Virus mortale dagli animali all’uomo

Malattie dimenticate (7): la febbre di Rift Valley

Il 2006 si è chiuso con una epidemia in Kenya della febbre di Rift Valley, che nella sia pur rara forma emorragica uccide un paziente su due.

I numeri che arrivano dal Kenya, dalla fine del 2006, si inseguono, giorno dopo giorno: 12 casi e 11 morti, 32 e 19, 220 e 82. Un aggioamento continuo in salita. Al momento della scrittura di questo articolo si parla di circa 250 persone infettate e oltre 90 morti, ma il bilancio non è ancora definitivo.
Il responsabile della strage silenziosa, che a dicembre ha iniziato a mietere vittime nel paese, è la febbre di Rift Valley, infezione virale che appartiene principalmente al mondo degli animali domestici (bovini, pecore, capre, cammelli), causandone la morte e portando con sé gravi perdite economiche.
Ma è un’infezione che può essere trasmessa anche all’uomo, con i risultati sopra riportati.

Rara e poco conosciuta

La febbre di Rift Valley è una malattia di origine virale non molto nota e rara. In genere, il sospetto sulla sua presenza nel bestiame scatta di fronte a un aumento non spiegato del numero di aborti spontanei fra gli animali.
La prima volta della febbre di Rift Valley risale a tre quarti di secolo fa. Nel 1930, infatti, è stato isolato per la prima volta il virus responsabile dell’infezione in Kenya.
A seguito di un’epidemia scoppiata fra le pecore di una fattoria nella Rift Valley, erano state fatte analisi che hanno poi portato all’identificazione del virus. Da allora sono state segnalate diverse epidemie nella regione subsahariana e nel Nord Africa, di cui quella maggiormente ricordata risale al 1997-98, sempre in Kenya e nella vicina Somalia (vedi il riquadro).
Risale al 2000 invece la prima segnalazione della malattia, con casi di infezione e decine di morti, in paesi non africani, e più precisamente in Yemen e Arabia Saudita, a seguito dei quali, secondo quanto riportato dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), è aumentato il rischio di una possibile espansione dell’infezione in altre zone dell’Asia e dell’Europa.

Nascosta per anni

Il passaggio del virus responsabile della malattia agli uomini avviene principalmente attraverso il contatto con sangue o altri fluidi od organi provenienti da animali malati, come pure viene considerato a rischio il consumo di latte crudo. Inoltre, sembra che il virus possa essere trasmesso tramite la puntura di una zanzara, la zanzara aedes.
In particolare, il collegamento fra epidemie di febbre di Rift Valley e precedenti allagamenti nelle zone interessate passa proprio attraverso questo insetto e i casi nel bestiame vengono in genere osservati negli anni in cui le piogge sono particolarmente abbondanti e vi sono inondazioni.
La zanzara aedes, infatti, prende l’infezione dal bestiame e la trasmette alle sue uova. Le uova infette vengono deposte lungo i corsi dei fiumi, dove possono restare per lunghi periodi, anche diversi anni, in ambiente asciutto, finché, a seguito appunto di abbondanti piogge e inondazioni, non vengono sommerse. Una volta sotto l’acqua, si schiudono dando origine a nuove zanzare infette che, ad anni di distanza dunque, propagano nuovamente il virus, infettando animali e uomini.
Questo circolo porta al mantenimento dell’infezione in natura nel tempo e a un continuo passaggio del virus: zanzare aedes e altre specie non infette, che si nutrono da animali malati con il virus nel circolo sanguigno, si infettano amplificando e mantenendo la diffusione della malattia.

Simile all’influenza, ma non sempre

Nell’uomo, il periodo di incubazione, cioè l’intervallo di tempo tra l’infezione e la comparsa dei primi disturbi, può variare da due a sei giorni. Nella maggior parte dei casi le manifestazioni della malattia sono lievi, con sintomi simili a quelli dell’influenza: febbre improvvisa, mal di testa, dolori muscolari e alla schiena; talvolta possono esserci anche disturbi che fanno pensare alla meningite, come rigidità al collo, luce fastidiosa per gli occhi (fotofobia) e vomito. Il decorso della malattia si risolve in genere nell’arco di una settimana.
Una piccola parte dei pazienti, tuttavia, può avere disturbi molto più gravi, sviluppando tre tipi di complicazioni: malattia agli occhi (0,5-2% dei casi), meningoencefalite o febbre emorragica (meno dell’1% dei casi).
Da una a tre settimane dopo la comparsa dei primi sintomi, nel primo caso si verificano lesioni alla retina, che possono portare a danni permanenti della vista, mentre nel secondo vi sono manifestazioni neurologiche, se si tratta di meningoencefalite; per entrambe le complicazioni è però rara la morte del paziente.
Non altrettanto rara invece in caso di febbre emorragica: due o quattro giorni dopo l’esordio della malattia, si manifesta una grave forma epatica, con ittero ed emorragie da tutti gli orifizi (come vomito e feci con sangue, chiazze purpuree della pelle per sanguinamenti, sangue dalle gengive). Muore un paziente su due con la forma emorragica (50%), a fronte di una mortalità globale della febbre di Rift Valley che, pur variando fra le diverse epidemie, generalmente non supera l’1%.
Secondo quanto riportato dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), nella maggior parte dei casi, in cui le manifestazioni dell’infezione sono lievi e di breve durata, non sono necessarie terapie specifiche, mentre i pazienti più gravi sono seguiti con terapie generali di supporto.
Nell’ambito della prevenzione dell’infezione e delle epidemie rientrano programmi di vaccinazione del bestiame (non vi sono al momento in commercio vaccini per l’uomo), misure di protezione nella gestione di casi e materiale infetto e nei confronti della puntura di zanzare, possibili portatrici della malattia.

In Kenya dopo le inondazioni

In Kenya, i casi di febbre di Rift Valley nelle zone nordorientali del paese, sono stati preceduti anche questa volta da inondazioni, che hanno portato alla nascita di zanzare portatrici del virus da uova infette e a un nuovo propagarsi della malattia.
È difficile avere un quadro preciso della situazione, con conteggi esatti sulla diffusione dell’attuale epidemia: la popolazione a rischio vive in una zona di grandi dimensioni, secondo quanto riportato dall’Organizzazione non governativa (Ong) Medici senza frontiere (Msf), difficile da raggiungere via terra proprio a causa delle inondazioni.
È dunque possibile che le persone infettate, che abitano in fattorie isolate, siano molte di più: secondo Msf potrebbero essere 500 mila i soggetti a rischio e i casi finora identificati potrebbero rappresentare solo una minima parte degli infettati.
Un ulteriore ostacolo a una registrazione corretta dei malati, e quindi a un loro trattamento e contenimento dell’epidemia, è dato, sempre secondo Msf, dalla paura della popolazione nei confronti della febbre di Rift Valley: visto l’alto numero di morti nelle forme gravi, molti pensano non vi sia beneficio nell’affrontare lunghi viaggi per raggiungere i centri di salute, e non vengono quindi visitati e segnalati.

Di Valeria Confalonieri

Epidemie del passato

Nel 1997 si è verificata un’importante epidemia di febbre di Rift Valley in Kenya e in Somalia. Nel mese di dicembre, dopo le abbondanti piogge registrate in ottobre, analogamente a quanto accaduto in quest’ultima epidemia, vennero segnalati nei due paesi numerosi decessi fra gli uomini e un’alta percentuale di aborti spontanei e morti per emorragie fra gli animali domestici.
Indagini dell’Organizzazione mondiale della sanità portarono alla conferma del virus della febbre di Rift Valley quale responsabile dell’epidemia, che nel solo Kenya infettò 27.500 persone e costò la vita a 170.
I primi casi di febbre di Rift Valley segnalati al di fuori del continente africano risalgono invece a circa tre anni dopo, nel settembre del 2000 nella penisola arabica, in Yemen e in Arabia Saudita. Nel primo il bilancio finale fu di 1.328 casi fra cui 166 morti, mentre in Arabia Saudita vi furono 124 morti su 882 persone infettate.

Fonti

• Centers for Disease Control and Prevention:
www.cdc.gov/ncidod/dvrd/spb/mnpages/dispages/rvf.htm

• Medici senza frontiere
www.msf.it/msfinforma/news/08012007.shtml

• Organizzazione mondiale della sanità:
www.who.int/mediacentre/factsheets/fs207/en
www.who.int/csr/disease/riftvalleyfev/countrysupport/en

Valeria Confalonieri




Giocare d’anticipo

Malattie dimenticate (6): parassitosi e nuove strategia

Sono in partenza programmi integrati per curare le malattie parassitarie, bloccando sul nascere l’infezione e le sue complicanze.

Intervenire prima che sia troppo tardi, giocare d’anticipo le carte che si hanno a disposizione contro una serie di malattie intestinali diffuse nei paesi poveri. Questa la nuova strategia che intende seguire l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) contro le patologie che interessano oltre un miliardo di persone nel mondo.

I farmaci come i vaccini
Oltre il 70% dei paesi a basso e medio reddito fa i conti con la presenza sul territorio di malattie tropicali dimenticate, che uccidono o rendono invalidi, lasciando segni permanenti sulla vita delle persone e delle loro famiglie, oltre che sulla società e sull’economia. Secondo i riportati dell’Oms, tutti i paesi a basso reddito si confrontano con almeno 5 fra le malattie dimenticate, e spesso gli abitanti ne hanno più di una. Sono condizioni diffuse soprattutto fra le popolazioni povere, che vivono in regioni con clima tropicale e subtropicale; i bambini sono quelli più a rischio e la diffusione delle infezioni è collegata all’utilizzo di acqua non sicura e condizioni di vita e igieniche scadenti.
Le malattie su cui in particolare  dovrebbe concentrarsi la nuova strategia annunciata dall’Oms sono: cecità del fiume (oncocerchiasi), elefantiasi (filariasi linfatica), schistosomiasi e le elmintiasi collegate a condizioni igieniche scadenti. Accanto a queste, viene sottolineata  la possibilità di uno sforzo integrato per la prevenzione e il controllo di una quinta malattia, il tracoma (vedi riquadro).
A fine ottobre l’Oms ha reso nota la scelta di adottare una nuova strategia, insieme con oltre 25 organizzazioni, nei confronti di queste infezioni che, se prese troppo tardi, portano invalidità e complicanze gravi. «La terapia farmacologica preventiva non impedisce necessariamente il verificarsi dell’infezione – chiarisce Lorenzo Savioli, direttore del Dipartimento per il controllo delle malattie tropicali dimenticate dell’Oms -. La prevenzione con farmaci migliora immediatamente la salute e previene malattie irreversibili nell’adulto. Come con le vaccinazioni proteggiamo le persone per tutta la vita da diverse malattie prevenibili, l’utilizzo regolare e cornordinato di pochi farmaci può proteggerle da quelle parassitarie, migliorare il rendimento scolastico dei bambini e la produttività economica degli adulti».

Uniti per lo stesso obiettivo
I passi da compiere sono raccolti in un manuale: Preventive Chemotherapy in Human Helmintiasis. Il primo passaggio importante prevede lo sfruttamento ottimale delle risorse disponibili. In pratica, viene sottolineata l’utilità di pensare in modo globale a queste malattie, anche se richiedono terapie differenti, per utilizzare al meglio mezzi e strategie comuni di controllo ed eliminazione.
Un secondo passaggio prevede il cornordinamento del lavoro dei diversi attori in campo (una dozzina di agenzie, organizzazioni non governative, aziende farmaceutiche, ecc.), per mettere a frutto le diverse esperienze e arrivare al raggiungimento del risultato comune. Spiega Francesco Rio, del Dipartimento per il controllo delle malattie tropicali dimenticate dell’Oms: «Si sta parlando di paesi dove queste malattie sono diffuse e dove quindi, spesso, sono già presenti e in funzione programmi specifici, ma ognuno va un po’ per conto suo. L’obiettivo che ci si prefigge è integrare i diversi programmi e farli funzionare insieme, secondo le indicazioni foite dal manuale sull’utilizzo dei farmaci a disposizione. Il tutto tenendo sempre in considerazione la prospettiva della zona in cui si opera».
Il passaggio dalla teoria alla pratica farà i conti quindi con i diversi contesti, possibilità e rischi locali: «In genere possono essere portati avanti programmi nazionali, ma in alcuni paesi il lavoro è organizzato a livello di distretto, per differenze locali legate all’estensione geografica ampia o alla presenza di ecosistemi variabili, con zone caratterizzate da gran secco e zone con foreste».

Il dottor Carlo Urbani
Su una base comune, ogni paese inserirà le sue specificità e, con gli strumenti già a disposizione, si comincerà ad affrontare le malattie parassitarie in un nuovo modo, cornordinato, ovunque sia possibile. «Naturalmente alcuni paesi cominceranno prima, perché maggiormente sensibilizzati, o con un sistema sanitario più ricettivo, o ancora perché più piccoli e con meno difficoltà operative locali» dice Rio, e sottolinea: «Il programma andrà avanti per tappe successive. La novità è soprattutto nella filosofia con cui verranno dati i farmaci: non solo per curare, ma soprattutto per prevenire, fino a portare questi interventi al pari delle vaccinazioni, che fanno parte del sistema sanitario».
Una novità nell’approccio alle malattie tropicali che fa pensare all’epidemiologo italiano Carlo Urbani e al suo lavoro, in Cambogia come in Vietnam. Urbani è morto a 46 anni, il 29 marzo del 2003, a Bangkok, di Sars (Sindrome respiratoria acuta grave), malattia che lui stesso contribuì a identificare in Vietnam (dove si trovava come esperto regionale dell’Oms per la regione del Pacifico occidentale) e sulla quale allertò gli esperti riguardo ai rischi di diffusione del contagio.

Alla radice della diffusione delle malattie
Carlo Urbani seguiva da sempre le malattie parassitarie nei diversi paesi ove erano diffuse. Alla fine degli anni ‘90 era in Cambogia come cornordinatore di un progetto della Ong Medici senza frontiere (Msf). Lì si era posto in un modo nuovo nei confronti della schistosomiasi, infezione intestinale che distruggeva la vita ai bambini, in particolare nelle zone lungo il fiume Mekong. «In molti villaggi lungo il Mekong i segni della malattia sono drammaticamente evidenti – scriveva in questa rubrica di Missioni Consolata del gennaio 1999 -. Gran parte dei bambini soffrono di dolori addominali cronici, emettono feci con sangue e muco, il loro addome si gonfia progressivamente per l’ingrossamento di milza e fegato, e a partire dagli anni dell’adolescenza sviluppano i primi sintomi della cirrosi epatica, la stessa malattia che colpisce gli alcolisti».
Urbani, con gli occhi dell’epidemiologo, si era interrogato su come intervenire prima che fosse troppo tardi, prima che la malattia causasse danni irreversibili e gravi in età adulta, fino alla morte. E aveva capito il legame tra la patologia e il gioco dei bambini lungo le rive del Mekong, il passaggio dell’infezione tramite l’acqua contaminata del fiume.
Il passo successivo era stato capire, grazie a un questionario dato ai bambini nelle diverse scuole, dove fossero gli alunni più a rischio, per concentrare gli sforzi di prevenzione, somministrando loro i farmaci con regolarità. Urbani aveva poi portato con sé lo stesso tipo di approccio su altre infezioni intestinali, per prevenire complicazioni gravi con trattamenti regolari.

Riflettori sui dimenticati
Nel 1999, come presidente della sezione italiana di Msf, nella cerimonia di conferimento del premio Nobel per la pace all’organizzazione, Carlo Urbani aveva detto: «Lasciamo che i riflettori, illuminandoci, illuminino e rendano visibili gli scenari dimenticati e le urgenze non considerate, affinché l’azione di domani (certo il Nobel non è il nostro traguardo finale) sia ancora più efficace e incisiva e i benefici del premio vadano a loro, le vittime».
Vi sono ancora molti scenari non illuminati, molte malattie ignorate, su cui molto si può fare, come sottolineato anche da David Heymann, assistente del direttore generale per le malattie trasmissibili dell’Oms, in riferimento al nuovo approccio sulle malattie tropicali dimenticate. «Abbiamo urgente bisogno di lavorare insieme per migliorare l’accesso a interventi con un effetto rapido e di qualità. La necessità di fare è incontestabile da tutte le prospettive: morale, dei diritti umani, economica e di salute pubblica globale. Il compito è realizzabile e deve essere fatto».

di Valeria Confalonieri

Valeria Confalonieri




Non ancora scomparsa

Malattie dimenticate (5): lebbra

Il 28 gennaio è la Giornata mondiale dei malati
di lebbra, una malattia che ancora oggi porta sofferenza ed emarginazione.

Una discesa continua nel numero di infezioni, oltre 111mila casi in meno (riduzione pari al 27%) nel 2005, rispetto alle nuove diagnosi del 2004. Un andamento positivo che ha portato a una caduta intorno al 20% ogni anno del numero di persone infettate. Eppure la lebbra non è ancora scomparsa: tutti gli anni centinaia di migliaia di malati e milioni di persone nel mondo vivono con i segni e le conseguenze dell’infezione.

Miglioramenti insufficienti
Ogni anno, l’ultima domenica di gennaio è la Giornata mondiale dei malati di lebbra, quest’anno il 28. La giornata è stata voluta nel 1954 da Raoul Follereau, un giornalista e scrittore francese che si è impegnato nella lotta alla malattia, tanto da essere definito «apostolo dei malati di lebbra». Per Follereau l’attività contro la lebbra aveva un significato più ampio, viste le forme di emarginazione dalla vita sociale a essa collegate: significava impegnarsi per la pace, contro l’emarginazione e l’ingiustizia.
La storia della lebbra è lunga. Le prime descrizioni della malattia risalgono al 600 a.C. (vedi il riquadro); la scoperta del germe responsabile, il Mycobacterium leprae, è arrivata nel 1873; il primo farmaco negli anni ‘40; l’introduzione della polichemioterapia (Mdt, multi drugs therapy), con l’utilizzo di più farmaci, negli anni ‘80. Ma il bacillo della lebbra non può ancora essere considerato sconfitto, nonostante siano a disposizione gli strumenti per contrastarlo.
Milioni di persone sono state curate: oltre il 99% dei casi registrati di lebbra ha ricevuto la politerapia, e non sono stati riportati casi di resistenza al trattamento. La maggior parte dei paesi ove l’infezione era diffusa è ormai riuscita a eliminare la lebbra dall’elenco dei problemi di salute pubblica; ma in alcuni la diffusione rimane alta. Secondo gli ultimi dati dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), che si basano su quanto riportato da 115 paesi, la prevalenza globale della lebbra (cioè il numero di persone con il Mycobacterium leprae) all’inizio del 2006 comprendeva quasi 220 mila casi, mentre il numero di nuovi casi ufficialmente segnalati nel 2005 era poco meno di 300 mila. Questi dati rappresentano tuttavia solo le persone infettate cui è stata fatta la diagnosi.
Secondo quanto riportato dall’Associazione italiana amici di Raoul Follereau (Aifo), in base ai dati del 2005, ogni giorno si ammalano 820 persone, ma rappresentano solo la metà degli infettati: altrettanti casi non vengono identificati e non si è in grado di dire il numero esatto delle persone malate.

Cicatrici sociali
La lebbra è una malattia infettiva cronica causata da un bacillo, il Mycobacterium leprae, scoperto nel 1873 dal ricercatore Gerhard Armauer Hansen. Dal suo scopritore la malattia prende il nome, meno conosciuto, di hanseniasi o morbo di Hansen, e i malati sono chiamati hanseniani.
La moltiplicazione del Mycobacterium leprae è molto lenta e la malattia ha un periodo di incubazione, dall’infezione alla comparsa dei sintomi, che può durare diversi anni (da 5 a 20). È poco infettiva e la trasmissione dell’infezione avviene tramite goccioline provenienti dal naso o dalla bocca di persone ammalate non trattate.
Dal punto di vista delle manifestazioni cliniche la lebbra colpisce soprattutto la pelle e i nervi: se non curata, può portare a danni e deformazioni progressivi e permanenti in queste sedi, oltre che agli arti superiori e inferiori e agli occhi. Proprio la sua capacità di causare invalidità permanenti e mutilazioni ha portato all’emarginazione dei malati in diversi contesti sociali e storici.
Il decorso della malattia è variabile: può non dare sintomi o essere causa di dolori forti e sfigurare il paziente. Le lesioni sulla pelle possono andare incontro a una cicatrizzazione e scomparsa spontanea o, al contrario, progredire, deturpando il malato. I danni ai nervi comportano una perdita di sensibilità per il coinvolgimento di quelli sensitivi, debolezza e atrofia muscolare per l’interessamento di quelli motori.
Negli anni ‘40, le prospettive dei malati di morbo di Hansen sono cambiate con la disponibilità del primo farmaco contro la lebbra, che tuttavia non uccideva il bacillo: ne arrestava la proliferazione, rallentando la malattia. Andava quindi assunto per lunghi periodi, anche per tutta la vita, e vi era il rischio di comparsa di micobatteri resistenti al trattamento. All’inizio degli anni ‘80 è stata introdotta la polichemioterapia, con l’associazione di più medicine, raccomandata fin dal 1981 dall’Oms; ora il trattamento del paziente con hanseniasi può durare da sei mesi a due anni.

India e brasile in testa
Nel 1991, l’Assemblea dell’Oms ha approvato una risoluzione che prevedeva l’eliminazione della lebbra come problema di salute pubblica entro l’anno 2000. Questo significava arrivare a una prevalenza della malattia nel mondo inferiore a un caso ogni 10 mila persone, obiettivo che l’Oms riferisce come raggiunto.
Molti paesi, in cui in precedenza la lebbra era diffusa, sono riusciti a eliminarla grazie alla polichemioterapia; ma ve ne sono ancora alcuni in cui le attività di controllo continuano. In queste aree ad alto rischio di trasmissione del Mycobacterium leprae, l’Oms sottolinea come siano cruciali campagne di informazione per i pazienti e loro famiglie, perché escano dall’ombra e si facciano curare, non nascondano l’infezione nel timore di essere isolati o segnati dalla società.
La diffusione della polichemioterapia ha dunque ridotto drammaticamente il carico di malattia: negli ultimi 20 anni oltre 14 milioni di pazienti sono stati curati (4 milioni dal 2000) e la prevalenza della malattia è scesa del 90%, ovvero da 21,1 casi per 10 mila abitanti a meno di uno, sempre nel 2000.
Nel 2005, in 17 paesi sono stati registrati oltre mille casi di lebbra per paese. Fra questi, ove si verificano oltre il 94% dei casi totali nel mondo, spicca al primo posto l’India, con 161.457 casi, seguita, seppur con molto distacco, dal Brasile, con 38.410 casi. Confrontando i dati con quelli degli anni precedenti, si nota un calo consistente nel numero di nuove diagnosi: in Brasile di quasi 10 mila casi rispetto al 2004, ma soprattutto in India, con numeri più che dimezzati fra il 2002 e il 2005 e scesi di circa 100 mila casi rispetto al 2004.
La riduzione sembra riguardare in particolare il sud del paese, dove ormai da 20 anni funziona un programma contro la lebbra, mentre il miglioramento è meno evidente nel nord, che ha visto un funzionamento di tali programmi di controllo solo negli ultimi 4-6 anni.
Sempre secondo gli ultimi dati dell’Oms, vi sono tuttavia alcune zone in cui, fra il 2004 e il 2005, i casi segnalati sono addirittura aumentati: per esempio in Indonesia, dove nel 2004 sono stati segnalati 16.549 casi, contro i 19.695 nel 2005, o in misura minore, in Mozambico (da 4.266 a 5.371), nelle Filippine (da 2.254 a 3.130) e in Cina (da 1.499 a 1.658).

L’incognita dell’hiv
Ma è proprio la situazione dell’India che desta preoccupazione, a fronte di un nuovo rischio che sembra profilarsi all’orizzonte. Secondo quanto segnalato a fine ottobre 2006 su The New York Times, la terapia contro l’Aids potrebbe riportare alla luce nel paziente una infezione nascosta da Mycobacterium leprae. La comparsa della malattia sarebbe da collegare al recupero, grazie ai farmaci contro l’Hiv, delle capacità immunitarie di difesa dell’organismo, che ritoerebbe in grado di reagire all’infezione del Mycobacterium leprae con le relative manifestazioni cliniche.
La prima segnalazione di questo insolito effetto collaterale della terapia contro l’Aids risale al 2003 e finora i casi descritti in letteratura sono una dozzina. Potrebbero però essere molti di più: in diverse aree geografiche, come Brasile, India, Africa, Caraibi, vi sono descrizioni di lesioni dolorose al viso o perdita della sensibilità alle dita, compatibili con la lebbra, in malati in trattamento con antiretrovirali. Il Brasile e l’India sono forse i paesi che preoccupano maggiormente. Nel primo, come già visto, la lebbra è diffusa e nello stesso tempo è in atto uno dei programmi di trattamento per l’Aids fra i più efficaci nei paesi poveri. L’India, dal canto suo, accanto alla lebbra conta 5,2 milioni di persone con l’Hiv. Altre zone considerate a rischio sono Myanmar (ex Birmania), Madagascar, Nepal e Mozambico, oltre a tutte quelle aree in cui le informazioni sulla situazione sanitaria non sono precise.

Valeria Confalonieri

Si ringrazia l’Associazione italiana Amici di Raoul Follereau (Aifo), organizzatrice per l’Italia della Giornata mondiale dei malati di lebbra.

La lebbra nella storia

La prima segnalazione scritta sulla lebbra risale al 600 a.C., in India, mentre la sua prima descrizione trova posto in un trattato di medicina cinese di 200 anni dopo.
In Occidente, l’infezione inizia a essere considerata come problema per la salute della popolazione nel vii e viii secolo d.C.; è del 643 l’editto di Rotari, a Pavia, con le prime indicazioni riguardo l’isolamento dei malati e perdita dei loro diritti civili. Commerci, pellegrinaggi e crociate hanno poi incrementato la diffusione della lebbra in Occidente intorno al 1000 d.C. Dall’Oriente all’Occidente, la malattia è arrivata in paesi lontani come Islanda e Groenlandia, senza distinzioni di ceto sociale.
I casi di lebbra iniziano a diminuire solo fra il xiv e il xv secolo, in seguito alla diffusione della tubercolosi, la riduzione dei contagi con le misure di isolamento dei malati adottate e i morti per la peste del 1300, fra i quali anche i malati di lebbra. In Europa, i casi locali di lebbra (non provenienti da altri paesi) iniziano a scomparire dal 1700 fino alla seconda metà del 1900 (Italia compresa, negli anni ‘70).

Valeria Confalonieri




Batterio dai molti misteri

In viaggio tra malattie e sottosviluppo

L’Organizzazione mondiale della sanità la definisce una delle malattie tropicali più dimenticate, ma curabile. Di solito non è mortale, ma le conseguenze dell’infezione possono essere devastanti e debilitanti: le parti del corpo colpite dall’infezione rimangono deformate, limitando l’autonomia e la vita dei malati.
Nell’Africa occidentale un malato su quattro rimane con disabilità permanenti, e nella maggior parte dei casi si tratta di bambini.

La famiglia dei micobatteri
Il germe responsabile dell’ulcera di Buruli è un micobatterio (Mycobacterium ulcerans), della stessa famiglia dunque dei batteri che provocano la tubercolosi e la lebbra. Ma di Mycobacterium ulcerans (M. ulcerans) e delle conseguenze della sua infezione si parla ancora meno. Produce una tossina chiamata miconolattone, isolata soltanto alla fine degli anni ‘90, che svolge un ruolo nella distruzione dei tessuti e dell’osso e interferisce con il sistema immunitario.
Il M. ulcerans è presente nell’ambiente, ma vi sono ancora diversi punti oscuri sulla sua distribuzione e trasmissione. Sembra essere collegato ad ambienti umidi, tropicali, in prossimità dell’acqua. È stato visto, per esempio, che profughi rwandesi rifugiatisi in Uganda, in campi in prossimità del Nilo, hanno iniziato a manifestare la malattia, assente nel loro paese, ma quando si sono spostati in altre zone, non vi sono stati più nuovi casi.
Rimane sconosciuto il modo in cui l’ulcera di Buruli viene trasmessa all’uomo ed è sotto studio il ruolo di insetti o di altri fattori nella trasmissione. In particolare, se venissero confermati i dati di alcune ricerche che hanno trovato collegamenti con insetti acquatici e zanzare, si tratterebbe della prima malattia nota da micobatterio trasmessa da insetti. Non sembra comunque esserci un passaggio da uomo a uomo e nemmeno una maggiore facilità a infettarsi in persone con l’Hiv, al contrario di quanto accade con la tubercolosi, anch’essa causata, come detto prima, da un micobatterio.

Ulcerazioni della pelle
L’ulcera di Buruli si può manifestare in entrambi i sessi e a tutte le età, anche se la maggior parte delle persone infettate ha meno di 15 anni. Le lesioni possono presentarsi in ogni parte del corpo, ma in 9 casi su 10 vengono colpiti gli arti, e circa il 60% di tutte le ulcere si manifesta alle gambe.
Anche se la mortalità per questa malattia è bassa, sono numerose e importanti le conseguenze dell’infezione sulla vita dei malati, anche una volta arrivata a guarigione.
L’ulcera di Buruli inizialmente si manifesta con un rigonfiamento mobile della pelle (nodulo) che non è causa di dolore. Progredisce senza sintomi, quali febbre o dolore, per l’azione della tossina prodotta dal batterio (miconolattone) o forse anche per altri meccanismi non conosciuti; i malati si sentono bene in generale; e questo porta a un ritardo nella diagnosi, perché non richiedono subito visite o trattamenti.
Compaiono poi ulcere, con distruzione dei tessuti e bordi profondi, scavati. Talvolta viene colpito anche l’osso, con conseguente deformità; in un paziente su quattro circa, dopo la guarigione della malattia, con la cicatrizzazione delle lesioni, restano limitazioni ai movimenti degli arti e disabilità permanenti.

Conseguenze nel tempo
La diagnosi è in genere clinica; non sono necessari, se non di rado, accertamenti di laboratorio: basta l’esperienza degli operatori sanitari nella zona dove la malattia è presente.
La terapia si basa su antibiotici, sulla chirurgia per rimuovere il tessuto distrutto dall’infezione e riparare le lesioni della pelle e le deformità, su ulteriori interventi per ridurre o prevenire l’insorgenza di disabilità legate agli esiti cicatriziali delle ulcere.
Molti pazienti nei paesi poveri arrivano alla diagnosi e al trattamento troppo tardi, quando la malattia è in stadio avanzato. Di conseguenza, il suo impatto sulle poche strutture sanitarie presenti nei paesi in cui l’ulcera di Buruli è presente, è enorme dal punto di vista dei costi.
Spesso sono necessari ricoveri in ospedale di oltre tre mesi, con conseguente mancanza di produttività, quando si tratta di pazienti adulti e capi famiglia, o interruzione degli studi nel caso dei più piccoli. Vi è inoltre il carico dovuto alle disabilità permanenti, che richiedono cure anche dopo l’intervento e fisioterapia e limitano le possibilità di lavoro dei pazienti.

Alla luce
dopo un lungo silenzio
La storia di questa malattia tropicale è di lunga data, ma l’attenzione intorno all’infezione e alle sue conseguenze è arrivata solo in tempi recenti. Nel 1997 l’allora direttore generale dell’Organizzazione mondiale della sanità, Hiroshi Nakajima, dopo aver visto gli effetti devastanti dell’ulcera di Buruli sulla pelle di pazienti in Costa d’Avorio, ha annunciato l’organizzazione di sforzi inteazionali per contrastare l’infezione. L’anno successivo è nata l’iniziativa globale contro l’ulcera di Buruli (Global Buruli Ulcer Initiative, Gbui) ed è stata organizzata la prima conferenza internazionale dedicata al controllo e alla ricerca sulla malattia.
Lo scopo della Gbui, cui partecipano oltre 40 organizzazioni non governative, istituti di ricerca e fondazioni, è cornordinare gli sforzi nel campo della ricerca e del controllo dell’ulcera di Buruli.
Infine, nel 2004, nell’ambito dell’Assemblea mondiale della sanità (World Health Assembly), la malattia è stata oggetto di una risoluzione che richiede, oltre a maggiore sorveglianza e controllo, una intensificazione delle ricerche per sviluppare strumenti di diagnosi, trattamento e prevenzione.
Qualcosa si muove dunque, rispetto al silenzio del passato, e apre la porta alla speranza di nuove conoscenze e possibilità per curare la malattia e contrastae la diffusione.

Valeria Confalonieri


Valeria Confalonieri




Non perdere la vista

Malattie dimenticate (3): Oncocercosi (cecità del fiume)

Ha fatto perdere la vista a 270 mila persone, ne ha infettate oltre 17 milioni. E 9 casi su 10 sono in Africa. L’oncocercosi, o cecità del fiume, è seconda in classifica come causa infettiva di cecità, la principale in numerosi paesi africani. In alcune zone dell’Africa occidentale, un uomo su due con più di 40 anni di età non vede più per causa sua. Anche se di rado minaccia la vita delle persone infettate, è responsabile di sofferenza cronica e condiziona l’esistenza dei malati.
Ma la cecità del fiume è anche una malattia che testimonia come sia possibile intervenire in contesti difficili, in paesi poveri. Un programma di controllo della diffusione dell’oncocercosi, avviato dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) nel 1974, in collaborazione con Banca mondiale, Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (Undp) e Organizzazione per l’alimentazione e l’agricoltura (Fao), è stato ufficialmente chiuso nel 1992, sulla base dei risultati raggiunti in 10 paesi su 11 che partecipavano al progetto. Unica esclusa la Sierra Leone, dove gli interventi erano stati interrotti a causa della guerra civile.

LA MAPPA DELLA CECITÀ

L’oncocercosi è una malattia infettiva che colpisce occhi e pelle. È causata da un parassita, un verme introdotto nel corpo umano dal morso di un tipo di mosca: la mosca nera. Il nome cecità del fiume, o cecità fluviale (dall’inglese river blindness), deriva dalla maggiore facilità di essere punti in prossimità di fiumi o torrenti, dove le mosche nere si riproducono.
La malattia è presente in 35 paesi in tutto il mondo: 28 in Africa occidentale e centrale, dove si trova la grande maggioranza dei casi, sei in America Latina (Brasile, Colombia, Ecuador, Guatemala, Messico e Venezuela) e uno nella penisola arabica (Yemen).

IL VERME RESPONSABILE

Il responsabile della cecità del fiume si chiama Onchocerca volvulus, un verme parassita, la cui prima osservazione risale al 1875. Il parassita può sopravvivere nel corpo umano fino a 14 anni. Le femmine adulte del verme producono milioni di larve microscopiche.
Mentre i vermi adulti si aggregano in noduli sotto la pelle, le larve si diffondono nei tessuti circostanti e nell’organismo fino all’occhio, causando i sintomi e segni della malattia: prurito intenso, lesioni della pelle, maggiore o minore colorazione cutanea, e, a livello oculare, infiammazione, sanguinamenti e altre complicazioni fino alla perdita della vista.
Le ripetute lesioni nel corso degli anni, oltre alla cecità, possono lasciare segni permanenti anche sulla pelle (pelle a leopardo e a lucertola).
L’Onchocerca volvulus è un parassita quasi esclusivo dell’uomo e la mosca nera rappresenta un vettore della malattia, che con le sue punture può trasmettere l’infezione da una persona malata a una sana. Infatti, quando la mosca nera punge una persona infetta, può ingerire le larve che, dai noduli, si diffondono nei tessuti sottocutanei.

UNA VITA SEGNATA DALLA MALATTIA

Ma gli effetti dell’infezione non sono solo direttamente collegati alle manifestazioni cliniche e alla sofferenza causata dalla malattia. Infatti, la cecità del fiume può rappresentare un ostacolo allo sviluppo economico delle zone in cui è diffusa. La paura di essere morsi dalla mosca nera e di contrarre l’infezione ha portato le popolazioni ad abbandonare i terreni fertili nelle zone dell’Africa occidentale, in prossimità dei fiumi. Questi spostamenti hanno avuto un impatto economico negativo, valutato intorno agli anni ‘70 pari a una perdita di 30 milioni di dollari l’anno.
Inoltre, gli effetti invalidanti della malattia sulla visione e le alterazioni permanenti sulla pelle hanno ripercussioni dal punto di vista psicologico e di integrazione sociale per il malato e per i suoi familiari. Accanto alla invalidità causata dalla riduzione o perdita della vista, anche gli effetti della malattia a livello cutaneo condizionano la vita, interferendo con le relazioni sociali, facilitando l’isolamento del paziente, aumentando le sue difficoltà.

LE POSSIBILITà DI SUCCESSO

Come accennato all’inizio, la cecità del fiume rappresenta una testimonianza di come sia possibile intervenire, per interrompere la trasmissione di una malattia anche in contesti poveri. Nel 1974, viste le conseguenze drammatiche della diffusione della malattia nell’Africa occidentale, l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), insieme con Banca mondiale, Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (Undp) e Organizzazione per l’alimentazione e l’agricoltura (Fao), ha costituito il Programma di controllo dell’oncocercosi (Onchocerciasis Control Programme, Ocp).
L’obiettivo era quello di proteggere dalla malattia 30 milioni di persone in 11 paesi: Benin, Burkina Faso, Costa d’Avorio, Ghana, Guinea Bissau, Guinea, Mali, Niger, Senegal, Sierra Leone e Togo. Inizialmente il programma seguito dall’Onchocerciasis Control Programme prevedeva soltanto l’utilizzo di insetticidi, sparsi da elicotteri e aerei sulle zone ove si riproducevano le mosche nere, per eliminae tutte le larve e interrompere così la trasmissione dell’infezione da uomo a uomo.
A questo, nel 1987, si aggiunse la possibilità di trattare direttamente la malattia nella popolazione con un farmaco efficace, reso disponibile dall’azienda produttrice. In alcune zone sono stati messi in atto entrambi gli interventi, in altre utilizzata solo la terapia.
Nel dicembre del 2002 l’Onchocerciasis Control Programme è stato ufficialmente concluso. È stato calcolato che questo intervento ha evitato 600 mila casi di cecità e ha permesso a 18 milioni di bambini di nascere in zone sotto controllo per quanto riguarda il rischio di oncocercosi.
Inoltre, dal punto di vista dell’economia dei paesi inclusi nel programma e degli effetti negativi conseguenti all’abbandono delle zone a rischio di infezione da parte della popolazione locale, sono stati recuperati 25 milioni di ettari di terreno.

ESPERIENZE
AFRICANE E AMERICANE

Sempre in Africa, nel 1995 ha visto la luce un nuovo programma di trattamento (African Programme for Onchocerciasis Control, Apoc), per contrastare la malattia in altri 19 paesi del continente, non coinvolti dall’Onchocerciasis Control Programme: Angola, Burundi, Camerun, Repubblica Centrafricana, Ciad, Congo Brazzaville, Repubblica Democratica del Congo, Etiopia, Guinea Equatoriale, Gabon, Kenya, Liberia, Malawi, Mozambico, Nigeria, Ruanda, Sudan, Tanzania e Uganda.
In questo programma vengono coinvolte direttamente le comunità locali, per contrastare la malattia nei singoli villaggi. I progetti dell’Apoc, nel 2003, hanno trattato 34 milioni di malati in 16 Paesi e l’obiettivo è arrivare a curare 90 milioni di persone ogni anno, proteggere la popolazione a rischio (pari a 109 milioni) e prevenire così 43 mila casi di cecità l’anno.
Infine, anche per l’America Latina, dal 1992 vi è un programma di eliminazione, chiamato Onchocerciasis Elimination Program for the Americas (Oepa), per eliminare la malattia e interrompee la trasmissione, utilizzando il farmaco per curarla nei sei paesi ove è diffusa (Brasile, Colombia, Ecuador, Guatemala, Messico e Venezuela).
I risultati del 2002 mostrano una copertura, con il trattamento, almeno dell’85% in cinque paesi, più bassa solo in Venezuela (65%).

Valeria Confalonieri

Fonti
o Centers for Disease Control and Prevention:
www.cdc.gov/ncidod/dpd/parasites/onchocerciasis/factsht_onchocerciasis.htm
o Malattie dimenticate:
http://www.malattiedimenticate.net/patologie/cecit%e0%20del%20fiume.asp
o Organizzazione mondiale della sanità:
www.who.int/topics/onchocerciasis/en/
www.who.int/blindness/causes/priority/en/index3.html
o The Unicef-Undp-World Bank-Who Special Programme for Research and Training in Tropical Diseases:
www.who.int/tdr/diseases/oncho/

Valeria Confalonieri




In attesa di terapie

Ogni anno la leishmaniosi colpisce due milioni di persone, e ne uccide decine di migliaia.

Una diagnosi rapida, non dolorosa, economica, realizzabile anche nelle zone più sperdute, senza luce elettrica e senza ospedali. Queste le promesse di un nuovo test rapido per la diagnosi della leishmaniosi viscerale (o kala azar), malattia causata da un parassita (leishmania donovani), che infetta ogni anno 500 mila persone e ne uccide 50 mila.
La notizia è arrivata nei primi mesi di quest’anno dall’India, più precisamente dall’Istituto di scienze mediche (All Indian Institute of Medical Sciences): un passo in avanti per una delle quattro forme di leishmaniosi diffuse nel mondo, quella più grave, con una mortalità altissima (85-100%) se non trattata, che scende al 5% se vi è disponibilità di farmaci.

Moscerino pericoloso

La leishmaniosi è una malattia infettiva, causata da un parassita di nome leishmania, trasmesso all’uomo dalla puntura di un moscerino o mosca della sabbia, di cui esistono circa trenta specie. È un insetto di piccole dimensioni, color sabbia appunto, che vive in zone con foreste, in cavee e in tane di roditori di piccole dimensioni.
La leishmaniosi è una zoonosi, cioè si trasmette dall’animale all’uomo: colpisce in particolare cani e roditori, e il trasferimento all’uomo avviene attraverso la puntura della femmina della mosca della sabbia. È anche possibile il passaggio da uomo a uomo, sempre con il tramite della mosca o anche, visto il passaggio del parassita con il sangue, attraverso siringhe contaminate o trasfusioni. Raramente, è possibile la trasmissione dalla madre al feto.

Diversa specie, diversa malattia

Del parassita esistono diverse sottospecie, responsabili di differenti forme della malattia. La forma cutanea, causata dalla leishmania major, presente soprattutto in Africa, Asia ed Europa, è quella più diffusa, caratterizzata da numerose lesioni, anche più di 200 in un solo malato. Le ulcere si presentano sulle parti del corpo esposte, braccia, gambe e volto. Possono guarire spontaneamente nel giro di alcuni mesi, ma possono rimanere cicatrici evidenti, che condizionano la vita di relazione delle persone e sono causa di pregiudizio sociale. Vi è anche una forma cutanea diffusa, in cui le lesioni sono più estese, simili alla lebbra: non guariscono in assenza di trattamento e tendono a riformarsi.
La leishmania brasiliensis è responsabile invece della forma mucocutanea, presente nelle Americhe: in questi casi le ulcere cutanee, anche molto estese, distruggono i tessuti sottostanti, in particolare le mucose di naso, bocca e gola. Anche in questi malati, i danni causati dalla malattia possono portare alla loro emarginazione sociale.
Infine, la forma di leishmaniosi più grave è quella viscerale, causata dalla leishmania donovani. Chiamata anche kala azar, se non viene curata, porta a morte il paziente entro due anni.
Il parassita, in questa forma di leishmaniosi, penetra nei vasi linfatici del paziente, arriva fino alla milza e al fegato, ingrossandoli, causa anemia, perdita di peso e febbri ad andamento irregolare e improvvise.

Due milioni di malati ogni anno

La leishmaniosi è presente in 88 paesi, ma il maggior numero di casi si concentra in poche zone geografiche. Infatti, il 90% dei malati con la forma cutanea si trova in Afghanistan, Algeria, Arabia Saudita, Brasile, Iran, Perù, Siria; il 90% di quelli con la forma mucocutanea in Bolivia, Brasile e Perù; infine il 90% di quelli con la forma viscerale è in Bangladesh, Brasile, India Nepal e Sudan.
Ogni anno vengono registrati circa un milione e mezzo di casi di leishmaniosi cutanea e 500 mila di viscerale, per un totale di circa 2 milioni; i morti sono 59 mila. Complessivamente, le persone che rischiano di ammalarsi sono 350 milioni e al momento si pensa che le persone con il parassita siano 12 milioni.
Ma si tratta di stime: non è nota la reale diffusione della malattia, perché i dati clinici a disposizione sono scarsi. Spesso i pazienti vivono in zone isolate, non raggiungibili facilmente e dove l’accesso alle cure sanitarie è difficile e inadeguato: è troppo il tempo impiegato dai malati con leishmaniosi viscerale per raggiungere un ambulatorio oppure, una volta giunti in ospedale, non vi trovano le medicine necessarie. Molti decidono quindi di non affrontare neppure il viaggio per curarsi: preferiscono morire nella loro casa, nel proprio villaggio. Per questo non vi sono certezze sulla diffusione dell’infezione e sul numero reale di morti.

Leishmaniosi e Aids

Nell’ultimo decennio, fra l’altro, il numero di nuovi casi di leishmaniosi è aumentato. Fra le possibili cause identificate alla base di tale maggiore diffusione del parassita vi è la nascita di nuovi centri abitati, la penetrazione umana nella foresta primaria, la deforestazione, la migrazione dalle campagne verso le città, una veloce e poco pianificata urbanizzazione, la costruzione di dighe e nuovi piani di irrigazione.
Ma un elemento importante è anche la maggiore facilità all’infezione negli abitanti delle zone in cui è diffusa la malattia: il rischio di leishmaniosi aumenta con la malnutrizione e la concomitante presenza di virus dell’Aids, che riduce le difese dell’organismo.
Infatti, la forma più grave di leishmaniosi, quella viscerale, tende a manifestarsi soprattutto nelle persone con le difese immunitarie ridotte a causa dell’Hiv. Si verifica un’alleanza mortale, analogamente a quanto succede con la concomitanza di Hiv e altre malattie infettive, come la tubercolosi: la malattia parassitaria facilita la strada al virus dell’Aids e accelera il decorso dell’infezione. Al tempo stesso, l’Aids aumenta il rischio di prendere la leishmaniosi di 100-1000 volte nelle zone ove il parassita è presente.
I danni prodotti sul sistema immunitario dalle due infezioni, infatti, si sommano, dato che la leishmania e l’Hiv distruggono lo stesso tipo di cellule. Le difese del paziente, di fronte a un’infezione contemporanea, sono ancora più compromesse e la leishmaniosi rappresenta, in diverse zone, la causa principale di morte in pazienti con Aids.

Trattare la forma più grave

Le possibilità terapeutiche, in particolare per la forma più grave, quella viscerale o kala azar, non sono brillanti. I farmaci disponibili sono tossici, costosi o di complessa somministrazione. Il farmaco più utilizzato ha ormai quasi 70 anni e causa effetti collaterali gravi in tre pazienti su dieci, oltre a essere troppo caro per la maggior parte dei malati.
Inoltre, il parassita sta diventando resistente al farmaco, che non riesce più a ucciderlo e a guarire il malato. In India, per esempio, in alcune zone la resistenza arriva al 70%, come dire che il trattamento è inefficace in 7 pazienti su 10.
Vi sono poi altre soluzioni terapeutiche, ma considerate di seconda scelta. Difficile anche la prevenzione, per la quale possono essere utilizzati repellenti e zanzariere trattate con insetticida, mentre sono in corso ricerche per lo sviluppo di un vaccino.
Il quadro non è positivo dunque, e la leishmaniosi viscerale continua a uccidere più di quanto dovrebbe. Nell’attesa di nuovi farmaci, il test proposto dall’Istituto di ricerca indiano, di cui si parlava all’inizio, potrebbe semplificare e anticipare la diagnosi, aumentando, se non altro, il numero di persone che possono essere curate.
Rispetto infatti ai metodi di diagnosi finora a disposizione, dovrebbe essere più rapido (8 minuti), indolore, utilizzabile anche in zone sperdute ed economico: meno di due dollari, un quinto rispetto agli altri. Secondo i ricercatori indiani, il nuovo test sarebbe in grado di scovare il parassita entro 15 giorni dall’infezione, anticipando la diagnosi, dato che i sintomi in genere non compaiono prima di tre mesi.
Viene anche sostenuta un’efficacia del cento per cento nell’identificazione dell’infezione, ma saranno necessarie verifiche sul campo, nei diversi paesi ove la leishmaniosi è presente. Il tempo foirà la risposta.
Intanto, i ricercatori hanno chiesto al ministro della Salute dell’India di includere il nuovo test nel programma di eradicazione entro il 2012 della leishmaniosi e all’Organizzazione mondiale della sanità di utilizzarlo anche in altri Paesi.

Di Valeria Confalonieri

Valeria Confalonieri




Curare ai confini della vita

Che fare quando non si può più arginare la malattia o farla regredire?
In questi casi (in rapida crescita) occorre cercare di controllare i sintomi
e di ridurre la percezione del dolore.

«Nella medicina modea – scrive Giovanni Paolo II – vanno acquistando rilievo particolare le cosiddette cure palliative, destinate a rendere più sopportabile la sofferenza nella fase finale della malattia e ad assicurare al tempo stesso al paziente un adeguato accompagnamento umano» (Evangelium vitae, n.65). Nell’assistere il paziente può giungere il momento in cui dal punto di vista terapeutico non si può più arginare la malattia o farla regredire, e in questa situazione ogni intervento rischia di essere eccessivo, non proporzionato.
Però la medicina anche in queste situazioni ha ancora delle risorse da impiegare e pertanto ha l’obbligo di ricorrervi, nei limiti del possibile, con atti non più rivolti esclusivamente alla guarigione e al prolungamento della vita, ma come un dovere nei confronti del paziente e della sua dignità.
Di fronte a un certo concetto della medicina che in questi casi afferma di non poter fare più nulla, si è fatto riferimento al termine latino pallium, cioè «mantello», volendo significare che anche in questa fase occorre «avvolgere» il malato di tutto l’amore, l’accompagnamento e la cura necessaria.

COSA SONO
LE CURE PALLIATIVE?

Per cure palliative si intendono pertanto quei trattamenti a favore di pazienti affetti da malattia ritenuta inguaribile, finalizzati al controllo dei sintomi più che della patologia di base, per mezzo dell’applicazione di procedure che consentano una migliore qualità di vita per chi soffre.
Secondo i dati registrati dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), nel prossimo futuro sarà sempre più impellente la necessità del ricorso a queste cure, proprio a causa della notevole incidenza di mortalità da cancro (circa 7 milioni di persone all’anno che in previsione verranno raddoppiati), da Aids, da malattie degenerative del sistema nervoso, come la sclerosi multipla e il morbo di Alzheimer.
L’Oms già nel 1990 ne ha dato la seguente definizione: «Le cure palliative sono la continua, attiva, integrale cura del paziente e dei suoi cari ad opera di un team interdisciplinare. L’obiettivo primario delle cure palliative è la più elevata qualità di vita del paziente così come per i suoi cari. Il paziente viene curato da un partner responsabile. La cura palliativa risponde ad esigenze spirituali ed essa dovrebbe estendere questi supporti».
Si può perciò affermare che si tratta di una «cura integrale», che abbraccia cioè tutte le dimensioni (fisica, psichica e spirituale) del malato.
L’équipe deve quindi essere obbligatoriamente multidisciplinare, composta cioè da medici, infermieri, psicologi, assistenti sociali, sacerdoti o operatori pastorali, ma anche volontari. Tutte le figure professionali coinvolte lavorano in sinergia tra loro, si alternano, cercando di venire incontro alle molteplici, articolate e sempre nuove necessità del sofferente.

L’ESPERIENZA
DEGLI «HOSPICES»

L’organizzazione di tali attività avviene sia in strutture specialistiche chiamate «hospices», sia in reparti ospedalieri, sia infine in ambito domiciliare. La promotrice di questa autentica svolta del pensiero medico moderno è stata Cecily Saunders, la quale, prima infermiera e poi medico, nel 1967 poté aprire il St. Christopher’s Hospice a Londra come luogo di cura incentrato sull’assistenza dei malati terminali. L’idea di questo hospice si è rivelata vincente diffondendosi prima negli Usa e poi in Europa.
Importante è stata infine la costituzione di un vero e proprio «Movimento Hospice», differenziato a seconda dei paesi e delle connotazioni religiose. L’obiettivo è l’evoluzione del concetto di «cura palliativa», che ha sviluppato un intento formativo per affrontare la grande tematica della sofferenza e della morte in corsi per operatori sanitari e volontari, nonché la gestione di «unità palliative», sia come strutture simil-ospedaliere che come team operativi, anche in cooperazione con i servizi sanitari nazionali.
A conferma del successo di queste iniziative, negli ultimi anni è stata fondata la «Società europea di cure palliative», che raccoglie le già esistenti società nei diversi paesi del continente.
In Italia, dopo un primo periodo di sospetto nei confronti degli hospices si è avuta una diffusione di questo tipo di medicina, sia a livello ospedaliero, sia a livello domiciliare.

LA TERAPIA DEL DOLORE

Oggi le cure palliative comprendono principalmente:
• la terapia oncologica, cioè l’insieme delle applicazioni delle classiche terapie oncologiche (chirurgia, radioterapia, chemioterapia) destinate a pazienti in cui si ricerca il controllo dei sintomi;
• le cure di supporto, cioè l’uso di analgesici al fine di ridurre o abolire la percezione del dolore; la valutazione nutrizionale e la regolazione idro-elettrolitica; il trattamento delle infezioni opportunistiche; le procedure fisioterapiche di riabilitazione; il sostegno psicologico a cui spetta un posto di particolare rilievo sia per il paziente che per i familiari; la sorveglianza psicologica della équipe degli operatori sanitari, che in questa delicata fase della malattia cronica è fondamentale per l’ottimizzazione terapeutica.
Il controllo del dolore e degli altri sintomi associati, quali la nausea, il vomito, l’astenia, nonché dei problemi psicologici, sociali e spirituali rappresentano comunque il punto focale delle cure palliative, il cui obiettivo primario è quello di garantire la migliore qualità di vita possibile al paziente.
Le cure palliative affermano il valore della vita, considerano la morte come un evento naturale, offrono un sistema di supporto per aiutare il malato a vivere dignitosamente e la famiglia a convivere prima con la malattia e poi con il lutto.
L’etica medica impone di valorizzare le cure palliative. Esse si pongono tra l’accanimento terapeutico e l’eutanasia. Costituiscono la cosiddetta «terza via» da perseguire in modo privilegiato con i malati terminali o comunque cronici. L’impossibilità della guarigione non deve far desistere dalla volontà di curare. Tuttavia, da una medicina ai confini della vita non possono che scaturire inevitabilmente molteplici problematiche bioetiche di non sempre univoca interpretazione e risoluzione.

ESISTONO DEI LIMITI?

I problemi di fondo riguardano da un lato la terapia antalgica, che mira ad eliminare il dolore fisico, percepito come inaccettabile e lesivo della dignità; dall’altro lato vi è lo sforzo di aiutare il malato a trovare un senso alla sofferenza e alla morte.
Le questioni morali inducono a considerare il morente non soltanto dal punto di vista delle sue condizioni fisiche, ma anche come persona con esigenze psicologiche, spirituali e religiose; una prospettiva che non può che rendere maggiore l’attenzione e la capacità di aiuto nei confronti di chi si trova al termine della vita.
In tale contesto sorge, tra gli altri, il problema della liceità del ricorso ai vari tipi di analgesici e sedativi per alleviare il dolore, quando ciò comporta il rischio di accelerare la morte. Se infatti può essere considerato degno di lode chi accetta volontariamente di soffrire rinunciando a interventi antidolorifici per conservare la piena lucidità, tale comportamento non può essere ritenuto doveroso per tutti. Già Pio XII aveva affermato che è lecito sopprimere il dolore per mezzo di narcotici, pur con la conseguenza di limitare la coscienza e di abbreviare la vita, «se non esistono altri mezzi e se, nelle date circostanze, ciò non impedisce l’adempimento di altri doveri religiosi e morali». In questo caso, infatti, la morte non è voluta o ricercata, nonostante che per motivi ragionevoli se ne corra il rischio: semplicemente si vuole lenire il dolore in maniera efficace, ricorrendo agli analgesici messi a disposizione dalla medicina. Non si può parlare quindi di eutanasia attiva, ma di una cura appropriata e proporzionata ad un quadro clinico grave ed irreversibile.
Tuttavia, «non si deve privare il moribondo della coscienza di sé senza grave motivo»: avvicinandosi alla morte, gli uomini devono essere in grado di poter soddisfare ai loro obblighi morali e familiari e soprattutto «devono potersi preparare con piena coscienza all’incontro definitivo con Dio».

LA NUTRIZIONE E L’IDRATAZIONE

La questione nodale consiste in questo: è sempre necessario nutrire ed idratare il paziente terminale? Da un lato l’alimentazione fa parte dell’assistenza cosiddetta ordinaria, però in un morente la necessità e il desiderio di alimentarsi diminuisce gradualmente fino ad annullarsi.
Il problema è perciò quello della nutrizione e dell’idratazione artificiale, che di per sé è una terapia e richiederebbe pertanto il consenso informato. A tal proposito la «Carta degli operatori sanitari» afferma: «L’alimentazione e l’idratazione, anche artificialmente amministrate, rientrano tra le cure normali dovute sempre all’ammalato quando non risultino gravose per lui: la loro indebita sospensione può avere il significato di vera e propria eutanasia».
La questione oggi è più che mai dibattuta e rimane aperta, prestandosi a diverse interpretazioni, come ha dimostrato il caso di Terry Schiavo negli Stati Uniti.
L’Organizzazione mondiale della sanità, in un documento-manuale del 1998 ha ribadito: «La nutrizione intravenosa è controindicata nei pazienti terminali. Non migliora l’aumento ponderale e non prolunga la vita. La nutrizione enterale ha un ruolo molto limitato nella malattia terminale. Dovrebbe essere usata solo nei pazienti che ne hanno un chiaro beneficio. La nutrizione artificiale non dovrebbe essere usata nei pazienti moribondi». In tali casi si può parlare, non impropriamente, di accanimento terapeutico.

IL DIRITTO ALL’INFORMAZIONE

Una problematica specifica è rappresentata dalla questione se, e in che modo, si deve dire al paziente la verità riguardo alla diagnosi e alla prognosi.
«C’è un diritto della persona ad essere informata sul proprio stato di vita. Questo diritto non viene meno in presenza di diagnosi e prognosi di malattia che porta alla morte, ma trova ulteriori motivazioni» (Carta degli operatori sanitari n.125).
In passato, soprattutto nei paesi latini, si era portati a non dire la verità o a dirla non completamente, per non privare il malato della speranza di guarigione. Oggi invece, mutando il contesto socio-culturale, si è maggiormente propensi a comunicarla, pur valutando attentamente ogni singolo caso.
La sensibilità dell’operatore sanitario e la sua capacità di comunicare e di relazionarsi con il malato ed i suoi cari rappresenta forse la risposta più convincente per risolvere questo eterno dilemma.
Le cure palliative costituiscono un’espressione profonda nel percorso di umanizzazione della medicina, come una risposta alla richiesta drammatica e sempre crescente di eutanasia, che non è altro che sintomo di una società in cui si rimane soli davanti alle domande angoscianti sulla morte e di una scienza non solo troppo tecnologica e avulsa dai veri problemi del malato, ma anche assolutamente priva di autentica relazionalità umana.
L’eutanasia legalizzata è un sistema per sfuggire all’approccio delle cure palliative, che richiedono mezzi economici, personale specializzato, tempo e formazione adeguata. È un modo per non riconoscere che la vita del malato ha un valore fino all’ultimo istante, se sorretta da una presenza umana, motivata, preparata e solidale.
In netta contrapposizione con ogni atto deliberato del medico volto a porre immediatamente fine a una vita, le cure palliative possono aiutare realmente a migliorare le condizioni dei morenti e, alleviando le loro sofferenze, portare ad una drastica riduzione delle richieste di eutanasia.
A tal proposito, l’«Istituto dei tumori» di Milano ha condotto recentemente un’indagine sui malati terminali, che ha evidenziato come dopo un’adeguata terapia antalgica, dalle iniziali 996 richieste di eutanasia, si è passati a cinque sole richieste.
Di fronte al dolore, alla sofferenza e alla morte gli operatori devono essere tutti maggiormente impegnati non solo a garantire «fredde» soluzioni tecniche, ma anche ad instaurare un approfondito rapporto con il malato e con chi lo circonda. È un compito sicuramente gravoso, emotivamente stressante, ma che ripresenta tutto il fascino dell’originario modo di far medicina, che è saper di nuovo stare vicino a chi soffre per lenire il dolore, con tutto il bagaglio tecnico delle più aggiornate conoscenze, ma anche e soprattutto con una piena, ampia e cristiana partecipazione umana.
«Molto spesso – ha scritto Cecily Saunders – si può tradurre la domanda “fatemi morire” con “alleviate il mio dolore e ascoltatemi”. Se soddisfate questi due bisogni, la domanda in genere non sarà ripetuta».

Di Enrico Larghero

Enrico Larghero




Sorriso «divorato»

Si chiama Noma: è la malattia più dimenticata; ogni anno toglie il sorriso,
e la vita, a migliaia di bambini. Nel silenzio.

Cancro orale, o stomatite cancrenosa, o ulcera della povertà. Questa ultima definizione è forse la meno scientifica, ma è quella che racchiude meglio la storia e le caratteristiche della malattia. Il termine «ulcera» evoca infatti dolore, sofferenza, distruzione; il termine «povertà» le persone che colpisce, i più poveri fra i poveri.
Ma anche il nome proprio che le è stato attribuito, «Noma», una volta tradotto rende subito l’idea di cosa si ha davanti. Deriva dal greco nomein e significa divorare. Quello che divora è il volto dei malati, soprattutto bambini sotto i sei anni. Uccidendone sette-otto su dieci e sfigurando i sopravvissuti per tutta la vita.

I numeri incerti
della sofferenza

Noma può essere considerata anche il simbolo delle malattie dimenticate, perché, fra le tante che di rado conquistano i riflettori e l’attenzione dei media, è quella più ignorata. «Quando abbiamo sentito il suo nome per la prima volta, non sapevamo cosa fosse. Quando abbiamo sentito la sua descrizione, non potevamo crederci. E da quando abbiamo visto la devastazione causata dalla malattia con i nostri stessi occhi, non siamo stati più gli stessi» scrive Bertrand Piccard, il presidente di una fondazione (Winds Hope Foundation) che si è occupata della Noma.
Anche le notizie sulla sua diffusione non sono precise. Proprio perché presente nelle zone più povere e isolate; non si ha certezza sulla reale quantità di persone colpite, uccise o sfigurate. Valutazioni dell’Organizzazione mondiale della sanità, che risalgono al 1998, riportano 140 mila casi ogni anno, concentrati soprattutto in Africa, ma anche in Asia e in America Latina. Analisi più recenti segnalano 25 mila nuovi casi l’anno, considerando solo i paesi lungo il confine con il Sahara.
La prevalenza, ovvero il numero di malati in totale, potrebbe essere intorno a 800 mila casi nei tre continenti indicati. Numeri già alti, soprattutto se si considera che i casi reali potrebbero essere molti di più, 10 volte tanto.
Secondo un articolo uscito sulle pagine della rivista medica The New England Joual of Medicine, i casi di Noma (o ulcera della povertà estrema, come la definisce il titolo dell’articolo) che vengono riconosciuti rappresenterebbero solo la punta dell’iceberg: appena il 10% dei malati di Noma viene visto da un operatore sanitario, con conseguente diagnosi della condizione. L’articolo è firmato da Cyril Enwonwu, medico che ha raccontato sulle pagine della rivista la sua esperienza in Nigeria, seguendo i bambini dei villaggi nel nordovest del paese africano.

Volti distrutti,
vite perdute

I pazienti sono soprattutto bambini che non hanno ancora sei anni, in particolare fra uno e quattro anni di età. Tutto comincia con una lesione a carico delle gengive, che non curata, progredisce, allargandosi e coinvolgendo via via i tessuti più profondi. La ferita, dolorosa, si estende quindi alle labbra o alla guancia, distruggendo, «divorando» uno dopo l’altro i tessuti che incontra: lingua, mucose e poi ossa, parti della mascella e della mandibola, fino alla possibile caduta dei denti. La cavità sempre più profonda che viene a formarsi, partita dall’interno della bocca, affiora alla superficie, sfigurando per sempre il viso, e la vita, di bambini nati nella povertà estrema.
I pochi che sopravvivono, avranno comunque la vita, oltre al viso, segnata per sempre. La guarigione della ferita, con esiti cicatriziali, impedirà una normale funzione respiratoria e masticatoria, non potranno più parlare né mangiare come gli altri bambini. Non solo le cicatrici residue deturpano il volto, ma distruggono, divorano, anche la vita sociale degli ex malati: vengono confinati, trattati come i lebbrosi, lasciati ai margini della società. Non li si vuole vedere e li si isola; talora vi sono credenze per le quali la malattia è collegabile agli spiriti, e si sospetta persino che le famiglie con casi di Noma attirino il malocchio.

Le radici nella povertà

Non sono note la cause di questa ulcera. Si pensa possa derivare dalla combinazione di diversi fattori, riuniti dalla parola chiave povertà. La malnutrizione, che comporta carenze importanti, quali quella di vitamine, proteine e ferro, ma anche la scarsa igiene orale, la presenza di lesioni sulle gengive e la contemporanea compromissione del sistema immunitario di difesa dell’organismo.
È stato visto, infatti, che spesso la stomatite cancrenosa compare in bambini che hanno avuto da poco malattie infettive, come il morbillo, la malaria, la varicella, la scarlattina, la tubercolosi, la diarrea. Malattie che hanno lasciato indebolito l’organismo del piccolo, già di base malnutrito e con scarse difese. Infine, per completare l’elenco della possibile somma di cause che concorrono alla Noma, in alcuni casi (ma non in tutti, e non è noto il motivo) è stata trovata anche la presenza di germi, introdotti con acqua e cibo contaminati, altra condizione che si riallaccia alla povertà estrema delle persone colpite dalla malattia, che vivono con misure igieniche scarse o assenti.

Prevenire è possibile

Bastano due o tre settimane alla Noma per completare la sua opera di distruzione e, se non curata, portare alla morte nel 70-80% dei casi. Ma la causa di tanto dolore potrebbe essere fermata prima, molto prima, con la prevenzione: basterebbe un’educazione sanitaria alle famiglie, un’alimentazione equilibrata dei bambini, una igiene orale corretta e qualche accorgimento igienico in più. Le persone a rischio per questa malattia infatti non la conoscono, non sanno dell’importanza di una diagnosi precoce e di un intervento tempestivo.
Ma anche se si arriva un pochino più tardi, si può ancora intervenire con l’utilizzo di disinfettanti orali e antibiotici. Quando ormai la malattia è avanzata e si sono già formate le cavità, è ancora possibile fare qualcosa, seppur con maggiori difficoltà e costi, con interventi di chirurgia plastica complessi e ripetuti; in ogni caso, raramente è possibile recuperare le caratteristiche del volto.

Farla scomparire

La Noma è una malattia, come si diceva, strettamente connessa alla povertà. Anche i paesi ricchi, che ora non si ricordano nemmeno di cosa si tratti, l’hanno conosciuta. In Europa e nel Nord America era diffusa fino all’inizio del ventesimo secolo. È sparita grazie al miglioramento delle condizioni igieniche in cui vivevano le persone e con la possibilità di una alimentazione più equilibrata e corretta. Vi sono stati ancora casi durante la seconda guerra mondiale, nei campi di concentramento di Auschwitz e Bergen-Belsen, e, in tempi più recenti, con la diffusione di terapie immunosoppressive e dell’Aids, condizioni cioè di marcata riduzione delle difese immunitarie dell’organismo.
Le strade da seguire per fermare e far sparire la Noma ci sono: prima fra tutte la prevenzione, perché, nel silenzio, non tolga più il sorriso dei bambini in Africa, Asia e America Latina.

Valeria Confalonieri

MALATTIE DEI POVERI – MALATTIE DIMENTICATE

I paesi poveri, ogni giorno, fanno i conti con malattie che li uccidono, per le quali non possono curarsi, che spazzano via la vita dei più piccoli e deboli. Sono malattie dimenticate dal mondo ricco, perché non oltrepassano, se non di rado, i confini geografici, climatici o della povertà.
Malattie dimenticate anche dalla ricerca, dall’industria per la produzione di strumenti di prevenzione, diagnosi e terapia, perché interessano solo una parte della popolazione mondiale: una parte che ha poca voce per farsi sentire.
Eppure la leishmaniosi uccide 50 mila persone ogni anno, l’encefalite giapponese ha causato la morte di centinaia di indiani e nepalesi lo scorso anno, soprattutto bambini, la partita con il virus di Marburg in Angola si è chiusa con oltre 300 vittime. Sono solo alcuni esempi, per portare lo sguardo, con una serie di articoli, su quelle malattie che solo di rado, magari quando si avvicina il rischio che approdino ai paesi ricchi, ottengono l’attenzione del resto del mondo.

Valeria Confalonieri




Davanti alla morte

La vita che volge al termine (2): l’eutanasia

Nella nostra società il dolore e la morte sono «tabù»?

Quali sono i limiti all’autonomia dell’individuo? Esiste un’etica oggettiva?
Esiste un «diritto a morire»?

La medicina propone continuamente nuovi scenari, alcuni affascinanti, altri purtroppo inquietanti. La questione dell’eutanasia appartiene sicuramente a questi ultimi.

L’UOMO E LA MORTE
Una progressiva secolarizzazione del pensiero ha più che mai consolidato il principio di autonomia del singolo. In primis, in una società che non accetta un’etica oggettiva come riferimento e che rifiuta totalmente la spiritualità e la trascendenza, non è possibile vivere la morte e dare significato al dolore. Considerando l’uomo solo nella sua dimensione immanente, si ignora la morte, la si bandisce dalla coscienza e, quando appare all’orizzonte, carica inevitabilmente di sofferenza, la si vuole strumentalizzare al proprio volere.
Nella civiltà post-modea, in cui impera la «medicina dei desideri» che promette sicuro benessere fisico, psichico e sociale, vivo è ancora il «tabù» della morte con gli annessi e connessi; tutto ciò che crea dolore, deve essere nascosto e annullato.
Diverso invece è l’atteggiamento del credente, che vede nella morte non solo il limite e la finitudine dell’essere umano, ma anche il legame inscindibile con Dio dal quale dipende e, alla luce della Resurrezione, l’inizio della vita eterna. Atti, come l’eutanasia o il suicidio rivendicano l’assoluta autonomia dell’uomo sulla vita o sulla morte.
Alquanto complesso oggi si presenta l’esercizio della professione medica. Il progresso scientifico e tecnologico e il conseguente utilizzo di sofisticate apparecchiature con le quali si può tenere in vita un morente per tempi lunghissimi, ha rinnovato recentemente il dibattito sull’eutanasia e, ad esempio in Olanda e in Belgio, ne ha accompagnato la legalizzazione. Questa legge ha fatto seguito ad altri provvedimenti normativi degli anni ’90 adottati in Australia, in Danimarca, in Svizzera e in alcuni stati americani come l’Oregon, in coerente linea con una «cultura dell’etica del morire».
La normativa olandese («Legge sul controllo dell’interruzione della vita a richiesta e sull’aiuto al suicidio») nel quadro della cosiddetta eutanasia attiva, richiede soltanto per essere applicata il consenso libero e informato dell’individuo in grado di intendere e di volere.
È interessante notare come nei Paesi Bassi, ancora prima dell’approvazione della legge, secondo una tradizione radicata fin dagli anni ’70, il medico non veniva perseguito se procurava la morte di un soggetto affetto da un male incurabile che chiedeva esplicitamente di morire.
Il «kit eutanasico» in vendita per una manciata di euro nelle farmacie, dietro semplice prescrizione medica è l’aberrante punto di arrivo di una mentalità ben radicata nel relativismo etico e nel soggettivismo esasperato.
Si è passati dall’etica ippocratica, diretta ad alleviare le sofferenze a beneficio del paziente, all’etica individualistica dell’assoluta autonomia e libertà incondizionata. Un triste mutamento di rotta…

LA «DOLCE MORTE»
Al termine eutanasia sono stati attribuiti significati diversi nel tempo. Dal greco eutanasia (eu, bene, buono; thanatos, morte), nel secolo XVII assume in significato di morte dolce, lieve. Francis Bacon (Francesco Bacone, 1561-1626), infatti, afferma nel De dignitate et augmentis scientiarum che i medici «in conformità al loro dovere e al rispetto dell’umanità…, dovrebbero applicare la loro arte e il loro zelo a che i moribondi si congedino dalla vita in modo più semplice e più dolce». Egli intendeva quindi un aiuto a morire rivolto sia all’anima che al corpo.
In seguito, con l’applicazione delle teorie illuministiche, in cui l’individuo si ritiene autonomo e possiede libertà decisionale, si teorizza la «vita senza valore», che, unitamente al progresso delle scienze e delle tecniche, crea i presupposti alla definizione odiea di eutanasia.
Nell’accezione corrente si intende oggi per eutanasia «un’azione o un’omissione che di natura sua, o nelle intenzioni, procura la morte, allo scopo di eliminare il dolore» (Iura et bona, II; Evangelium vitae, n.65); o, ancora «l’uccisione diretta e volontaria di un paziente terminale in condizioni di grave sofferenza o su sua richiesta» (Comitato nazionale di bioetica, CNB 1995).

IL DIBATTITO
Nel XX secolo, con l’evolversi della scienza verso forme di pratica sempre più caratterizzate dalla tecnica, con la medicalizzazione della vita e della morte, si è drammaticamente imposto come pressante il dibattito medico, etico e giuridico sull’eutanasia.
La carenza di regole giuridiche esaustive è legata alla difficoltà di ratificare delle norme che abbiano la capacità di mediare tra i valori morali, i criteri medici e l’esistenza umana nelle sue fasi terminali.
Vi sono interrogativi aperti, derivanti principalmente da nodi ancora da sciogliere di pertinenza medica, in particolare la difficoltà di determinare i limiti della rianimazione e del mantenimento in vita nei casi di coma profondo, di stato vegetativo persistente, di sindrome apallica.
Molte e variegate sono le questioni che ruotano intorno alla qualificazione etica dell’eutanasia e alla sua determinazione giuridica: depenalizzazione e legalizzazione.
Talvolta le parole mutano nel tempo il loro significato. Tale sorte è toccata anche alla definizione di eutanasia. Il termine si è arricchito via via di nuovi significati e nuove interpretazioni, non sempre univoche. Oggi si parla, ad esempio, di eutanasia quando ci troviamo di fronte ad un «suicidio volontario medicalmente assistito». Un suicidio è considerato «eutanasico», quando un individuo, in condizioni di gravissima malattia, con decorso invalidante, dolore incoercibile e prognosi nefasta, sceglie da sé i mezzi con cui togliersi la vita e procurarsi la morte. È un suicidio, ma medicalmente assistito in quanto interviene una seconda figura, quella del medico che consiglia e prescrive al paziente i farmaci con cui morire.
Per «eutanasia attiva», volontaria e medicalmente assistita si intende invece l’intervento diretto e consapevole del medico, che aiuta il paziente a morire, assecondando in tal modo una sua esplicita volontà. In questo caso si tratta di un atto con il quale una persona produce la morte di un’altra, incurabile, consapevole e decisa a non patire più altre sofferenze fisiche e psicologiche.
Di eutanasia si parla anche come atto omissivo («eutanasia passiva»): «quella in cui si lascia morire un malato sospendendogli intenzionalmente le cure ordinarie necessarie alla sopravvivenza». «Come azione o omissione che procura la morte o uccisione diretta e volontaria di un paziente terminale in condizioni di grave sofferenza e su sua richiesta» (CNB 1995), l’atto eutanasico è strettamente connesso a un’azione estea, attiva o omissiva, da praticare a malati sofferenti e terminali.
Quindi, per eutanasia passiva, si intende la rinuncia ad ulteriori trattamenti terapeutici, graduati in ottemperanza al principio della proporzionalità.
In relazione all’atto eutanasico omissivo è ormai comune convinzione, in ordine di principio, sul piano etico-giuridico (in Italia, legge 8.2.2001, n.12) e su quello religioso, che la pratica medica usi opportunamente le sue risorse tecniche, con l’esclusione dell’accanimento terapeutico.
Inoltre si chiede l’uso di sussidi farmacologici per il trattamento del dolore (mezzi di cura ordinari e straordinari) con misura adeguata, senza intenzione di procurare la morte, ma nel rispetto della dignità del malato e della sua sofferenza.
A questo proposito anche la chiesa riconosce la liceità dell’uso dei farmaci antidolore (già Pio XII nel 1957 lo approvava), anche se dal loro uso ne «possano derivare come effetti secondari torpore o minore lucidità» (Congregazione per la dottrina della fede, 1980).
Perseguendo questi intendimenti, sia come trattamento del dolore sia come etica per l’accompagnamento a una buona morte, può anche interpretarsi la politica per la diffusione degli Hospices, luoghi che «umanizzando» l’assistenza ai malati terminali, insieme al perfezionamento delle cure palliative, giovano a contrastare il desiderio di morte del malato.

LA DOTTRINA
La dottrina cattolica mantiene fede al principio fondamentale del carattere sacro e quindi inviolabile della vita umana, dal concepimento fino al suo termine naturale, come diritto della persona.
Contro l’eutanasia si avanza il principio della «sacralità della vita», a cui è connessa la concezione della vita come bene in sé. Si dichiara la non disponibilità da parte della persona per ragioni morali, religiose e sociali e si nega la possibilità di includere il «diritto di morire» all’interno del «diritto della vita», «germe di ogni ordinamento giuridico» (Jonas 1985; Fuari Luvarà, 1994). Per la chiesa cattolica «nessuno può attentare alla vita di un uomo innocente senza opporsi all’amore di Dio per lui, senza violare un diritto fondamentale, inammissibile e inalienabile, senza commettere, perciò un crimine di estrema gravità» (Cong. D. Fede, 1980: Russo, 2000).
Ribadendo che «la maggior parte degli uomini ritiene che la vita [ha] un carattere sacro e che nessuno ne [può] disporre a piacimento», la chiesa cattolica sottolinea che nella vita «i credenti vedono […] anche un dono dell’amore di Dio, che sono chiamati a conservare e far fruttificare».
In quest’ottica, è eticamente inaccettabile ogni forma di eutanasia sia attiva che passiva, sia volontaria che involontaria, sia e ancor più il suicidio medicalmente assistito.
Lecito, anche in una prospettiva teologico-divina della vita umana, è ritenuto l’uso di cure palliative opportunamente dosate in relazione allo stato di sofferenza del paziente, al grado di evoluzione della malattia. In terapia intensiva si è ricorsi alla definizione di «accanimento terapeutico» per delimitare la soglia che divide l’obbligo di curare dall’«irragionevole ostinazione» di trattamenti da cui non si possa fondatamente attendere un beneficio per il paziente o un miglioramento della qualità della vita» (Codice italiano di deontologia medica, art.20).
La sospensione dell’accanimento terapeutico deve applicarsi tutte le volte che la terapia non giova ad alleviare il paziente, né consente di migliorae le condizioni.
Nell’Evangelium vitae Giovanni Paolo II afferma solennemente: «…in conformità con il magistero dei miei predecessori e in comunione con i vescovi della chiesa cattolica, confermo che l’eutanasia è una grave violazione della legge di Dio, in quanto uccisione deliberata moralmente inaccettabile di una persona umana» (n.65). Ed ancora insiste sull’importanza del dialogo con coloro che, pur non condividendo la stessa fede religiosa, credono nella vita umana come valore e diritto fondamentale della persona: «…dobbiamo promuovere un confronto serio e approfondito con tutti, anche con i non credenti, sui problemi fondamentali della vita umana, nei luoghi dell’elaborazione del pensiero, come dei diversi ambiti professionali e là dove si snoda quotidianamente l’esistenza di ciascuno», in quanto la dottrina della chiesa è fondata sulla legge naturale oltre che sulla parola di Dio scritta (n. 95).
Fondando un’etica medica su questi presupposti può nascere una nuova e feconda collaborazione, una nuova forma di alleanza terapeutica.
Il medico, come tutore della vita, è tenuto a opporsi a qualsiasi pressione morale da parte del paziente, dei familiari, oppure della società. Crollerebbe altrimenti la fiducia nel suo ethos professionale di sostenere l’infermo e lenie le sofferenze.
Il malato, da parte sua, deve avvertire la vicinanza fisica ed affettiva del suo ambiente, in particolare dei suoi familiari; l’esperienza dimostra che il desiderio esteato di porre termine alla vita, sovente è un grido di disperazione in seguito alla già avvenuta morte sociale. È opportuno quindi che vi sia intorno al malato una cooperazione sensibile ed attenta che gli garantisca un’assistenza integrale e una morte umanamente dignitosa.
Fermo restando che il nucleo della pastorale è il mistero pasquale di Cristo e che il suo scopo precipuo è la carità intesa come servizio responsabile verso l’altro, la difesa della dignità della vita umana passa attraverso la solidarietà nei confronti del malato da parte di operatori sanitari, volontari, sacerdoti, familiari, ciascuno secondo le sue competenze al fine di «farsi prossimo» (Lc 10,29-37), accompagnandolo umanamente e cristianamente alla conclusione della sua vita terrena.
Un malato che chiede di morire, chiede in realtà di non essere lasciato solo.

Federico Larghero

Enrico Larghero




PRIMA IL MALATO

Quando inizia l’abuso diagnostico e terapeutico? Farmaci e strumenti terapeutici non possono far dimenticare che esiste un principio di «proporzionalità
delle cure». Perché l’obiettivo primario dovrebbe sempre essere il benessere
della persona malata, incluso il suo diritto a morire con dignità.

Abbandono e accanimento terapeutico: due espressioni che riflettono uno stesso atteggiamento della scienza nei confronti del paziente critico, un tempo definito impropriamente «terminale».
Le attuali conoscenze della medicina (tecniche di rianimazione e terapia intensiva, circolazione extracorporea, dialisi, chirurgia avanzata) consentono di curare malattie fino a poco tempo fa ritenute inguaribili. Il risultato positivo è stato un’aumentata aspettativa di vita, il rischio reale è quello di un eccesso, di un abuso terapeutico, cioè mettere in atto terapie indipendentemente dal risultato atteso.
Il problema dell’accanimento si è presentato nel momento in cui il medico ha avuto a disposizione delle armi estremamente efficaci, ma anche potenzialmente sproporzionate alle reali necessità dei malati. L’attuale disponibilità di farmaci e di sofisticati strumenti terapeutici impone di definire il limite al loro uso, poiché non è sempre lecito fare tutto ciò che la scienza mette a nostra disposizione.
Esauriente a tale riguardo il Codice di deontologia medica, nel quale all’art.13 si definisce l’accanimento terapeutico come: «l’ostinazione in trattamenti da cui non si possa fondatamente attendere un beneficio per il paziente o un miglioramento della qualità della vita».
Si è quindi in presenza di accanimento quando si vuole prolungare la vita con ogni mezzo senza che ci sia una speranza concreta di guarigione.

MALATO E MALATTIA

L’accanimento terapeutico riconosce numerose cause. In primis, la negazione della morte, la disumanizzazione dell’assistenza sanitaria, unita alla cieca fiducia nella tecnica e nella scienza possono condurre ad un dispiego esagerato, ostinato e inutile di presidi terapeutici fino a che l’avvicinarsi ineluttabile della morte stessa, la ridotta qualità della vita o la crescita dei costi determinano l’abbandono del malato.
L’approccio specialistico-multidisciplinare è un altro fattore che alimenta il rischio di accanimento. Il sapere odierno confida nella ultraspecializzazione per debellare molte malattie. In effetti, grazie alle competenze settoriali, sono nate, ad esempio, la chirurgia dei trapianti, la cardiochirurgia, la neurochirurgia. Nel contempo però la frammentazione in branche della medicina comporta il rischio di un’attenzione rivolta esclusivamente alla malattia e non al malato. Questi rischia di essere trattato come un oggetto, di essere analizzato unicamente per i processi patologici che lo affliggono. L’obiettivo primario non è più il benessere della persona, ma la sconfitta della sua malattia.
Il nuovo modello del rapporto medico-paziente, di natura contrattualistica, può portare talvolta il personale sanitario ad attuare terapie anche inutili, pur di non essere accusato dai parenti di omissioni o negligenze.
La medicalizzazione dell’esistenza passa anche attraverso questi percorsi…

SCIENZA E COSCIENZA

La distinzione introdotta da Pio XII tra mezzi ordinari e straordinari per la valutazione dell’appropriatezza delle cure ha avuto ampio successo anche presso la cultura laica. Secondo il magistero papale, gli sforzi compiuti per salvare una vita o prolungae l’esistenza possono essere eticamente e lecitamente tralasciati quando assumono un carattere di straordinarietà.
La distinzione intende separare gli interventi ritenuti necessari, obbligatori e quindi ordinari da quelli eccezionali, straordinari. Tuttavia, quest’ultimo criterio si è rivelato di difficile applicazione. Mezzi un tempo considerati «eroici» sono oggi pratica quotidiana e routinaria. Terapie ritenute eccezionali possono rivelarsi utili e doverose; al contrario la più semplice e collaudata delle cure può, in particolari casi, dimostrarsi inutile.
Ad esempio, la trasfusione di sangue, metodica certamente non eccezionale, praticata ad un paziente in agonia può configurarsi come un atteggiamento di accanimento terapeutico. Lo stesso può dirsi di un antibiotico che, cura ordinaria per trattare una polmonite, non lo è più quando si tratta di un paziente in coma che abbia contratto un’infezione respiratoria. Al contrario, non può definirsi accanimento l’esecuzione di eccezionali ed innovativi interventi di altissima chirurgia, quando sostenuti dalla speranza concreta di salvare una vita. Per queste difficoltà intrinseche la distinzione tra mezzi ordinari e straordinari è stata abbandonata.
Il limite tra una doverosa insistenza terapeutica e una deleteria ostinazione a continuare ad oltranza è dato dal principio di proporzionalità delle cure, cioè della proporzionalità dei mezzi e del loro prevedibile effetto; in altre parole, il risultato terapeutico.
Tuttavia anche il criterio di proporzionalità si presenta di non semplice applicazione. Da un punto di vista clinico non è sempre facile stabilire quando un intervento sia utile o inutile: ogni atto medico rischia di trasformarsi in accanimento terapeutico. È il medico che, secondo «scienza e coscienza», deve valutare la potenziale utilità di una terapia, contestualizzandola ad ogni singolo malato. Da un punto di vista etico l’attenzione, salvaguardando la relazione sanitario-paziente, deve essere posta sulla centralità dell’atto medico, che determina e regola il rapporto tra rischi e benefici, in termini di responsabilità e proporzionalità.
La sospensione di cure sproporzionate non significa infatti abbandonare il malato ed interrompere cure ordinarie quali l’alimentazione e l’idratazione artificiale. Il Comitato nazionale di bioetica (Cnb) a tale riguardo si è così espresso: «L’assoluta diversità d’ordine che intercorre tra evento morboso e morte rende ragione del perché l’accanimento, volendo prolungare indebitamente il processo irreversibile del morire, sia riprovevole. Il Cnb auspica che si diffonda sempre più nella coscienza civile, in particolare in quella dei medici, la consapevolezza che l’astensione dall’accanimento terapeutico assume un carattere doveroso».
Infine, nella medicina modea, è frequente una particolare forma di accanimento, quello diagnostico. Molti pazienti vengono sottoposti ad esami costosi, invasivi, talora dolorosi e non esenti da rischi, senza una reale prospettiva terapeutica ed indicazioni cliniche pertinenti.
Un caso significativo può essere quello dell’amniocentesi praticata durante la gravidanza in assenza di specifiche indicazioni, ma soltanto per rassicurare la gestante ansiosa riguardo a possibili malformazioni fetali.
Il Codice di deontologia medica, nel già ricordato art. 13, invita chiaramente i medici ad astenersi da qualsiasi forma di accanimento diagnostico-terapeutico.

MORIRE CON DIGNITÀ

Francisco Abel sintetizza mirabilmente i principi condivisi dalle principali correnti del pensiero bioetico contemporaneo riguardo all’accanimento:
1. Non tutti i trattamenti che prolungano la vita biologica risultano umanamente vantaggiosi.
2. Nessuno è obbligato a sottoporsi a trattamenti sproporzionati per conservare la vita. I mezzi si considerano proporzionati o sproporzionati in funzione del tipo di terapia, del grado di difficoltà e del rischio che comportano, dei costi e delle possibilità di applicazione e di risultati razionali che si possono attendere, tenuto conto delle condizioni del malato.
3. Il paziente può rifiutare trattamenti che causano disagi «intollerabili».
4. La volontà del paziente non cosciente, se la si conosce, deve essere rispettata. Se non la si conosce un’altra persona che la rappresenta deve offrire il supporto legale per decidere in nome di quelli che considera i migliori interessi del malato.
5. In caso di pazienti in stato vegetativo persistente, il diritto di terzi a decidere la soppressione dell’idratazione e della nutrizione artificiale, come trattamenti medici inutili, è ancora oggetto di un intenso dibattito.
Una terapia inutile e spesso gravosa non può trovare giustificazioni di alcun tipo, né scientifiche, né giuridiche, né soprattutto morali.
Non solo legittimo, ma soprattutto etico e deontologico, nel rispetto della vita umana, è opporsi all’accanimento terapeutico.
Afferma Salvino Leone: «Il rifiuto dell’accanimento terapeutico non significa abbandono del malato terminale o comatoso, ma rifiuto di prolungare oltre misura e con mezzi sproporzionati l’agonia, rifiuto di tormentare il paziente con strumentazioni che non incidono significativamente su un suo accettabile e minimale interesse, rifiuto di praticare terapie ardite con bassissime probabilità di successo».
Ogni uomo ha il diritto di morire con dignità, vivendo umanamente la propria morte, senza diventare oggetto di una tecnica sfrenata e disumanizzante. Esiste una fase della malattia e della vita dell’essere umano in cui è inutile, o addirittura crudele sottoporlo, ormai indifeso, debole e sfinito, a cure gravate da pesantissimi effetti collaterali, oppure ad indagini diagnostiche, o interventi chirurgici non privi di rischi, senza alcuna possibilità, né di guarigione, né di miglioramento. Si tratterebbe in tal caso solo di peggiorare le già difficili condizioni di vita del paziente, rendendo ancora più doloroso il suo distacco dalla vita terrena. Non si tratta di facilitare o affrettare la morte di una persona, ma di fermarsi ai confini della vita e di accettae i suoi limiti. Compito del medico è quello di tutelare la salute e la vita del paziente, non di prolungare la sua agonia.
Vi è un momento a partire dal quale le terapie devono essere interrotte perché non portano più alla restitutio ad integrum né influiscono sul decorso della malattia, ma addirittura possono recare danni al malato. Tuttavia, questo non significa che si debbano sospendere le terapie, ma è giunto il momento di proseguire con le cosiddette «cure palliative», volte a controllare i sintomi, quali il dolore e l’astenia che accompagnano inevitabilmente le fasi ultime della vita.
Scrisse Giovanni Paolo II: «L’atteggiamento davanti al malato terminale è spesso il banco di prova del senso di giustizia e di carità, della nobiltà d’animo, della responsabilità e della capacità professionale degli operatori sanitari, a cominciare dai medici». •

Enrico Larghero