ECONOMIA / AMBIENTE La cattiva globalizzazione (3)

IL MONDO STA BENE
(gli unici colpevoli sono gli ambientalisti)


A questa sconcertante conclusione arriva un libro,

che vuole colpire… l’immaginazione di lettori impreparati o prevenuti.
Ma la realtà è un’altra, come altri lavori dimostrano.

Ci siamo sbagliati tutti. Non è il caso di preoccuparsi per il pianeta, l’ambiente ed i suoi abitanti. La situazione è sotto controllo e le tesi sul pessimo stato della terra sono false, perché frutto di organizzazioni ambientaliste (da Greenpeace al Wwf, passando per il Worldwatch Institute) il cui unico scopo è di arricchirsi o di fare propaganda.
Questa è la tesi sostenuta in Le bugie degli ambientalisti. I falsi allarmismi dei movimenti ecologisti, un libro di Riccardo Cascioli e Antonio Gaspari, giornalisti del quotidiano Avvenire. I due autori non si limitano ad indicare i «colpevoli» (gli ambientalisti), ma riscrivono in toto l’intera tematica ambientale. Eccone qualche esempio.
Le risorse non sono limitate. «Le risorse – scrivono Cascioli e Gaspari (pag. 49) – sono andate sempre aumentando e diversificandosi (…). Due secoli fa nessuno conosceva il petrolio, ma anche averlo non serve a granché se non si ha a disposizione la tecnologia per estrarlo, raffinarlo e distribuirlo. Discorso analogo si può fare per l’acqua». Quale la conclusione dei due autori? «Il concetto di risorsa non è definito dalla natura, ma dalla creatività e dalla tecnologia umana».
Che dire del biossido di carbonio (CO2), il principale tra i gas serra? «La CO2 – si legge a pagina 82 – in realtà è un fertilizzante naturale tra i più efficaci».
Secondo Cascioli e Gaspari, la deforestazione non è un problema: «Contrariamente a quanto si vorrebbe far credere, non esiste una mancanza di alberi nel mondo, anzi, l’area della terra coperta dalle foreste è cresciuta negli ultimi 50 anni» (pag. 88). E continuano: «Storie terrificanti vengono narrate sulla deforestazione in Brasile» (pag. 95). Ancora: «Pochi sanno che negli Usa, in Canada, in Svezia e in tanti altri paesi produttori di legname, si piantano più alberi di quelli che si tagliano».
L’energia nucleare? Secondo Cascioli e Gaspari, «gli ambientalisti si sono sempre opposti ferocemente all’energia nucleare, la fonte energetica più pulita e sicura che si conosca» (pag. 140).
Il riscaldamento globale e il protocollo di Kyoto? I due autori sostengono l’eccezionalità del primo (pag. 84) e l’inutilità del secondo (pag. 86). Parlando dei dubbi della Russia (che alla fine ha però ratificato Kyoto), i due autori concludono: «Chi sarà così folle da sacrificare la propria economia e una parte dell’occupazione per un risultato così misero?». Una conclusione che, in un sol colpo, spazza i dubbi, sottoscrive gli egoismi nazionali e cestina un accordo che, pur nella sua inadeguatezza (è blando rispetto all’entità dei problemi), rappresenta un fatto storico.
Grave è anche l’irrisione dei comportamenti individuali, che con tanta fatica si cerca di far diventare consuetudine tra i cittadini. Gli autori parlano di «ritornello ascoltato molte volte»: «Non si deve più andare in automobile, bisogna tornare alla bicicletta, si deve mangiare meno carne, e via di questo passo» (pag. 59). Neppure il riciclaggio viene risparmiato dai due autori: «Un crescente numero di esperti mette in dubbio l’efficacia del riciclaggio per i suoi costi esorbitanti rispetto ai benefici che ne derivano» (pag. 141).

Per fortuna, ci sono altri libri attraverso i quali informarsi. Quelli editi dalla Emi, per esempio. Oppure un ottimo libro scientifico, Energia oggi e domani. Prospettive, sfide, speranze, firmato da Nicola Armaroli e Vincenzo Balzani.
La saggezza politica, scrivono (pag. 144) i due studiosi con riferimento al libro di Cascioli e Gaspari, «non è certo stimolata dalla pubblicazione di libri che spargono un facile ottimismo sulla salute del pianeta e sull’andamento delle risorse della Terra. Pur essendo certamente vero che bisogna rifuggire un dogmatico quanto vuoto catastrofismo ambientalista, risulta privo di fondamento scientifico affermare che le foreste mondiali godono di ottima salute, la popolazione mondiale può tranquillamente aumentare a dismisura, l’inquinamento atmosferico non è un problema rilevante e il surriscaldamento del pianeta è solo una “teoria”. Ad un occhio sufficientemente esperto, l’inconsistenza scientifica di coloro che spargono queste “verità” è evidente anche perché essi basano le loro affermazioni su una bibliografia fatta per lo più di articoli di quotidiani e non di letteratura scientifica accreditata».
Paolo Moiola

Paolo Moiola




ECONOMIA – Quale economia? (2) Né giustizia né pace senza ecologia. Incontro con Wolfgang Sachs


QUALE ECONOMIA? (seconda puntata)

Insicurezza, crisi, precarietà, diseguaglianze.
Incontro con il professor Wolfgang Sachs
NÉ GIUSTIZIA NÉ PACE SENZA ECOLOGIA

Le fonti energetiche fossili (petrolio, gas, carbone) debbono essere protette militarmente. Al contrario, le energie rinnovabili, oltre a non distruggere l’ambiente, si trovano ovunque e pertanto sono di per sé «pacifiste».
A parte la questione energetica, per gli stati e per i singoli vale lo stesso consiglio: «Realizzare la giustizia non vuole dire dare di più, ma soprattutto imparare a prendere di meno». A cominciare dalle risorse naturali.

Tedesco, ricercatore presso il Wuppertal Institut per il clima, l’ambiente e l’energia, professore negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, Wolfgang Sachs ha studiato sociologia, teologia e scienze sociali.

Professore, come le è nata la passione per le tematiche ambientali?
«C’è una storiella al riguardo. Io avevo 15-17 anni ed ero a Monaco. Un giorno scoprii che in un giardino della birra (ce ne sono molti nella città bavarese) stavano lavorando per costruire un parcheggio. Questo fatto mi fece arrabbiare. Ero infastidito ed offeso: questo non può essere il progresso, pensai. Io non lo accetto.
Da allora i miei studi si sono mossi in quella direzione. Il mio scetticismo nei confronti di questa modeità e di questo progresso è stato poi rafforzato dai miei studi di teologia».

Nell’attuale società il dogma intangibile è quello del Prodotto interno lordo (Pil). Secondo lei, il nuovo indicatore dell’«impronta ecologica» può essere utile per descrivere il collegamento esistente tra ambiente e giustizia?
«L’impronta ecologica ha il merito di considerare la dimensione ambientale, completamente dimenticata nell’indicatore del Pil.
Un indicatore come l’impronta ecologica ha il vantaggio di aggregare consumi diversi in un unico dato – la quantità di terra necessaria per produrre i beni consumati da ognuno – e rendere così possibile i paragoni tra nazione e nazione, ma anche tra città e città. Quindi, è un’ottima base concettuale per parlare di giustizia».

Secondo la teoria economica i mezzi di produzione sono il lavoro, il capitale e la terra-natura. Tuttavia, politici ed economisti quasi sempre sottovalutano quest’ultimo fattore…
«Ho due osservazioni: la prima è che il capitalismo di oggi è un capitalismo poco serio, in quanto da una parte esalta il capitale economico, dall’altra permette la rovina del capitale sociale e naturale.
La seconda osservazione è un’osservazione critica verso la nozione di capitale naturale. Nel momento in cui si parla di capitale, si implica che esso sia conosciuto per intero e possa essere quantificato. La natura, però, non può rientrare in questa definizione. Di essa non è possibile tracciae i confini, misurae il volume, in una parola quantificarla. Il contrario di ciò che avviene: l’attuale visione è estremamente miope».

Gli Stati Uniti sono i più grandi inquinatori del mondo. Lei proviene dalla Germania, uno dei maggiori paesi industrializzati del mondo. Il suo paese si sta comportando meglio degli Usa?
«In questo momento la legislazione tedesca per le energie rinnovabili è abbastanza innovativa, perché garantisce un prezzo per la rivendita dell’energia prodotta indipendentemente. C’è motivo di soddisfazione per l’eolico, meno per i trasporti.
Mi piace ricordare che al mondo c’è un piccolo paese, il Costa Rica, che ha diminuito le sue emissioni di Co2 in modo sensibile, che ha fermato la deforestazione, che non ha un esercito… Quello che voglio dire è che ci sono stati meno importanti, che fanno una politica più interessante di altri più noti. Certo, a livello globale, non siamo in una situazione brillante».

Alluvioni, uragani, siccità ed incendi sono sempre di più, sempre più frequenti, sempre più virulenti. Le catastrofi naturali sono un segno della gravità della situazione?
«C’è un pericolo in questa visione. Perché quando la tua immaginazione viene dominata dall’immagine della singola catastrofe, non vedi più le catastrofi in scala più piccola. Pensiamo al cambiamento del tempo. Oggi non c’è più evento meternorologico o climatico che non sia influenzato dalle attività economiche dell’uomo. Però non lo vedi, non è misurabile, non è identificabile. È un po’ come con il cancro. Si sa che tante forme della malattia dipendono dall’impatto ambientale. Però, quando un signore X muore di cancro, tu non puoi dire con precisione che la causa o concausa è stata questo o quell’aspetto dell’inquinamento ambientale. E così sarà sempre di più per i fenomeni meternorologici. Le conseguenze serie del cambiamento climatico avvengono in modo silenzioso. È una nuova melodia nell’evoluzione umana».

Lei è ottimista, se parla di melodia…
«È una melodia tragica…».

Cosa le suggerisce il protocollo di Kyoto? Cos’è e cosa sarà?
«A parte vedere quanti paesi applicheranno concretamente il protocollo di Kyoto, il problema vero è un altro.
Il problema è che i suoi obiettivi sono ridicoli rispetto alla magnitudine del problema. C’è un consenso da parte di tutti gli esperti del mondo scientifico secondo il quale ci vorrebbe una riduzione globale del 50-60% di Co2 nei prossimi 50 anni. Se uno mette nel conto anche la crescita della popolazione, siamo lontani anni luce da questo traguardo…
Poi c’è il problema dell’inclusione dei paesi in via di sviluppo… Infine, Kyoto è pieno di scappatornie: è come un formaggio svizzero con un sacco di buchi. Il motivo per il quale ci sono i buchi è molto chiaro. Perché gli americani, a suo tempo (era il 1997), hanno cercato di avere un trattato che alla fine non avrebbe prodotto alcun cambiamento per la propria economia, il proprio modo di consumo e produzione. Ecco, perché la cosa migliore per leggere Kyoto è la famosa battuta di Bush padre: “Si può discutere di tutto, ma non del cambiamento dello stile di vita americano”».

Che tristezza…
«Sì, e questo non è tutto… Occorre sapere che gli Stati Uniti hanno una tattica ben precisa, che è sempre la stessa: loro partecipano ai vari negoziati, li portano al minimo e poi ne escono o ne rifiutano la ratificazione. Kyoto è solo un esempio. La stessa cosa hanno fatto per la convenzione sulla bio-diversità. È una tattica di arroganza sistematica…
I delegati statunitensi arrivano alle trattative inteazionali e le uccidono con carte ed avvocati. E spesso gli altri paesi si debbono adeguare. Sembra primitivo e banale ma purtroppo è così».

Lei collega la scelta energetica del mondo con la guerra e la pace. Ci spieghi meglio questo collegamento…
«Gas, petrolio e carbone sono presenti sulla terra solamente in alcuni luoghi, mentre i consumatori di energia si trovano dappertutto. Il risultato è che l’energia fossile si basa sempre su lunghe catene di produzione e di approvvigionamento. Queste catene hanno fianchi deboli e vulnerabili, quindi devono essere protette.
Per questo un’economia fossile sarà sempre un’economia che richiede una maggiore sicurezza militare. Mentre la situazione è molto diversa per quanto riguarda le energie rinnovabili: il vento, la biomassa, il sole, l’acqua.
Le fonti delle energie rinnovabili sono dappertutto e soprattutto si trovano negli stessi luoghi dove vi sono i consumatori. Ne consegue che con le energie rinnovabili le distanze fra le fonti ed i consumatori possono essere molto più brevi. Quindi parliamo di catene di approvvigionamento corte che pertanto non richiedono una protezione militare. In conclusione: le energie rinnovabili sono energie pacifiste e non ci sarà pace senza ecologia».

Per l’ambiente è più importante la sensibilità individuale o la responsabilità pubblica?
«C’è una dimensione pubblica ed una personale. Sono due cose che dovrebbero completarsi e mai escludersi».

Le città sono invase dalle auto, che – lo ammettono ormai tutti – producono inquinamento, diminuzione della qualità della vita, malattie, effetto serra, eccetera.
«Oggi le auto sono più ecoefficienti di 20 anni fa, ma questo non ha risolto il problema in quanto, nel frattempo, abbiamo messo sulla strada macchine più potenti, più veloci o addirittura i fuoristrada. Cosa c’è di più irrazionale che mettere un fuoristrada nel traffico cittadino dove si va piano e non ci sono ostacoli da superare? È uno spreco ingiustificato».

Ciononostante sembra che dell’auto la gente non possa fare a meno…
«Io comincerei con l’evitare una domanda: cosa faccio con l’auto? posso fae a meno? Secondo me, questo è l’approccio sbagliato. Si dovrebbe partire dicendo che non si vuole la macchina e proprio in base a questa scelta si conforma la vita di conseguenza…
In tal modo, le scelte di abitazione e lavoro, il modo di muoversi in città, le abitudini, tutto si formerebbe in funzione di non avere una macchina… Purtroppo, nella società d’oggi tutto è basato sulla macchina. E diventa difficile convincere una persona a fae a meno…
Personalmente, ho sempre scelto casa con il presupposto che non voglio essere costretto a comprarmi una macchina».

Ha fatto una scelta ecologica…
« Non solo. A volte l’auto può essere interessante ed utile, ma è anche un oggetto che comporta una spesa continua, un fastidio quando devi fare delle acrobazie per andare da un posto all’altro… Io non trovo piacere ad avere una macchina.
Nella città dove abito ci sono quartieri, ristoranti, luoghi che non conosco, perché sono fuori del mio raggio di azione, mentre lo sono in quello di un automobilista. Non conosco questi posti e non li ho mai cercati, perché non fanno parte del mio orizzonte quotidiano. E la cosa strana è che non mi sento sottoprivilegiato per questo».

Lei parla di una «soddisfazione materiale» e di una «soddisfazione immateriale»…
«È semplice. Ci possiamo permettere più cose, ma abbiamo meno tempo a disposizione. Ad esempio, possiamo comprarci più Cd di musica, ma ci manca il tempo per ascoltarli…».

Paolo Moiola

Paolo Moiola




ECONOMIA / Quale economia? (2) Protocollo di Kyoto: 16 Febbraio 2005

Economia e ambiente

KYOTO BUSSA ALLE PORTE.
(PER UN MISERO 5,2 PER CENTO)

Gli Stati Uniti, il paese più inquinante del mondo, non aderisce al trattato di Kyoto.
L’Italia, firmataria ma inadempiente, ha annunciato
che, anche in questo, presto seguirà Washington.
Quando l’interesse particolare schiaccia quello universale…

Nel 1997, in Giappone, i principali paesi occidentali firmarono quello che è conosciuto come il «protocollo di Kyoto», dal nome della località che ospitò il convegno. In quell’occasione, si stabilì di ridurre complessivamente (rispetto ai valori del 1990) del 5,2 per cento le emissioni di anidride carbonica e di altri cinque gas serra entro il 2012. Finalmente, a 7 anni dalla firma, il 16 febbraio 2005 il protocollo di Kyoto entra in vigore.
Intanto, nel 2003 le emissioni di carbonio dovute ai combustibili fossili (petrolio, carbone, gas naturale) hanno segnato un nuovo record, aumentando quasi del 4% rispetto all’anno precedente. Ha detto Lester Brown, fondatore del World Watch Institute di Washington: «Il protocollo di Kyoto è un passo politico importante, ma nasce già vecchio. Non ha un’influenza reale sulla stabilizzazione del clima: per raggiungere l’obiettivo bisognerebbe ridurre le emissioni di anidride carbonica non del 5, ma del 50% in 10 anni».
Di questo si è discusso nella decima Conferenza sui cambiamenti climatici (Cop10), tenutasi a Buenos Aires lo scorso dicembre. La conferenza è stata pesantemente condizionata dagli Stati Uniti, che non hanno mai ratificato il protocollo di Kyoto (pur essendo, di gran lunga, i maggiori inquinatori mondiali).
La posizione statunitense ha fatto infuriare tutti, anche organizzazioni di norma moderate ed apartitiche come il Wwf Internazionale. L’amministrazione Bush ha messo in atto una tattica aggressiva, fatta di ostruzionismo e disinformazione; ha difeso la propria industria dei combustibili fossili e l’Arabia Saudita. Gli Usa si sono inoltre opposti fino all’ultimo all’avvio di nuovi negoziati sul dopo Kyoto. Alla fine, è stato raggiunto un compromesso al ribasso che prevede un semplice incontro a Bonn nel maggio 2005.

E l’Italia? Il nostro paese aderisce al protocollo, ma continua ad aumentare le sue emissioni di gas serra, come confermato anche dal fatto che nel 2003 le emissioni di Co2 sono state di oltre il 9% superiori (qualcuno dice il 12%) a quelle del 1990, allontanandosi di molto dall’obiettivo fissato dal protocollo di Kyoto di una riduzione del 6,5% (1).
Anche a Buenos Aires l’Italia non ha fatto una bella figura, come amaramente hanno confermato i rappresentanti del Wwf italiano. I rappresentanti del governo di Roma hanno enfatizzato gli accordi bilaterali e gli impegni volontari, contrapposti agli accordi multilaterali e agli impegni collettivi, creando confusione e discredito ed indebolendo la posizione comune dei partners europei, principali sostenitori del protocollo di Kyoto.
Ma essere «più realisti del re» (il re sono gli Stati Uniti, ovviamente) è spesso foriero di conseguenze negative. Come ha chiosato il quotidiano francese Libération: «Bisogna convincere gli Stati Uniti che quel che è bene per il pianeta è bene anche per loro. E non viceversa». Appunto.

Pa.Mo.

IL MONDO MINACCIATO DAL TERRORISMO?
NO, DALLA CATASTROFE ECOLOGICA

Un solo dato è sufficiente: dal 1968 ad oggi il terrorismo ha ucciso
24 mila persone, le catastrofi ambientali 240 mila. Ogni anno…

Si calcola che, entro la metà del secolo, ci potranno essere 150 milioni di persone in fuga dal proprio paese sconvolto dai cambiamenti climatici. Negli ultimi 30 anni nella zona artica è andato perso l’1,8% della superficie ghiacciata, circa un milione di chilometri quadrati, l’equivalente della superficie di Norvegia, Svezia e Danimarca. Le piogge in Africa diminuiscono da 30 anni: nel Sahel sono scese del 25%. Il crollo minaccia il settore agricolo che fornisce il 70% dei posti di lavoro. Due terzi delle barriere coralline sono stati seriamente danneggiati e sono a rischio di degrado per colpa dell’innalzamento della temperatura dei mari. Il Bangladesh rischia di perdere un quinto del proprio territorio: sarà inghiottito dalla crescita del mare provocata dall’aumento dell’effetto serra.
Questi sono soltanto alcuni degli scenari prodotti dalla catastrofe ecologica. Ma ognuno di noi può (volendo vedere) rendersene facilmente conto ogni giorno: gli invei hanno temperature sempre più miti, la neve è sempre di meno e cade soltanto in quota, i ghiacciai alpini si ritirano anno dopo anno.

«I disastri ambientali provocati dai cambiamenti climatici minacciano il futuro dell’umanità in misura enormemente più grave rispetto al terrorismo» ha scritto lo scienziato statunitense Gregory D. Foster sul World Watch Institute Magazine. «Dal 1968 ad oggi il terrorismo ha ucciso 24 mila persone, contro le 240 mila sterminate ogni anno dalle catastrofi ambientali». In futuro, ci saranno sempre più guerre per l’acqua, l’energia e le derrate alimentari.
Inquietante, infine, un altro dato: secondo un sondaggio Gallup, la stragrande maggioranza degli statunitensi omette l’ambiente persino dalla «top 11» delle «possibili minacce agli interessi vitali degli Stati Uniti». Probabilmente, un altro «merito» da ascrivere all’amministrazione di George Bush.  

Paolo Moiola




ECONOMIA / Quale economia? (2) I rapporti 2005 .

I RAPPORTI 2005 DELLE ORGANIZZAZIONI INTERNAZIONALI

Sono tutte drammatiche le cifre di Ilo, Unicef e Fao.

Nel 1996 i principali paesi del mondo lanciarono, da Roma, una campagna per dimezzare gli affamati del pianeta entro il 2015. Nel 2004, leggendo l’ultimo rapporto della Fao, scopriamo che le persone sottornalimentate sono addirittura aumentate, arrivando alla cifra di 852 milioni, la maggior parte nell’Africa sub-sahariana e nell’Asia del Sud. Ma, come dice il detto popolare, le disgrazie non vengono mai da sole: dove c’è povertà il più delle volte non mancano la guerra e la malattia. L’Aids, ad esempio. Nel 2003 l’infezione ha ucciso 500 mila bambini sotto i 15 anni, i sieropositivi sono arrivati a più di 2 milioni e gli orfani a 11,5. Secondo l’ultimo rapporto Unicef, sono 180 milioni i bambini costretti a lavorare e 140 quelli che non sanno cosa sia una scuola. E senza un’istruzione di base non è possibile una crescita normale ed anzi aumenta la possibilità che i minori vengano «reclutati» dall’industria militare (i bambini-soldato) o da quella, in costante espansione, del sesso.

Le statistiche riportate nei tre rapporti delle organizzazioni inteazionali Ilo, Fao ed Unicef (tutte emanazione delle Nazioni Unite) illustrano situazioni drammatiche o almeno gravi, mentre i dati positivi sono una minoranza. «Così va il mondo», potrebbe dire qualche lettore, magari contrario alle nostre campagne contro le guerre di qualsiasi tipo e con qualsiasi aggettivo (guerra «preventiva», guerra «giusta», eccetera). A quel lettore si potrebbe rispondere con un dato come il seguente: il 5% (cinque per cento!) della spesa militare globale annua (pari, nel 2003, a 956 miliardi di dollari) basterebbe per ridurre di due terzi la mortalità infantile tra 0 e 5 anni e garantire a tutti l’accesso all’istruzione primaria. Se questo dato non fosse sufficientemente esplicativo, ne proponiamo un altro: ogni anno migliaia di bambini (si parla di 40.000) muoiono sulle mine anti-uomo, molto economiche da acquistare (3 dollari), assai meno da disinnescare (1.000 dollari).

LE ORGANIZZAZIONI:
• www.ilo.org
Inteational Labour Organization
• www.fao.org
• www.unicef.org
United Nations Children’s Found


La povertà infantile nei paesi OCSE (2000)

Paesi (cifre percentuali)

Finlandia 2,8
Norvegia 3,4
Svezia 4,2
Belgio 7,7
Ungheria 7,8
Germania 9,0
Lussemburgo 9,1
Olanda 9,8
Austria 10,2
Polonia 12,7
Canada 14,9
Regno Unito 15,4
Italia 16,6
Stati Uniti 21,9
Messico 27,0

Fonte: Unicef
Food and Agriculture Organization of the United Nations

Condizione dei bambini nel mondo (2003)

• bambini lavoratori 180,0 milioni
• bambini sfruttati sessualmente 2,0 milioni
• bambini oggetto di traffici 1,2 milioni

• morti sotto i 5 anni
ogni giorno per malattie curabili 29.158

• morti sotto i 18 anni
per guerre dal 1990 1,62 milioni (1)

• bambini uccisi
dalle mine ogni anno 40.000 (2)

• bambini privi di un tetto 640,0 milioni
• bambini senza acqua potabile 400,0 milioni
• bambini privi di assistenza sanitaria 270,0 milioni
• bambini che non frequentano alcuna scuola 140,0 milioni

Fonte: Unicef

(1) Corrispondenti al 45% del totale, che è di 3,6 milioni di morti in 59 guerre.
(2) Una mina costa 3 dollari; per disattivarla ne occorrono 1.000.


Tassi di disoccupazione (2003)

Paesi industrializzati 6,8 %

America latina e Caribi 8,0 %
M.Oriente ed Africa del Nord 12,2 %
Africa Sub-sahariana 10,9 %
Asia dell’Est 3,3 %
Asia del Sud 4,8 %
Asia del Sud-Est e Pacifico 6,3 %

• Media mondiale 6,3 %

Fonte: Ilo

La fame nel mondo (2000-2002):
persone sottornalimentate (in milioni)

Zone Cifre assolute

Africa Sub-sahariana 203,5
Africa del Nord 6,1
Medio Oriente 33,1
Russia ed Europa dell’Est 28,3
Asia dell’Est 151,7
Asia del Sud 301,1
Asia del Sud-Est 65,5
America Centrale e Caraibi 14,1
America del Sud 33,6

• Mondo 852 milioni

Fonte: Fao

Lavoratori poveri nel mondo (2003)

Tipologia Numeri assoluti

• disoccupati 185,9 milioni

• lavoratori con meno di 1 dollaro/die 550,0 milioni
• lavoratori con meno di 2 dollari/die 1.4 00,0 milioni

Fonte: Ilo

Emissioni di carbonio
(gas serra) in alcuni paesi

Paesi Emissioni
di carbonio (1)
Stati Uniti 23,4
Cina 13,6
Russia 6,2
Giappone 4,8
India 4,2
Germania 3,4
Canada 2,4
Gran Bretagna 2,3
Sud Corea 1,8
Italia 1,8

tutti gli altri paesi 36,0

Fonte: Earth Policy Institute, Washington 2004
(1) Percentuali sulle emissioni globali

Impronta ecologica
(Ecological footprint)

Paesi Impronta
pro-capite (1)

Stati Uniti 9,5
Canada 6,4
Gran Bretagna 5,4
Germania 4,8
Russia 4,4
Giappone 4,3
Italia 3,8
Sud Corea 3,4
Cina 1,5
India 0,8

• Media mondiale 2,2
• Impronta
compatibile (2) 1,8
• Deficit ecologico 0,4

Fonte: Living Planet Report 2004

Note:
(1) Misura in ettari pro-capite riferita
al 2001; tutti i dati sono reperibili su: www.panda.org
(2) Definita come «biocapacità».

Paolo Moiola




TAV – inchiesta Parola di prete

TAV – la chiesa

DAVIDE CONTRO GOLIA

"La chiesa deve stare con il suo popolo".
Sono almeno una decina i preti che si sono schierati a fianco
delle popolazioni della Val di Susa.
Un atto di coraggio che ha suscitato dibattito, fuori e dentro la chiesa.

 

 

Faceva una strana impressione leggere il numero de "La Valsusa" del 17 novembre 2005, il giorno dopo l’imponente Marcia NoTav.

La Valsusa è il settimanale della curia valsusina, decisamente schierato con il popolo valsusino contro la devastazione rappresentata dal progetto dell’alta velocità. Schierandosi a fianco della gente, il giornale si discosta apertamente dalle posizioni del vescovo Badini Confalonieri e del cardinale di Torino Severino Poletto. E quella copertina del 17 novembre lo esprime chiaramente.

Sotto alla grande foto della folla in marcia con bandiere e striscioni, in una colonna, l’articolo di fondo del direttore. don Ettore De Faveri, e a fianco, su due colonne «La parola del vescovo sul Tav».

Il primo racconta la sua trepidazione pensando che la manifestazione non possa riuscire come si sperava («Verranno, non verranno?»), e poi il suo rincuorarsi vedendo la gente da ogni parte a riempire la piazza di Bussoleno. E la sua gioia finale che si esprime con «La valle ha mandato il suo messaggio lungo 8 chilometri. Lo ha mandato a Torino, a Roma, a Bruxelles».

Il vescovo, invece, ribadisce che «La chiesa non ha il compito di schierarsi con una parte o con l’altra in questioni di scelte tecniche, politiche o economiche».

 

LA PAROLA A DON ETTORE, DIRETTORE DELLA VALSUSA

 

Don Ettore, prima delle grandi manifestazioni NoTav, i valsusini erano considerati “una popolazione a basso tasso di ribellione”. Infatti in questa valle hanno fatto più o meno di tutto: autostrada, dighe, centrali elettriche… La vicenda Tav li ha cambiati?

«È vero. C’è stato sempre un alto grado di accettazione da parte dei valsusini, proprio per la storia, la geografia di questa valle che è un luogo di movimento, di transito. È nel nostro Dna l’apertura a tutto quello che consente l’incontro tra i popoli. Contestazioni ci sono state per l’autostrada. Ci si è opposti all’elettrodotto, vincendo. Ma non in maniera così massiccia. La protesta è esplosa negli ultimi anni, il problema è iniziato nell’anno 1990, presentazione del primo progetto. È la protesta del popolo. Definirla NoTav è riduttivo.

Una sorpresa che non ci aspettavamo. Che la regione, che l’Italia non si aspettava. Con le sue cifre, questa protesta non si può ignorare. Dicono: è l’Italia che deve decidere; oggi, su Repubblica lo dice Fassino. “Decidere con il consenso della popolazione”, un bell’artificio. La valle non sta dicendo un no assoluto: propone delle alternative. Perché vengono negate, senza discussione?

La valle ha il sacrosanto diritto e anche il dovere di opporsi alla distruzione del suo territorio. È un grido di allarme. Attenzione, qui si sta sbagliando. I rischi sono altissimi. Sempre stamattina leggevo che l’assessore regionale alla salute (Mario Valpreda) dichiara che amianto e uranio sono “governabili”. E sono stato colpito che proprio alla vigilia della grande marcia del 16 novembre, ci sia stata la conferenza dell’Arpa che minimizzava i problemi. La signora Bresso (presidente della regione Piemonte) dice che protestiamo perché siamo poco informati».

In realtà, i valsusini protestano proprio perché sono molto, molto bene informati sul progetto Torino-Lione.

«Infatti. È un NO critico, responsabile. Basato sui fatti».

È una lotta anche per la collettività, per l’Italia, altro che particolarismo.

«Si cerca di fare questo gioco: localismo contro interessi generali. Ma bisognerebbe chiedersi quali sono gli interessi generali. Noi ce lo chiediamo e abbiamo il diritto di esprimerci. Quando in piazza ci sono 50.000 persone e forse di più, tutta gente normale, gente comune con partecipazioni da altre regioni».

Questo movimento che sta raccogliendo solidarietà e appoggio da tutta Italia, è una cosa meravigliosa…

«Io l’ho chiamato un miracolo. Il miracolo valsusino. Per riprendere un’immagine biblica, senza forzare il senso delle sacre scritture, è come Davide contro Golia. Mi pare che la fionda di Davide sia riuscita a fermare, a squinteare, a creare problemi a Golia, a chi pensava di venire qui con le ruspe a spianarci. Ed ecco un’altra offesa al popolo valsusino è questa… non chiamiamola militarizzazione».

Perché no?

«Questo uso massiccio della forza pubblica… I cittadini che manifestano il loro pensiero non devono sentirsi per questo controllati. Il bello della manifestazione del 16 novembre, con quella marea umana e non c’è stato un solo danno, a una sola cosa. È stata una protesta civilissima. Esemplare per tutta l’Italia».

E la risposta è stata: arriviamo il 30 novembre e apriamo il cantiere. Noi civili. Loro arroganti.

«Dicono che se non si sbrigano perdono i finanziamenti europei».

Non è vero. È una menzogna, come i verdi, con Monica Frassoni, continuano a ripetere. Quest’opera viene costruita con le menzogne. L’ultima è questa dei finanziamenti europei. Il potere sta usando prima il muro dell’omertà e poi la disinformazione.

«Vero. Si danno già le risposte, senza ascoltare le domande. C’è mancanza di rispetto. Come il blitz notturno al Seghino, la beffa… Non si vuole ascoltare, e non c’è rispetto per la Valle. Non ascolto e rispetto, ma azioni prestabilite. E se penso anche all’uso massiccio dell’esercito non vorrei pensare anche… provocatorio. Invece, bisognerebbe cogliere questa occasione per una seria riflessione sul giusto modello di sviluppo, sulla crescita…».

Fare marcia indietro, ammettere di aver sbagliato…

«E bisogna raccogliere tutti gli elementi. L’opposizione di tutto un territorio è un elemento che non può essere ignorato».

La devastazione dell’ambiente provocata da 15 anni di cantieri, un inferno di rumore e polvere 24 ore al giorno, priverà gli abitanti non solo del sonno e della salute, ma anche del contatto con la natura. La natura sarà sconvolta. Sarà impossibile contemplare. Non pensa che ci sarà anche un danno spirituale, quindi?

«Certamente. Un danno profondo, intimo. Abbiamo il diritto di contemplare la bellezza che Dio ci ha dato. Il diritto di camminare nei boschi, camminare sulle nostre montagne. E ci dicono che ne avremo dei vantaggi!».

Sì, qualcuno si è inventato anche che aumenterà il valore degli immobili!

«Sì, aumenterebbe il Pil locale… c’è proprio tutta una costruzione della bugia o comunque della non-verità».

Nella religione cristiana, la natura è considerata sacra oppure no?

«Uomo e Creato hanno la stessa origine e quindi per tutti e due valgono le stesse regole. Non possiamo trasformare la natura danneggiandola. Dobbiamo custodire il Creato, seguendo il principio che le trasformazioni sono per il bene dell’Uomo. Invece la storia dell’umanità è piena di trasformazioni del Creato a danno dell’Uomo. Siamo lontano da Dio quando facciamo questo.

Offendere il Creato è offendere Dio: questi sono veri peccati! Qui l’apporto delle comunità di credenti potrebbe essere importante. Qualcuno ha timore ad entrare nel merito. Ma, alla luce della parola di Dio, il rapporto Uomo-Creato, è un tema che ci appartiene totalmente».

Dobbiamo aprire questo discorso.

«Ci dicono che la chiesa non deve dare soluzioni tecniche. È ovvio. Ma esiste una premessa a tutto il discorso: la relazione degli uomini con il Creato e quindi con Dio, ripeto l’Uomo e il Creato hanno la stessa origine. Il Creato esce dalla mano, dal cuore, dal pensiero di Dio. Non possiamo fae quello che vogliamo secondo logiche economicistiche di sviluppo, di crescita…».

L’emergenza ambientale è planetaria. Sarebbe meraviglioso, un miracolo forse, se nascesse proprio un movimento planetario di difesa del creato. Potrebbe nascere un movimento di unificazione delle fedi religiose intorno al concetto di difesa del Creato? Tutti viviamo sulla stessa Madre terra. A tutti è stato dato il giardino dell’Eden.

«Non conosco bene la teologia su questo punto. Ma, come diceva lei, tutti viviamo sulla Madre Terra e da questo punto di vista tutti quelli che hanno questo riferimento possono ritrovarsi uniti e anche portare un contributo che supera le altre divisioni. Tutti siamo in una relazione fondamentale con Dio, ma non sulle nuvole. Qui, sulla Terra. Il Dio in cui crediamo, che veneriamo è il Dio che testimoniamo vivendo nella casa in cui ci ha posti. E noi la stiamo rovinando».

Don Ettore, non è che qui c’è la mano dell’Antagonista, di Satana?

«La tentazione di inseguire il progresso a ogni costo è sicuramente una tentazione di Satana: il mito della crescita infinita, l’idolo del denaro… E si rende un luogo invivibile, gli abitanti infelici… Bisogna fare una premessa grande sulla crescita sostenibile, sul vero sviluppo prima di parlare di progetti tecnici, ci vorrebbe una politica coraggiosa».

Anche la chiesa dovrebbe essere coraggiosa. Invece, il nostro vescovo, il nostro cardinale si astengono…

«Forse dovremmo aiutarli. Anche con Missioni Consolata, la vostra rivista. La chiesa piemontese potrebbe dare un contributo alla discussione sui temi che ci appartengono, la vita, il bene. Che non si pensi che c’è un “silenzio-assenso” della chiesa. La chiesa deve stare con il suo popolo, con i suoi poveri. E questi sono poveri, perché non hanno il potere».

Una cosa bella, che dà molta fiducia ai valsusini è proprio vedere i suoi sacerdoti alle marce, che si esprimono. È incoraggiante. Il pastore si occupa del gregge. Questo progetto è talmente devastante che porterà anche dei danni psicologici alle persone. La perdita del senso del futuro. La speranza. Non avere speranza nel futuro, è mortale.

«Non si può non ricordare quel bellissimo racconto di Peguy: la Fede è come una cattedrale, la Carità è come un ospedale. Ma se non si sveglia ogni mattina la piccola virtù della Speranza non serve a nulla. Ogni mattina devo potermi svegliare con la speranza. La mancanza di speranza uccide la vita».

Questa protesta significa che c’è ancora speranza. I valsusini sono portatori di speranza e quindi di vita.

«Sì. Questa gente ama la vita. È un popolo profondamente informato e non è affatto vero che è plagiato o strumentalizzato. Dal popolo viene un messaggio forte. E la chiesa deve sostenere questo messaggio. Coltivare spazi di riflessione. Dare spazio alla gente che non può più esprimersi se non con la protesta. Raccogliamo la loro sofferenza, i loro pensieri. E coltiviamo la virtù della speranza».

 

LA PAROLA A DON SILVIO, PARROCO DI CONDOVE

 

Appena iniziamo a parlare, don Silvio sottolinea l’amarezza di tutto il popolo valsusino. L’amarezza del non sentirsi ascoltato da chi avrebbe il dovere di farlo.

I sacerdoti, invece, sono vicini alla gente?

«La maggioranza dei sacerdoti è vicina alla gente, è vicina al problema. Di sacerdoti che partecipano alle marce, che si espongono siamo una decina.

Ieri, nella riunione di tutti i sacerdoti con il vescovo, ho proposto di portare il nostro contributo come chiesa a livello di preghiera e di riflessione. Vivere come credenti questo problema che si presenta come molto grave. Noi parroci temiamo per l’ambiente e per la salute. Temiamo che non ci siano le condizioni di vivibilità. Una valle stretta, già piena di infrastrutture.

Si realizzi il potenziamento della linea esistente, senza il megatunnel. Siamo anche preoccupati per le falde acquifere. Vedi la galleria Enel di Pont Ventoux, che avrebbe dovuto essere operativa dal 2000, ma non può entrare in funzione perché non riescono a gestire le perdite dalle falde».

Come intendete dare appoggio ai vostri fedeli?

«Certamente vogliamo farlo. Ma c’è una discussione sul come. Il vescovo non vuole che si intervenga esplicitamente, nel dire NoTav. Ma di fare interventi di preghiera per il bene della Valle. Dice che dobbiamo essere sacerdoti per tutti, sia quelli a favore sia quelli contro il Tav».

Il fatto è che i valsusini sono tutti contro…

«Sì, idealmente si può dire così. Auspicherei molto di fare un programma di interventi, come la veglia di preghiera a Foresto. Vorrei che diventasse una catena, che ci fossero tanti incontri. E credo che dovrà intervenire anche la forza di Dio per aiutarci. Non vorrei che si arrivasse a scontri violenti. La cosa bellissima è stata la correttezza con cui si è svolta la marcia del 16 novembre».

Sarebbe possibile celebrare delle messe, messe collettive, proprio nei luoghi dei sondaggi. Per esempio, nella chiesa di Venaus, il paese dove dovrebbero iniziare i lavori del megatunnel?

«Come ha ribadito ieri il vescovo, il sacerdote è collaboratore del vescovo e deve agire in comunione con lui».

Questa è proprio una regola?

«Altroché. Noi sacerdoti, se non siamo uniti al vescovo non possiamo fare niente. Proprio a livello sacramentale.

Cosa significa “a livello sacramentale”?

«Che se si spezza questo legame con il vescovo io non posso più celebrare la messa, non posso più essere parroco di una comunità. In quanto rappresento il vescovo in quella comunità».

Cosa è vietato a un sacerdote?

«Esporsi con dichiarazione con scelte di campo».

Ma lei come può non sentirsi contro questa devastazione, lei è anche un valsusino, vive in questa valle…

«Esatto. Io come valsusino posso dire quello che penso, ma non posso servirmi del mio ministero per far valere una certa idea, non posso nella mia predicazione esprimermi contro il Tav. Nella messa io aggiungo un’intenzione di preghiera che è “preghiamo per questa valle, per la grave situazione in cui si trova, chiediamo a Dio che ci aiuti a superare questo problema”. Non posso pubblicamente esprimermi contro il Tav e a favore del potenziamento della linea attuale, perché – come dice il cardinal Poletto – “noi non siamo dei tecnici”».

In realtà in questa valle siamo diventati tutti dei tecnici, ci hanno obbligato a diventarlo. Ci siamo informati molto bene sul progetto e sulle sue conseguenze. La protesta nasce proprio dall’informazione e non dalla non-informazione come vuol far credere la regione.

«Io confido molto nell’aiuto dall’Alto, da Dio, dalla Madonna del Rocciamelone. Che succeda qualcosa che li convinca che è una follia. Che è un delirio di onnipotenza. Queste grandi infrastrutture che stravolgono l’equilibrio della natura».

Ci sono emergenze ambientali su tutto il pianeta. Io sono convinta che in tutto questo ci sia la mano dell’Antagonista, l’antagonista del Creatore. Satana. Ma molti non vogliono pronunciare questo nome.

«No, no, io nelle mie omelie lo pronuncio. Molti temono di passare per retrogradi, di essere del medioevo, ma io credo che il Maligno stia operando proprio per distruggere il Bene e distruggere l’Uomo».

Allora in questo momento è importante credere.

«Sì, credere in Dio. E nei miracoli».

Paola Rando

Paola Rando




ECONOMIA – Quale economia? (1) Incontro con Serge Latouche


QUALE ECONOMIA? (prima puntata)

Insicurezza, crisi, precarietà, diseguaglianze.
porterà presto le loro idee ad aver ben più larga attenzione.

Incontro con il prof. Serge Latouche

SCHIAVI DEL MERCATO E DELLE SUE LEGGI

 

Francese, sociologo dell’economia ed epistemologo delle scienze sociali, Serge Latouche è stato professore universitario a Lille e a Parigi. Nei suoi lavori, l’economia è vista ed interpretata fuori dai consueti schemi, ormai consunti dalle contraddizioni e dai fallimenti di cui il mondo è pieno.
Esperto di rapporti Nord/Sud, Latouche ha incentrato la propria ricerca sul fallimento dello sviluppo (Il pianeta dei naufraghi), sulla deleteria uniformazione planetaria al modello occidentale (L’occidentalizzazione del mondo), sul recupero della società veacolare e del concetto di dono (L’altra Africa. Tra dono e mercato).
Da qualche anno in pensione, Serge Latouche ha oggi un’intensa attività di saggista e conferenziere.

Professore, siamo in un periodo storico di guerra continua e di recessione economica. Come siamo arrivati a tanto? Questo non è altro che il fallimento della globalizzazione neo-liberista?
«Molti pensano che questa sia una situazione nuova, ma di fatto è nuova solo apparentemente, perché da sempre il capitalismo porta alla guerra, come le nuvole portano la pioggia o l’uragano. Recentemente ho pensato a Giovanni XXIII, che è stato di certo un bravo papa, ma che nell’enciclica Populorum Progressio su un punto si è sbagliato. Papa Giovanni ha scritto: lo sviluppo è il nuovo nome della pace, mentre avrebbe dovuto scrivere: lo sviluppo è il nuovo nome della guerra».
Ecco, la guerra e lo sviluppo. C’è un nesso di causa ed effetto?
«Lo sviluppo economico esiste, nella sua prima accezione, dalla cosiddetta rivoluzione industriale inglese del 1750. Poi si è esplicitato nel secondo dopo guerra: la parola fu usata dal presidente Truman nel 1949. Da quel momento si è visto che l’economia capitalista (per fare il suo nome) è una economia periodicamente in crisi. Così, per superare queste fasi, deve sempre mettersi in guerra.
Tutte le fasi dello sviluppo sono collegate ad un conflitto. Un tempo c’erano le guerre coloniali, devastanti per i paesi che le subivano. Poi ci furono le due guerre mondiali, certo più complesse, ma pur sempre fatte per l’appropriazione di materie prime e sbocchi.
Oggi siamo alle guerre per il petrolio e tra poco a quelle per l’acqua, elemento necessario e prezioso ma sempre più raro. Basti pensare che gli Stati Uniti hanno già bisogno di importare miliardi di metri cubi di acqua dal vicino Messico, paese che pure non ha molte risorse idriche.
Gli scienziati del Pentagono hanno detto chiaramente che per questo modo di vivere le guerre sono un ingrediente indispensabile».
Secondo lei, è lecito parlare di «impero americano»? E se la risposta è sì, quanto durerà e come finirà, se mai finirà?
«La parola “impero”, che è di moda, è un po’ ambigua, perché si pensa sempre all’impero romano…».
Il paragone è quello, è vero…
«…ma un progetto come quello dell’impero romano non è possibile e non interessa gli Stati Uniti e le imprese transnazionali, perché un impero vero dovrebbe prendere in carico tutte le popolazioni, mentre l’amministrazione e i cittadini americani non vogliono assolutamente questo».
Al contrario, vogliono prendere le risorse degli altri stati…
«Vogliono che gli altri paesi siano sottomessi al potere americano e per fare questo devono avere una-due guerre permanenti, ma non vogliono costruire un impero, nel vero senso della parola. Non sono interessati a diffondere la vita americana concreta, ma soltanto la dominazione ideologia e il controllo sul mondo. In questa logica si può parlare di imperialismo, e quello americano è più forte che mai…».

Come si inserisce l’elemento terrorismo in questo contesto storico?
«Terrorismo è una parola molto facile da strumentalizzare, che fa impressione sulla popolazione perché c’è una realtà del terrorismo.
D’altra parte, questa logica politico-economica genera sempre più derelitti e, di conseguenza, carne da terrorismo».

Sta dicendo che il fenomeno si riprodurrà sempre di più?
«Naturalmente. È evidente che sarà così. Da questo punto di vista Bush ha ragione quando dice che siamo partiti per una guerra lunghissima, infinita. Perché la difesa del modo di vivere occidentale presuppone un’ingiustizia globale, sempre più forte che genera risentimento, povertà, miseria, e dunque un terreno favorevole al terrorismo».

Cecenia, Palestina, Iraq: il terrorismo suicida ha fatto scuola. Come si arriva a sacrificare la propria vita?
«Il terrorismo è sempre esistito, ma quello di oggi è effettivamente diverso. Come francese, ricordo la guerra in Algeria. Allora si parlava di terroristi algerini, ma erano gruppi costituiti per uccidere gli altri.
Al massimo, c’erano dei rischi da correre, ma non c’era la sicurezza di autodistruggersi. Oggi il kamikazismo è sistematico e, al medesimo tempo, più difficile da combattere. È stata creata una disperazione mai vista su scala planetaria e purtroppo sta allargandosi».

Lei ha analizzato i danni prodotti dall’«americanizzazione del mondo». Ma come si spiega che l’american way of life abbia avuto tanto successo?
«Questo non è un gran mistero. Dal cinema di Hollywood alla pubblicità, dai McDonald’s alla Coca-Cola tutto lavora per valorizzare l’american way of life. E poi, da che mondo è mondo, gli schiavi vogliono imitare i padroni…».

D’accordo, ma gli europei non sono così poveri. Eppure una parte di essi è attratta dall’american way of life…
«Per forza, da molto tempo noi facciamo parte della “megamacchina” americana. La gran parte delle imprese transnazionali sono americane e naturalmente si vede soltanto quella che è la punta dell’iceberg…».

Lei parla di «megamacchina». Il libro omonimo inizia così: «Siamo imbarcati su un bolide che marcia a tutta velocità ma ha perso il guidatore»…
«La “megamacchina” è l’organizzazione planetaria, che attraverso la combinazione di tecniche economiche e scientifiche, sociali e politiche, ha imposto il proprio dominio sul mondo, trasformando tutti gli aspetti della vita, anche quelli culturali.
Attraverso la globalizzazione, infatti, l’economia è entrata nella cultura o, peggio, ha preso il posto della cultura, con effetti distruttivi sulle culture tradizionali e sulle identità locali».

Il concetto è chiaro. Ma chi sta dietro la «megamacchina»?
«La “megamacchina” è anonima e senza volto, ma i suoi rappresentanti si chiamano G8, Club di Parigi, Fondo monetario internazionale, Banca mondiale, Organizzazione mondiale del commercio, Forum di Davos, Camera internazionale del commercio (potente organismo di cui non si parla mai)».

Oggigiorno, sembra che le crisi economiche siano sempre più lunghe e soprattutto sempre più frequenti… Gli economisti spiegano che i cicli ci sono sempre stati. I politici dicono che l’occupazione comunque aumenta, dimenticando di precisare che i nuovi occupati sono quasi totalmente lavoratori precari (loro dicono «flessibili»), sfruttati e sempre malpagati.
«Il problema della crisi economica generalizzata è che non ci sono più sbocchi: con la mondializzazione l’ultima frontiera è saltata. Fabbrichiamo sempre più beni di consumo, ma chi può comprarli?
Questa contraddizione ha potuto essere gestita per 50 anni, perché c’erano lo stato sociale nei paesi del Nord e una politica di sfruttamento dissennato della natura e dei paesi del Sud. Oggi la mondializzazione ha rotto questo modo di organizzazione e necessariamente la crisi è più forte.
D’altra parte, non dimentichiamo che il modo di vivere degli occidentali non è più sostenibile. Finora è stato possibile soltanto perché due terzi dell’umanità hanno accettato di vivere al di sotto del minimo».

Lei ha parlato dello «stato sociale». Secondo lei, perché si sta procedendo al suo smantellamento?
«Lo stato sociale è stato scalzato dalla mondializzazione del mercato. Attenzione, però. Gli stati non spariscono. Sparisce soltanto la loro possibilità di regolare l’economia, mentre resistono ed anzi si rafforzano gli strumenti repressivi in mano loro.
Naturalmente questo smantellamento è stato incentivato dalle imprese transnazionali e dai sostenitori della “megamacchina”, di cui abbiamo detto.
Se il progetto di un impero mondiale americano è destinato allo scacco, il progetto di controllo sociale rimane. Lo si vede anche in paesi, come la Germania e la Francia, che si sono opposti a Bush. Anche quei paesi attuano una politica intea di repressione e di controllo della popolazione, perché l’insicurezza e la crisi sono nel cuore di questo sistema economico e sociale».

Si è molto parlato negli ultimi anni dei movimenti civili e della società civile a livello mondiale (da Seattle a Porto Alegre) che lottano per un mondo diverso da quello in cui viviamo. Secondo lei, hanno un futuro o è una moda passeggera?
«Hanno un futuro di sicuro, perché anche da noi questo sistema diventa sempre più insopportabile. Ormai anche al Nord c’è distruzione dell’ambiente, c’è disuguaglianza, c’è povertà. Non è necessario andare al Sud…».

Dunque, i movimenti civili e mondiali hanno un futuro perché propongono un’idea diversa?
«Sì, hanno un futuro perché la protesta continuerà e sarà imponente. Nonostante gli stati siano diventati repressivi (con le leggi, con le forze dell’ordine, ecc.), questi movimenti continueranno a crescere».

E come singoli possiamo fare qualcosa di concreto? I nostri piccoli gesti quotidiani servono?
«Naturalmente. Ci sono molte cose da fare, ma debbono essere tutte in funzione dell’obiettivo. Dobbiamo partecipare ai movimenti, alle proteste, alla resistenza, già a livello mentale rifiutando di lasciarci colonizzare completamente dalla pubblicità dei media e dal “pensiero unico”. Dobbiamo – come sempre scrivo nei miei libri – “decolonizzare il nostro immaginario” e mettere al centro della nostra vita significati e ragioni d’essere diversi dall’espansione della produzione e del consumo.
Ogni piccola resistenza, anche apparentemente ridicola (come la mia per internet, il cellulare o l’auto), è utile».

Lei ha scritto che «siamo al centro di un triangolo i cui tre vertici sono: la sopravvivenza, la resistenza e la dissidenza». Potrebbe chiarire il concetto?
«Prima di tutto dobbiamo sopravvivere. Sopravvivere significa adattarsi al mondo nel quale viviamo, ma non significa che dobbiamo approvarlo né aiutarlo a funzionare, al di là della necessità.
Poi dobbiamo resistere. Dobbiamo ricordarci che siamo imbarcati su una “megamacchina” che fila a gran velocità senza pilota e che quindi è condannata a fracassarsi contro un muro. Resistere significa allora tentare di frenare, di cambiae la direzione, se è ancora possibile.
Dobbiamo infine pensare di poter lasciare il bolide e saltare al momento opportuno: questa è la dissidenza».

Passiamo a qualche proposta che possa aiutare a trovare un’alternativa economica, professore. Una delle parole che lei utilizza di più è «decrescita». Un termine che non esiste in alcun dizionario economico e che metterebbe i brividi in qualsiasi consesso…
«Sì, una delle mie parole d’ordine è decrescita.
Come facciamo noi occidentali a dire ai cinesi: se tutti voi volete una macchina, il pianeta verrà distrutto? È per questo che abbiamo il dovere di dare l’esempio: cominciamo noi a decrescere. Non facciamo come gli americani che a Kyoto dissero che i paesi del Sud devono diminuire le emissioni di gas inquinanti…
I paesi occidentali hanno il dovere di dare l’esempio, cambiando il modo di vivere. La decrescita, grazie alla riduzione delle dimensioni delle imprese, delle istituzioni e dei mercati, valorizza la dimensione locale, favorendo l’affermarsi di forme politiche partecipate e conviviali. In ultima analisi, la decrescita è una attitudine naturalmente etica, che ha un valore straordinario, perché dimostra che si può vivere felicemente, consumando molto meno».

Abbiamo parlato delle responsabilità degli Stati Uniti. E dell’Europa che si può dire?
«Noi abbiamo lo stesso modello economico e questo spiega la rabbia degli americani che dicono: noi andiamo a fare la guerra anche per voi, eppure voi fate obiezioni continue.
E, una volta tanto, non hanno tutti i torti. C’è una contraddizione nella posizione europea che continua a sostenere un modello di funzionamento economico quasi eguale a quello americano, ma non vuole accettae tutte le conseguenze».

Cosa dovrebbe fare l’Europa?
«Se vogliamo veramente costruire un’Europa come potenza autonoma, dobbiamo fare qualcosa anche dal punto di vista economico. Dobbiamo continuare a difendere il modello sociale e creare uno spazio economico autonomo».

Concretamente…
«È assolutamente necessario introdurre delle barriere protezionistiche per non distruggere quel che rimane del modello europeo e avere uno spazio di libertà.
Non c’è autonomia in un sistema completamente globalizzato. Come ha cinicamente detto Henry Kissinger, la mondializzazione è il nuovo nome della politica egemonica americana».

Dalle sue esperienze in Africa (Congo, Mauritania, Senegal), lei ha tratto uno dei suoi libri più noti: «L’altra Africa, tra dono e mercato». Se dovesse dire due parole sul continente africano, come lo descriverebbe?
«È difficile, perché è un continente di paradossi; un luogo tra i più disperati del mondo, eppure anche un luogo di speranza…
Statisticamente l’Africa non esiste più. Produceva il 2% del prodotto interno lordo mondiale quando scrissi quel libro ed era il 1997. Oggi la percentuale è scesa all’1%.
Settecento milioni di abitanti sopravvivono, ma non tutti sono disperati. Anzi, si vede la gioia di vivere, la speranza. Eppure, consumano molto meno di quanto sarebbe loro diritto».

Se qualcuno le chiedesse di disegnare un possibile futuro, positivo e ottimista, ce la farebbe?
«No, perché non penso ad un futuro, ma a diversi futuri. Sono, da questo punto di vista, più ottimista degli altri, perché credo che non ci sia un altro mondo possibile, ma altri mondi possibili. Lo stesso movimento no-global è un movimento tipicamente occidentale. Mancano i musulmani, mancano i cinesi, che sono più di metà dell’umanità. Ci sono – è vero – anche rappresentanti del Sud, ma quasi sempre sono occidentalizzati.
Per questo, non possiamo dire che il movimento no-global è “la società civile mondiale”. Siamo (anch’io mi ci metto) l’opposizione occidentale all’Occidente».

Scusi, ma dove sta allora l’ottimismo di cui parla?
«Penso al crollo di questo modello, che è già fallito. Penso a tutte le culture e a tutti i popoli che costruiranno questi futuri, tutti diversi, facendo una sintesi tra la tradizione perduta e la modeità inaccessibile».

Paolo Moiola

Box 1

Le spese militari nei primi 10 paesi (2003)

Paesi: Spese Spesa % su totale
militari (a) pro-capite (b) mondiale

Stati Uniti 417,5 1.419 47 %
Giappone 46,9 367 5 %
Gran Bretagna 37,1 627 4 %
Francia 35,0 583 4 %
Cina 32,8 25 4 %
Germania 27,2 329 3 %
Italia 20,8 362 2 %
Iran 19,2 279 2 %
Arabia Saudita 19,1 789 2 %
Corea del Sud 13,9 292 2 %

(a) Spese in miliardi di dollari Usa
(b) Spesa annuale in dollari Usa
Fonte: Sipri

Box 2

La spesa pubblica in Europa (2003): spesa pro-capite (in euro)

Paesi: Istruzione Sanità Assistenza Ambiente Difesa

UE 1129 1.625 1.558 144 429
Francia 1.356 1.918 1.754 208 608
Germania 1.062 2.000 2.049 126 370
U.K. 1.048 1.595 1.619 127 595
Italia 887 1.230 545 149 424

Fonte: Eurostat

Paolo Moiola




TAV – inchiesta Un progetto da oggi al… 2018 (almeno) (2)

TAV – articolo 2

UNA MENZOGNA LUNGA 53 CHILOMETRI

Le popolazioni della Val di Susa sono il simbolo di coloro
che vogliono vivere nel rispetto dell’ecosistema.
Nonostante la militarizzazione del territorio,
il movimento No-Tav rimane pacifico, consapevole, preparato. E deciso.

di Angela Lano

È una corsa, sempre più folle, al mito del progresso e dello sviluppo a ogni costo. È una corsa che si scontra con le risorse della terra e con la vita degli esseri viventi. È questo il vero conflitto di civiltà: l’egoismo rapace e distruttivo dei signori delle multinazionali e delle opere faraoniche e l’ecosistema.
Incontriamo Mario Cavargna, biologo con un master in ingegneria ambientale e in valutazione d’impatto ambientale.
Che possibilità ci sono, ad oggi, di svolgere l’opera del Tav in sicurezza?
"Per quanto riguarda l’amianto, ad oggi il problema è assolutamente irrisolto. Lo studio dei tecnici di Ltf (Lyon Turin Ferroviaire) parla di 1 milione e 150 mila m3 di rocce che possono contenee.
Tecnicamente, la loro proposta è stata: “Faremo dei mucchi da 500-1000 m3”, cioè cumuli grossi come una villetta. Poi ce lo diranno dove e come li porteranno via… Nelle pagine dei progetti relativi a questo tratto, non se ne parla. Addirittura, nella sintesi – che per la valutazione di impatto ambientale è il documento principe -, la parola amianto non viene più citata, probabilmente perché non sanno come fare. L’unica cosa che hanno saputo dire è: “Ma noi prenderemo precauzioni”, “Bagneremo”. Ma bagnare non significa eliminare l’amianto, significa soltanto che lo si fissa per terra. Ma quando l’acqua evapora, con il vento la polvere si risolleva. Altra precauzione: “Noi metteremo degli aspiratori nelle gallerie in modo che catturino la polvere. Poi deporremo tutto in sacchi”. È vero che rompendo la roccia si sollevano delle fibre, ma ciò accade anche quando, all’uscita dalla galleria, si scaricano i detriti, si fanno i mucchi, li si ricarica e li si tiene in stoccaggio. È un problema grave. Un progetto concreto non esiste: sarebbe necessario un capannone di 50 mila m2 che contenesse mucchi di 50-100 m3. Uno spazio abbastanza grande da accogliere l’equivalente di 2.000 villette. Non è semplice. E come li si copre? Con dei teli? Ma in questa valle, il vento, che soffia per metà dell’anno, li strapperebbe! Poi, comunque, questo materiale quando viene ripreso è nuovamente movimentato. Allora deve essere portato in qualche discarica. Ma dove? Quale? Non lo hanno mai detto".
Ma cosa dichiarano le valutazioni di impatto ambientale?
"Sono superficiali, non spiegano dove stoccheranno il materiale in modo definitivo. Lo “smarino”, contenendo rocce amiantifere frantumate, se viene collocato in posti esposti agli agenti atmosferici continuerà a liberare fibre. Non può stare all’aperto. Il danno mortale per la salute dell’uomo è conosciuto (si legga la prima puntata della nostra inchiesta)".
I giornali importanti non parlano di questi danni…
"È già tanto che parlino dell’amianto. Il fatto che si minimizzi o si sposti il problema significa che non si sa come gestirlo. Si cerca di dare l’illusione di avere tutto sotto controllo, perché la linea è quella di andare avanti con l’opera. Tecnici e politici si contraddicono a vicenda. Sono apprendisti stregoni che non hanno seguito bene il corso di magia".
Ma politici ed amministratori pubblici non dovrebbero avere a cuore gli interessi dei cittadini che rappresentano?
"Per favore… Quella del Tav è una “grande opera” con un giro di soldi immenso".

Spiega il teologo Leonardo Boff in Grido della terra, grido dei poveri: "Si è creato il mito dell’essere umano come eroe scopritore e colonizzatore, Prometerno indomabile, con le sue opere faraoniche. (…) Nell’atteggiamento di essere al di sopra delle cose e al di sopra di tutto risiede, a quanto pare, il meccanismo fondamentale della crisi attuale della nostra civiltà. Qual è la suprema ironia ai nostri giorni? Esattamente questa: la volontà di dominare su tutto sta facendo di noi dei dominati e assoggettati agli imperativi di una terra degradata. L’utopia di migliorare la condizione umana ha peggiorato la qualità della vita. Il sogno di una crescita illimitata ha prodotto il sottosviluppo dei due terzi dell’umanità; la voluttà di una utilizzazione ottimale delle risorse della Terra ha portato all’esaurimento dei sistemi vitali e alla disintegrazione dell’equilibrio ambientale".

(continua)

Angela Lano