TAV – inchiesta Parola di economista

TAV – approfondimento economico

TANTO PAGA LO STATO, CIOÈ I CITTADINI

Le "grandi opere" servono alla propaganda e vivono di propaganda.
Accanto ai presunti benefici ci sono i costi, certi ed enormi.
Chi li paga? Sulla base di un meccanismo tanto complesso quanto ingegnoso ("creativo") a pagare sono sempre e soltanto i cittadini.
Che debbono anche ringraziare…

di Oscar Margaira (*)

 

Le «grandi opere» sembrano essere vere e proprie «cartine di tornasole» per misurare mediaticamente la grandezza di un paese, la sua supposta capacità economica, tecnica, gettuale e forse perfino «spirituale», quasi si trattasse di un avvicinamento al Supremo, a Dio. Esse servono alla propaganda e vivono di propaganda. Il più delle volte, almeno progettualmente, crescono in simbiosi con l’immaginario collettivo che viene continuamente stordito e sobillato da immagini virtuali di benefici astratti quali «a Parigi in due ore», «viaggerai dentro le montagne e sotto ai mari a 300 all’ora», oppure, nel caso del Concorde, «arriverai a New York tre ore prima dell’ora in cui sarai partito».

 

Che ne sarà della Valle dei Celti?

Se realizzare l’Alta velocità/capacità a fianco dell’autostrada per Milano, fino a Settimo Torinese, alle porte di Torino, in territori pianeggianti e relativamente poco abitati, era abbastanza semplice, almeno in teoria (poi si scopriranno viadotti che crollano, traffico in tilt, deviazioni stradali da incubo), attraversare il territorio dell’hinterland torinese ed infilarsi per la prima volta in una stretta valle alpina di origine glaciale bucandone le montagne con gallerie, è tutt’altra faccenda.

Geograficamente la nostra valle è «compressa», stretta tra le montagne con un territorio vincolato già oggi da tre direttrici stradali parallele – l’autostrada e due statali -, un fiume e la linea ferroviaria internazionale Torino-Modane che corrono nella stessa direzione, numerosi torrenti perpendicolari al fiume di cui sono affluenti, due linee elettriche ad alta tensione provenienti dalla Francia, strade minori provinciali e comunali che collegano i 23 comuni valsusini. Sessantacinquemila abitanti, case, capannoni, fattorie, fabbriche, interporti, parcheggi, sparsi, anzi concentrati, nello stretto fondovalle.

Il nostro minuscolo lembo di terra, che vorrebbero colonizzare con nuove quanto inutili grandiose ferrovie, è da sempre «ai confini del regno» (se escludiamo il periodo dei Savoia). Non per nulla proprio qui vivevano i Celti di re Cozio, poi denominati più comunemente «Galli» da Giulio Cesare. In epoca romana, nel mezzo della valle, ma non lontano dalle pendici del monte Musinè (oggi famoso per le sue rocce pericolosamente amiantifere), esisteva una grande area di confine, denominata «Statio ad Fines»: proprio qui finiva il territorio controllato da Roma. Sarà un caso, ma sempre in questa zona, anche oggi, rischia di finire l’impresa delle Fs, Rfi, Tav appoggiata dalle lobby affaristiche dei costruttori e del cemento armato.

 

Il soggetto-chiave: il «General contractor»

L’introduzione della Legge obiettivo, la 443/2001 e Dl 190/2002, da parte del governo Berlusconi e del suo ministro delle infrastrutture, dà vita a un dinosauro economico chiamato «General contractor», cioè una mega-impresa a cui è affidato dallo stato il compito di decidere tutto: progettazione, affidamenti, appalti, direzione lavori, esecuzione e collaudo. La legge è stata giustificata col fatto che avrebbe «velocizzato gli iter procedurali» delle opere pubbliche, specie di quelle «grandi»: di fatto, ha cambiato radicalmente le regole di progettazione e di approvazione delle stesse.

Ne consegue che la Valutazione di impatto ambientale (Via) è effettuata su un progetto preliminare dell’opera (non più definitivo), ma il parere emesso non è più vincolante come prima: anche se la Commissione Via negasse il parere favorevole, l’opera potrebbe avere comunque inizio.

Dalla legge-delega sulle infrastrutture, la 166/2002, nasce il «Projet financing»: il privato realizza l’opera pubblica con capitale proprio o più spesso bancario (prestito); l’amministrazione pubblica, priva di risorse, per «compensare» il privato costruttore gli fa gestire l’opera permettendogli di ottenee degli introiti, ad esempio incassando un affitto sull’opera costruita, per un certo numero di anni (concessione).

La vera novità è stata, in realtà, la Legge salva-deficit (la 112/2002) che ha permesso la costituzione di due nuove società pubbliche, ma di diritto privato: la Patrimonio Spa e la Infrastrutture Spa. Patrimonio Spa, nelle intenzioni dei «creativi», è un contenitore che permette di «valorizzare i beni dello stato», vendendo quelli disponibili e affittando o cedendo in «concessione» quelli indisponibili. Facendo ciò si sarebbero ottenuti, secondo alcuni esperti, i mezzi economici da dare in garanzia alle banche che avrebbero successivamente concesso i finanziamenti per le Grandi opere all’altra società, la Infrastrutture Spa.

Dunque, il General contractor progetta e costruisce l’opera, ma senza rischi: sa che non dovrà ricavarci i soldi spesi, perché questi sono interamente pagati e garantiti dallo Stato. Non ci si potrà stupire, dunque, se il General contractor spingerà a far durare il più possibile i lavori e a far lievitare al massimo i costi. Inoltre, il General contractor, a differenza del concessionario tradizionale di lavori o servizi pubblici, potrà agire in regime privatistico: potrà affidare i lavori a chi vorrà, anche a trattativa privata, e qualunque cosa faccia non sarà mai perseguibile per corruzione.

I soldi arriveranno in parte dallo stato (40%), per il resto dai «privati». I privati saranno consorzi di banche che, in Project Finance, presteranno il denaro, ovviamente dietro congruo interesse. A questo punto, con quei capitali la società Infrastrutture Spa potrà appaltare i lavori dell’opera ai General contractors con un contratto privatistico.

Lo stato, per anni, dovrà pagare un debito «occulto», che non sarà iscritto in bilancio e non inciderà nel calcolo dei parametri del Patto di stabilità. Alla fine, però, i soldi dovranno essere restituiti agli istituti di credito. E di colpo si aprirà una voragine, capace di affondare l’Italia e i suoi cittadini-contribuenti.

 

(*) Adattamento da «Adesso o mai più», Edizioni Del Graffio.
Oscar Margaira, vicepresidente di Legambiente Valsusa, abita in valle.

Oscar Margaira




TAV – inchiesta Parola di geologo

TAV – approfondimento geologico

LA SOLA CERTEZZA È… L’INCERTEZZA

Francesi contro valsusini?
No, perché non si possono paragonare territori tanto diversi.
Sondaggi sicuri? Occorrerebbe perforare tutto il massiccio d’Ambin.
No, il Tav non supera l’esame di geologia. 

Nei tanti articoli giornalistici e nelle dichiarazioni di politici e amministratori regionali e nazionali si porta spesso l’esempio della Francia, come se i francesi fossero i buoni che accettano le grandi opere e di conseguenza il progresso. Il contrario delle popolazioni della Val Susa…
"I due territori sono molto diversi fra loro: anche solo la densità di popolazione è inconfrontabile. Inoltre, a livello di conformazione orografica i due versanti differiscono: la Valle di Susa è stretta, mentre la parte francese è costituita da valli più aperte. Un’opera del genere, da noi, ha un impatto ambientale e sociale di notevole entità. Non dimentichiamoci che la Valle di Susa è già densamente antropizzata, per ragioni storiche legate alla sua conformazione di “corridoio”: vi passano 2 strade statali, un’autostrada, una ferrovia, un elettrodotto (il potenziamento del quale è in corso di progetto)".

Affrontando il discorso della conformazione geologica dei massicci che il tracciato Tav dovrebbe attraversare, tecnici e politici parlano di “strati rocciosi diversi” e affermano che il tunnel potrebbe passare in quelli dove non vi sia presenza di amianto-uranio. Lei che ne pensa?
"Sarebbe possibile, se ci trovassimo in terreni sedimentari, ma le sequenze attraversate dalle gallerie non si presentano a strati, trattandosi di rocce metamorfiche. Come tali, sono piegate, fagliate e deformate più e più volte. Nel momento in cui si scava una galleria della lunghezza annunciata e nella complessa situazione del massiccio d’Ambin, non si sa che cosa si andrà a trovare. Il grado di incertezza, in terreni geologicamente così complessi, è sempre elevato. I dati preliminari saranno foiti dalla realizzazione delle gallerie di prova, ovvero dai sondaggi, eseguiti prima di procedere allo scavo principale, con il fine di conoscere la situazione geologica, strutturale, geotecnica, nonché di sicurezza. Ricordiamoci che i sondaggi vengono effettuati anche in situazioni geologiche “semplici”, ma sempre nell’ambito dello stretto necessario, visti i costi elevati che comportano. Ricordiamoci che le fibre di amianto non sono riconoscibili ad occhio nudo, per una banale questione di dimensioni (ovvero qualche millesimo di millimetro), così come non lo è la radioattività di un minerale… E ricordiamoci, ancora, una delle malattie storiche legate alla manipolazione di rocce cristalline (come appunto quelle tipiche del massiccio d’Ambin): la silicosi. Per quanto riguarda la tutela della popolazione, quindi, ritengo difficile che le tecniche di aspirazione esistenti, le evidenti necessità di contenere i costi economici e le “prassi” mediamente adottate nella gestione dei cantieri, riescano a garantire i requisiti di sicurezza. Per tutto questo, non è una questione di “strati rocciosi diversi”".

Tra le tecniche di sicurezza proposte compare quella di “bagnare la galleria” per non fare sollevare le eventuali polveri di amianto o uranio.
Ride e poi risponde: "E quindi di trasferire il problema da un’altra parte? Bagnare la roccia, secondo me, non ha senso: se si portano fibre di amianto in acqua, quando questa evapora, sono di nuovo libere".

Mi sembra di capire che, a suo avviso, non ci sono i pre-requisiti per un lavoro in sicurezza…
"Esatto".

Una risposta lapidaria…
"Non c’è scampo. Manca la fattibilità tecnica ed economica per procedere in sicurezza".

Ma come la mettiamo con tutte le rassicurazioni di cui ci parlano, di nuovo, politici ed esperti delle amministrazioni favorevoli all’opera?
"Non sono avvalorate da serie ricerche scientifiche. Nella geologia, il grado di incertezza è sempre molto alto, perché parliamo di profondità della terra, di “luoghi che non si vedono”. Riuscire a dare delle certezze in questa materia vuol dire raccontare per forza delle bugie. O si perfora tutto il massiccio d’Ambin per l’intero tracciato e si esegue un enorme numero di sondaggi, che eleverebbero i costi alle stelle (perché i carotaggi in rocce cristalline sono costosissimi) oppure si rimane con un grado di incertezza elevatissimo. È dunque più saggio ammettere che esiste questo altissimo livello di incertezza, piuttosto che dichiarare, non realisticamente, che la salute dei cittadini non verrà messa in pericolo".

Nonostante la grande quantità di articoli giornalistici sul problema Tav, di tutto ciò si parla ben poco. Come mai?
"Esiste una questione di ordine economico: quando un’opera si “deve” fare, si procede anche se comporta costi ambientali, sociali, umani, finanziari enormi. Le ragioni politiche ed economiche superano quelle della logica e della scienza. In Italia, a differenza della Francia, abbiamo un modo opposto di affrontare i progetti: la Francia ha una fase progettuale lunghissima e una di realizzazione molto breve; l’Italia, il contrario. Per riuscire a far passare questi progetti contro la volontà delle popolazioni locali (perché non vengono investiti sufficienti fondi negli studi e nelle ricerche sulle condizioni delle opere), il modo migliore è quello di negare i problemi o di presentarli come facilmente risolvibili. È l’unica strada per tacitare le opposizioni".

Quanto lei afferma è estremamente allarmante. Sembra di essere nelle mani di gente senza scrupoli…
"Credo che sia proprio così".

(intervista a cura di Angela Lano e Paolo Moiola)


a cura di Angela Lano e Paolo Moiola




TAV – inchiesta Un progetto da oggi al… 2018 (almeno) (1)

TAV- articolo 1

QUELLA FERROVIA «S’HA DA FARE»…

Una comunità lotta contro un’opera che distruggerà per sempre un’intera valle
e sconvolgerà la vita dei suoi abitanti. Un progetto dannoso (per la salute, l’ambiente, la vivibilità), inutile e costosissimo, eppure in tanti – anche tra i mezzi
d’informazione – lo sostengono.
Vincerà la volontà dei cittadini o l’arroganza del potere?

Il 31 ottobre 2005 verrà ricordato a lungo nella Valle di Susa come una storica giornata di lotta popolare in difesa del territorio e dei suoi abitanti. Alle 4 del mattino, come tanti Robin Hood, centinaia di valligiani con i loro sindaci si sono inerpicati tra i boschi del massiccio del Rocciamelone, nei pressi di Mompantero, per costruire barricate di sassi e tronchi ed impedire l’accesso ai terreni interessati dai lavori per la linea ad Alta velocità Torino-Lione, più nota come Tav.
Verso le 6, sono arrivate le forze dell’ordine, a centinaia, ma per ore sono state fermate dalla barriera umana creata da donne, bambini, giovani, vecchi partigiani, che cantavano "Bella ciao" e l’"Inno di Mameli". Una battaglia determinata ma pacifica tra le montagne della resistenza partigiana, a cui carabinieri e polizia, in tenuta antisommossa, protetti dagli scudi e dai caschi, ad un certo punto hanno risposto con le manganellate e le spinte. Qualcuno tra i manifestanti è anche finito all’ospedale, qualcun altro in caserma.
Quando, a sera, i "Robin Hood anti-Tav", ormai sicuri di aver vinto la prima battaglia, sono scesi dalle mulattiere, tra gli applausi e gli abbracci di chi era rimasto a valle, è arrivata la beffa: nuove forze dell’ordine hanno sostituito i colleghi ed occupato le postazioni. La delusione non ha però scalfito la determinazione della popolazione, che il giorno successivo, festa di Ognissanti, si è ritrovata a manifestare seguendo le regole delle resistenza pacifica nonviolenta. È stato un successo clamoroso di partecipazione, un momento appassionante, un’occasione per spiegare i perché di questa lotta ad oltranza.
Venaus, Val di Susa. Giugno 2005. Trentamila persone si sono ritrovate insieme per dire "no" alla ferrovia Torino-Lione. Dalla cittadina di Susa a Venaus, il lunghissimo corteo ha marciato per tre chilometri e mezzo nell’afa di una giornata di tarda primavera piemontese. Tante le famiglie con bambini piccoli nel passeggino o in bici, le associazioni ambientaliste, sindacali, culturali, i sacerdoti, i ragazzi, i sindaci della Valle, la Caritas provinciale.
Una risposta di massa, tranquilla, pacifica e molto determinata, a un progetto voluto da politici e gruppi industriali, che avrà, così sostengono scienziati, medici, economisti e amministratori locali, costi altissimi sia a livello economico sia di rischio ambientale e sanitario.
Una lotta coraggiosa, che va avanti da oltre quindici anni, ma che da un paio ha assunto una connotazione di "massa". Non un pugno di montanari anti-progresso e ignoranti, come sono stati definiti, ma un popolo consapevole, informato, che vuole vivere e continuare a far crescere i propri figli in una valle salubre, senza la paura di morire di mesotelioma pleurico causato dalle inalazioni delle invisibili fibre d’amianto, estratto dalle rocce perforate per i tunnel della Tav.
La grande novità e la ricchezza morale e culturale dell’opposizione all’Alta velocità valsusina è la creazione di un movimento trasversale alle ideologie politiche e ai partiti. Una democrazia partecipativa, dal "basso", dove tutti contano nello stesso modo, dove il dialogo e il confronto sono continui e le decisioni sono prese attraverso assemblee pubbliche.
I presidi, luoghi di vigilanza, discussione e incontro (trasformatisi, nei mesi, da "accampamenti" a vere e proprie casette, con cucine, frigoriferi, tavoli, ecc.), sono nati sulle aree interessate dai sondaggi: Borgone, Bruzolo, Venaus. Nei primi due sono previsti dei carotaggi per valutare l’impatto dell’opera sul terreno; a Venaus si tratta di un vero tunnel di servizio, lungo 9 km e largo 6 metri. Una truffa che, facendo passare per "sondaggio" geognostico quest’opera, ha potuto evitare l’esame della valutazione ambientale, ottenendo immediatamente il finanziamento europeo.
Il movimento ha dunque deciso di presidiare questi terreni, avvicendandosi nei tui, giorno e notte. Per tutta l’estate, centinaia e centinaia di persone si sono ritrovate a mangiare insieme – condividendo cibi e bevande -, a cantare, ballare, discutere, giocare, pregare. A Borgone, area che ospita il sito "Maometto", di notevole interesse archeologico, è stato costruito un altarino alla Madonna del Rocciamelone – da sempre la montagna sacra delle Valli di Susa – e in più occasioni sono stati organizzati momenti di preghiera multireligiosa.
L’aria di lotta civile pacifica, gandhiana nella forma e nei contenuti, che si respira, è entusiasmante per chiunque si avvicini: è un qualcosa di inconsueto, ormai, per il nostro paese, dove i più sono abituati ad accettare passivamente qualsiasi decisione (tranne quando si tratti di calcio!) che vada a detrimento del diritto, della qualità della vita e delle speranze future .
Televisioni, quotidiani, riviste ad alta tiratura e di "tendenza" stanno facendo opera di "disinformazione mediatica", rifiutando di evidenziare la voce di tecnici ed esperti che si oppongono al progetto, e quella degli abitanti. Sembra che in alcune redazioni, addirittura, transitino rappresentanti di partiti per suggerire le "dritte" ai giornalisti, a dire, cioè, cosa e come si deve rispondere.
Alla democrazia partecipativa, la politica ufficiale risponde con l’arroganza e con il muro dell’omertà. Come a sottolineare che le esigenze e le legittime richieste delle amministrazioni locali non sono da tenere in reale considerazione. Il "macro" che ancora una volta si scontra con il "micro". In Valle di Susa come nel Mugello, a Roma e Napoli come in Sicilia, in India come in Brasile.
"Non si può realizzare una grande infrastruttura come l’Alta velocità ferroviaria Torino-Lione ignorando il parere contrario di 40 enti locali e l’opposizione di tutta la popolazione locale – sottolineano al Wwf -. Così avviene in Piemonte come in Veneto e in Friuli, dove si vorrebbero aprire i cantieri per la realizzazione delle varie tratte della direttrice est-ovest del cosiddetto Corridoio 5 (con un costo stimato di circa 28 miliardi di euro)".
Il climatologo Luca Mercalli aggiunge: "Agli inizi del XXI secolo sarebbe più opportuno ragionare nei termini della "bassa velocità" e dell’"alta qualità". Il progetto dell’alta velocità ferroviaria necessita, infatti, di un consumo di materie prime, suolo, energia, sproporzionato rispetto al risparmio di pochi minuti sui tempi di percorrenza. Il vero progresso deve puntare sulle vie rinnovabili. È qui che scienza, economia e politica si devono alleare".
Nicoletta Dosio, insegnante di storia e rappresentante storica dei "comitati no Tav", sottolinea come l’opposizione popolare sia anche indirizzata contro un certo modello di sviluppo fondato sulla distruzione degli ambienti naturali e umani e su "grandi opere", inutili e nocive.
L’illusione della crescita infinita, dunque, che sfrutta le risorse naturali e umane, e che sta facendo soffocare di rifiuti, fumi, inquinamento, scarti industriali, il pianeta. E affama interi continenti. Reitera e amplia le ingiustizie sociali e politiche. E scatena rabbia e disperazione.Ma perché i valsusini si oppongono a questa "grande opera"? Perché temono gli effetti devastanti prodotti dalla movimentazione di rocce amiantifere, contenute in un grande massiccio geologico che si estende per diversi chilometri (e che unisce bassa Val Susa e Valli di Lanzo), le cui polveri, respirate (ed è impossibile non respirarle), provocano una forma tumorale che non dà scampo. "Sono determinata a far sì che i miei figli possano vivere in una valle non pericolosa – afferma Roberta, una giovane mamma di due bimbi piccoli -. Questa zona è già stata abbastanza devastata da autostrade e altre grandi strutture". "Le informazioni sanitarie che stanno circolando grazie a un documento firmato da 80 medici di base della Valsusa – le fa eco un’altra signora, Rossana, mentre spinge un passeggino -, sono davvero allarmanti: si parla di mesotelioma pleurico, che uccide in nove mesi, provocato dalle polveri di amianto, e di linfomi, causati dall’uranio. C’è poco da star tranquilli. Come mai i politici non sono interessati alla nostra salute e alla sopravvivenza in questi territori?".
Il 5 novembre una fiaccolata di 15 mila "sfaccendati" ha sfilato per le strade di Susa, in un silenzio composto e rispettoso, senza slogan e senza bandiere di partito. Sfaccendati, appunto, come sono stati definiti dal ministro Pietro Lunardi.
Lunardi, intervenendo a un convegno sull’Alta velocità nel mondo organizzato presso la Fiera Milano, aveva dichiarato: "Non ci impressionano le fiaccolate di gente che non sa come passare il tempo e che forse potrebbe investirlo in modo migliore". Il ministro (familiare degli azionisti di maggioranza della Rocksoil, importante società di geo-ingegneria per la progettazione di gallerie) non è stato l’unico a sparare bordate contro il popolo no-Tav: politici, imprenditori ed economisti si sono alternati in affermazioni dure sulla protesta popolare e l’opposizione all’Alta velocità.
In quegli stessi giorni di novembre vengono rinvenuti – come prevedibile! – un volantino inneggiante alle Br e un pacco bomba (confezionato per non dover esplodere) destinato ai Carabinieri. Quest’ultima notizia ha riempito spazi enormi su quotidiani e Tv, offuscando le attività di "resistenza civile passiva" delle popolazioni. Quale migliore pretesto che una bomba o il terrorismo per gettare ombre su un movimento distantissimo da vocazioni violente? In alcuni Tg, la lotta no-Tav è stata infatti astutamente accostata, attraverso commenti ed immagini, al pericolo del terrorismo e della sovversione. Un’operazione vergognosa, poco consona ad una democrazia.

Angela Lano
(continua)

Angela Lano




TAV – inchiesta I luoghi comuni sul TAV

TAV – Spunti di riflessione

 

• Luogo comune n. 1

SENZA LA TORINO-LYON

IL PIEMONTE SAREBBE ISOLATO DALL’EUROPA.

In realtà, il Piemonte è già abbondantemente collegato all’Europa e soprattutto attraverso la Valle di Susa. In questa valle esistono già due strade statali, un’autostrada e una linea ferroviaria passeggeri e merci a doppio binario. Esiste perfino la cosiddetta autostrada ferroviaria (trasporto dei TIR su speciali treni-navetta).

Sono tutte linee di collegamento con la Francia attraverso due valichi naturali (Monginevro e Moncenisio) e due tunnel artificiali (Frejus ferroviario e autostradale). Il tutto in un fondo-valle largo in media 1,5 km! A fatica ci sta anche un fiume, la Dora Riparia, che di tanto in tanto va in piena…

 

• Luogo comune n. 2

LE LINEE FERROVIARIE ESISTENTI SONO SATURE.

In realtà, l’attuale linea ferroviaria Torino-Modane è utilizzata solo al 38% della sua capacità. Le navette per i TIR partono ogni giorno desolatamente vuote. (Ma sono state riscoperte e prese d’assalto nel periodo di chiusura del Frejus per incendio). Il collegamento ferroviario diretto Torino-Lyon è stato soppresso per mancanza di passeggeri. E il flusso delle merci – previsto da chi vuole l’opera in crescita esponenziale – è invece sceso del 9% nell’ultimo anno!

 

• Luogo comune n. 3

LA TORINO-LYON È INDISPENSABILE

AL RILANCIO ECONOMICO DEL PIEMONTE.

In realtà è vero il contrario. Togliendo risorse (è tutto denaro pubblico) alla ricerca, all’innovazione e al risanamento dell’industria in crisi profonda (Fiat e non solo), il TAV sarà la mazzata finale all’economia piemontese.

 

• Luogo comune n. 4

IL TAV TOGLIERÀ I TIR DALLA VALLE.

In realtà, tanto per cominciare, i 10/15 anni di cantiere necessari a costruire la Torino-Lyon porteranno sulle strade della Valle e della cintura di Torino qualcosa come 500 camion al giorno (e alla notte) per il trasporto del materiale di scavo dai tunnel ai luoghi di stoccaggio. Con grande aumento di inquinanti e polveri. Finita la apocalittica fase di cantiere e realizzata la Grande Opera, chi ci dice che le merci passeranno dall’autostrada alla nuova ferrovia? Anzi. I promotori dell’opera e recenti studi di ingegneria dei trasporti ci dicono che solo l’ 1% dell’attuale traffico su gomma si trasferirà sulla ferrovia. Bel vantaggio!

 

• Luogo comune n. 5

I VALSUSINI SONO EGOISTI.

NON PENSANO AGLI INTERESSI DELL’ITALIA.

In realtà, attraverso la Valle di Susa, attualmente, passa già il 35% del totale delle merci che valicano le Alpi! Lungo l’Autostrada del Frejus passano circa 4.500 TIR al giorno, contro i 1.500 del Monte Bianco, in Val d’Aosta, dove il numero dei TIR è stato limitato per legge.

 

• Luogo comune n. 6

LA TORINO-LYON PORTA LAVORO AI PIEMONTESI.

In realtà, come già sta succedendo per tutte le infrastrutture in corso, si tratterebbe di lavoro precario, per mano d’opera in gran parte extracomunitaria. Inoltre le ditte appaltatrici si porterebbero tecnici e operai dalla loro Regione (ditte e buoi dei paesi suoi). Per i comuni della Valle di Susa e della cintura di Torino arriverebbe invece un bel problema: la mafia.

Turbative d’asta sono già state individuate per la fase di sondaggio geologico a carico di uomini politici piemontesi e non… figurarsi per la realizzazione dell’opera!

 

• Luogo comune n. 7

LA LINEA E’ QUASI TUTTA IN GALLERIA. CHE MALE FA?

In realtà, fa malissimo. Il tracciato prevede una galleria di 23 km all’interno del Musinè, montagna molto amiantifera. La talpa che perforerà la roccia immetterà nell’aria un bel po’ di fibre di amianto. Invisibili e letali. Il vento le porterà dappertutto. Il föhn le porterà fin nel centro di Torino. Respirare fibre di amianto provoca un tumore dei polmoni (mesotelioma pleurico) che non lascia scampo. L’amianto è un materiale fuori legge dal 1977. Scavare gallerie in un posto così è illegale e criminale.

E ancora: il tunnel Italia-Francia di 53 km scavato dentro al Massiccio dell’Ambin incontrerà (oltre a falde e sorgenti che andranno distrutte) anche roccia contenente uranio.

E ancora: una linea in galleria si porta appresso tante gallerie minori, trasversali a quella principale. Si chiamano gallerie di servizio, o più simpaticamente, «finestre». Ce ne saranno 12! Con altrettanti cantieri, tutti a ridosso di centri abitati. Sarà un inferno di rumore, polvere, camion avanti e indietro per le strette vie dei paesi, di giorno e di notte, per 15 anni almeno.

E ancora: la perforazione di tratti montani così lunghi vicino a centri densamente abitati potrà prosciugare le falde idriche e gli acquedotti, come accaduto per le gallerie TAV del Mugello, oggetto di processi per disastro ambientale.

E ancora: la viabilità sarà stravolta. Verranno costruiti sovrappassi in corrispondenza di ogni cantiere. Forse queste nuove strade saranno calcolate come compensazioni all’impatto ambientale dell’opera? (Per avee una vaga idea, farsi un giro sull’autostrada Torino-Milano osservando i guasti della tratta TAV Torino-Novara).

 

• Luogo comune n. 8

QUEST’OPERA FA BENE ALL’ECONOMIA,

PERCHÉ METTE IN MOTO CAPITALI PRIVATI.
In realtà, il costo stimato di 20 miliardi di euro è tutto a carico della collettività. Tutto denaro pubblico, ma affidato a privati, secondo la diabolica invenzione del general contractor. Garantisce lo Stato Italiano. Nessun privato ci metterà un euro, soprattutto dopo l’esperienza del tunnel sotto la Manica che ha mandato in fallimento chi ne aveva acquistato i bond.

I tantissimi soldi che servono a quest’opera verranno tolti alle linee ferroviarie esistenti (già disastrate), a ospedali, scuole, e a tutti i servizi di pubblica utilità, e allo sviluppo delle energie rinnovabili destinate a sostituire il petrolio.

E ancora: è già previsto che la nuova linea ferroviaria Torino-Lyon avrà altissimi costi di gestione e che sarà in perdita per decine e decine di anni.

E ancora: nonostante la maggior parte del tracciato sia in territorio francese, il governo italiano si è impegnato a sobbarcarsi il costo dei due terzi della tratta internazionale (Borgone – St.-Jean-de-Maurienne). Tanto paghiamo noi.

 

• Luogo comune n. 9

CHI È CONTRO LA TORINO-LYON È CONTRO IL PROGRESSO.

In realtà, è vero il contrario. Il progresso non deve essere confuso con la crescita infinita. Il territorio italiano è piccolo e sovrappopolato, le risorse naturali (acqua, suolo agricolo, foreste, minerali) sono limitate, l’inquinamento e i rifiuti aumentano invece senza limite, il petrolio è in esaurimento.

Progresso vuol dire comprendere che esistono limiti fisici alla nostra smania di costruire e di trasformare la faccia del pianeta. Progresso vuol dire ottimizzare, rendere più efficiente e durevole ciò che già esiste, tagliare il superfluo e investire in crescita intellettuale e culturale più che materiale, utilizzare più il cervello dei muscoli.

Il TAV rappresenta l’esatto contrario di questa impostazione, è un progetto vecchio e ormai anacronistico, che prevede una crescita infinita nel volume del trasporto merci (che poi saranno i rifiuti di domani), privilegia come valore solo la velocità e la quantità, ignora la qualità, ovvero se e perché bisogna trasportare qualcosa.

 

A cura del Movimento NO TAV

Movimento NoTav




TAV – inchiesta Parola di medico

TAV – approfondimento medico

L’AMIANTO CONTINUERÀ AD UCCIDERE

Si chiamano "mesotelioma pleurico", "asbestosi", "cancro polmonare".
Sono i fatali regali che l’amianto fa a chi si trova esposto,
anche indirettamente, alle sue fibre.
Un problema che in troppi fingono di non vedere.


di Roberto Topino (*)

L’amianto ha mietuto e mieterà decine di migliaia di vite umane (in massima parte lavoratori). Le stime dell’Ispesl parlano di altri 15 mila morti, solo per il mesotelioma pleurico, per i prossimi 15 anni ed il picco è atteso intorno al 2017. Dati più recenti parlano di 20 mila morti nel 2020; se si aggiungono i casi di cancro polmonare e l’altrettanto mortale asbestosi, si arriva a numeri da ecatombe.
Com’è noto, l’amianto (o asbesto) è un materiale causa o concausa di asbestosi, di cancro ai polmoni e di mesoteliomi (pleurico e peritoneale), per le caratteristiche immunodepressive legate alla struttura fisica delle sue fibre. Queste sono come una sorta di sottilissimi spilli che, una volta respirati, si fissano negli alveoli polmonari.
Non esiste una "soglia" di sicurezza al di sotto della quale il rischio di cancro sia nullo: ogni esposizione all’amianto produce un rischio di cancro. "L’esposizione a qualunque tipo di fibra e a qualunque grado di concentrazione in aria va pertanto evitata" (Organizzazione mondiale della sanità, 1986).
Nel nostro paese, che è stato un grande produttore di amianto, l’uso di questo materiale è stato bandito dalla Legge 257/’92. Un uso rilevante e di grande impatto sanitario dell’amianto, è stato nella produzione di cemento-amianto (Eteit) per la coibentazione di edifici e per le tettornie. L’amianto è stato anche usato per la coibentazione delle carrozze ferroviarie, delle navi, delle caldaie e per gli impianti di distribuzione del vapore.

I mesoteliomi rappresentano il 15% dei tumori che colpiscono persone affette da asbestosi: l’individuazione di un mesotelioma deve pertanto sempre far sospettare un’esposizione ad asbesto.
Il mesotelioma pleurico è una neoplasia maligna, estremamente invasiva, generalmente fatale in breve tempo (12-24 mesi dalla diagnosi) e specificamente legata all’esposizione ad asbesto. La sua insorgenza non è dose-correlata, potendosi manifestare anche a seguito di esposizioni molto basse, dopo un lungo periodo di latenza (da 10 a 40 anni).
Il periodo di latenza è il tempo che intercorre tra l’esposizione ad amianto e la comparsa della malattia.
Il mesotelioma può colpire le membrane sierose di rivestimento dei polmoni (pleura) e degli organi addominali (peritoneo). Nonostante l’impiego dell’amianto sia cessato, a seguito della legge 257/1992, i dati recenti documentano un progressivo incremento delle neoplasie da asbesto, con un’incidenza maggiore dei mesoteliomi rispetto alle altre forme tumorali.
Sono stati descritti casi di mesotelioma in persone residenti intorno a miniere di asbesto o nelle città sede di insediamenti industriali con lavorazioni dell’amianto, in familiari venuti in contatto con le polveri accumulatesi sulle tute di lavoratori direttamente esposti. Nel 1991, l’Accademia delle Scienze di New York ha pubblicato uno studio sulle malattie da amianto, in cui vengono evidenziati i mesoteliomi degli insegnanti di alcune scuole americane, inquinate da amianto. Sempre nel 1991, è stato segnalato, su una rivista oncologica italiana, un caso di mesotelioma pleurico in un barbiere, per esposizione indiretta ad amianto, proveniente dai capelli degli operai impiegati in una vicina azienda di cemento-amianto in Emilia.
L’esistenza di mesoteliomi anche in persone non esposte professionalmente conferma che possono essere pericolose anche esposizioni a basse concentrazioni di asbesto.
I sintomi del mesotelioma sono legati ad una compressione dei visceri che sono a contatto con la massa tumorale; in genere il primo segno nelle forme toraciche è costituito da un versamento pleurico, spesso emorragico, con rapide recidive, con affanno, tosse stizzosa e comparsa insistente di alcune linee di febbre.
Il decorso dei mesoteliomi è quasi sempre molto rapido, accompagnato da un progressivo deterioramento delle condizioni generali. La sopravvivenza è in genere inferiore a due anni dalla scoperta del tumore e, specialmente in soggetti giovani, può limitarsi a soli sei mesi. Non sono ancora state individuate terapie efficaci.

La presenza di amianto in un ambiente è un problema serio che non deve essere sottovalutato. Sicuramente non è un problema che si risolve evitando di parlarne.
Recentemente anche io ho riscontrato un caso di mesotelioma peritoneale in una signora che ha lavorato per 5 anni alla Sia (Società italiana amianto), il fatto sconvolgente è che la figlia, di quaranta anni, ha un mesotelioma pleurico dovuto all’amianto "portato a casa" dalla madre negli indumenti da lavoro.
I mesoteliomi pleurico e peritoneale sono tumori altamente maligni legati sicuramente all’esposizione ad amianto, se questa sostanza killer non ci fosse i mesoteliomi sarebbero patologie praticamente sconosciute.
Purtroppo con l’amianto la storia è quasi sempre la stessa, c’è chi conta i morti e chi dice che non è un problema. In genere i primi sono medici e i secondi sono politici, che dovrebbero tener presente che l’amianto lo respirano pure loro.
L’amianto è ancora presente in gran quantità negli ambienti di vita e di lavoro, preoccupante è la sua presenza negli ospedali e nelle scuole.
I tecnici del comune di Torino dicono che non bisogna preoccuparsi perché valori di almeno una fibra di amianto ogni due litri d’aria sono presenti dappertutto (sic!). Un soggetto normale respira 18 mila litri d’aria in un giorno. Fate voi i conti! o

P.S.: I cinesi utilizzano ancora l’amianto e lo fanno lavorare ai detenuti. Gli statunitensi non lo utilizzano più perché i risarcimenti per le vittime dell’amianto hanno messo in ginocchio diverse grandi aziende, che hanno dovuto sborsare cifre paragonabili a quelle per la realizzazione dell’alta velocità ferroviaria.

(*) Roberto Topino, medico, specialista in medicina del lavoro, lavora presso il Centro diagnostico polispecialistico regionale Inail di Torino.

Roberto Topino




TAV – inchiesta Riflessioni attorno al Creato

TAV – Dalla Cina all’India, dal Brasile alla Val di Susa

DIFENDERE IL TERRITORIO, DIFENDERE IL CREATO

Il Creato è sotto assedio della speculazione cieca e criminale
delle multinazionali e delle mafie locali. Ma la gente sta imparando a ribellarsi ai soprusi, come dimostra il popolo valsusino.

di Paola Rando (*)

 

Valsusini: popolo schivo, mite, pacifico. Per l’onorevole Martinat addirittura «razza in via di estinzione». Martinat, e gli altri, si devono però rassegnare a una evidenza: i valsusini sono «in via di espansione».

Non solo perché fanno ancora bambini (che cresceranno a «pane-e-notav», come già è successo per le attuali generazioni di 25/30enni) ma soprattutto perché in questa santa guerra al TAV stanno espandendo molte cose. La coscienza di sé, la rete dell’amicizia e della fratellanza, la consapevolezza di far parte di un popolo molto più grande: il popolo della Terra che, ovunque, resiste e si oppone ai mille tentativi di devastazione messi in atto dall’universale partito degli affari (altri Terrestri che, però, sembrano Alieni).

Magari i valsusini non lo sanno, ma in questa difesa della prole, della specie e del territorio sono in buona compagnia. Popoli abituati a subire, a chinare la testa di fronte a un nemico dotato dei super-poteri del denaro e dell’arroganza oggi si ribellano.

Nei villaggi cinesi, dove il terreno non è più coltivabile e l’acqua del fiume non più bevibile a causa dell’avvelenamento provocato dalla capitalizzazione e speculazione selvagge, i contadini resistono. Osano ribellarsi. Lo pagano con la prigione e, a volte, con la morte, Ma vanno avanti.

In India, una anziana donna coraggiosa, Krishnammal e il suo altrettanto coraggioso e infaticabile marito, Jagannatanh, sono in lotta contro le multinazionali dell’allevamento intensivo dei gamberetti, uno dei tanti effetti perversi della globalizzazione.

L’acqua delle vasche di «coltura», zeppa di antibiotici, viene regolarmente versata in mare. Lungo le coste, i pesci muoiono a causa di questo inquinamento chimico. I pescatori dovrebbero spingersi più al largo ma non possono permettersi barche adatte. In più, l’acqua avvelenata delle vasche penetra nelle falde acquifere e molte persone dei villaggi hanno seri problemi agli occhi e alla pelle.

Questa coppia di guerrieri non-violenti resiste. Ha girato l’India a piedi, quando si batteva per la terra ai contadini, un’altra delle loro epiche battaglie. Dice Krishnammal: «Abbiamo coperto molti distretti solo camminando e camminando. Questa è la tecnica, non puoi andare in macchina a chiedere la terra in dono. Ci vuole un po’ di sacrificio e un approccio di tipo spirituale. Questo era un movimento di natura divina e per poter sciogliere il cuore della gente dovevamo camminare come si cammina per andare in pellegrinaggio in un luogo sacro. Era un approccio spirituale al problema che partiva dal principio che la terra è un dono di Dio. Come il sole, l’acqua, l’aria». Recentemente lei e il marito sono stati nel magentino, altra zona in via di devastazione a causa della tratta ad Alta velocità Novara-Milano.

I valsusini non l’hanno saputo. Perché la rete vera, quella che terrà uniti tutti i «giusti« della terra, è ancora in costruzione. Ce ne sono solo alcuni tratti: la rete di Lilliput, di padre Zanotelli, i Comuni per la pace, i Social forum… Eppure, presto, sarà diverso. Dovrà essere diverso. La rete di internet, unica democrazia rimasta, ne sarà il supporto essenziale.

Novecento anni fa, una donna girava, a piedi o a dorso di mulo, per la Germania invitando a seguire le vie del Signore. L’ha fatto fino alla sua morte, a quasi 80 anni. Si chiamava Ildegarda di Bingen. Cento anni dopo, un piccolo uomo di Assisi, con un grande cuore e un grande carisma, girava a piedi il vecchio continente e arrivava fino nei Luoghi Santi. Senza mezzi di comunicazione se non il passa parola dei mercanti e dei pellegrini lungo le affollate vie del sale, della lana, e delle reliquie, dopo un anno aveva mille «frati e suore», dopo due anni…

È stato come un contagio. Un virus benefico che assaliva le anime non contaminate dalla sete di beni terreni. Francesco si trovò con un bel problema: «Il Signore mi diede dei frati, ma io non sapevo cosa fae». Oggi i francescani sono migliaia, in tutto il mondo, anche se la loro regola non è più quella austera e pura del fondatore.

Ma oggi, c’è un francescano, Luìs Flavio Cappio, vescovo di Barra, nel Brasile progressista di Lula. L’amatissimo Frei Luìs ha fatto un durissimo sciopero della fame contro un’opera colossale, lo spostamento di un intero fiume, il San Francisco. Un progetto da 1,7 miliardi di dollari, appaltato dal ministero dell’ambiente: una Grande opera che renderà più ricchi i ricchi latifondisti e porterà alla fame i già poveri contadini.

Frei Luìs è fratello dei valsusini. Lui difende i contadini, come Krishnammal difende i pescatori. E tutti difendono, in questo modo, il nostro bene più grande: il Creato.

 

Il Creato è sotto assedio della speculazione cieca e criminale delle multinazionali, delle mafie locali. Dal business dello smaltimento illegale di rifiuti tossici, da quello della deforestazione per l’allevamento intensivo di mucche e hamburger, dalla costruzione di opere faraoniche tanto devastanti quanto inutili.

E anche dal business dello smantellamento delle stesse. È recente la notizia che la pista olimpica di bob nella Alta Valle di Susa, sarà smantellata a fine Olimpiadi. I costi per la sua manutenzione sarebbero esorbitanti. Quello che non si dice, è che anche distruggerla sarà un business per la ditta che ne appalterà i lavori. Per realizzarla è stato sterminato (in pochi giorni) un immenso lariceto che Madre Natura aveva «costruito» in alcune centinaia d’anni. Sono state ricoperte dal catrame di un parcheggio alcune tombe celtiche.

La pista di bob verrà smantellata. Ma chi ci ridarà quei larici? Verranno riaperte le tombe chiuse nel nuovo sepolcro di asfalto?

Quegli antichi popoli avevano qualcosa di meraviglioso che noi abbiamo perduto: il contatto intimo, profondo, religioso, con la natura. La nostra Madre Terra che le «talpe» dell’ingegner Lunardi (ministro delle infrastrutture in Italia e trapanatore di montagne in Francia in modo da dribblare l’ostacolo del conflitto d’interessi) si apprestano a stuprare.

Come non ribellarsi? Il Creato che avremmo dovuto custodire. Il Creato fatto dalla voce/luce di Dio. Il Creato di cui siamo parte e che è parte di noi… massacrato.

La sua fine è la nostra. Forse i suoi distruttori sono davvero alieni. E i paladini che lo difendono, i soli veri terrestri. Le devastazioni di un pezzo di Creato operate dalla Torino-Lione non sono immaginabile: 15/20 anni di cantieri in funzione giorno e notte; cantieri a stretto contatto con i centri abitati; cantieri nelle montagne, nelle vigne, nei pascoli, nei boschi. Che non saranno più montagne, pascoli, boschi. Ma solo cantieri. In un inferno di rumore e polvere continui.

E il contatto con la natura, quello che i valsusini hanno ereditato dai loro antenati galli, liguri e celti, impedito. I valsusini vengono privati non solo del silenzio, del sonno, dell’aria da respirare (inquinata dalle fibre di amianto), dell’acqua (falde prosciugate dai tunnel) della terra da coltivare, ma anche della possibilità di vivere e contemplare la natura. Forse per qualcuno questo è un danno secondario, magari neanche ci hanno pensato. Eppure le Grandi opere devastanti privano l’uomo di un suo diritto fondamentale: il rapporto con il Creato.

 

C’è anche chi preferisce guardare le cime degli alberi mosse dal vento, piuttosto che la televisione. Preferisce seguire il volo di un gheppio piuttosto che una telenovela. Queste persone saranno rese orfane del piacere di contemplare. Gli si taglia quel filo sottile e invisibile che li tiene legati al Padre. Che li fa sentire figli amati. Circondati dalla bellezza che è riflesso del Principio. Questo è un danno che non ha compensazione.

Un danno gravissimo e irreversibile. Nelle città, l’inquinamento luminoso ci ha privati delle stelle. Nelle campagne, gli immensi cantieri ci toglieranno le stelle, il volo degli uccelli, il rumore dei ruscelli, le voci degli animali.

Staremo chiusi in casa (chi potrà fuggirà) a guardare la televisione. A guardare il Creato nei documentari. Non è un futuro da fantascienza. Succede domani. In val di Susa succede con la prima trivella.

E succede nell’assordante silenzio dei media. Perché un movimento popolare come quello dei valsusini, non-catalogabile, non-etichettabile politicamente, fa paura. I Resistenti della valle di Susa conoscono da anni la frustrazione di non riuscire a far arrivare la loro voce fuori dal territorio.

La Torino-Lione è fortemente voluta dalla destra e dalla sinistra. È una torta da 20 miliardi di euro. E le menzogne riportate dai mezzi d’informazione (disinformazione) sono continue. La «guerra» contro la Torino-Lione è una guerra anche contro la menzogna. Eppure la forza della verità è grande. Più grande degli affari.

 

In ogni specie animale, e persino vegetale, quando c’è in gioco la sopravvivenza, scattano meccanismi di auto-difesa. Ai valsusini è successo tutto questo, con in più un’altra bella sorpresa, la voglia di divertirsi un po’ alla faccia di chi gli vuole male.

E sono nate le «Truppe speciali Anti-TAV». In dotazione… scola-pasta di ogni tipo, senso dell’umorismo e ironia. Prima apparizione a Bruzolo, il giorno del previsto arrivo delle trivelle. E poi grande festa nottua, con falò, al presidio di Borgone. È bello far parte di questo popolo tranquillo. E guerriero.

 

(*) Paola Rando è nata in Val di Susa. Dopo 40 anni passati in diverse città, è tornata nel suo paese natale, Villar Focchiardo, dove vive con tre gatti.

Paola Rando




Al supermercato delle religioni (4) Scientology

CHIESA ALLA MAC DONALD’S

Nata come pratica filosofica che mira alla «felicità eterna», Scientology pretende di essere una religione. Pochi stati la riconoscono tale; molti la ritengono una setta affaristica, dai contorni poco trasparenti.

Appena si parla di scientology, la chiesa americana fondata dallo scrittore di fantascienza Ron Hubbard intorno alla metà del secolo scorso, gli animi si scaldano e le opinioni si polarizzano.
Basta cliccare la parola scientology su internet e si trovano migliaia di pagine che raccontano le peggiori storie di sopraffazione, circonvenzione di incapace, spionaggio, e molto altro. In un mare di durissime critiche e accuse, qualche sito, invece, ne tesse lodi sperticate e ne racconta le magnifiche sorti progressive.
Per esempio, siti in inglese, francese, tedesco, spagnolo e italiano (www.xenu.com-it.net/aiuto.htm) spiegano dettagliatamente e con termini decisamente allarmanti cosa fare, qualora il proprio figlio inizi a fare scientology: come parlargli, cosa dirgli, cosa non fare perché non si disconnetta: la prima cosa, infatti, è il rifiuto del dialogo con chiunque critica scientology, in primis i genitori.
Sempre nella rete, dozzine di siti riportano le querele contro i mezzi di informazione. Scientology ha duramente combattutto contro i suoi critici, querelando giganti come Time o Washington Post. Gran parte delle battaglie legali hanno visto prevalere le opinioni dei giornali, che però hanno dovuto impegnare forti capitali in parcelle agli avvocati.
La combattività di scientology, verso gli organi di stampa è proverbiale. Alcuni analisti sostengono che tale tignosità sia dovuta a una spasmodica ricerca di pubblicità, supportata da capacità finanziarie notevoli. In effetti, una querela al Time, anche se persa in partenza, è un’ottima occasione per farsi conoscere.
Salendo ancora di un gradino, scientology è finita al centro di furiose dispute inteazionali, riguardanti i diritti umani tra i governi degli Stati Uniti, Francia e Germania.

COS’E’ SCIENTOLOGY
Non è facile spiegare cosa sia, anche perché il suo fondatore L. Ron Hubbard, nella sua lunga e tumultuosa vita, ha scritto tutto e il contrario di tutto. «Scientology è una filosofia religiosa nel suo più alto significato e conduce l’uomo alla libertà totale»(1); ma anche «una libertà infinita è una trappola perfetta, la paura di tutto… Fissato su troppe barriere, l’uomo brama la libertà; ma, lanciato nella libertà totale, è senza scopi e miserevole»(2).
La filosofia religiosa di Hubbard è nata nel 1950; inizialmente aveva il nome Dianetics, scienza modea della salute mentale. Nel 1954 venne trasformata in scientology: nuovi aspetti spirituali si innestarono su quelli para-scientifici iniziali. In quell’anno scientology si autodefinì per la prima volta «chiesa».
In sostanza, la filosofia religiosa scientology è un insieme di nozioni pseudo scientifiche, psicologiche e spirituali che vedono all’interno dell’essere umano due entità distinte: la mente analitica e la mente reattiva.
Il refuso alle filosofie orientali diventa chiaro quando scientology sostiene che la mente reattiva, responsabile delle pulsioni umane, è aberrante e deve essere ridotta il più possibile, affinché l’uomo possa finalmente avere solo una mente analitica e raggiungere lo stato «clear» (limpido).
Compito di scientology è portare l’uomo a essere clear, affinché possa iniziare un cammino di perfezionamento che conduca il suo thetan (la sua parte immortale) a recuperare i suoi infiniti poteri, decaduti a causa della mente reattiva.
In poche parole, tutti noi siamo potenziali dèi, con poteri infiniti ma dimenticati, e potremmo recuperarli, applicando letteralmente la teoria scientology.
Come si entra nel giro
Di solito chi si avvicina a scientology viene sottoposto a un test che appurerebbe quanto il thetan sia decaduto e quindi da quale livello iniziare la risalita verso la «libertà totale». Questa classificazione è denominata «quadro della valutazione umana» ed è gratuito.
I detrattori sostengono che il test, composto da 200 domande di tipo personale, tende a evidenziare le frustrazioni della persona, acutizzando i problemi e promettendo una facile soluzione. I clienti vengono «agganciati» per strada, nei supermercati e luoghi molto affollati.
Chi decidesse di iniziare la pratica scientology cerca inizialmente la soluzione per i propri guai; poi, dopo una fideizzazione più forte, proseguirà nel cammino, comprando una serie di costosissimi corsi esoterici, che hanno lo scopo di recuperare l’onnipotenza perduta, cioè il thetan operante.
All’interno del cammino, chiamato anche auditing, lo scientologo (il cliente-fedele) viene sottoposto a un test psico-meccanico: una specie di macchina della verità (elettrometro) che indaga sui lati più oscuri della vita. Esso è infatti caldamente consigliato a confessare tutti i lati peggiori della propria mente reattiva, ovvero le «aree di sofferenza» che rendono la vita insopportabile.
Scientology sostiene che tale pratica, porta grandi benefici a chi vi si sottopone, in quanto crea un quadro d’insieme più preciso, affinché si possano eliminare gli ostacoli psichici che impediscono all’individuo di raggiungere la «libertà totale».
I detrattori, tra cui molti ex scientologisti pentiti, ribattono accusando la chiesa di creare con questa tecnica un archivio personale, contenente le eventuali perversioni o scandali dei clienti-fedeli, da utilizzare qualora questi si ribellino.
La chiesa di scientology assicura agli aderenti di raggiungere il risultato sperato: «Scientology funziona nel 100% dei casi. Nella nostra storia non si è mai verificato un fallimento della tecnologia. Gli unici fallimenti sono stati organizzativi, quando la tecnologia non era nota o non era applicata»(3). Eventuali fallimenti di tale tecnica sono da imputare alla scarsa o cattiva applicazione da parte del cliente-fedele.
Hubbard ha ideato un sistema che prevede soluzioni pratiche semi-immediate per tutti gli aspetti della vita: affari, amore, salute, piccoli e grandi problemi.
gli affari sono affari
La vera novità introdotta dallo scrittore fantascientifico statunitense è la commistione dello spirituale con il tecnologico. Inizialmente scelse di fondare una nuova disciplina che avesse basi molto pratiche, ma poi, vista l’inesauribile domanda di novità spirituali negli Stati Uniti degli anni ’50, ma anche attuale, divenne indispensabile innestare un lato soprannaturale.
La chiesa di scientology sostiene inoltre di non contrapporsi a nessuna altra professione religiosa, anche con quelle che non comprendono la reincarnazione, cosa invece prevista nella chiesa di Hubbard.
Anche in questo caso le interpretazioni sono bivalenti. A fronte di chi vede una innovativa apertura culturale, molti sostengono che scientology abbia scelto la via della plasticità religiosa, ovvero adattare il messaggio alle realtà che si incontrano zona per zona nel mondo. Un po’ come fa McDonald’s che, dopo gli insuccessi del polpettone, ha deciso di adattare il fast food alle cucine locali: in Italia la pizza, in Messico i tacos, in Francia le insalate…
Nonostante il linguaggio ermetico utilizzato dagli scientologi, la formula complessiva è abbastanza semplice. Ma perché scientology non diffonde gratuitamente il suo sapere, ma lo vende a caro prezzo ai suoi clienti? Domanda banale, ma che racchiude tutte le contraddizioni della chiesa di Hubbard.
La risposta potrebbe essere che scientology vende nella solidarietà e commiserazione delle «misemozioni», emozioni negative di cui sbarazzarsi. Ma ciò non spiega perché, dopo ogni catastrofe, i venditori di scientology si accalchino intorno ai disperati, a volte con risultati imbarazzanti, come in Sri Lanka, dove recentemente la Protezione civile ha vibratamente protestato, perché membri italiani della chiesa si attribuivano i meriti degli aiuti provenienti dalle donazioni italiane. Accusa immediatamente smentita dal portavoce italiano di scientology.
Scientology non sceglie la via della gratuità per diffondere il proprio pensiero, ma quella della commercialità spinta e sostiene di avere 8 milioni di fedeli nel mondo. Cifra che i critici ritengono gonfiata. In Italia un rapporto del Ministero degli Intei del 1998 afferma che i seguaci della chiesa di scientology erano circa settemila.
Pochi o tanti che siano, i seguaci della filosofia religiosa inventata da Hubbard sono disposti a investimenti economici consistenti e possono giungere a spendere anche decine di migliaa di euro nei corsi. Scientology afferma che tale ingentissima massa monetaria altro non è che donazioni, ma questo mal si addice alla presenza di un listino prezzi e di formule commerciali che ricordano le promozioni da supermercato.
Non di poco conto è anche la notevole spinta pubblicitaria portata da «eroi» hollywoodiani, aderenti a scientology, tra tutti, John Travolta, Tom Cruise, Nicole Kidman. I tempi degli apostoli stracciati e poveri sono passati. Oggi vanno di moda i belli del cinema.

USA VERSUS FRANCIA E GERMANIA?
Le critiche, anzi, vere e proprie accuse si sprecano. Ma la chiesa di scientology può vantare il riconoscimento del Cesnur (Centro studi sulle nuove religioni) che la giudica legittima e non vi riscontra particolari rischi o depravazioni; queste, caso mai, sono da imputare a comportamenti distorti di pochi singoli.
Il direttore del Cesnur, Massimo Introvigne, ospite fisso di Bruno Vespa in qualità di esperto di estremismo islamico, è stato un forte difensore di scientology, non trovando nelle sue dottrine particolari pericoli. La sua posizione è in netto contrasto con la francese «Missione interministeriale di lotta contro le sette» (Mils), che ha inquadrato la pratica scientology in una visione opposta rispetto al Cesnur.
La polemica tra Cesnur e Mils si inserisce in un quadro di tensioni politiche tra Usa ed Europa, in particolare Francia e Germania.
Tutto nasce dal fatto che, riconosciuta come movimento religioso, scientology ha avuto il diritto all’esenzione fiscale da parte del fisco statunitense nel 1993. Un suo portavoce sostenne che «gli scientologisti hanno fornito al governo informazioni sufficienti sui salari pagati ai suoi funzionari, per permettere di determinare che gli executives della chiesa non ricevano benefici impropri» (Chronicle of Philantropy, 1993). Una delle accuse storiche mosse a scientology è, infatti, di sfruttare il lavoro dei seguaci in maniera piuttosto brutale.
L’accordo foì a scientology la stessa posizione fiscale di cui beneficiano molte organizzazioni religiose e permise alla chiesa di Hubbard di risparmiare montagne di dollari evitando la tassazione.
I governi di Francia e Germania si trovarono quindi in frontale opposizione con gli Stati Uniti, in quanto consideravano scientology una pratica pericolosa per l’ordinamento democratico, non solo per le accuse di cui sopra, ma anche per pratiche di spionaggio internazionale, portate avanti da alcuni suoi aderenti.
Scientology schierò in campo l’artiglieria mediatica con una potente manovra di lobby sul presidente americano Bill Clinton, affinché facesse pressioni politiche in Europa, per liberare la chiesa da accuse così pesanti.
Iniziarono a volare recriminazioni di persecuzione religiosa e violazione dei diritti umani: in una lettera del 1997, firmata da 34 vip hollywoodiani, il governo tedesco veniva accusato di aver spostato il tiro dagli ebrei agli scientologi, fatto che ebbe eco planetaria. Il governo Usa non poteva sopportare di essere implicitamente accusato di sostenere un’organizzazione che metteva a repentaglio la democrazia.
In sostanza, per Germania e Francia scientology non è una religione, ma una setta; anzi, un’impresa che agisce a scopo di lucro e spesso in modo tutt’altro che trasparente e democratico.
Per gli americani invece, preoccupati di proteggere al massimo grado la libertà di culto nel loro paese, la chiesa di scientology deve essere messa in condizioni di muoversi senza intralci, in quanto non è stata provata alcuna pericolosità. Da qui la mossa più forte degli Stati Uniti, ovvero il Religious Liberty Protection Act, una proposta di legge che intende mettere le pratiche religiose al riparo da qualsiasi interferenza governativa o amministrativa.

Così scientology continua a scatenare polemiche, cause giudiziarie e accuse pesanti. Gli scientologi si sentono perseguitati a livello mondiale da una lobby internazionale, che non esiterebbe a fomentare false illazioni per ridue la potenza.
Già in vita, il fondatore Ron Hubbard era considerato dai seguaci una divinità votata al martirio, mentre migliaia di siti internet lo dipingono come un impostore, assetato di denaro. Nell’ottobre del 1984 un giudice della Califoia, disse di lui: «È un bugiardo patologico, in relazione al suo passato e alle sue imprese. Scritti e documenti presentati come prove riflettono ulteriormente il suo egoismo, la sua avarizia, smania di potere, vendetta e aggressività contro le persone ritenute ostili. Allo stesso tempo sembra un uomo carismatico e capace di motivare, organizzare, controllare, manipolare e ispirare i suoi seguaci»(4).
Dopo la colluvie di studi pro e contro tale movimento, rimane il dubbio: scientology è libertà totale o fregatura totale?

1) L. Ron Hubbard, Filosofia religiosa e pratica religiosa, 21 giugno 1960, rivisto il 18 aprile 1967.
2) L. Ron Hubbard, La ragione per cui, 15 maggio 1956.
3) Direttiva esecutiva n°450 del Religious Technology Center.
4) Giudice Breckenridge, Corte Superiore della Califoia, parlando di Ron Hubbard in una sentenza del 1984.

Maurizio Pagliassotti




ECONOMIA / Quale economia? (3) Incontro con Luis Razeto Migliaro

Quale economia? (3) / Incontro con il professor Luis Razeto Migliaro


UN’ECONOMIA SOLIDALE È POSSIBILE


Insicurezza, crisi, precarietà, diseguaglianze.

Ormai il mondo vive in uno stato di crisi economica permanente,
che neppure l’economia di guerra riesce più a mascherare.
Sono sempre di più gli studiosi che propongono strade alternative
all’attuale modello economico.
Per ora sono ascoltati soltanto dai loro studenti
e dai movimenti contrari alla globalizzazione e al neoliberismo.
Ma è facile prevedere che la gravità e l’impellenza dei problemi
porterà presto le loro idee ad aver ben più larga attenzione.


Padre italiano e madre cilena, così si spiega il perfetto bilinguismo di Luis Razeto Migliaro. «Mio padre – racconta – arrivò in Cile nel 1920. Sposò una cilena, figlia di italiani. Io ho vissuto in Italia per 4 anni, dopo il golpe di Pinochet, tra il 1975 e l’inizio del 1980. Ho insegnato alla Sapienza, l’Università degli studi di Roma, nella facoltà di perfezionamento in sociologia. Poi sono tornato in Cile». Oggi è vicepresidente dell’Università bolivariana di Santiago.
Laureato in filosofia e sociologia, in realtà il professor Razeto si occupa da sempre di economia e, in particolare, di economia solidaria. In italiano si dice economia solidale o economia della solidarietà: quasi un sogno, in tempi di precarietà (che, con un ben noto eufemismo, viene chiamata «flessibilità») e delocalizzazione (le industrie che lasciano a spasso gli operai per andare a produrre in paesi dove il lavoro costa meno o le leggi mancano).

Professore, cos’è un’economia solidale?
«Diciamo che è un modo diverso di fare economia, producendo, distribuendo, consumando, accumulando ricchezza attraverso l’ottica della solidarietà. La solidarietà diviene forza produttiva, rapporto economico, modo di comportamento del consumatore. In altri termini, essa non è intesa soltanto come un atteggiamento etico, come un modo più benevolo di fare le cose, come attenzione ai bisogni degli altri ma, molto più concretamente, come un modo di fare economia. Produrre, distribuire, consumare, accumulare con solidarietà: tutto questo diventa impresa solidale».

Spieghiamo meglio in che cosa differiscono concretamente queste imprese solidali…
«Intanto sono delle associazioni di lavoratori che non dipendono da un padrone ma che agiscono autonomamente, mettendo in comune risorse, conoscenze, capacità di gestione, decisioni, forza lavoro.
Le imprese di solidarietà sono unità economiche che producono beni e servizi per l’autoconsumo ma anche per il mercato. Sono imprese che non si chiudono nel proprio interno, ma che agiscono apertamente sul mercato vendendo i prodotti della propria attività. Tutto questo senza mai dimenticare l’elemento fondante della solidarietà».
Pertanto, il mercato rimane un elemento fondante anche nell’economia solidale?
«Esatto. Noi non riteniamo che il mercato sia il male assoluto. Tutt’altro. Noi riteniamo che il mercato siano gli altri, le persone, persone che hanno altri progetti. Pensiamo che il mercato non è soltanto una necessità sociale, ma che esso esiste quasi come un modo di organizzarsi e cornordinare in solidarietà le decisioni. In altre parole, esiste il mercato perché abbiamo bisogno gli uni degli altri. Se non ci fosse questo bisogno, il mercato non esisterebbe.
Se noi diciamo questo, stiamo dicendo che il mercato è un fatto solidale e fortemente sociale. Certamente, questo concetto di mercato è completamente diverso da quello capitalistico dominato dall’elemento finanziario.
Per noi l’inserimento sul mercato è qualcosa di diverso. Per esempio, si lavora stando attenti alle estealità ambientali e sociali, cercando anche di provvedere alle risorse necessarie in un modo rispettoso della natura, valido senza sfruttare nessuno. Ancora: il marketing è fatto con trasparenza, senza ingannare, promuovendo e stabilendo rapporti con i clienti, con i consumatori solidali».

Sì al mercato e sì al profitto, dunque?
«Le imprese solidali non sono imprese no-profit. Cercano il guadagno, l’utile, anche riducendo i costi e cercando l’efficienza economica. Questi benefici economici vengono distribuiti in modo solidale con attenzione alla giustizia, corrispondendo a ognuno secondo ciò che ha fatto, ma anche perfezionando questo criterio con la solidarietà, andando cioè ad integrare il guadagno di coloro che, per diverse ragioni, hanno potuto contribuire meno e quindi hanno percepito meno frutti».

Quando questa rivista critica l’economia capitalistica, subito arriva qualche lettera che, sic et sempliciter, ci accusa di essere «comunisti». Il nostro sistema – dicono questi lettori – è il bene e dunque non criticabile, soprattutto perché dall’altra parte ci sarebbe soltanto il comunismo (nella defunta forma sovietica, tra l’altro…). Insomma, per molti non esiste altra economia possibile. Che ci dice, professore?
«Noi diciamo che l’economia è una attività umana necessaria, buona e santa. Dobbiamo però farla in modo diverso.
In base a questa considerazione siamo partiti da una critica all’economia capitalista e all’economia socialista. Poi siamo andati oltre, cercando di superare anche l’economia di tipo cornoperativo».

Ma come, professore, neppure l’economia cornoperativistica è un’economia solidale?
«Noi abbiamo visto e sperimentato, che l’economia cornoperativistica, ha dei valori alti, cioè una base culturale, etica e morale importante; una concezione dell’uomo che ci sembra giusta, perché mette il lavoro sopra il capitale, l’uomo sopra le cose, ecc.
Tutto questo ci va benissimo e vogliamo continuare a fare economia solidale con un rapporto di cooperazione anziché di competizione. Ma, al tempo stesso, ci siamo staccati nettamente da alcune concezioni, che noi riteniamo riduttive, di quelle economie. Secondo noi, esse hanno impedito a quelle economie di diventare efficienti e forti, caratteristiche fondamentali affinché queste alternative economiche diventino praticabili e quindi attrattive».

Quali sono le differenze tra il capitalismo ed un sistema fondato sulla solidarietà?
«La prima differenza riguarda il capitale. Noi riteniamo che il capitale nell’economia di solidarietà non è altro che il lavoro accumulato. Il capitale è una forma di lavoro, anzi in un certo modo è una forma di lavoro subordinato.
La seconda grande differenza con il capitalismo riguarda l’utilizzo dei fattori produttivi. Ad esempio, se qualcuno ha un locale, un pezzo di terra o un programma di software non se lo tiene unicamente per sé, ma condivide con altri queste risorse. Quindi, in uno stesso locale possono starci più imprese, in uno stesso appezzamento di terra ci possono stare più coltivatori, un programma di software può essere condiviso da molti…».

Forse l’impresa produttrice del software non sarà contenta, il proprietario della terra neppure…
«Noi diciamo: sì alla proprietà privata, ma non in forma escludente. Siamo per un altro concetto di proprietà dei fattori produttivi».

Continuiamo a parlare delle differenze con il capitalismo, professore…
«La terza distinzione netta rispetto al capitalismo è che il lavoro è autonomo, associativo e non subordinato: i lavoratori sono anche i titolari dell’impresa. Il lavoro non è lavorare per altri, ma per se stessi con un progetto condiviso che è di tutti. Non esiste lo sfruttamento del lavoro.
La quarta diversità netta è che noi abbiamo individuato l’esistenza di un fattore proprio, diverso, nuovo. Lo abbiamo chiamato “fattore C”, dove la lettera C indica: comunione, cooperazione, comunità, comunicazione.
È il fare le cose insieme. È la solidarietà diventata forza produttiva. Noi siamo convinti che, quando un gruppo di persone mette assieme un progetto e degli obiettivi, hanno non solo una coscienza e una volontà comuni, ma condividono anche emozioni e sentimenti. Questa unione è un fattore aggiuntivo agli altri fattori produttivi».

Non è questo il «capitale sociale»?
«Per noi è un fattore diverso, aggiuntivo, centrale in queste imprese. Per creare una impresa solidaria la prima cosa da fare è creare un gruppo umano, che abbia un progetto comune e abbia messo attorno a questo progetto le proprie idee, la volontà, le emozioni, i sentimenti. Quando si ha questo fattore C, si è in grado di iniziare un’impresa».

Altre differenze?
La distinzione è il ruolo della cooperazione anziché della competizione. Noi diciamo che la cooperazione è più efficace che la competizione. Noi pensiamo che con altre imprese simili, con altre persone, con i clienti si deve cornoperare. Questo vuol dire reciprocità, non vuol dire donare.
Noi non crediamo al dare gratuitamente nel senso caritativo, perché fa sì che le persone diventino dipendenti. Se vengono sovvenzionate, risolti i problemi, diventano inabili: noi vogliamo crescere insieme! Quindi, il nostro rapporto è di reciprocità. La competizione si fa con quelli che non vogliono cornoperare, che agiscono sul mercato in modo ingannevole, guadagnando sull’ignoranza del consumatore ecc.».

Passiamo al confronto con un sistema ad economia socialista, professore.
«Noi diciamo che la nostra economia di solidarietà nasce dal basso. Si rapporta con lo stato, ma non è statale. Siccome vogliamo lavorare sul mercato e fare degli utili, cerchiamo di essere autonomi dallo stato per non subie i ricatti politici.
Come spiegavo prima, il nostro concetto di proprietà non è un concetto collettivo, perché quando la proprietà diventa collettiva si stabiliscono certe ingiustizie.
Mi spiego. Abbiamo visto che le persone contribuiscono alla formazione del capitale con il loro lavoro. In un sistema diverso da quello solidale, quando una persona lascia l’impresa per cui ha lavorato perde quello che ha contribuito a costruire. Noi crediamo che questo non sia giusto.
Pensiamo alla ex Jugoslavia e al suo sistema di proprietà collettiva e di autogestione. I lavoratori non contribuivano efficacemente allo sviluppo, perché l’impresa era aliena: era di tutti e di nessuno.
Infine, il concetto di pianificazione. In un’economia socialista viene pianificata la produzione, le risorse, a seconda di una concezione tecnica di quale siano i bisogni delle persone e della società. Noi abbiamo un’altra idea in proposito».

E quale sarebbe?
«Noi diciamo che esistono dei bisogni di base che sono uguali per tutti. Poi ci sono bisogni individuali distinti: spirituali, culturali, eccetera. Per questo diciamo che la vita dell’individuo non può essere pianificata socialmente da un’unica istanza centrale, come si fa nell’economia socialista.
Crediamo di aver individuato nell’economia di solidarietà, una razionalità economica che è eticamente superiore e coerente con una concessione più integrale dell’uomo e della società».

Lei sembra molto ottimista. Però l’economia solidale non rischia di essere schiacciata dall’economia capitalista che, nonostante gli enormi problemi di quest’epoca storica, è rimasta in pratica senza avversari?
«Io sono convinto che l’economia capitalista, che sembra così forte, è in una fase di riduzione; per non dire di collasso. E ciò per molti motivi.
Per esempio, l’esasperata competizione che è implicita al sistema (le industrie più grosse mangiano le più piccole) e poi un’economia che non può dirsi efficace, perché lascia fuori troppa gente.
In America Latina noi vediamo questa crisi in modo evidente: il 60% della popolazione rimane fuori, cioè non partecipa al sistema ed ovviamente non consuma i suoi prodotti. Lo stato è stato ridotto al minimo per servire ai bisogni di quest’economia e di quelle imprese che cercano di tenersi allacciate alla dinamica della globalizzazione.
Vedo che la crisi dell’economia capitalista si sta manifestando anche nei paesi occidentali, come l’Italia e la Spagna.
Per tutto questo sono convinto che ci sia molto spazio per la crescita dell’economia di solidarietà».

Sta dicendo che l’economia solidale è quasi una necessità?
«È una necessità. Sì, l’economia solidale è una necessità, almeno nell’America Latina, ma non – e mi consenta questo gioco di parole – necessariamente per necessità. Il bisogno può far sorgere anche altre risposte: la delinquenza o altri tipi di economia illegale.
Per superare gli attuali problemi ci vuole una proposta che includa cultura, scelte etiche, organizzazione sociale, lavoro organizzativo: tutti requisiti che l’economia di solidarietà può offrire.
Per il futuro non vediamo nessun rischio di essere assorbiti da un capitalismo che continua ad escludere, lasciando fuori paesi o addirittura interi continenti.
Se continua così, il sistema capitalista non potrà durare ancora a lungo. Io non mi aspetto che collassi, anzi spero proprio che ciò non accada, almeno fino a quando non abbiamo collaudato quest’altra economia».

Se ho ben capito, in America Latina c’è stato un nuovo inizio per l’economia…
«Sì, e sono convinto che nell’America Latina si è imparato un modo di fare economia nuovo anche rispetto ai modi alternativi che sono nati in Europa cento anni fa, come il cornoperativismo e l’autogestione. Noi abbiamo raccolto quell’eredità, e quell’esperienza.
L’economia di solidarietà è soltanto per i poveri? No, la pensiamo per i poveri solo perché a loro si arriva più facilmente vista la situazione in cui si trovano e perché ne hanno più bisogno. Però questo sistema può consentire di fare economie anche con risorse di capitale e di tecnologia molto elevate. Per esempio, in America Latina con la logica dell’economia solidaria si sono create università ed imprese importanti.
In altre parole, l’economia solidaria non è una economia dei poveri per i poveri, pur essendo un’economia popolare ritagliata per questo momento storico».

Però, è un fatto che la povertà sia un elemento caratterizzante dell’America Latina…
«Sono ad un tempo pessimista ed ottimista. Io credo che l’America Latina si trovi in una grande crisi e che non sia in grado di uscie né attraverso il processo di globalizzazione, né attraverso strumenti come l’Alca, e neppure attraverso politiche pubbliche perché non ci sono risorse sufficienti. Quindi, sono pessimista…
D’altra parte, sono ottimista perché vedo sorgere dappertutto – a migliaia – organizzazioni sociali ed economiche. Non tutte strutturate per essere efficienti, ma sulla buona strada per diventarlo».

Quindi, possiamo parlare di vitalità dei paesi latinoamericani?
«Assolutamente. C’è un grande movimento…».

Opposto all’immobilismo dell’Europa…
«Non lo so, non sono convinto che ci sia immobilità, almeno se guardiamo dal basso. Ho visto che ci sono gruppi, iniziative, giovani che stanno facendo esperienze positive ed innovative. Quindi non direi che c’è un’immobilità della base sociale.
Quello che non mi piace è quello che stanno facendo ai piani alti. Per esempio, i processi e la privatizzazione dei beni pubblici: questo non mi piace. I beni pubblici per definizione sono di tutti e, se si vogliono rendere più efficienti, basta metterli nelle mani di gente capace. Non comunque privatizzandoli o vendendoli alle multinazionali…».

Grazie di aver introdotto il tema delle privatizzazioni, professore. Questa è una chiave di volta del capitalismo di oggi. Viviamo cioè in un mondo che vuole ridurre o addirittura eliminare il ruolo dello stato, perché – asseriscono i fautori di questa ideologia – sarebbe inefficiente. Al contrario, il privato farebbe tutto bene. In realtà, sappiamo benissimo che gli interessi privati sono sempre in contrasto con gli interessi collettivi. Come ne usciamo, professor Razeto?
«Io credo in un’economia pluralistica, dove cioè agiscano più soggetti. Penso ad un futuro prossimo con un’economia a tre settori: uno pubblico, uno di economia solidale e uno di economia privata individuale. Quest’ultima deve avere un suo posto, che non è quello delle imprese capitalistiche selvagge, ma quello delle iniziative individuali o familiari.
Per quanto concee lo stato, esso dovrebbe fare la sua parte, avendo cura dei beni pubblici, delle risorse sociali, aiutando i progetti, occupandosi di quei bisogni collettivi, che non sono soddisfatti né dall’economia privata, né da quella solidaria.
Come il mercato può essere solidale, anche lo stato può esserlo. Insomma, bisogna lavorare per farlo diventare così…».

Di fronte alle incompatibilità con il mondo fisico, alcuni economisti hanno cominciato a parlare della necessità di un’economia senza crescita. Il suo pensiero al riguardo, professore.
«A noi sembra di aver individuato un tipo di sviluppo possibile e compatibile, socialmente ed ecologicamente. E che può contribuire a risolvere le contraddizioni insolubili create dal modo di produzione capitalistico e statalistico.
Lei mi chiede della crescita. Guardi, io sono molto deciso nel dire che qualunque proposta che voglia escludere la crescita economica in America Latina e nel Terzo mondo è follia.
Mi spiego meglio. Nel mondo siamo più di 6 miliardi, no? Ebbene, il mondo che non deve più crescere e consumare è composto da 1 miliardo e 200 milioni di persone, ma al resto dell’umanità non si può chiedere di non crescere. Dire all’America Latina che non deve più crescere vuol dire condannarla alla morte in pochi anni.
Quindi, bisogna distinguere… La non-crescita a me pare una proposta valida. Ma può essere proposta soltanto a coloro che stanno consumando troppe energie, troppe risorse naturali, a coloro che contaminano il mondo per troppa attività. Viceversa, la non crescita per i paesi poveri significherebbe aggravare i loro problemi, anche quelli ecologici».

D’accordo, professore. Però, se tutti i paesi ed i popoli arrivassero ai nostri livelli di consumo, che accadrebbe del pianeta?
«Infatti, io non dico di portare i paesi cosiddetti sottosviluppati allo sviluppo conosciuto nei paesi occidentali. Anche questa sarebbe una follia.
Proprio per questo c’è bisogno di un’altra economia, di un altro sviluppo, che è lo sviluppo previsto dall’economia solidale: un’economia che non distrugge l’ambiente ma lo cura; una crescita che crea nuove risorse, specialmente risorse umane. Insomma, un tipo di sviluppo diverso, che implichi produrre, consumare, distribuire, accumulare e svilupparsi con solidarietà.
Non vogliamo diventare consumatori come lo sono gli Stati Uniti o l’Italia: quello è un modo di vita che non è possibile né sostenibile».

E l’economia di solidarietà è un’economia sostenibile?
«Noi riteniamo che lo sia. Noi pensiamo che lo sviluppo non sia solo una crescita quantitativa.
Crediamo che si possa avere un’alta qualità di vita senza necessariamente riempirsi di cose e di prodotti. Pensi a ciò che abbiamo detto prima: il fatto che, nell’economia di solidarietà, la proprietà privata sia condivisa e non escludente, fa sì che ci siano molti meno rifiuti, che la durata dei beni sia più lunga e che il bisogno di essi sia minore…».

Una strada questa che lei segue anche nella vita privata… Professore, è esatto dire che lei vive in modo alternativo?
«Vivo in una comunità ecologica, con la mia famiglia, moglie e quattro figli, che hanno dai 25 ai 34 anni. È una comunità posta alle falde della cordigliera delle Ande, in campagna, ma molto vicini a Santiago. Vi partecipano 250 gruppi familiari. È una scelta e soprattutto un progetto di vita».

Paolo Moiola

Box
Libri di Luis Razeto Migliaro:

• Le dieci strade dell’economia di solidarietà, Emi, Bologna 2003 (unico libro in italiano)
• De la economia popular a la economia de solidaridad ed un proyecto de desarrollo alternativo, Ediciones Pet, Santiago 1998
• Desarrollo, transformación y perfeccionamiento de la economia en el tiempo, Ediciones Universidad bolivariana, Santiago 2000

Altri libri sull’argomento:
• Andrea Saroldi, Costruire economie solidali, Emi, Bologna 2003
• Andrea Saroldi, Gruppi di acquisto solidali, Emi, Bologna 2003

Siti:
• www.economiasolidaria.net
• www.bilancidigiustizia.it

Paolo Moiola




ECONOMIA / La cattiva globalizzazione (1): Tobin Tax e Attac

Tobin Tax e Attac

L’ECONOMIA MONDIALE IN MANO
AGLI SPECULATORI


Da anni gli scambi inteazionali sono dominati dall’economia monetaria-speculativa.

Con benefici per un pugno di uomini e danni immensi per stati, imprese e cittadini.

Ogni mattina gli speculatori mondiali giocano sui mercati valutari inteazionali, scommettendo sull’andamento dei tassi di cambio. Con poche transazioni questi soggetti riescono ad accumulare ingenti ricchezze comprando e rivendendo valute, il tutto a danno delle economie nazionali, delle imprese e di tutti i cittadini. Oggi le transazioni economiche sono dominate dalle speculazioni monetarie, che sovrastano gli scambi dell’economia reale.
Si può fermare la speculazione finanziaria mondiale? Un primo importante passo sarebbe quello di introdurre la Tobin Tax: una piccolissima tassa sulle transazioni valutarie che andrebbe a colpire gli speculatori.
Secondo l’associazione Attac (*), in base ad una stima prudente, attraverso questa tassa si potrebbero raccogliere tra i 90 e i 100 miliardi di dollari l’anno, una cifra che corrisponde al doppio di quanto viene oggi destinato alla cooperazione allo sviluppo. Il gettito sarebbe raccolto a livello nazionale dalle banche centrali che ne tratterebbero una quota per attività nazionali (interventi sociali e per l’occupazione), destinandone un’altra ad attività inteazionali (cooperazione allo sviluppo, salvaguardia dell’ambiente, tutela dei diritti umani). La tassa Tobin, inoltre, favorirebbe il controllo dei flussi finanziari al fine di combattere l’evasione fiscale e il riciclaggio dei proventi derivanti da traffici illeciti.

Il sistema è stato strutturato in modo che gli affari vengano prima di tutto e tutti, business as usual. La liberalizzazione dei movimenti di capitali che sfuggono a qualsiasi controllo; la crescita esponenziale delle transazioni finanziarie, accelerata dalla rivoluzione delle comunicazioni prodotta da internet; il diffondersi e rafforzarsi dei paradisi fiscali; la maggioranza dei media che decanta le virtù del sistema e ne tace le sempre più vistose pecche; la sudditanza della politica ai mercati: tutti questi fattori hanno contribuito a consolidare il sistema.
In occasione della tragedia del maremoto asiatico (dicembre 2004), si è parlato molto di aiuti e debito estero, riprendendo una proposta fatta all’Onu. Al riguardo, ha scritto Ignacio Ramonet, direttore de Le monde diplomatique: «Questa idea di “tassa planetaria” – prelevata sui mercati di cambio (Tobin Tax), sulle vendite d’armi o sul consumo di energie non rinnovabili – è stata presentata all’Onu il 20 settembre 2004 dal presidente brasiliano Lula, dal cileno Lagos, dal francese Chirac e da Zapatero, primo ministro spagnolo. Più di 100 paesi, ossia più della metà degli stati del mondo, appoggiano questa felice iniziativa».
Non è facile cambiare le regole del gioco, ancorché palesemente ingiusto. Ma si può fare.

Pa.Mo.

Fonti:
• Alex C. Michalos, Un’imposta giusta: la Tobin Tax, Ega Editore, Torino 1999
• Attac Italia, Taxman e Tobin, Roma 2004 (una guida didattica utilizzabile anche nelle scuole)

I siti di Attac (*):
• www.attac.org
• www.attac.it
(*) Associazione per la tassazione delle transazioni finanziarie e per l’aiuto ai cittadini; sede di Roma: 06.68136325

Paolo Moiola




ECONOMIA / La cattiva globalizzazione (2)

QUANDO VINCONO LA PRECARIETÀ
E LA DELOCALIZZAZIONE


Dicono che l’occupazione è aumentata. Anche fosse vero, è un’occupazione

dove la precarietà è la norma. Intanto le industrie cercano il profitto dove il lavoro…

Una volta, non molti anni fa, il contratto di lavoro più diffuso era quello detto «a tempo indeterminato». Oggi è praticamente impossibile che un giovane, anche con una laurea in mano, possa avere un contratto di quel tipo. Sono cambiati i tempi e le esigenze, dicono. Oggi i contratti sono del tipo «flessibile», che dal punto di vista del lavoratore significa «precario». Precaria la durata del lavoro, precario il salario, precaria la vita. Gran uso di questi contratti ne fanno, ad esempio, i call-centers, la nuova frontiera del lavoro precario. La precarietà diffusa, ha scritto l’Eurispes, impedisce di progettare il futuro. «La flessibilità – conferma Guido Sarchielli, professore all’Università di Bologna -, quando viene vissuta come precarietà incontrollabile, può avere conseguenze molto negative. Così si accentuano i rischi di disagi di natura psicologica: insicurezza, ansia e stati depressivi».
La crisi colpisce tutti i settori produttivi. Drammatica è la situazione dei produttori agricoli del Sud Italia, strozzati dalle importazioni a prezzi stracciati e dal monopolio dei distributori (ma i consumatori finali non si giovano di alcuna riduzione di prezzo, anzi…).
L’industria italiana (e occidentale in genere) continua a perdere occupati. Quando non si trasferisce all’estero, utilizza l’espediente dell’outsourcing, attraverso il quale si cerca di ridurre i costi ed i rischi facendoli pagare ai più deboli della catena produttiva. Ancora più devastante è il fenomeno del trasferimento delle produzioni in altri paesi (delocalizzazione): nel lontano Oriente (Cina, India, Malaysia, Indonesia), ma anche a due passi da casa (Romania).
Leggiamo sul Piccolo dizionario critico della globalizzazione: «L’attuale “impresa globale” non ha più centro, è un organismo senza corpo né cuore, niente più di una rete costituita da diversi elementi complementari, sparpagliati attraverso il pianeta (…). L’impresa globale ricerca il massimo profitto attraverso le delocalizzazioni e l’aumento incessante della produttività: questa ossessione la porta a produrre là dove i costi salariali sono più bassi e a vendere là dove il tenore di vita è più alto». Ma alla lunga i risultati sono negativi per tutti o quasi. Al Sud si produce sfruttamento di uomini e risorse con perdita delle peculiarità locali (si pensi alle maquilas in Messico e nei paesi dell’America Centrale); al Nord, licenziamenti di massa, perdita del potere d’acquisto della classe media e aumento esponenziale della precarietà sociale.
Sulla globalizzazione così si è espresso Joseph Stiglitz, premio Nobel per l’economia, «oltre a non funzionare per i molti poveri del mondo e per gran parte dell’ambiente, non funziona neanche sotto l’aspetto della stabilità delle economie». Insomma, forse è il caso di cominciare a reclamare con chi continua a venderci i prodotti del neoliberismo e della globalizzazione.

Pa.Mo.

Fonti:
• Ignacio Ramonet, Ramon Chao, Jacek Wozniak, Piccolo dizionario critico della globalizzazione, Sperling&Kupfer Editori, Milano 2004
• R.Myro, C.M.Feández-Otheo, Los mitos de la deslocalización, in «Foreign Policy» (edizione spagnola), ottobre-novembre 2004.

 

Paolo Moiola