Quel mazzolino … di viole

Nel «Rapporto della commissione mondiale per l’ambiente e lo sviluppo» (Milano 1988), si legge che ogni essere umano ha il diritto fondamentale di vivere in un ambiente adatto alla sua salute e al suo benessere. Oggi, dopo quasi 20 anni, questo enunciato è avvertito e condiviso da tutti: non solo dagli esperti, ma anche la gente comune è in grado di dire la sua, sulla base di un flusso informativo continuo e mirato.
La crescita demografica, il dato certo che le risorse del pianeta non sono inesauribili, la scarsa attenzione agli eventuali danni d’impatto ambientale rappresentano, in prospettiva, grossi nodi da sciogliere. Specie se ciò che tutti vogliono è un autentico recupero del rapporto con la natura, e non piuttosto il comportarsi come quel personaggio di Milan Kundera che, per non patire gli odori della strada, si teneva costantemente sotto il naso un mazzolino di violette.
Le esigenze della politica e dell’economia, tuttavia, pare vadano in tutt’altra direzione. Nonostante il referendum popolare dell’87, per esempio, sembra che l’Italia torni a guardare al nucleare e l’Enel, grazie alla legge Marzano, acquisterebbe impianti nucleari in Slovacchia per 840 milioni di euro. Cheobyl è archiviato. La risposta a chi obietta è che non si può fermare il tempo, perché il mondo va avanti.
Quello del nucleare è però solo un tassello dell’intero mosaico. Esistono nel nostro paese la questione dei trasporti, il giudizio sugli Ogm (organismi geneticamente modificati), la cementificazione delle coste, l’inquinamento idrico, il problema della produzione e dello smaltimento dei rifiuti.
Una progressiva erosione della sovranità statale, sostiene il sociologo Zygmunt Bauman, non può che determinare la caduta verticale dei più elementari diritti della persona umana. Pertanto, dove e come sviluppare valori che si oppongano ai paradigmi della cultura dominante? Siamo tutti all’interno del processo di globalizzazione e la logica vincente è quella del mercato, per cui il liberismo selvaggio e la cieca fiducia nel progresso danno vita a una sorta di illuminismo tecnologico. I parametri vincenti sono la rendita produttiva e l’utile da ricavare.
Come persone e come cristiani, questo ci sta bene? Non bisogna dimenticare che non esiste un’economia che possa definirsi neutrale e che, dietro ciascuna di essa, si cela sempre e comunque una particolare concezione antropologica.
Nella Sollicitudo rei socialis (1988) Giovanni Paolo ii identifica la «preoccupazione ecologica» con «la maggiore consapevolezza dei limiti delle risorse disponibili, la necessità di rispettare l’integrità e i ritmi della natura e di tenee conto nella programmazione dello sviluppo, invece di sacrificarlo a certe concezioni demagogiche dello stesso» (n. 26).

Nel libro della Genesi, il fatto che il mondo in cui l’uomo è immerso venga definito come «creazione», e non come natura o cosmo, sottolinea decisamente l’immediata relazione che lo unisce al Creatore; una relazione di «dominio» e di «custodia» (Gen 2,15). Il mistero pasquale, cioè la morte e risurrezione di Gesù, instaura anch’esso una nuova forma di alleanza tra Dio e l’uomo e coinvolge l’intera creazione in un processo di liberazione integrale, che è compito dell’uomo portare a termine. Il dove rinnovare i nostri stili di vita, allora, è il nostro quotidiano.
È l’agire di tutti i giorni, in famiglia, sul lavoro, con gli amici. La strada da imboccare è la rinuncia alla moltiplicazione dei bisogni, specie se indotti e non reali. Il risveglio della coscienza deve spingerci a fare nostri e contrapporre, a quelli correnti, parametri diversi: gratuità, solidarietà, rispetto dell’alterità, senso del mistero, apertura al non prevedibile e non programmabile. Questi sentimenti, cosa più importante, non possono essere occasionali, ma devono riuscire a determinare quello che si definisce un cambiamento culturale, una mentalità nuova.
Il come fare equivale a restituire centralità e autorevolezza alla politica, per costruire una vera democrazia economica. Anche le cosiddette catastrofi «naturali» (come tsunami), non sono uguali sul nostro pianeta. Il sisma di Bam, in Iran, del dicembre 2003 ha provocato più di 30 mila morti. Ma tre mesi prima, il 26 settembre 2003, una scossa sismica di 8 gradi della scala Richter, sull’isola di Hokkaido, ha fatto solo qualche ferito e nessun morto. Tremila sono stati i morti per un terremoto in Algeria, il 21 maggio 2003; mentre pochi giorni dopo, un sisma più violento scuoteva tutto il Giappone nord-occidentale senza fare vittime.
Perché tali differenze? Occorrono certamente norme e mezzi per realizzare delle politiche di prevenzione. Ma è indispensabile la volontà politica, al di là dei fiumi d’inchiostro dei rapporti e delle chiacchiere dei summit.
Politicamente, è fondamentale saper distinguere tra crescita e sviluppo: la prima è il puro incremento produttivo; il secondo include ideali e aspirazioni, che hanno a che fare con l’identificazione di una società giusta e una sempre più alta qualità della vita. Omissioni, colpe e volontà sono sempre individuali; ma, senza mettere la testa sotto la sabbia, non si può dimenticare che, a qualunque latitudine, siamo tutti pellegrini verso un mondo nuovo: i cieli nuovi e la nuova terra che ci sono stati promessi.
Collettivamente si può e si deve fare in modo che l’ecologia divenga solidarietà e la moderazione nel consumo condivisione. Altrimenti, come dice la nota scienziata indiana Vandana Shiva, lo tsunami è solo un avvertimento di ciò che succederà se non ci prepariamo, se continuiamo ad agire per il profitto immediato e non guardiamo più avanti.
Ciò che ci deve unire non è il denaro, ma il senso di responsabilità.

Di Marianna Micheluzzi

Marianna Micheluzzi




Tra fede dialogica e religioni

La terra brucia e i popoli scrivono con il sangue la loro carta di identità, non nella tessitura di un’autobiografia, ma nella stesura di una controbiografia: io trovo la mia identità nella contrapposizione con la «tua» storia, invece che nel vissuto della «mia» storia.
Di fronte a questa dilagante ondata di violenza che percorre la terra da nord a sud e da est a ovest, nelle megalopoli dei paesi supersviluppati come nelle immense discariche urbane dei paesi sottosviluppati, c’è da chiedersi: «Come mai? Dove ricercare le radici di questi cruenti rigurgiti d’intolleranza e fanatismo? Donde questa sete di sangue e di vendetta, che ristruttura l’uomo moderno sulla fisionomia del vampiro?».
Dopo le grandi guerre, i progrom e gli olocausti dello scorso secolo, dopo i bui e accecanti bagliori atomici di Hiroshima e Nagasaki, credevamo di esserci lasciati alle spalle la lunga, ininterrotta tradizione di violenza che ha caratterizzato la storia dell’uomo sin dall’età della pietra. Avevamo sognato di aver debellato definitivamente la ragione della forza con la forza della ragione, nella convinzione di aver maturato, nella coscienza morale prima che nelle strutture politiche, il salto di qualità agognato dai profeti della nonviolenza e sancito dallo Statuto dell’Onu.
Pensavamo, con il Concilio Vaticano ii e nell’abbraccio ecumenico che ne seguì, di aver liberato le diverse tradizioni morali dall’involucro di aggressività che le aveva contaminate, riconsegnando le religioni alla loro originaria innocenza.
Non avremmo mai immaginato di doverci ritrovare, all’inizio del terzo millennio, con nelle mani niente altro che le ceneri di sogni svaniti. L’«homo absconditus» sognato da Gandhi e cantato dai figli dei fiori, l’«uomo inedito», come amava chiamarlo Eesto Balducci, è rimasto seppellito sotto le macerie delle grandi ideologie e delle calde utopie.

Si è iniziato stupidamente, già negli anni ‘80, in una volgare ondata riduzionistica. A livello filosofico, la grande tradizione del pensiero marxista la si è voluta degradare a semplice «ideologia». Da più parti si è osannato alla morte delle ideologie, dopo i cui funerali si è voluto innalzare sul trono della «ragione» la «leggerezza dell’essere» ed il suo «pensiero debole». Il successivo passo, dal pensiero debole al pensiero unico, non è stato altro che un passaggio logico.
A livello socio-politico, si è voluto far coincidere tutta la ricca esperienza del socialismo nella triste e parziale esperienza del comunismo reale, nella versione sovietica. In questo calderone si è riversato tutto il male possibile e immaginabile, identificando tout-court comunismo-dittatura-gulag. Berlusconi, che continua a suonare i suoi deliri su questa unica corda, non è altro che la deriva populista di questa operazione.
A livello religioso, è stato messo il bavaglio al Concilio, derubricandolo dal calendario della chiesa universale e di quella italiana in particolare. Nella generale indifferenza di molti, le figure più avanzate ed esposte tra i vescovi, sono state sostituite con personaggi grigi e ultraconservatori, «polonizzando» la chiesa e consacrandone le anime più retrive di certi movimenti ecclesiali. Il discorso che si è voluto far passare come «moderno» è stato quello di una religione tutta e solo intimistica, legata a figure problematiche di «santi» quali Padre Pio e Josemarìa Escrivà de Balaguer. I «teocon» e gli «atei devoti» non sono altro che figli legittimi di questa gestazione.
Sarebbe interessante portare avanti, con sistematica puntigliosità e con severità di ricerca e di riflessione, l’approfondimento di questi tre itinerari.
Personalmente non sono un filosofo, né un politico pur seguendo con interesse e la filosofia e la politica. Tuttavia come cristiano e come sacerdote, non posso non rilevare, per tornare alle domande iniziali, come una certa religiosità possa essere essa stessa fattore di violenza nell’attuale contesto storico.

Il noto aforista Jonathan Swift ebbe a scrivere: «Abbiamo abbastanza religione per odiare il prossimo, ma non per amarlo». Gabriel Ringlet, prete belga, rettore dell’Università di Lovanio, gli fa eco: «Esiste, al centro stesso delle religioni, in particolare delle religioni monoteiste, un’aggressività, un orgoglio, un esclusivismo che talvolta danno i brividi!».
Personalmente sono convinto che la religione non riscattata dalla fede è come una mina vagante; la religione, non fermentata dalla fede diventa insolente.
La fede convince dall’interno, la religione costringe dall’esterno. La fede propone, la religione impone. Fede e religione sono tra loro in un rapporto dialettico ad alta tensione che, comunque, va mantenuto, ma sempre in riferimento alla fede, mancando la quale la religione degrada a devozionismo paganeggiante e fanatismo di presunzione.
Nella storia del mondo le religioni sono state spesso specialiste in arroganza, intolleranza e repressione. Nessuna delle grandi religioni è stata totalmente estranea, nemmeno il nostro cristianesimo, a un certo spirito guerriero provocato dalla malattia del dogmatismo e pretesa di imposizione a tutti.
Lo scontro si verifica sempre quando la Verità viene condensata in un libro. È successo con la bibbia, che è stata usata come un’arma; è successo non molto tempo fa con il libretto rosso di Mao; è successo con il Mein Kampf di Hitler, succede con il Corano. Questi non sono che esempi di quello che succede quando si impongono limiti alle verità plurali: sì, perché la Verità è plurale e non monocroma. La Verità è sinfonica, fatta di molte voci che, ascoltate nel dialogo e nel confronto, liberano dalla presunzione spocchiosa della dittatura del pensiero.
Non si dimentichi, poi, che per i cristiani la «Verità» non è un concetto né un’idea, ma una Persona: Gesù di Nazareth, la sua vita, il suo messaggio.
Egli si propone, non s’impone. A coloro che incontrava soleva dire: «Se vuoi…». Nel suo vocabolario non esiste il verbo «devi!».
Rabindranath Tagore, premio Nobel per la letteratura 1913, in un discorso pronunciato a Calcutta nel 1937 ebbe a dire: «Quando la religione ha la pretesa di imporre la sua dottrina all’umanità intera, si degrada a tirannia e diventa una forma di imperialismo».

Di Aldo Antonelli

Aldo Antonelli




10 ragioni per dire «Sì TAV» VS Il buon senso dice «No TAV»

DIECI RAGIONI PER DIRE SI’ TAV

Premetto che, se vorrete pubblicare quanto segue, vi chiedo di non mettere il mio indirizzo e-mail per evitare di ricevere messaggi «poco piacevoli».
Ho letto il servizio sui problemi della nuova linea ferroviaria in Valle di Susa nel numero della rivista di dicembre e mi permetto di inviarvi queste righe «controcorrente», in gran parte già pubblicate sul settimanale La Valsusa: nessuno ha trovato errori nei miei ragionamenti… Mi limito ad alcuni argomenti, lasciando volutamente da parte considerazioni a livello nazionale e internazionale. Sottolineo alcune affermazioni frequenti e faccio seguire le controdeduzioni.

1) La nuova linea servirebbe a spostare solo l’1% del traffico dalla strada alla rotaia.
Prevedere il futuro è sempre difficile; ma qui basta contare che attualmente sui treni dell’Afa viaggiano circa 50 camion al giorno e solo di alcuni tipi a sagoma piccola. Quindi già più di quanto è detto dalla previsione fasulla, ottima per impressionare, ma sbagliata. Se nessuno finora ha capito questo errore, come è possibile che vengano capite altre questioni molto più complesse?

2) Non c’è traffico passeggeri sufficiente.
Se i voli Torino-Parigi sono 5 al giorno e i Milano-Parigi almeno una dozzina, come la mettiamo? Proprio in questi giorni ho dovuto rinviare un appuntamento di lavoro in Francia, perché con una settimana di anticipo non ho trovato posto su 5 treni successivi. I trasporti aerei consumano molta più energia per passeggero di quelli ferroviari.

3) Lo studio Polinomia dimostra l’inutilità della linea.
Ma qualcuno l’ha letto fino in fondo? Ebbene, oltre a errori di tecnica ferroviaria, a pag. 165-167 c’è scritto che per potenziare la linea attuale, bisogna costruire un terzo se non un quarto binario in mezzo alla valle fino a Bussoleno! Questa parte dello studio, però, non si trova nella versione ridotta presente in molti siti internet.

4) Il tunnel sotto la Manica è un fallimento.
Qualcuno sa che dopo le opposizioni alla costruzione del tratto inglese della nuova linea, adesso la stanno completando fino a Londra? Hanno solo sprecato un bel po’ di anni e quindi di soldi.

5) Ci sono amianto e uranio.
A parte che basta la polvere delle pietre in genere, senza scomodare l’amianto, per fare danni e quindi per obbligare a usare gli opportuni accorgimenti, qualcuno calcola quanto gasolio viene bruciato dai camion attuali sull’autostrada con conseguente inquinamento? I consumi energetici con i Tir, a parità di peso trasportato, sul percorso Torino-Chambery, sono circa 4 volte quelli su treno, passando dal tunnel del Frejus, e più di 7 volte rispetto al nuovo tunnel da costruire. Lascio immaginare le proporzioni per i vari inquinamenti. E qualcuno pensa alla distruzione irreversibile del petrolio?
Ostacolare le trivellazioni ha una sola spiegazione razionale: si ha paura che venga dimostrato che non c’è nulla di pericoloso e quindi che l’ostilità è sbagliata, altrimenti si dovrebbe spingere per accelerarli.

6) Si può migliorare la linea attuale.
Certo che i treni possono arrivare al Frejus, ma con quali consumi energetici? Una linea che raggiunge la quota di 800m, anziché i quasi 1.300m del culmine nella galleria attuale, che riduce le pendenze massime a un terzo e la lunghezza Torino-Chambery da 200 km a meno di 170 km, permette risparmi energetici di più del 40%, che avrebbero effetti nei secoli futuri. Questo risparmio è paragonabile al consumo annuale di energia elettrica di 120 mila persone.

7) La montagna è radioattiva come Cheobil.
Non è corretto confrontare l’aria stagnante di un cunicolo dove si è accumulata da decenni, con l’aperta campagna attorno alla centrale ucraina. In quello scavo si rimarrebbe bloccati dai reumatismi ben prima di subire gli effetti di una qualche radioattività. Inoltre quando e come è stata fatta la taratura dello strumento?

8) La cifra necessaria è sproporzionata.
Lavori simili hanno dei vantaggi che durano per secoli: non si possono giustamente criticare i principi dell’economia attuale, che vuole dei benefici immediati, e poi usare gli stessi criteri quando può servire.

9) Per 15 anni ci saranno 500 camion al giorno in più.
A parte che si potrebbero usare sistemi quali funivie, che non aumenterebbero i motori diesel inquinanti in giro per le strade, questo aumento di camion produrrebbe un maggiore inquinamento pari solo a circa il 5% di quello già esistente, in quanto i percorsi sarebbero molto più limitati.

10) Il traffico sulla linea è diminuito.
È stato diminuito apposta per effettuare i lavori di ampliamento della «sagoma limite» nelle gallerie: per ciò la linea presenta lunghi tratti a binario unico e quindi non possono circolare tutti i convogli che viaggiavano prima!

Riassumendo, per chi non conosce la Valle di Susa, è come se fosse un villaggio attraversato da un canale di scarico che ammorba l’aria (principalmente l’autostrada con i gas di scarico dei camion ). Non volere la nuova linea è come opporsi ai lavori di copertura di questo canale e alla costruzione di un depuratore per non essere disturbati dai lavori che ovviamente creano temporaneamente dei disagi.
Se senza studiare a fondo il problema, si possono già riscontrare queste incongruenze, chissà cosa si potrebbe trovare approfondendo l’argomento. Su basi simili come si ha il coraggio di iniziare e portare avanti una protesta dalle conseguenze così gravi? Non mi stupisco che esistano idee simili, a scuola ne vedo anche di peggiori, ma che vengano usate come giustificazioni per creare la situazione attuale.

(lettera firmata)

IL BUON SENSO dice «NO Tav»

Sono un abbonato di M.C. e ricercatore del Centro nazionale delle ricerche (Cnr). Noto con piacere che avete di recente dedicato 2 articoli all’argomento Tav. In questi giorni, qui al Cnr di Bologna, ho avuto una discussione con un paio di colleghi. A uno di essi ho inviato il messaggio, che sottopongo alla vostra attenzione.
«Sarà per il fatto che sto attraversando una fase di rigetto per la politica (partitica), tuttavia provo immensa simpatia per i 10 mila montanari che non bevono la verità ufficiale e vanno a mani nude (gli agitatori vengono da altrove) a difendere le loro montagne, contro un’opera che nessuno ha mai voluto spiegare loro fino in fondo, dovendo probabilmente nascondere qualcosa. E veniamo al punto.
Non credo nello sviluppo infinito, per il semplice motivo che rispetto il 2° Principio della termodinamica, come ho scritto a più riprese nel mio libro (Energia oggi e domani, Bononia University Press, Bologna 2004, ndr). Personalmente credo sia inutile fare un treno che sfreccerà (fra 15 anni!) a 300 km/h, sotto un tunnel di 50 chilometri, trasportando non si sa quali merci.
Il futuro del manifatturiero italiano è a dir poco incerto: vai a fare un giro per le nostre zone industriali. La situazione si è deteriorata negli ultimi 2-3 anni: le fabbriche chiudono o delocalizzano. L’agricoltura è in ginocchio. Credo quindi sia del tutto legittimo domandarsi: quali merci trasporterà questa ferrovia, in un’Europa che fabbrica sempre meno beni materiali? Porsi delle domande è una delle attività più importanti per un ricercatore.
Le infrastrutture che fanno funzionare un paese sono quelle «normali», che migliorano la qualità della vita della maggioranza delle persone. L’Alta velocità la prenderò io, perché mi pagano per viaggiare. Non la prenderà la famigliola Fumagalli per andare in gita in Francia, perché costerebbe una fortuna.
Le «grandi opere» sono spesso un fiasco, hanno un grande valore simbolico, arricchiscono poche persone. Gli esempi non mancano, primo fra tutti quello del tunnel sotto la Manica, che ha mandato in rovina centinaia di investitori.
Se questi «corridoi Tav», che corrono dal Portogallo agli Urali (ma chi è quel pazzo che andrà da Lisbona a Kiev in treno?) li vuole l’Europa, per me non cambia nulla. Ha senso farli, se migliorano la rete dei trasporti e la qualità della vita dei cittadini europei. Se per fare una tratta di 400 km ci metto 25 anni, allora non la voglio anche se me lo dice Bruxelles.
La Tav ha senso nelle pianure germaniche e nella vuota e pianeggiante Francia. Nella montagnosa Italia è ridicola. Facciamo dei treni normali che viaggiano puntuali a 150 km/h. Basta e avanza. Io già non sono mai entusiasta di buttarmi sotto la galleria dell’Appennino o del Sempione a 130 km/h. Non so che sensazione proverò nel lanciarmi a 280 km/h tra Bologna e Firenze, in galleria al 70%. E ti assicuro che non sono per niente un fifone.
Però mi chiedo: il giorno che capita un incidente serio, che ne sarà di quest’opera? Andiamo in Svizzera e vediamo come diavolo fanno a far funzionare i treni normali, tra le montagne, da 100 anni. Capiremo perché i treni sono pieni e le autostrade molto meno trafficate che da noi. Quando attraverso la Svizzera in treno e vedo tutto questo mi dico sempre: ma allora si può fare!

Abbiamo la pancia piena e la casa calda: cerchiamo di migliorare la qualità della nostra vita e non la «quantità». Per andare da Milano a Lione ci metterò 45 minuti in meno, con la Tav. Ma cosa me ne faccio se: (a) milioni di persone usano tutti i giorni treni pendolari sporchi e in ritardo, arrivando sul posto di lavoro già mezzi incarogniti; (b) ho un servizio postale da terzo mondo; (c) un’organizzazione della città e un sistema di trasporti fatti apposta per prendere l’auto anche per andare in bagno? Dove hanno studiato gli architetti degli ultimi 50 anni?
Eppure nessuno promette di migliorare queste infrastrutture chiave. Del resto, quale campagna elettorale «di immagine» potrebbero costruirci sopra? Meglio promettere un mucchio di sciocchezze, anche perché gli italiani hanno la memoria corta e dopo 5 anni si ricordano il giusto.
Tu dicevi: fra 20 anni i treni dovranno andare a 300 km/h. Ma chi l’ha detto, dove sta scritto? Allora fra 40 anni dovranno andare a 500 km/h? Ma per andare dove? Ma chi lo dice che questo è un progresso? Perché non cominciamo a chiederci seriamente dove vogliamo arrivare e a che prezzo, non solo economico, con la nostra civiltà?

Non mi dilungo ulteriormente. Capisco le persone di 60-70 anni, che hanno vissuto l’epoca più straordinaria di cambiamenti mai vista nella storia e fanno fatica a capire che potremmo (dovremmo) fermarci a riflettere. Per chi oggi ha 20, 30 o 40 anni, però, la storia non potrà essere la stessa.
Non abbiamo l’insensata presunzione che la nostra attuale civiltà durerà per sempre. Rassegnamoci: terminerà come tutte le altre che l’hanno preceduta.
Facciamocene una ragione: così non si può andare avanti per sempre. Se ci pensiamo è a tutti gli effetti un’ovvietà: un’ovvietà dettata dalle leggi della fisica, della chimica, e anche dal normale buonsenso.
Un’economia stazionaria o in lenta decrescita sarà una liberazione e non una iattura. Capisco che non è molto «trendy» dire queste cose, ma lo faccio a viso aperto nelle conferenze e nei dibattiti pubblici. Ci credo profondamente, quindi continuerò a farlo. Sapendo di accendere discussioni al fulmicotone, come l’altra sera».

Nicola Armaroli, Minerbio (Bo)

Lettera firmata VS Nicola Armaroli




Battitore liberoAmbiente: a proposito di bugie

Su MC del marzo 2005 ho letto la recensione, molto critica, che Paolo Moiola fa del libro “Le bugie degli ambientalisti. I falsi allarmismi dei movimenti ecologisti”. Un’altra rivista missionaria, Mondo e Missione, sul numero di agosto/settembre 2004 ospita un contributo dei suoi autori (non è precisato se si tratti o meno di un estratto dal medesimo) e presenta la pubblicazione come “Un’inchiesta che, prendendo le mosse dal magistero della Chiesa, propone una chiave di lettura “fuori dal coro” sul tema della salvaguardia dell’ambiente e smaschera ipocrisie e falsità portate avanti da una parte del movimento ecologista…”.
Cosa dire, forse bisognerebbe proprio leggerlo… eppure ho scelto di non farlo. Leggo molto, purtroppo ho molto tempo per farlo sui mezzi pubblici che uso quotidianamente, per scelta, al posto dell’auto, ma i due articoli sopra citati sono stati sufficienti a convincermi dell’inutilità, almeno per me, di un tale testo! Per quel che può valere la mia opinione, mi permetto, invece, di invitare alla lettura di un altro libro, davvero molto valido, già da voi in citato: “Futuro sostenibile” (ed EMI) di Wolfgang Sachs. Ottima la vostra iniziativa di intervistarlo! Da decenni mi occupo di ambiente per passione, più di recente anche per lavoro (in un comune), ed alcuni anni fa, quando di sostenibilità non si parlava così tanto come oggi (purtroppo se ne parla molto ma in concreto si fa poco!) ho regalato questo libro al mio assessore all’ecologia perché ne tenesse in considerazione i principi nelle scelte politiche dell’amministrazione.
Detto questo (era la cosa che davvero mi premeva segnalare), se può essere di qualche interesse per vostri lettori, vi propongo qualche considerazione che motiva la scelta sopra espressa. Ovviamente gli argomenti sono estremamente complessi e la sintesi obbliga a semplificazioni che rendono ancor più difficile cercare di farsi ben comprendere. Ci provo.
1. La Terra starebbe benissimo anche se fosse un deserto inospitale come gli altri pianeti che conosciamo. Perché la nostra specie possa sopravvivere, siamo noi “umani” ad aver bisogno che l’ambiente conservi certe ben definite caratteristiche.
2. E’ difficile anche per gli addetti ai lavori e gli scienziati avere un’idea precisa dei fenomeni ambientali sia a scala planetaria sia a scala locale. A maggior ragione questo vale per chi non ha la possibilità di accesso diretto agli studi scientifici.
3. Di fatto è più il desiderio di profitto di pochi che l’esigenza del bene pubblico ad orientare le scelte degli stati, compresi gli investimenti nelle ricerche e nella divulgazione dei loro risultati.
4. Alcune delle affermazioni degli autori del libro “inquisito”, compresa qualcuna fra quelle criticate da Paolo Moiola, per quanto ne so io sono vere, ma descrivono solo una parte e non tutta la realtà. Condivido l’affermazione che la creatività e la tecnologia umane “contribuiscano” a definire le risorse, ma non bastano! Lo dimostra proprio l’esempio del petrolio: Mathis Wackeagel (ideatore e divulgatore dell’indicatore “Impronta ecologica”) di recente a Milano ha osservato che “E’ scorretto parlare di paesi produttori di petrolio, più giusto sarebbe definirli “liquidatori di petrolio” visto che si limitano ad estrarlo e venderlo; a produrlo davvero sono stati processi naturali in tempi infinitamente più lunghi rispetto a quelli in cui lo stiamo consumando”. La migliore tecnologia risulterebbe quindi inutile in assenza della risorsa naturale.
5. Con tutta la nostra creatività non potremo mai far a meno di alimentarci, bere, respirare. E ci sono anche modi diversi per farlo: che producono differenti livelli di benessere. Per aiutarci a ricollocare nel giusto ordine di priorità le nostre esigenze essenziali, può essere illuminante provare a verificare per quanto tempo riusciamo a resistere trattenendo il fiato!
6. Senza addentrarmi in complesse problematiche planetarie sull’effettivo stato dell’ambiente, mi limito ad un’osservazione molto semplice: ci rifiuteremmo categoricamente di acquistare un paio di scarpe sporche e usate ma riteniamo accettabile che l’acqua che beviamo contenga una quantità, definita per legge, di sostanze nocive (ma non abbastanza!). Nota di colore: alcune derivano, fra l’altro, dagli scarichi dei nostri servizi igienici!
7. La questione ambientale dunque non è un fatto di tutela della natura fine a se stessa ma una necessità per la nostra salute e per vivere meglio. E’ anche una questione di giustizia e di rispetto della dignità umana. Tutela dell’ambiente e tutela dei diritti umani sono molto più strettamente connessi di quanto si possa superficialmente pensare. Con soddisfazione rilevo che anche il mondo religioso da qualche tempo se ne sta occupando sempre più di frequente (MC compresa).
8. La prima necessità, in questo come in tutti gli ambiti della nostra vita, risiede nella corretta informazione. Che non si fa semplicemente accusando il mondo ambientalista, dimostrandone oltretutto una conoscenza quantomeno incompleta. Specie se limitata a quanto ne appare sui mezzi di comunicazione di massa. Anche in campo ambientale è semmai proprio di questi ultimi la responsabilità nel presentae, spesso superficialmente, solo gli aspetti più eclatanti, sbagliando nel ritenerli i soli interessanti per il pubblico. Sarebbe invece doverosa una molto più capillare, quotidiana e competente informazione. Capace di suscitare l’interesse di tutti, perché non sia lasciato ai soli “ambientalisti” l’onere di occuparsene. Dopo di che… siamo in una democrazia e, se le scelte andranno comunque in una direzione che non ci piace, non ci resterà che impegnarci ancora di più per convincere chi non la pensa come noi sulla necessità di modificarle.

Giovanni Guzzi




Sulle due Simone

Luciano Coggiola e Giuseppe Gentile contestano la redazione per l’articolo
pubblicato in questa rubrica nel numero di dicembre 2004.
Poiché i contenuti sono molto simili, riportiamo solo la prima.
Nel frattempo, un’altra italiana, la giornalista Giuliana Sgrena, è stata rapita…

Per quanto riguarda il sig. Farinella, al quale mi permetto suggerire di non definirsi «libero» per questioni di buon gusto, desidero sottolineare che egli ha scritto il suo lungo e dotto libello senza considerare che proprio il governo attuale (voluto dalla maggioranza degli italiani con votazione democratica) ha sborsato migliaia di euro per la liberazione delle «due Simone», tornate dalla terribile esperienza carceraria, ridenti e ingrassate, e divenute il simbolo vivente e immediato di un tipo di kultura che, spaziando su riviste, giornali e tv, ha l’improntitudine di affermare che i mass media sono «completamente» in mano al centro-destra e che il loro spirito, collaborativo e per nulla disfattista, viene respinto con disprezzo e alterigia.
Sono altresì rattristato che una rivista come Missioni Consolata, che venne alla luce l’anno in cui nacque mia madre e che dovrebbe – mi si perdoni la «pretesa» – essere super partes, non tralasci occasione per non esserlo. È una rivista che ho sempre letto unitamente a parecchi conoscenti (anche a nome dei quali scrivo la presente) e della quale ho apprezzato il suo «essere l’eco del lavoro missionario nel mondo».
Nella mia vita (sono del 1930) ho visto passare l’orrore d’innumerevoli conflitti, con l’inesorabile scia di sangue e sofferenze che lasciano appresso. Valuto la caduta morale di una società che bada al profitto, calpestando i diritti di molti, però non ho portato il cervello all’ammasso, in quanto giudico che ogni dittatura sia una sciagura. A cominciare dal nazismo e comunismo, per giungere agli sterminii di Saddam con gas venefici, al massacro dei Curdi, all’annullamento di tante minoranze etniche di cui si ha notizia o meno.
Contro tali dittature proprio l’America (ora di Bush, rieletto con l’apporto di una maggioranza di 3,5 milioni di voti) ha sacrificato per la liberazione d’Italia e d’Europa, migliaia di suoi figli. Tale verità viene continuamente taciuta. Proprio l’America di Bush ha sofferto un 11 settembre di sterminio e distruzione ad opera di un terrorismo (il profetizzato «anticristo»), che ha deciso l’annientamento della democrazia, dell’Occidente e del Cristianesimo.
Come tutti, anch’io sono contro la guerra e mi adopero gioalmente con il volontariato, onde portare aiuto a indigenti e malati. Nei ritagli di tempo che mi rimangono, leggo, oltre a uno dei «rimasugli della inciviltà italiota», anche autorevoli quotidiani come Repubblica, cercando di avere una visione pluralistica degli avvenimenti.
Per la verità non mi sento affatto in colpa, in quanto non acclamo come eroine le «due Simone». Acclamo per contro l’opera silenziosa delle migliaia di persone, religiose o laiche, che si adoperano per gli altri, onde riportare pace e democrazia (binomio inscindibile) anche a costo della propria vita.
Il sig. Farinella cita Dante; io cito Maister Eckart: «Non c’è niente che assomigli a Dio come il silenzio».
Grazie per avermi letto e auguri di un «sereno 2005».
Luciano Coggiola
Rosignano Monferrato (AL)

Risponde Paolo Farinella.

Gentile amico (se mi permette questa confidenza), vorrei chiarire alcune cose, come è possibile.
Il titolo Battitore libero è un’espressione giornalistica per esprimere il fatto che alcune pagine della rivista (preparata un mese prima della data di pubblicazione) non sono legate né a tematiche prefissate, né ad autori precisi. Di conseguenza, Battitore libero non era e non è un titolo che mi attribuisco né una definizione, ma solo l’indicazione di uno spazio.
Le «2 Simone». L’articolo da lei contestato ha solo evidenziato alcuni fatti visibili a occhio nudo a chi non è prevenuto ideologicamente, tanto è vero che personalmente ho ricevuto attestazioni esattamente contrarie alle sue. Ciò non mi stupisce, perché so che la realtà non è solo quella che è, ma è anche quella che noi interpretiamo in base alla nostra esperienza, convinzioni, ecc. S. Tommaso d’Aquino lo insegna con autorità: «Nulla può essere nella mente che prima non sia passato attraverso l’esperienza».
Riguardo al governo, bisogna distinguere con precisione, perché altrimenti si fa confusione: il governo non è la nazione e nemmeno la rappresenta, perché secondo la nostra Carta costituzionale è il presidente della repubblica che incarna l’unità nazionale, simboleggiata dal tricolore. Il governo amministra la gestione dello stato ed è per natura sua «provvisorio»; infatti giuridicamente si dice governo «pro tempore», proprio perché eletto dalle camere che possono in qualsiasi momento, teoricamente, negargli la fiducia.
Ciò precisato, è necessario puntualizzare che il governo ha pagato un riscatto per le «2 Simone», ma i soldi li ha sborsati lo stato, cioè lei, io e chiunque ha il senso morale di pagare le tasse. Ufficialmente lo stesso governo ha sempre negato di avere pagato qualsiasi riscatto, forse per non ammettere compromessi imbarazzanti per la dissennata scelta di fare guerra «preventiva», isolandosi dall’Europa dei padri fondatori e correndo a scodinzolare dietro a Bush nella sua insana avventura. Invece il governo si è preso tutto il merito mediatico della liberazione delle «2 Simone». Sarebbe stato più opportuno, anche per rispetto agli italiani che erano laggiù (i soldati vi sono ancora), non suonare fanfare e strombazzare tamburi. Ciò che ha inorridito il governo pro tempore e la canèa che lo sostiene sono state le limpide parole delle due ragazze, ignare di quanto succedeva in Italia e altrove: Chiediamo la fine della guerra, perché chi ne paga le spese è la popolazione inerme. Queste parole hanno scatenato il linciaggio morale delle «2 Simone», le quali, come lei può verificare, non hanno concesso interviste, si sono eclissate subito e hanno ripreso il loro lavoro, in attesa di ritornare in Iraq, dove hanno lasciato amici, donne e bambini con cui costruivano un futuro di riscatto.

L ei è nato nel 1930, quindi ha fatto in tempo a vedere le conseguenze del fascismo che ha permesso al nazismo di installarsi in Italia con tutte le conseguenze del caso. Nessuna dittatura può essere tollerata; ma neppure alcuna azione illegale e immorale, come la guerra preventiva, contro cui lo stesso papa ha detto parole di fuoco.
L’11 settembre, atroce e diabolico, non autorizza a usare mezzi altrettanto atroci e diabolici: si chiamerebbe vendetta. Il terrorismo, fenomeno non nuovo nella storia degli ultimi tre millenni, non è il «profetizzato anticristo», ma il risultato di politiche ingiuste e scelte sbagliate da parte di governi miopi (Inghilterra, Francia, Russia di fine xviii secolo e America del secolo scorso e dell’attuale).
Democrazia, Occidente e Cristianesimo non sono sinonimi, anche se in certe tornate storiche qualcuno tenta di farli coincidere. Una cosa è la democrazia, termine non univoco presso culture diverse: in Oriente non esiste il concetto stesso di democrazia e in Cina nemmeno l’ideogramma per esprimerlo; noi sproloquiamo di democrazia, senza conoscere i popoli a cui vorremmo esportarla (anche con una guerra?).
Altra cosa è l’Occidente e altra cosa ancora è il Cristianesimo, che per sua natura è portato a innestarsi in qualsiasi cultura (oggi il Cristianesimo numericamente è maggioritario nei paesi del Terzo mondo non in Occidente). Lei sa che il Cristianesimo è nato in Oriente: in Palestina e nell’attuale Siria. Gesù era ebreo, come lo erano Paolo, gli apostoli, Maria e tutti i primi cristiani. Ad Antiochia, nell’attuale Siria, per la prima volta i credenti furono chiamati «cristiani». Identificare Occidente e Cristianesimo è fare un’operazione indebita e non corrispondente alla verità rivelata e alla verità storica.
Il sig. Berlusconi che s’identifica con il «Bene» (io sono il Bene) è blasfemo, perché si ammanta di un’aura religiosa che non ha e induce a somigliarlo a Gesù, che ebbe a dire: Io sono la via, la verità, la vita, la porta, il pane. Simili aberrazioni schizofreniche dovrebbero sconvolgere le budella dei credenti, perché si trovano di fronte a uno che assume la fisionomia di un messianismo per tutte le stagioni, mentre con le sue Tv divulga un mondezzaio, che ha già travolto le coscienze dei più, deformandone i criteri di valutazione e di critica.

S iamo grati all’America per l’intervento liberatorio dell’ultima guerra; ma lei sa bene che le questioni storiche sono molto più complesse di quanto sappiamo semplificare. L’America intervenne per difendere se stessa e di conseguenza per aiutare l’Europa a liberarsi dall’oppressione nazifascista. A questo scopo foì mezzi e armi alla Russia di Stalin, con il quale concordò un comune intervento, sia dall’Occidente che dall’Oriente. Non vinse solo l’America. Se dobbiamo essere onesti (e noi credenti non possiamo non esserlo), bisogna dire che l’Europa fu salva dalla combinazione di tre interventi: America, Russia e resistenza italiana, francese e scandinava.
Non è un caso che la nostra Costituzione, mondialmente giudicata come la più equilibrata tra le esistenti, è il frutto di tre matrici culturali: cattolica, social-comunista e liberale. Ci può piacere o meno, ma la realtà non si può mutare. Resta il fatto che oggi al governo stanno non chi allora fu a fianco degli americani liberatori, ma coloro che furono a fianco e succubi del nazismo, causa di mali atroci per la nostra nazione. Fini e compagnia non sono un vulnus nella nostra tradizione democratica? Per favore, non mi dia del «comunista». Non lo sono e non lo sono mai stato.

C aro sig. Luciano, come vede le questioni sono complesse e per potee dare una valutazione abbastanza consona, è necessario avere in mano tutti i dati del problema, che oggi non è possibile in questa Italia, dove la democrazia è stata accorciata da leggi che mirano solo all’eversione del diritto.
Prima di morire, don Giuseppe Dossetti, padre costituente e perito conciliare del card. G. Lercaro, dopo 20 anni di silenzio, muto e orante, ricominciò a battere l’Italia per avvertire del pericolo incombente: lo stravolgimento della Carta costituzionale e lo sfregio dello stato di diritto a cui l’avventura Berlusconi avrebbe portato l’Italia. A lui, con altre motivazioni, si unì Indro Montanelli, che mise in guardia contro la stessa avventura, tanto da essere licenziato in tronco.
Disdire l’abbonamento alla nostra rivista (come scrive in calce alla sua lettera) vuol dire solo una cosa: nonostante cerchi «di avere una visione pluralistica degli avvenimenti», lei vuole leggere solo quello che coincide con il suo modo di vedere e chiede alla rivista una funzione che la garantisca in questa sua ideologica presa di posizione, probabilmente inconscia. Lei rifiuta tutto ciò che non combacia con quanto pensa.
Un consiglio d’amico: continui a leggere la rivista, che forse è una delle poche non prezzolata e non in svendita, guidata da un concetto di servizio che supera la cronaca e gli interessi di parte, ma ancorata alla prospettiva di non fare gli interessi di alcuno se non dei poveri di cui è voce limpida e senza compromessi. Le resterebbe Libero, fratello gemello del Gioale, strumenti liberi di essere al servizio del padrone di tuo. In questo senso, una rivista cattolica non potrà mai essere super partes, perché il vangelo non lo è (Matteo 25,31-44): esso ci impone di stare dalla parte dei senza voce, dei senza diritti, dei poveri, secondo il principio che «le giornie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le giornie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore» (Gaudium et Spes, n.1).

Luciano Coggiola




BATTITORE LIBEROCare le due Simone…

O ra che siete tornate sane e salve e tacciono le fanfare strumentali che volevano ricatturarvi, vorremmo dirvi due piccole parole, una per ogni Simona. Non vogliamo né possiamo (e come potremmo?) accodarci agli ignobili tentativi di quanti hanno cercato di rifarvi prigioniere, per usarvi come tromboni processionali nella marcia trionfale del governo libertador. Voi avete spiazzato tutti, siete rimaste voi stesse e avete detto che è vostro desiderio ritornare in Iraq, in mezzo al popolo iracheno.
Avete avuto l’obbrobrio di chiedere che finisca la guerra e di affermare che siete contro il terrorismo, ma non contro coloro che resistono all’invasione del loro paese. Avete ringraziato anche il popolo iracheno e ricordato i morti e le sofferenze che vi sono da quelle parti, non esposte in tv, perché fastidiose alla pudica vista degli occidentali.
Nella visita al papa, lo avete ringraziato, emozionate e commosse di essere stato vicino a voi e «al popolo iracheno», dimostrando così che avete preso per sempre e senza possibilità di cura, il «mal d’Iraq», come Annalena Tonelli e tante altre come lei hanno preso «il mal d’Africa».
Nonostante la prigionia, nonostante siate state riscattate come antiche schiave, nonostante il vostro paese sia in guerra proprio contro quelli che vi hanno rapito, voi continuate a essere estranee a una logica di guerra e non vi siete convertite alla rovescia: dalla pace alla guerra d’aggressione o almeno, come ci si aspettava, alla guerra di vendetta. Al contrario, siete andate dietro alla vostra anima, alla vostra vita, stando ferme e fisse sulla stella polare della pace con coerenza e verità, come Virgilio chiede a Dante di non lasciarsi distrarre dai «pispigli della gente» che oggi osanna e immediatamente dopo crocifigge:
«Che ti fa ciò che quivi si pispiglia?
Vien dietro a me e lascia dir le genti:
sta come torre ferma, che non crolla
già mai la cima per soffiar di venti» (Purg. V,12-15).

L o stuolo dei cortigiani governativi, senza conoscere nulla di voi, vi avevano modellato già a immagine e somiglianza dell’interesse del governo, che voleva «vendervi» come merce di pregio, nonostante voi foste contro la guerra (come potevate essere a favore?). Non lo avete consentito e quindi siete state degradate sul campo a ingrate e complici dei terroristi. Non fateci caso. Notoriamente i palazzi del potere non tollerano due ragazze che possano vivere senza vendersi ad alcuno, con una coscienza autonoma, come voi avete dimostrato.
Care le 2 Simone, avete deluso le aspettative degli eunuchi di regime. Pazienza! Quando tutti erano andati via, eravate contro la guerra e siete rimaste dentro la guerra con la gente, siete state rapite, avete coinvolto il mondo intero in una trepidazione globalizzata, avete fatto il miracolo di unire destra e sinistra in Italia, siete state riscattate, avete portato il premier a parlare al Parlamento, dopo tre anni di assenza ingiustificata e snobbante… insomma, non pretendete anche che Libero, Il Gioale, La Padania e altri rimasugli dell’inciviltà italiota vi acclamino come eroine! Poffarbacco! Voi sapete bene che solo la guerra genera eroi e liturgie eroiche per gli inutili morti in guerra! Simona Pari e Simona Torretta, voi siete colpevoli di essere rimaste in vita, di essere state trattate «con rispetto», di essere tornate come eravate prima di essere rapite. La condanna è senza appello.
Noi siamo felici di questa condanna e vorremmo condividerla con voi, perché siamo lieti che voi siate così e vi preghiamo di restare come siete: semplicemente voi stesse, amanti di quel popolo sventurato che con generoso cuore avete servito e ancora servirete.

Se possiamo darvi un consiglio piccolo, piccolo, è questo: per favore, non cadete nel tranello della notorietà, delle interviste, delle riviste, delle memorie… sarebbe la vostra vera fine e deludereste i piccoli e i semplici che in voi hanno vissuto un’avventura d’amore, senza se e senza ma. Toate, come già state facendo esemplarmente, al silenzio di quell’amore che vive e parla solo nel servizio. Toate ad essere le due ragazze che amano la vita senza sconti per nessuno, in Italia come, presto, in Iraq.
Paolo Farinella

Paolo Farinella




BATTITORE LIBEROEpulone e Lazzaro made in China

Ultima domenica di settembre, liturgicamente la 26a del tempo ordinario. Ritoo dalla messa e accendo il televisore: le prime immagini che appaiono sullo schermo parlano del gran premio di Formula 1, il primo disputato in territorio cinese.
Sarà perché in chiesa ho ascoltato la storia di Lazzaro e del ricco epulone, ma rimango molto colpita, quando una piccola e timida cinese di nome Tan Wen Ling, ospite di Rai1, poco prima del «via», riesce a dire che il suo è un paese dove un lavoratore, in media, porta a casa 1.000 (mille) dollari all’anno (circa 820 euro).
Altre fonti assicurano che nella Cina rurale le cose vanno anche peggio: un numero incalcolabile di cinesi abbandonano le campagne per trovare nelle città qualcosa che assomigli a quei mille dollari l’anno.
Penso che, se vogliamo essere missionari e dare qualsivoglia contributo all’evangelizzazione del paese con il maggior numero di non credenti in Cristo, non possiamo continuare a comportarci come se queste realtà non esistessero. Non c’è solo la Cina degli epuloni, capaci di spendere 300 milioni di euro per un circuito come quello di Shangai-Jiading, ma anche quelle centinaia di milioni di poveri Lazzaro, dove un solo vestito deve bastare per 8 persone, per cui, come ha scritto Renata Pisu, «esce di casa uno alla volta, mentre le altre se ne stanno rannicchiate sotto una coperta».
Alla Cina delle grandi metropoli, come Pechino e Shangai, dove si gira in Ferrari e il prezzo medio di un appartamento è di 800 mila dollari, alla Cina dei grattacieli e del +9% annuo di Pil, dei laghi artificiali più grandi del mondo… il cristiano veramente convertito, e desideroso di convertire chi cristiano non è, dovrebbe anteporre la Cina di tutti quei contadini poveri, per i quali anche la bicicletta è un lusso, la Cina dei lebbrosi, dei malati di Aids, di chi muore di fame e di sete, di chi quotidianamente è obbligato a fare decine di chilometri a piedi per raggiungere il rivoletto o lo stagno «giusto», perché l’acqua che scorre nei pressi della sua abitazione è talmente contaminata da non essere adatta nemmeno all’uso agricolo e industriale.

È fondamentale che i missionari siano aperti all’ecologia (come padre Benedetto Bellesi, autore del pregevole editoriale: «Conversione ecologica», in M.C. 9/04) e reagiscano con la massima decisione, ogni volta che si accorgono che della Cina si parla solo in riferimento al suo tasso di crescita economica e competitività, al suo acciaio, carbone e petrolio, potenza nucleare, calzaturifici, piantagioni di pomodori, tè e caucciù, alla sua edilizia e casinò…, senza neppure una parola per la questione ambientale.
Alziamo pure la voce, come hanno fatto recentemente alcuni vescovi e sacerdoti, contro i De Longhi, Zoppas, Zanussi e altri delocalizzatori «eccellenti»; ma alziamola anche contro la «strategia diabolica del governo e degli industriali» (parole del vescovo di Pisa, mons. Plotti, La Repubblica 11/12/02). E quando lo facciamo, non pensiamo solo ai nostri connazionali che rimarranno disoccupati, ma anche ai cinesi, che trarranno benefici solo illusori da tali delocalizzazioni e altre strategie neoliberiste, così care ai vip della politica e della finanza.
Se vogliono restare nel solco tracciato da Cristo e rinverdire la gloriosa tradizione di Matteo Ricci, Francesco Saverio, Armand David e dei membri di innumerevoli istituti missionari, annuncino a tutta la cristianità che oggi, per «farsi Cina», occorre edificare ben altri grattacieli, attingere a ben altre miniere, scegliere dei mezzi di locomozione ben diversi dalle Ferrari, Maserati, Lamborghini, Toyota, Mercedes, Bmw…
A proposito di padre Armand David, autore di tanti studi e ricerche di fondamentale importanza per la zoologia, botanica e storia naturale, fu lui a scoprire il panda gigante, simbolo dell’impegno conservazionista; fu lui a salvare dall’estinzione una rara specie di cervo che ancora oggi porta il suo nome e il bellissimo «albero dei fazzoletti», ribattezzato Davidia involucrata.
Insegnino che nessun palazzo, torre o coppia di torri potrà mai competere, non solo in bellezza, ma anche in utilità, con il piccolo Bog-do-ula, di cui Teilhard de Chardin disse che «spunta all’orizzonte come un fiore dal calice».
Insegnino ai cristiani, che si credono sapienti solo perché hanno molte proprietà e molti soldi, che la miniera di saggezza custodita dai piccoli popoli delle ultime foreste cinesi è infinitamente più preziosa e redditizia di tutte le miniere di carbone, ferro, titanio, oro, uranio, coltan. Insegnino che la competizione economica è foriera di sventure; che il vero sviluppo nasce solo da un atteggiamento di non-competizione: quello che parte dalla convinzione che Dio non ha creato concorrenti, ma fratelli e sorelle.
Nel sud della Cina, hanno riferito alcuni giornalisti del Tg2, c’è un fiume che ancora si chiama «Fiume delle perle», ma le perle non ci sono più, perché non ci sono più molluschi, né acque pulite, né vita. Insegnino i missionari che senza i panda, le tigri, gli elefanti di Xishuangbanna, i delfini lipote dello Yang-tze-kiang, le salamandre giganti, i pesci spatola e senza ambienti naturali in grado di sostenere queste e molte altre creature, ormai vicine all’estinzione, la Cina e la terra tutta saranno non solo più brutte, ma anche più povere, più fragili, più vulnerabili e sempre meno in grado di garantire all’umanità acqua, cibo e risorse energetiche.
Chiara Barbadoro

Chiara Barbadoro




Se la bistecca è politicamente scorretta

A proposito della campagna della Cafod «Flyng Cows», oggetto dell’ultima parte dell’editoriale di Missioni Consolata, maggio 2003 e della relativa vignetta, desidero fare alcune osservazioni.

1. Condivido il giudizio negativo sul sussidio giornaliero medio di 2,20 euro agli allevatori europei per ogni capo di bestiame posseduto (non ha tutti i torti Noam Chomsky quando dice che «i paesi ricchi fanno i socialisti a casa loro e i capitalisti nei paesi poveri»). Ma aggiungo: se molti paesi in via di sviluppo sono nei guai (tanto che il numero degli affamati e assetati, anziché diminuire, aumenta) è perché anche i governi di queste nazioni hanno creato un sistema di concorrenza sleale, che favorisce spudoratamente certi allevatori e certi tipi di allevamento, penalizzandone altri.
Il caso più inquietante è forse quello del Brasile. Qui una delle principali cause del degrado economico, sociale e ambientale è stato proprio il sistema delle sovvenzioni che i governi locali hanno erogato a volontà, affinché le mucche avessero a disposizione tutto lo spazio possibile, senza star tanto a pensare alla qualità morale delle persone che beneficiavano di tali agevolazioni e al destino di coloro che avrebbero dovuto sloggiare per far posto ai bovini.
In altre parole: un qualunque latifondista, dimostrando di avere delle mucche, acquisiva il diritto di proprietà delle terre di cui diceva di aver bisogno, anche quelle dell’Amazzonia profonda, anche quelle abitate da «caboclos e indios» e sostanzialmente inadatte al pascolo.
I latifondisti approfittarono della situazione da par loro: misero a ferro e fuoco la foresta; fecero massacrare indios, caboclos, seringueiros dai loro sicari; provocarono alterazioni dell’ecosistema amazzonico che ebbero ripercussioni a livello planetario. Inoltre minacciarono, uccisero e straziarono alcuni missionari, che avevano «osato» suggerire un uso della terra più responsabile e più rispettoso dell’uomo e dell’ambiente. L’elenco è lungo: don Josimo de Moraes Tavares, suor Adelaide Molinari, padre Ezechiele Ramin, ecc. E non dimentichiamo il sacerdote modenese Francesco Cavazzuti, che la scarica di proiettili la ricevette in pieno volto e perse completamente la vista.
Verso la fine degli anni ’80, altri missionari, considerata anche la disarmante facilità con cui killers e mandanti riuscivano a farla franca con la giustizia, pensarono che l’unica strada praticabile fosse quella di dimostrare alle autorità che: anche gli indios avevano delle mandrie e, quindi, anch’essi avevano diritto ad un po’ di terra!
Partì così il famoso progetto «una mucca per l’indio». Non era il massimo, ma qualche vantaggio ad alcune comunità indigene lo portò, anche perché poté contare sull’entusiastica adesione del vescovo di Ravenna (poi cardinale) Ersilio Tonini, sull’appoggio di Famiglia Cristiana e sul beneplacito di Giovanni Paolo II, che sborsò il denaro necessario all’acquisto dei primi capi di bestiame.
Ciò però non ha significato la fine delle prepotenze, degli attentati e delle stragi. I latifondisti sono potenti, riescono a farsi ubbidire da tanti e l’Amazzonia hanno continuato a saccheggiarla, anche perché il governo e l’esercito li hanno lasciati fare. Li lascerà fare anche il presidente Lula? Sarebbe una beffa veramente atroce per il Brasile (e non solo).
Ndr Il progetto «una mucca per l’indio» fu ideato e lanciato a Roraima (Brasile) dai missionari della Consolata, per iniziativa di padre Giorgio Dal Ben. Il progetto ebbe una vasta eco in Europa, specialmente durante una Campagna promossa dai missionari della Consolata (1988-89), e si è rivelato vincente per gli indios macuxi, wapixana, ingarikó e taurepang di Roraima.

2. Nella stragrande maggioranza dei casi i latifondisti sono gente straniera, che opera per conto di grandi imprese multinazionali, o comunque persone che hanno legami scarsi o nulli con la vita, la cultura e le tradizioni delle comunità presenti nelle terre dove mettono in piedi i loro super-allevamenti.
È il caso di Edward Luttwak, famoso politologo-scrittore-imprenditore. In Bolivia è padrone di una tenuta di 118 kmq e si vanta di produrre una carne di qualità incomparabilmente superiore a quella prodotta dagli allevatori italiani. È il caso di tutti quei fazendeiros che, come Luttwak e più di Luttwak, hanno approfittato della «mucca pazza» per costruire i miti della «carne verde», della «bistecca politicamente corretta», del «bovino allevato nell’ambiente più sano e adatto alle sue esigenze»…
In realtà, rispetto agli anni in cui (anche in Italia) un po’ tutte le organizzazioni ecologiste e pacifiste invitavano a non consumare la carne dei fast food, perché ottenuta da bestie allevate con metodi criminali, incompatibili con le più elementari istanze etiche, è cambiato ben poco. Infatti in tutta l’America Latina, dal Messico al Brasile, dall’Honduras all’Argentina, allevare grandi mandrie su pascoli estesi equivale a distruggere le foreste, alterare il ciclo dell’acqua, affamare le persone, impoverire economie già fragilissime, sfruttare il lavoro minorile, ridurre in schiavitù individui, famiglie, villaggi che fino a non molto tempo fa godevano di condizioni di relativo benessere.
È esagerato dire che chi mangia questa carne, seguendo la moda del fast food, o magari perché ha simpatia per Luttwak e per le belle cose che dice in televisione sul grande impegno degli Stati Uniti in favore della libertà, della democrazia, della lotta contro il comunismo e il terrorismo… diventa corresponsabile di questi scempi?

3. Quando parliamo di allevamenti e di sovvenzioni agli allevamenti, non possiamo intendere solo quelli di bovini e degli altri animali terricoli. Oggi un contributo assai rilevante all’involuzione economica, al degrado ambientale, allo sfilacciamento di tutta quanta la rete delle relazioni familiari e sociali, viene anche dall’allevamento di animali acquatici, piccoli e apparentemente innocui.
Oltre alle giungle tropicali propriamente dette, vi sono anche i mangrovieti costieri: cioè formazioni forestali composte da specie arboree dotate di particolari radici che crescono verso l’alto (tale modalità di crescita si chiama «geotropismo negativo») e in grado, grazie appunto a queste radici, di tollerare l’acqua dell’alta marea e il sale. Ebbene, se i paesi del terzo mondo perdono tutto questo, è per l’incredibile espansione conosciuta dall’industria dei gamberi, che vengono allevati in enormi vasconi ottenuti a spese degli alberi di mangrovie, delle lagune naturali e delle comunità locali, per le quali la pesca costituisce l’unica vera fonte di sostentamento.
Già una quindicina d’anni fa, monsignor Enrico Bartolucci, vescovo di Esmeraldas (Ecuador occidentale), esprimeva profonda inquietudine di fronte ai soprusi perpetrati dai proprietari delle camaroneras (così in Ecuador vengono chiamati gli impianti per l’allevamento di crostacei). Qualche tempo dopo, nell’estate del 1995, grazie a un altro missionario, padre Enzo Amato, si venne a sapere che, sempre nel territorio di Esmeraldas, l’autorizzazione a disboscare altri 2.406 ettari era venuta addirittura dall’Istituto ecuadoriano di aree naturali e silvestri.
Della cosa si occupò anche la rubrica televisiva «Geo», che, tra l’altro, denunciò le inumane condizioni di lavoro imposte dai proprietari e l’aumentata vulnerabilità della costa disboscata dinanzi alle tempeste e ai furiosi venti oceanici.
Il problema però non riguarda solo l’Ecuador. Gli sfavillanti crostacei bianco-arancio, sotto varie sigle («insalata di mare», «polpa di granchio», ecc.), oano i banchi dei supermercati: anche quelli della Coop, che da sempre dice di essere dalla parte dell’uomo, dell’ambiente, della solidarietà, dei diritti, contro gli organismi geneticamente modificati, contro tutte le svolte autoritarie… Gli sfavillanti crostacei sono il risultato di assassinii, stragi, rapine ed altre nefandezze ai danni di piccole comunità di pescatori in Sudan, Bangladesh, India, Indonesia, Cina, Vietnam, Filippine, Thailandia, Messico, Brasile e nel già citato Ecuador.
Astenersi dall’acquisto di queste «squisitezze» dovrebbe essere avvertito come un dovere morale, così come lo sono le campagne di informazione sugli abusi della Nestlé, della Del Monte e degli altri colossi del settore agroalimentare. Inoltre si sappia che, come ha denunciato l’Organizzazione non governativa inglese Environmental Justice Foundation, nelle camaroneras si fa un uso sconsiderato di antibiotici proibiti, che non sono proprio l’ideale per chi è alla ricerca di cibo sano.

Giovanni De Tigris – Urbino (PU)

Giovanni de Tigris




Lettere sul Venezuela

La contrastante valutazione di un reportage di Missioni Consolata<

Scrivo in riferimento a «Chávez ti amo, Chávez ti odio» di Missioni Consolata, giugno 2003. Conosco a fondo la situazione del Venezuela e sono rimasta costeata nel leggere le incredibili semplificazioni operate dall’articolo su una tragica situazione. Non entro nella questione politica e prescindo dal prendere posizione pro o contro Chávez, anche perché l’articolista non affronta il vero problema, ma afferma cose aleatorie o si basa su aneddoti banali per trae conclusioni generali.

È anche un articolo (e lo scrivo con dolore immenso) fuorviante e superficiale, che fomenta classismo e razzismo, finora totalmente assenti in Venezuela.
Leggo: «I bianchi sono circa il 21% della popolazione». Quali bianchi? I «bianchi» vengono fuori a caso da qualunque famiglia, perché dai medesimi genitori nascono figli di ogni gradazione della pelle. Chi sposa un venezuelano/a non sa di quale colore saranno i figli: indios, neri, moreni, bianchi e anche gialli… È il regno di Cristo, signor direttore, dove ogni differenza è raccolta, amalgamata e amata!

La mia amica Gladys ha una bambina «pura italiana castagnina» e un maschietto «nero come un tizzone»; i genitori non sono italiani, né bianchi, né moreni, ma solo un po’ abbronzati. Altro esempio: un amico moreno ha un fratello come lui e tre sorelle (due bianche e una morena). Dunque come potrebbe esistere una «categoria» di bianchi?

Trovo scritto ancora: «I “bianchi” vivono nelle grandi città. I “bianchi” sono i principali leaders dell’opposizione. I “bianchi” hanno in mano i canali televisivi…». Direttore, guardi le foto nella stessa rivista: due collaboratori di Chávez sono bianchi e persino biondi… Non è questa una campagna razzista contro i «bianchi», che crea antagonismo tra fratelli di colore diverso su una base completamente inesistente? E questo su una rivista missionaria cattolica. C’è da morire di crepacuore! Il termine «negrito», lungi dall’essere ingiurioso, è meraviglioso: è il vocabolo della tenerezza e designa l’essere più caro, negretto o «blanquito» che sia.

L’articolo dà gran rilievo anche a qualcosa che è solo un elemento culturale, cioè lo «schiarire la pelle»: il «blanqueo» è la preparazione alle nozze delle indie guajiros da tempo immemorabile… Gli aztechi aspettavano un «dio biondo», e si commossero quando apparvero i «diavoli» spagnoli di Cortés; uno, il più malvagio, era biondissimo…

Anche un italiano basso vorrebbe essere 1 metro e 80; anche un’italiana bruttina si duole e vorrebbe essere una miss. Certe aspirazioni alla bellezza sono universali. Non è così? Un giovanotto, innamorato di una «morenita», non la lascerebbe per nessuna «blanquita» al mondo. Perciò l’aneddoto della donna afro (che si vanta di essere meno nera dell’altra), generalizzato per descrivere una situazione politico-sociale, mi sembra assurdo.

L’abbandono di bimbi… Certo, se la situazione degrada sempre più, i problemi diventeranno abnormi. Fino a poco tempo fa i bambini crescevano in famiglie allargate; i nati prima del matrimonio erano allevati dalla nonna. Il popolo venezuelano (prima di questo disastro) era stupendo e profondamente religioso.
Vorrei, direttore, che lei esaminasse spassionatamente il tutto e prendesse i provvedimenti del caso.

Il Signore le sia largo di grazie.

Maria Ricci – Roma

Sono un italiano in Venezuela da 34 anni, dove arrivai come professore universitario di matematica. Nel paese, tra varie esperienze, ho avuto il privilegio di essere tra i fondatori dell’università « Simón Bolivar», sin dall’inizio una delle migliori del continente.

Ricordo com’era difficile nella nostra università vedere un nero. La maggioranza dei professori erano stranieri, europei per lo più; anche la maggioranza degli studenti erano discendenti di europei. In un paese dove i meticci sono l’80 per cento, gli studenti della «Simón Bolivar» probabilmente non arrivavano al 20%.

Era uno degli aspetti (per dirlo con il titolo di un libro del 1991 di una docente dell’Università Centrale di Venezuela) del «razzismo occulto di una società non razzista». La professoressa era nera, ovviamente, perché – come mi diceva qualche mese fa un’amica nera – «si deve essere neri per capire che significa essere neri».

Direttore, perché le faccio questo discorso? Per congratularmi con la sua rivista, che ha pubblicato gli articoli di Paolo Moiola sulla situazione del Venezuela.
In termini astratti ciò che sta avvenendo nel paese è la punta dell’iceberg di un fenomeno tipicamente latinoamericano: il continente si sta scrollando di dosso cinque secoli di colonialismo, durante i quali una minoranza di bianchi facevano il buono e il cattivo tempo, e la grande maggioranza di meticci potevano soltanto dire «signorsì». Non parlo di Cile, Argentina e Uruguay, dove gli indigeni furono sterminati o completamente ignorati. Parlo di paesi come Venezuela e Brasile, con un altissimo coefficiente di meticcità; parlo dei paesi andini, che sono ancora al tempo della «colonia», come 500 anni fa. Sarà questo il tema di un mio prossimo libro.

Tra le mie attività (lasciai l’università oltre 20 anni fa, stanco di essere un «bocciatore» al servizio della classe dominante), sono anche editore e scrittore. Il dovere di una persona, impegnata in un paese che l’ha ospitata con amore, è quello di contribuire alla costruzione del suo futuro. Per questo ho fondato una casa editrice, che ha pubblicato una trentina di libri: tutti contribuiscono a costruire il futuro del Venezuela.

Io ne ho scritti un paio: uno 10 anni fa, dal titolo «Riinventare il Venezuela – un progetto per il paese del prossimo secolo», ogni giorno più attuale. In questo libro parlo di «tre Venezuele», riducibili a due: la minoranza bianca-europea e la maggioranza meticcia. La discriminazione razziale è visibile anche a occhio nudo, perché i bianchi vivono su colinas e i meticci su cerros, i bianchi in edificios e i meticci in bloques; i bianchi formano urbanizaciones e i meticci barrios. La discriminazione appare anche dal linguaggio. E, in termini statistici, la correlazione tra classe sociale e colore della pelle è strettissima. La classe medio-alta non arriva al 15 per cento della popolazione, ed è bianca o color «latte macchiato». Ma, più si va giù, più il caffè diventa nero…

Hugo Chávez è il primo presidente del Venezuela di pelle scura. Negli ultimi 50 anni tutti i presidenti (ad eccezione di Carlos Andrés Pérez) sono stati bianchi di famiglia europea (italiana, spagnola, ecc.). Chávez è un presidente che viene dal basso: ha conosciuto la vita del barrio, sa cosa significa povertà. E ha deciso di dare un taglio al passato. Il fatto che l’opposizione sia tanto infiammata per deporlo dimostra che sta ottenendo dei successi.

Un fatto che dimostra la divisione razziale nel paese è stato il famigerato colpo di stato dell’11 aprile 2002. Nella marcia verso il palazzo presidenziale, con l’obiettivo di deporre il presidente, il 95 per cento dei dimostranti erano bianchi, europei o figli di europei. E quando due giorni dopo il presidente toò al potere, toò perché così decise il popolo meticcio. Ricordo quella notte, allorché ritoò al palazzo presidenziale: io ero uno dei pochissimi bianchi ad aspettarlo. Alcune persone mi guardavano con sospetto…

Direttore, le confesso che sovente mi vergogno di essere italiano ed essere confuso con la massa degli emigrati italiani, la maggioranza dei quali raggiunsero il Venezuela dopo la caduta del fascismo cercando un paese dove poter vivere secondo la loro ideologia fascista.

Quando, 34 anni fa, venni in Venezuela, mi bastò conoscere pochi italiani per prendere una decisione, poi sempre rispettata: non frequentare gli italiani, razzisti e fascisti, grandi lavoratori senza dubbio, ma sovente negativi nel rispetto della persona.

Benvenuta, allora, una rivista di ampia diffusione come Missioni Consolata, con un’egida non politica, che cerca di spiegare cosa sta avvenendo in Venezuela.

Giulio Santosuosso – Caracas

aa.vv.




La presenza

Domenica 9 marzo, nella parrocchia di S. Martino a Gangalandi di Lastra a Signa (FI), si tenne l’assemblea diocesana di Azione cattolica dedicata ai giovani, con l’approfondimento dei temi «chi siamo», «cosa cerchiamo», «in cosa crediamo». Vi partecipai quale presidente dell’Azione cattolica della parrocchia di S. Maria ausiliatrice (Firenze), unitamente alla responsabile del settore giovani.
Importante fu, nell’intervento dell’assistente nazionale giovanile, don Francesco Silvestri, la riflessione sul tema «verità». La verità è Lui, Gesù: con i suoi immutabili insegnamenti ci indica la via da seguire e, con il suo sacrificio d’amore, ci fa giungere alla vita eterna, vero scopo della nostra esistenza.
Pertanto è con Lui che, ogni giorno, dobbiamo cercare il diretto contatto spirituale, rispondendo al grandissimo dono di amore dell’eucaristia. Il Signore, grazie all’ostia consacrata, è sempre presente nelle chiese parrocchiali, con possibilità per noi di andare a trovarLo quando vogliamo. E noi a Firenze abbiamo la fortuna di averLo, ogni giorno, solennemente esposto nelle due piccole chiese di via Faenza e via Rucellai, presso la stazione di S. Maria Novella.
A questo costante, quotidiano e personale rapporto di amore Gesù ci tiene moltissimo, come si rileva anche dalla promessa che Egli stesso fece a suor Maria Consolata Betrone, clarissa cappuccina di Moncalieri, di cui il 6 aprile scorso è stato commemorato il centenario della nascita pure a Firenze con una tavola rotonda presso il monastero delle clarisse cappuccine di via S. Marta, 18.
«Ogni tuo atto d’amore – rivelò Gesù a Maria Consolata – rimane in eterno. Ogni tuo atto d’amore ripara per mille bestemmie. Ogni tuo atto d’amore è un’anima che si salva. Per un tuo atto d’amore creerei il paradiso… L’atto d’amore ti aiuta a valorizzare al massimo ogni istante di questa giornata terrena, facendoti osservare il primo e massimo comandamento: “Ama Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua mente, con tutte le tue forze”».
«Gesù ti amo»: una piccola frase, ma espressiva ed efficace che, ripetuta spesso durante la giornata (anche, ad esempio, nell’attesa del verde di un semaforo) realizza quell’«atto incessante di amore» che costituì il programma di vita di suor Consolata e che consente pure a noi di vivere il rapporto personale con Gesù, verità, via, vita. Senza dimenticare di andarLo a trovare dove è presenza eucaristica, da Lui stesso più volte confermataci con tanti miracoli.
Tra i miracoli eucaristici ne ricordo alcuni: nell’anno 595 a Roma (pane in carne e sangue); nel 750 a Lanciano (l’ostia si converte in carne e il vino in sangue del gruppo AB, lo stesso risultato dalle analisi del sangue della Sindone); nel 1171 a Ferrara (l’ostia sprizza sangue); negli anni 1230 e 1595 a Firenze in S. Ambrogio (sangue coagulato e ostie illese nel fuoco); nel 1263 a Bolsena (ostia sanguinante); nel 1330 a Cascia (ostia insanguinata); nel 1333 a Bologna (l’ostia si eleva); nel 1453 a Torino (ostia elevata in aria); nel 1535 ad Asti (ostia sanguinante); nel 1730 a Siena (conservazione di ostie consacrate); nel 1772 a Napoli (ostie ritrovate intatte); nel 1847 a Torino con S. Giovanni Bosco (ostie moltiplicate).
Al riguardo esiste una videocassetta televisiva, dal titolo «È la speranza» (dura circa un’ora).
Anche in Francia, Belgio, Olanda, Spagna, Portogallo, Svizzera, Germania, Austria e Polonia si ebbero diversi miracoli eucaristici.
In conclusione, non si può scordare l’enciclica di Giovanni Paolo II Ecclesia de Eucharistia. Inoltre, fra i misteri del rosario, il papa ha inserito anche «i misteri della luce», tra cui l’istituzione dell’eucaristia. È il mistero che realizza la consolante promessa di Gesù: «Io sono con voi tutti i giorni sino alla fine del mondo» (Mt 28, 19-20).
Giuseppe Simini

Giuseppe Simini