari di lavoro né diritti, ossessionati dalla continua ricerca di superare i propri limiti.

Rita Vittori

 




Con la resistenza civile


Dentro un conflitto cruento o contro un regime oppressivo, cosa funziona di più? La resistenza armata o quella civile? Al di là delle valutazioni morali, studiare quali azioni sono più efficaci e catalogarle e raccontarle, come ha fatto l’autrice del libro di questo mese, può offrire una risposta semplice e logica.

«La nonviolenza è una bella idea, però funziona solo in alcuni casi. Se tutti fossimo nonviolenti, il mondo sarebbe più giusto e pacifico, ma non è così, e sin tanto che esisteranno aggressori, prepotenti, tiranni, dovremo attrezzarci per combatterli con le loro stesse armi».

«In una democrazia, la resistenza civile è da preferire, ma nelle autocrazie, dove il popolo viene represso da un governo dispotico, non raggiunge risultati».

«Di fronte a un’aggressione come quella della Russia nei confronti dell’Ucraina, l’unica resistenza possibile è quella armata».

Quante volte abbiamo sentito ripetere questa narrazione, anche da parte di chi non guarda alla nonviolenza con sospetto e rifiuto preconcetto. E quante volte i pacifisti si sono trovati in difficoltà nel rispondere, opponendo petizioni di principio più che fatti?

Il libro di Erica Chenoweth nasce proprio per contestare queste obiezioni con i fatti della storia.

È interessante che la stessa autrice nella prefazione confessa che inizialmente era molto critica sulle possibilità della resistenza nonviolenta.

Nel 2006, con Maria Stephan, iniziò studi sui movimenti sociali contemporanei, catalogandoli tra «prevalentemente violenti» e «nonviolenti», al fine di valutarne, in modo sistematico ed empirico, i tassi di successo.

Ne è venuto fuori un database, aggiornato di anno in anno, formato da 623 casi storici, il cui elenco si trova in appendice al libro. Esso dimostra che le rivolte nonviolente hanno avuto successo nel 50% dei casi, contro un 25% delle rivolte armate.

Il database è disponibile online al sito del progetto Navco (Nonviolent and violent campaigns and outcomes).

Azioni, lotte, movimenti

Da quegli studi nasce il libro Come risolvere i conflitti.

L’edizione americana è del 2021 e ha un titolo diverso, a mio parere più incisivo: Civil resistance: what everyone needs to know (La resistenza civile. Ciò che ognuno dovrebbe conoscere).

È questo, resistenza civile, il nome che Erica Chenoweth dà a quel complesso di azioni, lotte, movimenti che altri chiamano lotta nonviolenta, che Gandhi chiamava Satyagraha, forza della verità. E mette subito in chiaro che si tratta di un metodo di lotta contro il potere costituito, giacché in un mondo e in situazioni ingiuste, i conflitti vanno innanzitutto suscitati, e solo dopo risolti, mentre il nemico peggiore è l’assuefazione a quella che Johan Galtung chiama «violenza strutturale».

La nonviolenza funziona?

Il libro è organizzato in domande, che costituiscono i titoli dei paragrafi, questi a loro volta raggruppati in cinque capitoli: le basi, come funziona la resistenza civile, la violenza interna, la violenza contro il movimento, il futuro della resistenza civile.

La domanda principale che sottende tutto il volume è: la resistenza civile funziona per ottenere giustizia e difendere i diritti umani? In quali circostanze?

Il metodo di lavoro usato astrae dall’ideologia e dalla concezione morale per concentrarsi prevalentemente sul tema dell’efficacia della lotta, cosa non sempre gradita ai nonviolenti, soprattutto qui da noi. È l’approccio di Gene Sharp (1928-2018), filosofo e politologo americano, definito il «Macchiavelli della nonviolenza», che si cimentò sin dagli anni Settanta (Politica dell’azione nonviolenta, 3 volumi pubblicati da Edizioni Gruppo Abele) a dimostrare che il metodo nonviolento era più efficace della lotta armata. Fu fondatore, nel 1983, dell’Albert Einstein institute per «lo studio e l’utilizzo della nonviolenza nei conflitti di tutto il mondo». La Chenoweth si definisce una sua allieva.

I successi di un metodo

Corsi di formazione, libretti sulle metodologie, contatti con attivisti di tutto il mondo, servirono a spronare diverse campagne nonviolente, anzi, vere e proprie rivoluzioni, molte delle quali ottennero significativi successi.

Ricordiamo la lunga lotta nonviolenta del popolo polacco che fu all’origine del tracollo dell’impero sovietico, a cui seguirono la rivoluzione di velluto in Cecoslovacchia, la lotta per la democrazia in Germania Est, ma pure il caso delle Filippine con la caduta del dittatore Marcos nel 1986.

Grazie a questi successi il metodo della resistenza civile ebbe ulteriore diffusione, in particolare con la stagione delle «rivoluzioni colorate» degli anni Novanta e Duemila nei paesi ex comunisti dell’Est Europa, contro la corruzione e per la democrazia. E qui molti ci vedono l’intervento del dipartimento di Stato Usa.

Ci sono tuttora discussioni tra gli attivisti e gli studiosi su questo approccio: se la nonviolenza è «solo una metodologia», può essere usata per fini buoni o cattivi, da socialisti o democratici, da fautori dell’ordoliberismo, da progressisti o reazionari.

Anche questo è un tema dibattuto dalla Chenoweth, titolo di uno dei cento paragrafi.

Fatti e conclusioni

Tornando al libro, esso si basa su uno studio statistico: l’autrice, per rispondere alle domande, osserva come le varie resistenze civili hanno lavorato. Sia quelle che hanno avuto successo, sia le altre. Dunque, le risposte non sono mai teoriche, o ideologiche, ma sempre basate sui fatti.

Si viene dunque a conoscenza di un gran numero di lotte nonviolente, della loro evoluzione, delle problematiche affrontate. Come uno scienziato, l’autrice cerca di estrarre da esse delle leggi generali, ma sempre con l’avvertenza «salvo smentite», e con l’invito a continuare lo studio.

Alcune conclusioni generali vengono indicate alla fine del volume, e qui le riassumo.

  • Fare resistenza civile significa ribellarsi al potere costituito attraverso metodi più inclusivi della violenza.
  • La resistenza civile non si limita a «toccare il cuore» dell’avversario, è lotta, e vince quando riesce a generare defezioni nel suo potere.
  • Non si esaurisce nelle manifestazioni e nelle marce, include metodi di non cooperazione, costruzione di poteri alternativi, coinvolgendo una vasta parte di popolo e costruendo alleanze.
  • Negli ultimi cento anni, la resistenza civile si è dimostrata più efficace della lotta armata.
  • Non sempre ha successo ma funziona molto meglio di quanto i suoi detrattori non affermino e, soprattutto, anche quando perde, è decisamente meno letale.

Un insegnamento molto utile oggi, mentre è in atto una corsa generalizzata alla guerra vista come unica soluzione contro autocrati e dittatori.

La domanda «ma agli ucraini servirebbe la nonviolenza?», non la troverete in questo libro, chiuso in stampa nel 2021.

Possiamo solo dire che non siamo in grado di capire se la nonviolenza sarebbe stata efficace o meno, essendo una possibilità scartata fin dal principio, e che, di certo, vediamo cosa sta facendo la guerra oggi.

Paolo Candelari

Centro studi Sereno Regis




La via di Capitini


La via di Capitini

È il filosofo che ha portato la teoria e la prassi della nonviolenza gandhiana in Italia. È stato, tra le altre cose, fondatore del Movimento nonviolento e ideatore della marcia Perugia-Assisi. Una serie di volumi ne ripropongono il pensiero.

Aldo Capitini (Perugia 1899 – 1968) è il grande maestro della nonviolenza del Novecento italiano. È suo il contributo determinante per l’introduzione nel nostro paese del pensiero e della prassi nonviolenta secondo la lezione gandhiana.

La sua figura, rimasta marginale per decenni nella cultura italiana, nell’ultimo trentennio ha conosciuto un rinnovato interesse da parte di un certo numero di studiosi.

Tra questi, Mario Martini occupa un posto di indiscussa centralità. Egli, infatti, allo studio del pensiero di Capitini ha affiancato una vasta attività divulgativa tesa, da un lato, a farlo conoscere tramite incontri pubblici e, dall’altro, a promuovere nuove edizioni dei suoi scritti.

Forse proprio per questa ragione, Martini non ha mai dedicato al fondatore del Movimento nonviolento italiano una monografia sistematica: la sua scelta è sempre stata quella di «far parlare lo stesso Capitini».

Anche il libro a sua firma uscito quest’anno per le edizioni Aras, L’altra via di Aldo Capitini, non è propriamente un saggio. Esso raccoglie diversi testi, tra cui alcuni inediti, scritti da Martini nel corso degli ultimi trent’anni come introduzioni a nuove pubblicazioni dei libri del filosofo perugino, studi in lavori collettanei, articoli, ecc.

Avere riunito in un volume unico tutti questi interventi rappresenta davvero una buona notizia.

Nel libro tutti i principali temi capitiniani sono toccati e sono oggetto di indagine critica. In particolar modo, si analizzano gli aspetti filosofici e religiosi della visione del mondo di Capitini, il quale, nella luce della stella polare della nonviolenza, intreccia in modo stimolante e originale teoria e pratica, metafisica e pedagogia, politica e religione, dimensione sociale e prospettive escatologiche, disobbedienza civile e spirito profetico.

Le ragioni della nonviolenza

Per chi intendesse accostarsi direttamente alle pagine di Aldo Capitini, il punto di partenza potrebbe essere un’antologia curata dallo stesso Mario Martini, Le ragioni della nonviolenza (Ets, 2016). Il volume si propone di presentare le principali nervature della riflessione capitiniana sulla nonviolenza, tenendo però costantemente presente che per l’autore il momento della riflessione non può essere disgiunto da quello dell’azione.

Il filo rosso del libro è dunque un quadro nel quale le «premesse teoriche», già ben riconoscibili nel primo scritto del 1937, Elementi di un’esperienza religiosa, si saldano al concreto «impegno nonviolento», il cui vertice simbolico può ritenersi la Marcia della pace Perugia-Assisi che Capitini ideò e che si svolse per la prima volta il 24 settembre 1961.

Religione aperta

Va ricordato che negli ultimi anni sono state ripubblicate due opere di Capitini che possono essere considerate delle vere e proprie summae del suo pensiero e rappresentano testi ideali dai quali partire per uno studio approfondito di questo autore.

Nel 2011 Laterza, che di Capitini fu il primo editore, ha riproposto Religione aperta, pubblicazione affidata anche in questo caso alle cure di Mario Martini.

Il libro, che uscì nel 1955 e da lì a poco venne incluso nell’Indice dei libri proibiti (soppresso nel 1966), affronta in modo organico i vari aspetti che caratterizzano l’esperienza religiosa dell’autore, incentrata sull’idea di «apertura» e in contrapposizione alle religioni istituzionalizzate, cristallizzate in una rigida dogmatica, strutturate in forme di potere.

Una decina di anni dopo la pubblicazione di Religione aperta, nel 1966, apparve un altro testo fondamentale riedito di recente, La compresenza dei morti e dei viventi (Libreria editrice fiorentina, 2022). L’idea di «compresenza», già affiorata in diversi scritti precedenti, trova la sua ultima e più compiuta elaborazione in queste pagine dense di pensiero, forse ardue sotto certi aspetti, di certo teoreticamente vertiginose, nelle quali Capitini prova a mostrare in tutte le sue articolazioni la propria prospettiva metafisico religiosa fondata sulla speranza nell’avvento di una realtà ultima, liberata dai vincoli della sofferenza e della morte.

Amico di Norberto Bobbio

Un cenno merita, infine, la pubblicazione dell’epistolario capitiniano, o meglio di una parte di esso. Anche questa è un’iniziativa che deve molto all’impegno di Mario Martini, che la promosse quando presiedeva il comitato scientifico della Fondazione Capitini e che venne accolta dall’editore Carocci, presso il quale, tra il 2007 e il 2012, apparvero sei volumi di carteggi, uno relativo alle lettere di ambito famigliare, gli altri intercorsi con alcune figure di rilievo pubblico: Walter Binni, Danilo Dolci, altro nome imprescindibile per la nonviolenza italiana del Novecento, Guido Calogero, Edmondo
Marcucci e Norberto Bobbio. Quest’ultimo, che si è confrontato a lungo con Capitini, ha sempre rivolto grande attenzione alla questione della pace e allo studio dei pacifismi, seppure con declinazioni teoriche differenti.

Lo stesso Bobbio, peraltro, dopo la scomparsa dell’amico, avvenuta nel 1968, gli ha dedicato due brevi saggi (composti in momenti diversi e ripubblicati assieme qualche anno fa dalle Edizioni dell’Asino in un opuscolo intitolato Il pensiero di Aldo Capitini) che rappresentano quanto di meglio sia stato scritto su di lui e che possono costituire un’altra porta d’accesso alle sue idee.

Massimiliano Fortuna




Mondi perduti


Non sono molti i film che raccontano il rapporto tra gli esseri umani e la natura mostrando i mondi che stiamo perdendo, la vita che stiamo devastando. Ecco quattro titoli che portano in Bolivia, Perù, Bhutan, Giappone, e scuotono profondamente.

C’è un film che dice tutto. Forse «tutto» è esagerato, però dice tante cose, a chi le sa ascoltare. Parla del Sud del Mondo, della povertà, del cambiamento climatico, della progressiva urbanizzazione delle società, della perdita del contatto con gli altri esseri viventi.

Si intitola Utama. Le terre dimenticate. È un film di Alejandro Loayza Grisi, prodotto nel 2022 tra Bolivia, Uruguay e Francia.

La storia che racconta è semplice, perché, quando si parla di chi vive a contatto con la natura, le narrazioni si fanno semplici.

Virginio e Sisa sono due anziani quechua che vivono isolati sull’altipiano boliviano. La loro età avanza e, con essa, il cambiamento climatico che desertifica i pascoli già stentati di quelle altezze. La loro piccola mandria di lama non ha più cibo.

Virginio ogni giorno deve allontanarsi chilometri da casa per trovare poche radure erbose, e deve raccogliere acqua al villaggio, cosa mai successa prima.

Una malattia completa il quadro.

Nelle inquadrature spaziose, lente, non si legge la maestà della natura, ma l’inquietudine per un ambiente che è cambiato in modo irrimediabile e per il quale nessuno sembra preoccuparsi. Tant’è che il nipote di Virginio e Sisa non sa proporre ai nonni nulla di meglio che la scelta già fatta da suo padre: andare a vivere in città.

I due anziani non si rassegnano, ma, con la siccità, anche la mandria di lama perde valore: lo scopo di una vita si dissecca in un’istantanea arida e desolata.

Virginio e Sisa sono personaggi interpretati da due veri quechua: non sono attori. Un’operazione, questa di Loayza Grisi che ricorda il neorealismo italiano.

I loro sguardi, le carezze, l’affetto che si scambiano, sono reali, e questo è ancora più dilaniante: la vita che vediamo sullo schermo è davvero la loro.

«Utama», in lingua quechua, vuol dire «la nostra casa». Una casa che, per colpa di qualcuno tanto distante che non si sa neppure nominare, diventa inospitale.

Lunana alla fine del mondo

C’è un altro film che si dovrebbe guardare subito dopo Utama (anche per tirarsi un po’ su di morale): è Lunana: il villaggio alla fine del mondo, girato da Pawo Choyning Dorji in Bhutan nel 2019. Attenzione: se siete riusciti a resistere al fascino della Bolivia inaridita, non ce la farete con le vallate del Bhutan (un paese grande come un pisello schiacciato tra il materasso Cina e il pavimento India, in mezzo alla catena dell’Himalaya) e sognerete di andarci a vivere.

La trama del film è molto semplice: un maestro elementare viene inviato dal governo a insegnare in un villaggio letteralmente «alla fine del mondo». Tanto in fondo al mondo che la neve interrompe le comunicazioni per sei mesi l’anno e impone al giovane maestro una decisione: accettare l’incarico e restare, oppure tornare indietro prima che la neve lo blocchi.

Il villaggio è così povero che la scuola è una stanza vuota, non ha i vetri, la lavagna, i gessetti.

Per il maestro, inizialmente, la scelta da fare è chiara: tornare alla civiltà al più presto. Ma qualcosa, forse l’estrema gentilezza degli abitanti del villaggio, forse il fatto che loro per primi capiscono il disagio di un forestiero, lo convince a restare.

La trama del film è elementare, eppure la magia che emana è preziosa, imperdibile. Fa davvero venire voglia di andare a cercare quella valle sperduta per vivere più intensamente, perché, quando non hai più le protesi dei telefoni, televisori, social media, e tutti i surrogati di vita di cui ci dotiamo, la vita si fa più intensa, i rapporti più sinceri e intimi.

Altiplano

I film sui mondi che stiamo perdendo, la vita che stiamo devastando, non sono molti, ma scuotono profondamente.

«Altiplano» di Peter Brosens e Jessica Woodworth, prodotto nel 2009, è uno di essi.

Decisamente più crudo dei precedenti, racconta l’ennesimo oltraggio alle terre e popolazioni ancestrali peruviane, avvelenate dai liquami di una miniera, simbolo per eccellenza dello sfruttamento umano della natura.

La popolazione subisce, si ribella, si vendica. Tutto molto triste. Ma drammaticamente vero.

«Altiplano» è un film difficile, non concede nulla di leggero. È un monito per tutti, per ricordarci sempre quanto l’essere umano sappia essere devastante.

Oltre la storia vediamo le spettacolari Ande, la loro impassibile maestà che sembra osservare le tristi vicende umane da un’altra dimensione.

Un invito ad andare oltre, con il pensiero e le azioni.

La ballata di Narayama

L’ultimo film che vogliamo proporvi sul rapporto tra gli esseri umani e la natura è La ballata di Narayama, una pellicola giapponese del 1983 di Shôhei Imamura, Palma d’oro a Cannes.

Orin è una donna settantenne che, prima di recarsi sul monte Narayama, come è tradizione, per lasciarsi morire, «mette a posto» la sua famiglia, procurando, con un ultimo sforzo, il necessario per la loro vita.

La sua vicenda è l’immagine di una diversa interpretazione della vita, la quale non si riduce, come per noi, ad accumulare anni e cose, ma è un darsi agli altri sapendosi ritirare quando è il tempo giusto.

Un film toccante, certamente non facile, ma che ci interroga profondamente sul senso che diamo al nostro vivere.

Dario Cambiano
Centro studi Sereno Regis




Atomica e nonviolenza


L’attualità di un pensatore cristiano e nonviolento

Lanza Del Vasto, scrittore, artista e attivista, morto nel 1981 ma molto attuale, fu tra i primi a denunciare i pericoli dell’atomica. Nel nostro tempo l’umanità si trova di fronte a un bivio: la via irrazionale della guerra, quella efficace della nonviolenza.

È stato di recente pubblicato, per le Edizioni La Meridiana, Le due potenze. L’atomica e la nonviolenza, un agile libro che raccoglie due testi di Lanza Del Vasto, tra i primi a denunciare i pericoli dell’atomica.

Poeta, filosofo, pellegrino, profeta della nonviolenza, intellettuale e artista cristiano, Lanza Del Vasto nacque a San Vito dei Normanni (Br) nel 1901 e morì a Murcia, in Spagna, nel 1981. È ricordato, tra le altre cose, per aver dato vita in Francia nel 1948 alla Comunità dell’Arca, una realtà di vita comunitaria fondata sul modello degli ashram gandhiani che egli aveva conosciuto in India tra il 1937 e il 1938 presso il Mahatma Gandhi e in pellegrinaggio alle sorgenti del Gange.

Della bomba e della Chiesa

Nel primo dei due testi, intitolato Della bomba, l’autore afferma che, di fronte alla concatenazione delle violenze legittime (quelle che trovano giustificazione nei torti dell’avversario), e nel nuovo contesto creato dall’avvento dell’atomica, l’umanità si trova di fronte a un bivio: o la guerra perpetua che porta alla distruzione, oppure la nonviolenza che porta alla rottura della catena e alla liberazione.

La prima strada è irrazionale: si può capire, infatti, che un uomo si sacrifichi per la sua terra, per il suo focolare, ma non che sacrifichi allo stesso tempo ciò per cui egli si sacrifica. Nell’era atomica, non vi è più sacrificio, ma suicidio e crimine imperdonabile.

Nel secondo testo, intitolato La Chiesa di fronte al problema della guerra, Del Vasto argomenta come la nonviolenza sia mezzo di difesa e di salvezza ben più di ogni arma, perché l’evangelico non opporsi al malvagio non è arrendersi, ma non opporre cattiveria alla sua cattiveria, e colpi ai suoi colpi. Non significa non difendersi, ma rifiutare di offendere con il motivo di difendere, di rendere il male, raddoppiandolo, con il pretesto di fermarlo, giacché, così facendo, si entra nella catena il cui ultimo anello è la morte.

Più avanti l’autore delinea quali sono i tratti del conflitto nonviolento quando, affermando che la nonviolenza è lotta per la giustizia con le armi della giustizia, scrive: «Se il mio nemico è un uomo come me, io sono un uomo come lui, e posso sbagliare. Ed è pure probabile e, per parte, certo. Devo dunque scoprire la mia parte di torto nell’affare e se, per fortuna, vi riesco, devo riconoscerla davanti a lui e offrire riparazione. Sarà un passo verso la verità e verso la pacificazione, poiché questo finirà per inclinarlo a seguirmi nella medesima direzione». E ancora: «Se restituisco lo schiaffo, giustifico il suo; il suo spirito di giustizia continuerà a deviare nel giustificarsi, perché lo spirito di giustizia è quell’istinto che fa ricercare l’equilibrio. L’equilibrio è la giustizia, ma quando si devia, si cerca un punto di appoggio che è, appunto, la giustificazione».

La soluzione del «non uccidere»

A corredo dei due testi di Lanza Del Vasto, il volume offre una prefazione di Daniel Vigne, presidente dell’Association des amis de Lanza Del Vasto, e i contributi di Antonino Drago – che analizza la storia dell’atomica e la proposta della nonviolenza -, del teologo Giovanni Mazzillo – sulle linee portanti del Magistero ecclesiale sulla pace dopo il fondatore delle Comunità dell’Arca -, di Maria Albanese ed Enzo Sanfilippo – sull’eredità del pensatore pugliese- e di Frederic Vermorel – che cura una parziale ma preziosa biobibliografia.

Il testo di Antonino Drago, che commenta il saggio di Lanza Del Vasto I quattro flagelli, di cui il volume riporta alcuni estratti, si articola in tre parti: una storia delle armi atomiche; l’analisi della posizione di Lanza Del Vasto che decostruisce la razionalità degli stati nucleari; la proposta di una razionalità alternativa nelle politiche di difesa che parta dal Trattato Onu di messa al bando delle armi nucleari (Tpnw) e arrivi ad affermare la novità epocale della nonviolenza.

La nonviolenza è la vera alternativa storica alla guerra, perché ripropone la millenaria sapienza sociale del «non uccidere», non intesa, però, come semplice rifiuto passivo della violenza, ma come strumento di risoluzione dei conflitti, come dimostrato dall’efficacia delle tecniche adottate da Gandhi in India.

Di fronte all’infinita potenza tecnologica della bomba, la nonviolenza è anch’essa potente, perché recupera l’infinita forza interiore di ogni persona.

Davanti ai conflitti, il metodo nonviolento è più della razionalità, perché alla ragione aggiunge l’etica. Dunque se, come afferma Del Vasto, le due grandi scoperte del secolo sono la nonviolenza e la bomba atomica, si tratta di scegliere tra questi due poli.

Oggi è in atto un braccio di ferro tra i 46 paesi favorevoli alle bombe atomiche (le nove potenze nucleari e i cinque paesi ospitanti gli ordigni, più altri 32), e i 122 favorevoli al Tpnw (i 65 che l’hanno ratificato, più i 57 che l’hanno approvato nel 2017).

Solo l’azione dei popoli motivati eticamente farà bandire le armi nucleari dalla coscienza dell’umanità. Solo dopo di ciò queste armi potranno essere eliminate anche formalmente da provvedimenti giuridici della comunità internazionale.

Le gocce del colibrì

Se fosse evidente a tutti la catena che collega la vittima innocente di un qualunque paese in guerra all’operaio che ha costruito la bomba, all’ingegnere che l’ha progettata, alle banche che ne hanno sostenuto la produzione, al ragioniere che ha emesso le fatture, ai lavoratori dei porti che l’hanno imbarcata, e così via, scopriremmo che in essa è coinvolta qualche persona che conosciamo, magari un nostro parente o un nostro vicino di casa.

Se ciascuno di noi ne fosse consapevole, potrebbe fare come il colibrì che, in una favola africana, fa la sua parte portando nel suo minuscolo becco due gocce d’acqua per spegnere l’incendio.

Angela Dogliotti

 




Le frontiere del mondo


Ogni giorno, 400 milioni di container attraversano il globo. Carichi di tutte le merci lecite (come ananas, o scarpe) e illecite (come droghe, o armi), per essi non esistono frontiere. Se si vuole capirne qualcosa, si trovano muri, filo spinato e, a volte, militari armati.

A ndrea Bottalico è ricercatore, redattore di «Napoli Monitor» e di riviste di inchiesta sociale.

Si era già occupato delle condizioni di lavoro nei cantieri navali con Il fuoco a mare. Ascesa e declino di una città-cantiere del sud Italia (Monitor edizioni, 2016).

Quest’ultimo libro Le frontiere del mondo. Viaggio nella filiera del container, apparentemente breve, è in realtà ricchissimo di notizie, riflessioni e interrogativi.

Spazia su un’estensione geografica internazionale delineando le caratteristiche di numerosi porti – da Genova, Gioia Tauro, Marsiglia, Beirut, Anversa, a Rotterdam – di cui descrive gli aspetti strutturali popolandoli di abitanti che ne identificano il contesto sociale ed economico.

Il linguaggio scorre, il discorso non ha intoppi. L’oggetto del racconto è complesso, ma è molto apprezzabile l’insieme dato da profondità investigativa e buona scrittura, integrate con l’oggettività del reportage.

Bottalico traduce i dati della sua ricerca in narrazione, con una storia che si snoda nel tempo.

I personaggi si animano via via che il narratore si trova immerso nelle realtà, inaspettatamente sconosciute e misteriose, in cui svolge la sua analisi.

L’inventore dei container

Un primo bandolo per dipanare il racconto è offerto dal personaggio che diede inizio alla storia dei container: Malcolm Purcell McLean. Autotrasportatore di origini scozzesi, nato nel 1913 nella Carolina del Nord (Usa), con i suoi risparmi McLean comprò un camion di seconda mano e fondò nel 1934 una piccola impresa per il trasporto di prodotti agricoli, la McLean Trucking.

In pochi anni divenne proprietario di una flotta di 2mila camion e trenta terminal sul territorio degli Stati Uniti.

La sua fortuna dipese dalla messa in pratica di una sua intuizione sulla gestione del traffico internazionale delle merci: se invece di scaricare le merci dai camion per caricarle ogni volta sulle navi, si fossero caricati direttamente i rimorchi dei tir sulle navi, si sarebbe risparmiato tempo, denaro, lavoro.

Lo sviluppo dei container nacque da questa semplice osservazione.

Banane e cocaina

Raccontando le vicende di McLean, Bottalico sottolinea che «il vero affare delle compagnie di trasporti non è gestire navi o treni, ma spostare la merce». Presenta così la vera protagonista del suo libro: la merce.

«Oggigiorno più di quattrocento milioni di container si spostano in tutto il mondo trasportando il 90% di ogni cosa e irrorando il globo di prodotti».

La merce viaggia in incognito dentro enormi scatole di metallo, in quantità e con velocità crescenti. Questa accelerazione produce un impatto enorme a livello globale sulle relazioni sociali, gli ambienti di lavoro, le dinamiche di potere, l’ambiente.

Una delle tante pecche di questa pervasività è il fatto che, a fronte dell’enorme numero di container, si effettuano controlli sul loro contenuto su meno del 2%.

«Di conseguenza – aggiunge Bottalico – è possibile trovare cocaina all’interno di un container che trasporta ananas, o carne, o frutta esotica, o frutti di mare, o caschi di banane, e armi all’interno di un container di sacchi di cemento, o bobine di carta, e così via. Lecita o illecita, la merce si confonde tra la merce […] oltrepassando le frontiere a ritmi sempre più frenetici e secondo logiche precise anche se contorte, attraverso una fitta rete di società […], holding finanziarie e intermediari di varia natura, trafficanti e multinazionali […]».

Recinzioni e filo spinato

Bottalico trasmette un’idea della complessità del sistema merce ponendo domande alle quali non riceve risposte (cosa c’è in quel container? dov’è diretta quella nave? chi ha in concessione quell’area portuale?) e offrendo, pagina dopo pagina, confronti tra i porti (dalle banchine genovesi controllate dai camalli alle piattaforme deserte di Rotterdam) e dialoghi occasionali (il camionista che veglia di notte la sua merce, il marinaio che attende di imbarcarsi, lo spedizioniere che gestisce flussi logistici sull’intero pianeta).

Le descrizioni quasi fotografiche dei luoghi fanno da scenario, aiutando chi legge a trovare appigli in un discorso nel quale la merce continuamente sfugge.

«La strada parallela alla banchina – scrive Bottalico del porto di Gioia Tauro (RC) – è attraversata da camion pieni di cassette della frutta che cercano di evitare i fossi. Da quelle parti le gru si possono osservare meglio insieme alle navi ormeggiate in banchina. Un cancello alto e lungo crea una sorta di cintura con sofisticati sistemi di sorveglianza che separano il caleidoscopio portuale dal mondo di fuori. I militari presidiano l’ingresso di un’azienda. Si possono sentire i rumori delle operazioni di sbarco e imbarco, oltre le cancellate e le recinzioni che delimitano l’area portuale con filo spinato e le telecamere».

«Vago per un po’ in un labirinto per poi ritrovare la strada – racconta Bottalico di Rotterdam -. I duecento ettari del terminal con le sue quarantuno gru […] si riescono a scorgere appena sulla sponda opposta in lontananza. Più mi avvicino e più mi rendo conto della loro imponenza […]. Al lato opposto del terminal un antico mulino e alle spalle del mulino le due torri di raffreddamento della centrale nucleare di Doel. Il villaggio si trova nel mezzo, tra il terminal, il fiume e la centrale, intorno a un’area grande tremila campi di calcio».

Un libro da leggere e rileggere per apprezzare la varietà di storie, persone e paesaggi, per soppesare l’impossibilità di tracciare e controllare la merce e percepirne la pervasività e l’ormai inarrestabile espansione distruttrice.

Elena Camino

Ecco altri tre libri e un film per approfondire:

  • Sergio Bologna, Tempesta perfetta sui mari. Il crack della finanza navale, DeriveApprodi, Roma 2017, pp. 217, € 18.
  • David Abulafia, Il grande mare. Storia del Mediterraneo, Mondadori, Milano 2017, pp. 695, € 25.
  • Giorgio Nebbia, La violenza delle merci, Ecoistituto del Veneto Alex Langer, Venezia, 1999, pp. 48.
  • Allan Sekula, Noël Burch, The Forgotten Space, Icarus Film, New York 2010.




Nonviolenza da Oscar


«Coda. I segni sul cuore» e «The Guilty», Il colpevole

Una ragazza, figlia di genitori sordi, scopre di avere un talento nel canto. Un poliziotto danese si lascia coinvolgere in un caso che non dovrebbe seguire. Due film diversi tra loro, ma accomunati dall’ascolto attivo dei protagonisti che affrontano i conflitti cambiando se stessi e le relazioni attorno a loro.

Coda. I segni sul cuore

A volte vincono. Sì, a volte – raramente – i film nonviolenti arrivano ai vertici del riconoscimento mondiale.

È stato così per Coda. I segni sul cuore che ha vinto tre Oscar nel 2022: il più ambito, quello per il miglior film, quello per l’attore non protagonista, Troy Kotsur, e quello per la migliore sceneggiatura non originale.

Coda è il remake statunitense di un film francese del 2014, La famiglia Bélier, una pellicola talmente bella che al Centro studi Sereno Regis, dove ci occupiamo di educazione alla pace, lo usiamo spesso nei nostri corsi.

Tra l’altro, Coda è passato come film fuori concorso anche all’edizione 2021 del Tff (Torino film festival, ndr) ed è uno dei film segnalati dal premio «Gli occhiali di Gandhi», il premio del Centro studi Sereno Regis, in collaborazione con il Tff, alla cinematografia nonviolenta.

È una storia che esemplifica in modo semplice, ma non superficiale, come un conflitto si può risolvere in modo nonviolento.

La trama è semplice: la diciassettenne Ruby, figlia di due persone sorde (c.o.d.a., dall’inglese child of deaf adults, figlia di adulti sordi), scopre di avere un talento nel canto. Inizia a prendere lezioni, finché il suo maestro le propone di continuare gli studi trasferendosi in un’altra città.

Il film racconta come Ruby riesca nel compito di accompagnare i genitori, impossibilitati a riconoscere la sua dote, a mettersi nei suoi panni, coinvolgendoli, rassicurandoli, e mettendosi a sua volta nei loro panni, cosa che rappresenta una delle lezioni basilari della nonviolenza: riconoscere i bisogni dell’altro, il quale non è un avversario, ma una persona con cui trovare il giusto modo di relazionarsi.

Le scene fondamentali che illustrano in modo magistrale la soluzione nonviolenta del conflitto sono tre.

La prima è quella nella quale emerge il problema ed esplode il conflitto: il desiderio della ragazza di trasferirsi si scontra con la contrarietà dei genitori, i quali, con la partenza della figlia che li aiuta nella loro azienda a conduzione famigliare, perderebbero un valido aiuto.

La seconda è la rappresentazione delle difficoltà oggettive dei genitori nel comprendere il talento della figlia (qui il regista mette anche il pubblico nella condizione di capire lo stato d’animo dei genitori). La terza è quella della soluzione finale del conflitto: la ragazza riesce a rendere partecipi i genitori della sua performance usando la lingua dei segni (uno dei motivi per cui è stato fatto il remake statunitense del film francese: la lingua dei segni europea è diversa da quella Usa).

Il film della regista Sian Heder si differenzia dall’originale francese di Éric Lartigau, per il fatto che i ruoli di persone sorde sono stati interpretati da attori effettivamente sordi, a cominciare da Marlee Matlin, che vinse l’oscar come migliore attrice per Figli di un dio minore del 1986.

Andatelo a vedere e, se possibile, guardate anche La famiglia Bélier: un confronto che vi riserverà delle belle sorprese.

D.C.

Il colpevole (The Guilty)

«Il colpevole (The Guilty)» è un thriller del 2018, terzo film del danese Gustav Möller.

Si potrebbe definire un film claustrofobico, incredibilmente ambientato in sole due stanze. Eppure ha una forte e determinante componente nonviolenta. Vediamo perché.

Asgar è un agente di polizia di Copenaghen, temporaneamente demansionato, per un motivo che scopriremo più avanti, al servizio di risposta alle chiamate di emergenza. È il classico lavoro da 112: smistare le telefonate. Una noia.

Un giorno, però, riceve la chiamata di una giovane donna che dichiara di essere stata rapita dall’ex marito, e Asgar decide di oltrepassare i limiti professionali prendendosi segretamente carico dell’investigazione e mettendosi in gioco per salvare la donna.

Svolgere un’indagine esclusivamente al telefono, però, è pericoloso, e il protagonista deve confrontarsi con un inaspettato ribaltamento della situazione.

Spesso, fare supposizioni partendo da poche informazioni, può portare a commettere gravi errori, anche se si hanno le migliori intenzioni.

Ciò che appare un limite del film, cioè la messa in scena in sole due stanze, amplifica la tensione, spingendo a entrare nello spazio emotivo dei protagonisti.

Il regista lancia una vera e propria sfida allo spettatore, cercando di emozionarlo con il semplice riferimento a «ciò che accade fuori». Una sfida indubbiamente vinta.

Così come è vinta la sfida della sostenibilità ambientale della produzione: niente sparatorie, niente auto incendiate, niente palazzi che crollano.

«Il colpevole», il cui titolo originale è Den Skyldige, merita di essere visto non solo perché è un thriller emozionante e magnetico, ma anche perché offre spunti di riflessione sulla nonviolenza.

La grande empatia di Asgar nell’aiutare la donna al telefono, a prescindere dai suoi doveri, ne è un esempio. Il protagonista va contro l’etica professionale per salvare una persona sconosciuta, facendosi coinvolgere dalla sua vicenda e mettendoci tutto il suo impegno.

Inoltre, è interessante notare come il dialogo sia l’unico strumento utilizzato per risolvere il conflitto e, in una situazione estrema, per salvare una vita.

Non solo. Il dialogo diventa cura e diventa perdono, per sé e per gli altri: mettendosi nei panni della donna, nel suo dramma, il poliziotto trova il coraggio di affrontare le proprie responsabilità (il motivo – che non sveliamo – per il quale è stato «messo a riposo» in ufficio) e, in definitiva, di perdonarsi.

Un chiaro esempio di come la relazione profonda tra esseri viventi, il vero ascolto, partecipe e responsabile, siano le basi fondanti di un percorso di risoluzione nonviolenta dei conflitti.

Giorgia Bettuzzi e Dario Cambiano