Aleida Guevara, una degna figlia del Che


Il papà è stato e ancora rimane un’icona globale. Lei, medico pediatra, ha girato il mondo per ricordare la sua figura. Lo scorso marzo Aleida è tornata in Italia. A pochi giorni dall’approvazione definitiva della nuova Costituzione cubana.

Testo di Gianni Minà

Essere figlia di un mito della storia del ventesimo secolo è un impegno che può schiacciarti o, al contrario, esaltarti. Ho conosciuto e frequentato, negli anni, Aleida Guevara March, figlia di Ernesto Che Guevara, e posso dire di ammirarla per la sua capacità di sostenere questo peso nel tempo con assoluta leggerezza umana.

Aleida, che gli amici chiamano Aliucha, è oggi un medico pediatra all’ospedale William Soler di La Habana, ma il destino ha voluto che venisse scelta anche come rappresentante della famiglia e della rivoluzione nel difficile compito di continuare a portare, in giro per il mondo, la parola di suo padre, il Che, in decine di avvenimenti dove si narrano le gesta e spesso anche l’epopea di Ernesto Guevara.

La storia ha voluto così, disegnando per lui un ruolo di esempio indiscutibile a fianco di Fidel Castro e per lei un compito importante all’interno della rivoluzione stessa.

Aliucha è stata ed è la portavoce dell’utopia di suo padre e ancora adesso, a 58 anni, è capace di rinverdire, con le sue conferenze e le interviste, una testimonianza che sfiora la leggenda in Africa come in Australia, nella scettica Europa o nel Sud del mondo e nel cuore dell’America Latina.

«Il fatto è che ho dovuto supplire a volte alla timidezza dei miei fratelli. Di Hilda, figlia del primo matrimonio di mio padre, di Camilo, responsabile del Centro culturale Che Guevara, e di Celia, che è veterinaria all’acquario nazionale di Cuba, e di Ernesto, che lavora nel settore turistico. Il merito è stato di mia madre, un’antica combattente della rivoluzione che pure seppe conciliare i suoi doveri di madre con quelli da militante (è stata per anni deputata e guidava la delegazione della commissione esteri del parlamento cubano, ndr)».

Aleida nel tempo si è preparata con puntiglio, conscia del dovere di essere pronta per questa incombenza e fornendo un esempio tangibile pure alle figlie Celia, anch’essa medico, come tradizione famigliare, specializzata in chirurgia cardiovascolare, ed Estefania, studentessa di economia.

Nel 1996 accompagnai Aleida a un ricevimento che le sorelle Fendi, le signore della moda italiana, offrivano per festeggiare l’uscita italiana della rivista «George», fondata da John John Kennedy, che era ospite dell’evento. Nell’occasione colpiva il contrasto tra lo sguardo affascinante, ma discreto del giovane Kennedy e quello sbarazzino della figlia del Che.

John evitava di guardare negli schermi dove passavano le immagini della presidenza tragica di suo padre, Aleida invece raccontava le sue esperienze fatte in Angola e in Nicaragua nell’impegno di alleviare le difficoltà di quei popoli. I due simpatizzarono. Purtroppo, tre anni dopo il giovane Kennedy sarebbe perito in un incidente accaduto su un aereo che lui stesso pilotava.

Aleida l’ho rivista l’11 marzo scorso in un incontro ad Assisi per una conferenza sulla mediocrità della vita che attualmente viviamo, in una sala della Pro Civitate Christiana che straripava di persone. Nella circostanza la figlia del Che, in due ore, ha chiarito molti degli interrogativi, che la nuova Costituzione, recentemente varata a Cuba, aveva posto, avendo come obiettivo una migliore qualità della vita.

L’iter di questo rinnovamento, dopo la scomparsa di Fidel Castro, era stato avviato dal Parlamento cubano con un progetto costituzionale discusso poi in tutti i Cdr (Comitati di difesa della Rivoluzione). I cittadini cubani avevano presentato a loro volta un milione di modifiche al progetto iniziale e il Parlamento, grazie a queste proposte, aveva rettificato il progetto iniziale del 60%. Il 24 febbraio 2019 si è poi svolto un referendum per rendere ufficiale il cambiamento. L’85% degli aventi diritto al voto si sono recati ai seggi e l’83% di questi ha votato sì.

Cuba ha mantenuto così la prerogativa di nazione latinoamericana più equa e più sicura del continente malgrado un vergognoso embargo degli Stati Uniti che dura da più di mezzo secolo. Credo che questa caratteristica, al di là di qualunque sbaglio, sia il frutto di una nazione ancora unita che si riflette nella serenità del suo popolo.

Non è un caso che quando finalmente, nel 1997, il corpo dell’eroe più splendido di tutta l’America Latina era stato restituito a Cuba dalla Bolivia, Aleida, la figlia che non si arrende, aveva salutato la salma del padre con queste parole:

«Più di trenta anni fa i nostri padri
si congedarono da noi.

Partirono per tenere alti gli ideali di Bolivar, di Martì:
un continente unito e indipendente, ma nemmeno
loro sono riusciti in questo intento
Erano coscienti che i grandi sogni si avverano
solo a costo di immensi sacrifici.

Non li abbiamo più visti.
Allora quasi tutti noi eravamo molto piccoli,
adesso siamo uomini e donne
e abbiamo visto e vissuto,
forse per la prima volta, momenti
di grande dolore, di pena intensa.

Sappiamo come si sono svolti i fatti
e ancora ne soffriamo.

Oggi tornano a noi le loro spoglie,
ma non tornano sconfitti. Tornano da eroi,
eternamente giovani, coraggiosi, forti, audaci.
Nessuno può toglierci questo.
Saranno sempre vivi, insieme ai loro figli,
nel loro popolo».

Gianni Minà

 




L’Odissea di Lula


Lula, il primo presidente di sinistra (e democratico) del gigante sudamericano, confermato per un secondo mandato, è oggi agli arresti. Contro di lui intrighi legati al petrolio, alla Confindustria brasiliana e ai vicini Usa. Lui aveva tentato di rompere la logica di dominazione e aveva varato il piano «Fame zero».

Quale sarà la conclusione della vicenda umana e politica di Luiz Inácio da Silva detto Lula, due volte presidente del Brasile (dal 2003 al 2010), a gennaio 2018 condannato senza prove a 12 anni di prigione (vedi articolo pag. 22) per un presunto affaire con Petrobras, la compagnia petrolifera di stato? Non si può negare che questo intrigo abbia tutte le fattezze del golpe. Una trama orchestrata da pezzi della Confindustria brasiliana, con la collaborazione delle famigerate multinazionali nordamericane e con l’appoggio vitale di Rede Globo, il più poderoso network radiotelevisivo del continente.

Questi potentati economici sempre al limite dell’onestà non avevano gradito il fatto che l’ex presidente brasiliano, dopo che la Petrobras aveva scoperto e messo le mani nella propria costa atlantica, sul più grande giacimento sottomarino del mondo, il Pre-Salt, avesse rifiutato di condividere la scoperta con gli Stati Uniti. Uno spettacolo già visto e messo in atto molte volte specie dal governo di Washington che, quando si tratta di petrolio, mette in cantiere guerre insulse e feroci come quella attuale in Siria, che va avanti, tra stragi, equivoci e menzogne, da più di 7 anni (vedi articolo pag. 58). Lula ha provato a rompere questa logica ed è stato punito.

D’altronde quel mondo che si autodefinisce civile e democratico, il mondo del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale, aveva un conto da saldare con lui e Dilma Rousseff, che gli era succeduta nella presidenza.

(archio Gianni Minà)

Lula era stato il primo presidente progressista eletto, e anche confermato, dopo gli anni lugubri della dittatura militare, in quello che, con 207 milioni di abitanti, è lo stato più popoloso dell’America Latina.

Agli occhi del governo di Washington, Lula era stato il complice dell’ex presidente venezuelano Hugo Chávez nel ricambio progressista che il continente a Sud del Texas aveva avuto negli ultimi vent’anni. Anni in cui alcune nazioni si erano consociate in scelte libertarie arrivando a fondare, sull’esempio della Comunità europea, perfino una banca e una televisione continentale, la Telesur, per controbattere l’informazione scorretta della Cnn e di altri network privati normalmente proprietà di caciques abituati a dire sempre sì agli yankee.

Ho conosciuto Lula, prima che diventasse presidente, grazie ad Antonio Vermigli, un generoso ex postino di Quarrata (Pistornia) che tiene in mano la Rete Radié Resch (una rete della sinistra cattolica).

Lula veniva in Italia invitato dai vari sindacati e avevo imparato ad apprezzarlo proprio per essere riuscito nel miracolo di fondare il Pt (Partido dos Trabalhadores, partito dei lavoratori) che, insieme ai cattolici progressisti e al movimento dei Sem Terra (senza terra, ndr), lo avrebbe portato al governo del paese, smentendo chi aveva tentato di sostenere «che i comunisti stavano per prendere il potere in Brasile». Questo perché il Pt era diventato l’esempio del più efficiente movimento progressista in quella che all’epoca (dai primi anni 2000) è stata una vera e propria primavera dell’America Latina.

L’entusiasmo e la sincerità di questo ex operaio della Volkswagen, che al suo mestiere di tornitore aveva sacrificato perfino due dita, aveva permesso ai brasiliani di sognare anche per iniziative come il piano «Fame zero», messo in piedi dal teologo della liberazione Frei Betto che, su incarico di Lula, era riuscito nell’impresa di assicurare a 50 milioni di abitanti, i più poveri, tre pasti al giorno.

Era un nuovo mondo che si scrollava di dosso la dittatura militare e incominciava a diventare un esempio politico, mettendo in crisi perfino pezzi di socialismo occidentale.

Non potrò mai dimenticare una sera in cui, per presentare un libro di Rigoberta Menchù sulle stragi in Guatemala, alla festa dell’Unità di Modena, ero riuscito a riunire con Lula, lo scrittore guatemalteco Dante Liano, scampato ai massacri previsti dal Plan Condor benedetto da Nixon e Kissinger (piano Usa di destabilizzazione delle democrazie in America Latina, ndr), insieme a Frei Betto, frate domenicano e teologo della liberazione, carcerato e torturato dalla dittatura brasiliana, ed Eduardo Galeano, il più acuto saggista del continente latinoamericano.

Tutti avevano toccato le corde dell’emozione, ma il più appassionato era stato proprio Lula che, qualche anno dopo, sarebbe diventato per la prima volta presidente del Brasile. Ci avevano invitato i ragazzi della Fgc (Federazione giovani comunisti) felici di ricevere così tante figure profetiche del continente, oltretutto scampate all’estinzione. Non avevano però lo stesso entusiasmo i militanti più avanti nell’età e gli organizzatori della festa.

«Minà questa sera nella sala grande abbiamo il confronto tra Vitali e Guazzaloca, forse sarebbe meglio che con i suoi ospiti andasse in un ambiente più raccolto» (Giorgio Guazzaloca fu il primo sindaco di Bologna non di area centrosinistra nel dopoguerra e succedette a Walter Vitali nel 1999, ndr). Era il dibattito tra il sindaco della tradizione progressista della città e quello conservatore che gli sarebbe succeduto. Ricordo che mi scappò una frase sarcastica: «Non solo rischiate di far vincere ai vostri avversari le elezioni amministrative a Bologna, città rossa, ma gli preparate anche il terreno adatto». Quella sera rimanendo nel nostro spazio concerti, assegnatoci dai ragazzi della Fgc, spaccammo in due la festa. Un migliaio di spettatori per la sfida Vitali-Guazzaloca, e altrettanti per noi. Rigoberta firmò 500 libri in poco più di mezz’ora.

Qualche mese dopo Massimo D’Alema invitò a Firenze quasi tutti i leader socialisti delle nazioni più importanti. A sorpresa, però, per il Brasile, non si ricordò di invitare Lula Da Silva, il leader di 50 milioni di brasiliani che votavano a sinistra. Preferì trasmettere l’invito a Fernando Henrique Cardoso, leader della coalizione di centro destra che governava in quel momento. La giustificazione? Cardoso in gioventù era stato un sociologo progressista che D’Alema probabilmente aveva letto. Lula che con bonomia mi ha raccontato questa gaffe, ha ricordato che, quando era già succeduto a Cardoso, D’Alema era volato a Rio con Piero Fassino per il summit dell’Internazionale socialista e la prima cosa che aveva fatto era stato chiedere una mozione di censura per Cuba. È stato lo stesso Lula, che pure è un moderato, a ricordare alla delegazione italiana che «per la maggior parte dei latinoamericani la Revolución è un esempio indiscutibile».

Ora io non so perché, dopo il successo, il Pt si sia disfatto in un pugno di anni. So però che se Lula potesse, rispettando le regole, presentarsi come candidato per le prossime elezioni del paese (a ottobre, ndr), vincerebbe, secondo i sondaggi, senza discussione. Per equità ricordo anche che, l’ex vice di Dilma Rousseff, il presidente sostituto Michel Temer ha venduto l’anima ed è attualmente uno degli uomini più indagati e discussi della storia moderna del Brasile.

Basta leggere il suo curriculum dal quale, per esempio, apprendiamo che nell’inchiesta Operaçao Castelo de Areia, sulla corruzione all’interno dell’impresa di costruzioni Camargo Correa, il suo nome è citato ventuno volte nella lista desunta dalla contabilità parallela dell’impresa. È dunque grottesco che Dilma sia stata sospesa e invece Temer possa governare in sua vece.

Quello che più intristisce è che, ancora una volta, un qualunque Temer, pronto a qualsiasi intrigo, possa, con un colpo di stato moderno (rappresentato da compagnie subdole d’informazione di dubbia provenienza o da trame di servizi segreti o da logge massoniche) impedire a un popolo di vedere trionfare le proprie idee, le proprie scelte e i propri diritti e che tutto questo avvenga con la benedizione di istituti come la Banca mondiale, il Fondo monetario internazionale e le sette sorelle multinazionali del petrolio. Golpe che noi, farisei occidentali, spesso definiamo grottescamente come «atti di democrazia».

Gianni Minà

 




Galeano: l’ironia e l’impegno civile

 


Giornalista e scrittore, Galeano è riconosciuto come uno tra i maggiori pensatori latinoamericani dell’ultimo secolo. Alfiere dell’America Latina dei popoli ha spesso denunciato l’imperialismo nordamericano. Ha lasciato molti scritti e alcuni testi fondamentali e sempre attuali per capire il continente.

Quando, come succede in questo caso, mi tocca raccontare di un vecchio amico scomparso che mi ha regalato il piacere della sua parola, come Eduardo Galeano, mi viene difficile trovare la misura e il tono giusti per descriverlo in tutte le sue sfaccettature. Tutto suona banale.
Eduardo è stato per anni il saggista più acuto e onesto nell’illustrare il fascino del continente dove era nato e cresciuto, quello a Sud del Texas, ma anche il narratore più sarcastico sulle esagerazioni che l’attuale mondo isterico ci sbatte ogni mattino in faccia, sia in America Latina sia nel resto del mondo.
Così ora mi commuove pensare all’attualità dei suoi ironici discorsi, specie pensando a quante parole stonate sono state spese dopo l’incontro fra Obama e Raul Castro (17 dicembre 2014) che avrebbe dovuto finalmente chiudere un’assurda «guerra fredda», mai dichiarata e mai terminata, fra l’America Latina e gli Stati Uniti d’America. Una guerra fredda che aveva costretto Obama, il presidente succeduto a Bush jr, a mettere da parte per un po’ la politica di ingerenza nordamericana nella terra scoperta da Cristoforo Colombo.
Galeano, qualche anno fa, polemizzando con Mario Vargas Llosa per la sua accusa alla maggior parte degli scrittori latinoamericani di essere troppo condiscendenti verso la rivoluzione cubana, è stato franco: «Vargas Llosa vede sorprendentemente l’America Latina come se fosse un viaggiatore nato in una contea inglese e non nel Perù del sottosviluppo e degli orrori. Amo molto Mario, uno dei più grandi scrittori viventi, per questo mi dispiace stia facendo una specie di gara con Octavio Paz (Nobel per la Letteratura nel 1990) per vedere chi corre più a destra». E poi, entrando nella contesa: «Io sono stato spesso critico con Cuba, ma lo faccio con amore e rispetto, non con odio e rancore, come sembra succedere a molti che, in altri tempi, si atteggiavano a rivoluzionari, e oggi vogliono cancellare ogni traccia del proprio passato a costo di ignorare che, se in questo continente la metà della gente vive sotto la soglia di povertà, è il libero mercato, quello che ora chiamiamo il neoliberismo, a fallire miseramente ancora prima del socialismo».
Certo Eduardo non le mandava a dire e per questo sono orgoglioso di aver lavorato 10 anni con lui per fare uscire 7 delle sue opere in Italia, dove era stata pubblicata, fino a quel momento, solo la trilogia di «Memorie del fuoco».

Eduardo Galeano  AFP PHOTO/PABLO PORCIUNCULA / AFP PHOTO / AFP FILES / PABLO PORCIUNCULA

Nel 1971 quando apparve il suo libro «Le vene aperte dell’America Latina», fu per molti una vera e propria folgorazione, tanto che Heinrich Boll, scrittore tedesco Premio Nobel per la Letteratura 1972, affermò: «Negli ultimi anni ho letto poche cose che mi abbiano commosso così tanto».
Galeano, in un libro-vangelo di un continente allora di moda, aveva inventato, a trentuno anni, un metodo per raccontare la storia partendo apparentemente dalla piccola quotidianità.
Un reportage, un saggio, una pittura murale, un’opera di artigianato mirabile, terminato di scrivere in esilio, lontano dal suo Uruguay, dopo che aveva dovuto lasciare il suo paese e poi l’Argentina per sfuggire alla ferocia di quelle dittature.
Le vene aperte, proposto per primo da Feltrinelli e poi tradotto in 18 lingue, ha avuto oltre 100 edizioni solo in spagnolo. È un’opera tuttora di straordinaria attualità che denuncia, analizza e spiega attraverso episodi apparentemente senza importanza e riferimenti storici spesso trascurati, il processo di spoliazione del continente latinoamericano, prima da parte dei conquistadores, poi delle potenze coloniali e infine degli Stati Uniti.
Forse è per questa incisività che nel 2009, al summit delle Americhe, a Trinidad e Tobago, l’ex presidente venezuelano Hugo Chávez non poté fare a meno di regalarlo a Barack Obama dicendogli, con la solita ironia: «Presidente, se vuoi capire qualcosa di America Latina, leggiti questo libro».
Abbiamo il dubbio che il presidente Barack Obama non abbia avuto il tempo di consultarlo. I rapporti con Cuba, il Venezuela e l’America Latina in generale non sono migliorati. E ora, con l’avvento di Trump, le speranze di cambiamento sono definitivamente tramontate.

Hugo Chavez offre a Obama il libro di Edoardo galeano «Le vene aperte dell’America Latina». Trinidad,  18/04/2009. AFP PHOTO/Jim WATSON / AFP PHOTO / JIM WATSON

I ricordi di un’amicizia sono tanti. Una volta ci ritrovammo a Buenos Aires per un omaggio alla memoria di Osvaldo Soriano. C’era anche la vedova Catherine Brucher. Tutti eravamo emozionati e per la prima volta anche il severo Eduardo, che aveva un senso dell’amicizia fortissimo, si asciugò gli occhi.
Come tutti i latinoamericani, Galeano adorava il calcio tanto che non obiettò nulla quando io gli dissi che la casa editrice avrebbe fatto uscire Le vene aperte in concomitanza con El fútbol a sol y sombra (tradotto in Italia con il titolo Splendori e miserie del gioco del calcio). «Sarà un successo», aveva detto, e ha avuto ragione.
Una volta si accorse che c’era una finale di Coppa Italia all’Olimpico: Roma – Inter. Mi chiese di andare con lui allo stadio. Ci avevano consigliato di uscire 5 minuti prima per evitare l’ingorgo. La Roma vinse 2 a 1, ma dovetti penare molto per trascinarlo via una manciata di secondi prima della fine.
Aveva anche il culto dell’impegno civile. Tanto che lui, così schivo nella vita, aveva accettato una volta perfino di partecipare con altri intellettuali al controllo delle elezioni in Venezuela, stravinte da Chávez. Si era adirato molto quando aveva letto le invenzioni che illustravano ogni giorno gli articoli dei cronisti del mondo occidentale, pur smentiti nel loro patetico tentativo di svalutare la credibilità delle elezioni stesse. D’altronde non c’è da stupirsi. Quei cronisti, infatti, sono gli stessi che ancora, quattro anni dopo la morte di Chávez, tentano di imporre le strategie informative da golpe mediatico nell’epoca di Nicolás Maduro. Tutto questo malgrado il risultato indiscutibile delle recenti elezioni sulla nuova Costituente, perse in modo clamoroso dall’opposizione, nonostante il sostegno delle varie agenzie dei servizi di intelligence nordamericani.
Eduardo amava la nuova America Latina progressista e nelle sue note non lo nascondeva, come non nascondeva la simpatia per il Subcomandante Marcos e l’Ezln (Esercito zapatista di liberazione nazionale) da cui andò un paio di volte.

Ha scritto di lui Isabel Allende nel prologo all’ennesima edizione di Le vene aperte dell’America Latina (pubblicato in Italia da Sperling & Kupfer): «Galeano ha percorso l’America Latina ascoltando anche la voce dei reietti oltre che quella di leader e intellettuali. Ha vissuto con indios, contadini, guerriglieri, soldati, artisti e fuorilegge; ha parlato a presidenti, tiranni, martiri, preti, eroi, banditi, madri disperate, pazienti e prostitute. Ha patito le febbri tropicali, ha conosciuto la giungla e ha respinto anche un infarto. È stato perseguitato sia da regimi repressivi, sia da terroristi fanatici. Ha combattuto le dittature militari e tutte le forme di brutalità e sfruttamento correndo rischi impensabili in difesa dei diritti umani. Non ho mai incontrato nessuno che abbia avuto una conoscenza di prima mano dell’America Latina pari alla sua, che si adopera per raccontare al mondo i sogni e le disillusioni, le speranze e gli insuccessi della sua gente».
Ci manca molto.

Gianni Minà




Guerra alle armi:

una lotta impari ma necessaria


Spesso lo dimentichiamo, ma l’articolo 11 della nostra Costituzione recita: «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali».

Per dar corpo allo spirito costituzionale, nel 1990 è stata approvata una legge, tuttora in vigore, la n. 185/90, che vieta le esportazioni di armi in paesi in guerra o che violano i diritti umani e impone alle aziende produttrici di armamenti, così come alle banche che ne appoggiano le transazioni, di fornire al parlamento dati completi sulle operazioni, quali il tipo di arma, il paese destinatario, il valore, ecc. La legge è stata il risultato di un’ampia e tenace mobilitazione del mondo pacifista, soprattutto cattolico: in prima linea nella campagna «Contro i mercanti di morte» c’erano Pax Christi, le Acli, Mani Tese e gli istituti missionari.

Dentro il palazzo, parlamentari attenti e sensibili avevano studiato l’argomento e, confrontandosi con la società civile, hanno messo a punto un provvedimento all’avanguardia. Tra costoro c’era l’attuale presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che in tutti questi anni ha sempre difeso la legge di fronte ai tentativi, a volte riusciti, di renderla meno restrittiva.

La normativa italiana è talmente avanzata da aver ispirato il dibattito e l’approvazione in sede Onu del Trattato mondiale sul commercio delle armi.

A dispetto di norme e accordi internazionali, il commercio delle armi è però in continua crescita e i dati relativi al 2016, pubblicati all’inizio del 2017 dal Sipri, il prestigioso Stockholm Peace Research Institute, attestano che la spesa militare mondiale ammonta a 1.676 miliardi di dollari, circa l’1% in più dell’anno precedente.

Se si guarda al dato pro capite, per ogni abitante della terra si spendono in armi 228 dollari l’anno, molto di più di quello che si spende per salute e istruzione.

Quello che è forse meno noto è che i maggiori importatori sono paesi che hanno in corso guerre o che non rispettano i diritti umani: Arabia Saudita, India, Cina, Turchia, Pakistan, ecc.

Sul fronte delle esportazioni, il 74% proviene da cinque paesi: Usa, Russia, Cina, Francia e Germania.

Il paradosso sta nel fatto che nella classifica dei primi dieci ci sono i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’Onu e quattro dei membri a rotazione nel biennio 2016/ 2018, tra cui l’Italia.

Il che significa che tutte le decisioni del Consiglio di Sicurezza che riguardano la «legittimità» delle guerre o gli embarghi verso paesi totalitari sono prese dai maggiori produttori ed esportatori di armamenti.

Fa notare Anna Mcdonald, direttrice di Control Arms, una coalizione non governativa europea: «Alcune delle principali crisi che il Consiglio di Sicurezza deve fronteggiare, ad esempio il conflitto che insanguina lo Yemen, sono state provocate e vengono mantenute dai suoi stessi membri, vendendo armi alle parti in conflitto».

Anche se nell’Unione europea e nel Nord America, la spesa per la difesa registra una lieve diminuzione, le 100 principali aziende produttrici di armi, la maggioranza delle quali ha sede in Usa e in Europa, hanno visto aumentare il loro volume di affari del 43% negli ultimi dieci anni. Alle imprese storiche, se ne aggiungono di nuove, con sede in Brasile, India, Sud Corea, Turchia, che oggi offrono i loro prodotti agli acquirenti esteri.

Il mercato mondiale delle armi è florido, ma i suoi costi umani, sociali e ambientali non vengono messi in conto né dai governi né dalle imprese.

Un gruppo di associazioni italiane ha presentato un esposto a diverse procure per violazione della legge 185 perché dall’Italia vengono spedite armi all’Arabia Saudita che le utilizza per bombardare lo Yemen.

La ditta produttrice è la Rvm Italia, controllata interamente dal gruppo tedesco Rheimetall. Lo stabilimento si trova a Domusnovas in Sardegna, regione da cui avvengono le spedizioni, documentate con foto e video dai movimenti pacifisti. Lo scorso maggio, la Fondazione finanza etica ha partecipato all’Assemblea degli azionisti di Rheinmetall (possiede il numero minimo di azioni) per chiedere conto delle migliaia di bombe prodotte in Italia e sganciate sui civili yemeniti (si tratta di 19.675 ordigni per un valore di 32 milioni di euro), ma ha ricevuto una risposta chiara: «L’azienda segue i propri interessi commerciali».

Interessi commerciali che prevalgono anche in Leonardo-Finmeccanica (partecipata al 32% dal ministero dell’Economia) che si colloca al nono posto nella classifica mondiale delle imprese armiere.

Sabina Siniscalchi

 




Quel diavolo di Maradona


Campione assoluto sui campi di calcio, nella vita privata il giocatore argentino ha sofferto di grandi fragilità, come la sua (passata) dipendenza dalla coca. Amico di Fidel, politicamente si è sempre schierato tra i progressisti. Anche in questo Maradona non è e non è mai stato un uomo comune.

Con Diego Armando Maradona, el Pibe de Oro, ho avuto un rapporto speciale fin dal suo arrivo in Italia. Aveva già un manager e un ufficio stampa personali consci di quello che lui rappresentasse per il calcio mondiale e anche per il costume del nostro tempo. Così fin dalla sua prima stagione in Italia (1984-1985) potei proporre a la Repubblica, con la quale collaboravo, un’intervista che non fosse solo calcistica, ma toccasse argomenti meno banali.

Mi sorprese subito la sua franchezza. Non aveva paura di esporsi. Già allora aveva idee precise anche sulla politica: era un simpatizzante progressista.

La nostra confidenza crebbe rapidamente nei suoi primi due anni a Napoli quando ancora non era palese, per il valore medio della squadra, che la sua sola presenza in campo avrebbe mutato radicalmente gli equilibri non solo del Napoli, ma di tutto il calcio del campionato italiano.

La nostra amicizia si rafforzò ai mondiali di Messico 1986 che – non è un’esagerazione – Diego vinse praticamente da solo con il famoso «gol del secolo» (7 giocatori dell’Inghilterra dribblati in una sola azione) e con i due in semifinale contro il Belgio dove esaltò le sue capacità di equilibrio e di dribbling oltre ogni immaginazione.

Ho una fotografia con lui sui gradoni del centro sportivo del Club America, a Città del Messico, dove l’Argentina passava allora parte del ritiro. Era l’impianto di proprietà di Emilio Azcarraga, magnate di Televisa, la televisione privata messicana partner della Fifa nell’organizzazione di quel mondiale. In quell’occasione, Diego mi confessò l’esigenza ormai impellente per il Napoli e per le sue ambizioni di lottare per lo scudetto nel campionato italiano che frequentava da 2 anni.

Era evidentemente un’esigenza dettata dagli 80mila spettatori che riempivano con continuità lo stadio di Fuorigrotta ed erano pronti per un riscatto della città.

Maradona fu profeta: la stagione successiva, rinforzato da Carnevale e De Napoli, il Napoli, allenato da Bianchi, vinse lo scudetto, il primo della sua storia e la vittoria della squadra di calcio ebbe un dichiarato significato sociale.

Tanto che Rai Uno mi chiese di inventare e condurre quella «notte magica» alla quale parteciparono tutti i rappresentanti della musica popolare e del teatro della città: da Renzo Arbore a Pino Daniele, riuniti all’auditorium della Rai stessa in una festa per lo scudetto presentata insieme a Lina Sastri e rimasta memorabile: «O mamma mamma mamma. Sai perché mi batte il corazon? Ho visto Maradona, ho visto Maradona. Eh mammà innamorato son!». Il centro della città rimase ostruito fino a notte inoltrata. Sulle mura del cimitero la mattina dopo comparve una scritta: «Che ve siete perso».

Napoli si scrollava di dosso, per qualche tempo, i suoi dubbi, le sue contraddizioni, le speranze non rispettate. Grazie al dio Maradona la squadra vinse la coppa Italia (1987), una coppa Uefa (1989) e infine un secondo scudetto (1990). Furono gli anni nei quali Maradona sottrasse, a nome del Napoli, il predominio del calcio ai grandi club del Nord, anche politicamente. E fu evidentemente un atto imperdonabile. Purtroppo però quelli furono anche gli anni nei quali Diego si perse e con lui il Napoli e le sue speranze. Fu un concorso di accadimenti negativi. Maradona, eroe in campo, era fragile nella sua vita privata. Conscio di questa situazione avrebbe voluto accettare l’offerta di un calcio più tranquillo, come quello francese propostogli da Tapie, presidente del Marsiglia, ma il rifiuto del presidente napoletano Corrado Ferlaino (nonostante una sua precedente promessa) lo lasciò disorientato. Così una mattina all’alba andò all’aeroporto di Fiumicino con la sua famiglia e letteralmente si sottrasse all’assedio mediatico ed economico di cui era diventato prigioniero.

Ho condiviso di persona la sua fragilità di quegli anni, ma anche le ultime prepotenze subite durante Italia ’90 (come le partite dell’Argentina programmate sotto il solleone o gli arbitraggi discutibili che avevano fatto presagire un trattamento ostile verso la nazionale albiceleste).

Quel 3 luglio 1990, allo stadio napoletano di San Paolo, metà del pubblico tifava per l’Italia e l’altra per lui. Aveva guidato un’Argentina modesta alla semifinale contro l’Italia e mi piace ricordare che ancora una volta fu con me sincero e onesto: «Se ce la facciamo pure oggi giuro che ti vengo ad abbracciare al sottopassaggio degli spogliatorni». Fu di parola, anche perché il penalty risolutivo della lotteria dei rigori toccò a Diego stesso. Mi precipitai con la troupe nel sottopassaggio, ma non ce ne era bisogno. Maradona, ancora in maglietta e scarpini da calcio, era già lì e mi aspettava con un sorriso beffardo. I giornalisti argentini lo videro passare e rifiutare l’offerta del loro microfono. Quelli italiani si sentirono solo dire: «Ho un appuntamento con Minà». Qualcuno protestò. Intanto il telegiornale chiedeva la linea. Mi fermarono e allora io suggerii a Maradona di rispondere a due domande del collega Giampiero Galeazzi. Poi attesi per avere la disponibilità della saletta. «Non c’è problema, aspettiamo», disse Diego. Non sapeva ancora che cinque giorni dopo l’arbitro messicano Codesal – su sollecitazione, nemmeno tanto nascosta, del presidente brasiliano della Fifa Havelange -, gli avrebbe negato la vittoria nella finale, inventandosi un rigore inesistente (tirato da Brehme) e regalando il mondiale alla Germania del commissiario tecnico Beckenbauer.

Per Maradona cominciarono gli anni bui. Qualche contratto frutto della sua fama (come con il Siviglia o il Boca Juniors, il club del suo cuore) lo aveva fatto sopravvivere ai suoi incontri con la cocaina. Da questa dipendenza è uscito con un grande sacrificio curandosi per mesi a Cuba (inizi del 2000), dopo un invito personale del presidente Fidel Castro che aveva spiegato: «Questo ragazzo che ha dato tanto al football e all’allegria dei tifosi di questo sport è venuto a chiedere aiuto per la sua salute. Stupisce che pochi gli abbiano voluto dare una mano. Visto che non ci ha pensato il mondo del mercato, lo facciamo noi».

Maradona rimase a Cuba per molte settimane e riuscì a disintossicarsi. Il Comandante Fidel lo andava a trovare spesso. Chiacchieravano molto e mi piace pensare che il suo impegno politico, vivo da tempo, sia maturato in quella stagione difficile. Diego, unico fra i grandi calciatori e atleti, aveva avuto il coraggio di esprimersi in politica mettendo la faccia in eventi mondiali. Uno di questi era stata la carovana da Buenos Aires a Mar del Plata nel 2005 contro l’«Alca», il modello economico neoliberista che gli Stati Uniti volevano imporre a tutto il continente. In contrapposizione c’era l’«Alba», la neonata associazione dei governi progressisti latinoamericani, ideata dal presidente venezuelano Hugo Chávez assieme a Fidel Castro, ma appoggiata anche da altri leader come il brasiliano Lula, il boliviano Evo Morales e da intellettuali come il premio Nobel per la pace l’argentino Adolfo Pérez Esquivel e il cantautore cubano Silvio Rodríguez. Fu probabilmente quella famosa manifestazione, nata in opposizione al presidente nordamericano Bush, a ribadire l’incomunicabilità fra il campione e gli Stati Uniti.

Dieci anni prima (1994), Diego era stato sospeso, senza possibilità di difesa, dal mondiale americano ufficialmente per aver fatto uso di una pastiglia a base di efedrina, assunta per curare un’influenza. Il vice-presidente latinoamericano della Fifa, Grondona, che era anche il presidente dell’Afa, la Federazione argentina del calcio, non si era affannato nemmeno ad affrontare la sua difesa ritirandolo dalla competizione e togliendo quindi agli Stati Uniti l’imbarazzo di dover giudicare il campione che già volevano eliminare alla vigilia della manifestazione perché pubblico consumatore di cocaina. Un atteggiamento fariseo considerato che gli Stati Uniti hanno più di 10 milioni di consumatori e sono i massimi importatori mondiali di questa droga.

L’odissea di Maradona con la coca finirà nel 2005 con un intervento in Colombia di by-pass gastrico per la riduzione dello stomaco che gli farà perdere più di 40 chili.

È palese che il più grande calciatore mai nato è stato un uomo complesso che spesso non ha saputo levarsi di torno i suoi sfruttatori e il contraddittorio mondo dell’industria del calcio.

Nel 2010, per esempio, dopo i suoi anni burrascosi, fu chiamato a svolgere l’incarico di commissario tecnico della nazionale argentina ai mondiali sudafricani.

Era un risarcimento. Arrivò ai quarti di finale, con la squadra che aveva, buona, ma non eccezionale, malgrado giovani talenti in maturazione come Messi, Di Maria, Mascherano e suo genero Aguero. Così perse contro la Germania, ma invece di elogiarlo i saccenti giornalisti italiani del settore lo riempirono nuovamente di stucchevoli critiche e di insulti. Non solo: per quasi 30 anni Equitalia l’ha perseguitato per frode fiscale chiedendogli una cifra che aumentava ogni anno (per mora, interessi di mora e sanzioni) fino a rasentare i 40 milioni di euro. L’agenzia non accettava l’idea che Diego potesse avere un doppio contratto, uno come calciatore e uno come testimonial pubblicitario, identicamente ai suoi compagni di squadra, i brasiliani Careca e Alemão, e ad altri fuoriclasse come Totti e Del Piero. Perché quello permesso ad altri protagonisti del calcio di casa nostra era, secondo Equitalia, proibito a Maradona? Diego è stato perseguitato in modo sconcertante. Una volta, non tanti anni fa, lo aspettai a fianco di 40 guardie di finanza all’aeroporto di Fiumicino. Forse erano lì perché (finalmente) qualcuno a Equitalia si era accorto di una realtà elementare, cioè che Maradona non aveva mai ricevuto alcuna «comunicazione di reato» (non essendo più residente in Italia), un reato che oltretutto non aveva commesso. C’era probabilmente qualcuno che sul caso Maradona avrebbe voluto far carriera. Ma non ce l’ha fatta. Recentemente – con molti, troppi anni di ritardo – Equitalia ha dovuto riconoscere il suo errore grazie alla testardaggine di Angelo Pisani, avvocato di Scampia e difensore di Maradona. E così quel cocciuto di Diego a breve dovrebbe vedere premiata la sua resistenza.

Quando arrivò per la prima volta in Italia si era limitato a palleggiare davanti a uno stadio zeppo (5 luglio 1984). Molti anni dopo (9 giugno 2005), nella partita di addio al calcio di Ciro Ferrara, dovette trovare scampo nella buca che portava agli spogliatorni per sfuggire al travolgente affetto dei tifosi. Dopo l’omaggio che la città gli ha tributato recentemente (16 gennaio 2017) per iniziativa dell’attore Alessandro Siani che ha affittato il Teatro San Carlo per accoglierlo, è probabile che chi vorrà ancora omaggiarlo dovrà utilizzare lo stadio di Fuorigrotta, terreno compreso.

Intanto ci ha pensato un altro argentino a convocarlo: papa Francesco, per la partita della pace (12 ottobre 2016). Dopo averlo incontrato per una visita assolutamente privata, il papa ha ripetuto una sua massima: «Chi sono io per giudicare qualcuno?». No, Maradona non è mai stato un uomo comune.

Gianni Minà

 




Finanza etica, eppure esiste


Gran parte del prodotto dal crimine viene riciclato in attività legali. E passa attraverso meccanismi finanziari bancari. Esiste però anche una finanza che fa del bene. Si è dovuta dotare di strumenti di controllo molto rigorosi.

L’onorevole Rosi Bindi, presidente della Commissione parlamentare antimafia va ripetendo che troppo spesso dove c’è il denaro c’è anche la mafia. Le attività criminali, sempre più lucrose, sono facilitate dalla globalizzazione che ha abbattuto le frontiere economiche ed eliminato i controlli. Il commercio di droga e altre sostanze illegali, il traffico di armi, l’esportazione dei rifiuti dai paesi ricchi a quelli poveri, fino all’aspetto più odioso che è il traffico di esseri umani sono prosperati negli ultimi trent’anni.

L’Agenzia delle Nazioni Unite per la prevenzione del crimine (Unodc) conferma che l’enorme quantità di denaro prodotto dalle iniziative criminose solo in parte viene reinvestita nella criminalità o nei paradisi fiscali, il resto viene «lavato» e riciclato in attività economiche per così dire «normali». Laddove le banche sono restie a prestare denaro a piccole e medie imprese, perché il margine di intermediazione è sempre più ridotto, arriva la criminalità.

Ma anche negli scambi leciti e «puliti» il denaro può fare danno, la crisi del 2008 ha dimostrato come il risparmio venga utilizzato non per sostenere l’economia reale, ma per alimentare la speculazione e appagare l’avidità di profittatori senza scrupoli.

I risparmiatori rimangono vittime di dirigenti e amministratori bancari spericolati che fanno scelte azzardate portando al fallimento la propria azienda e costringendo lo stato a intervenire con costosi piani di salvataggio.

Prima di depositare il nostro denaro nelle banche, dovremmo chiederci e chiedere che fine fa, non solo per tutelare il nostro patrimonio, ma per evitare di diventare, sia pure inconsapevolmente, conniventi con speculatori e delinquenti.

Dopo i disastri provocati dalla finanza, l’Abi (associazione delle banche italiane) e le sue consorelle straniere, insistono sull’importanza dell’educazione finanziaria dei cittadini, come se la responsabilità di quello che è successo fosse nostra, della nostra mancata conoscenza dei meccanismi del sistema bancario.

In realtà sono le banche che hanno tradito la loro missione: raccogliere risparmio e investirlo nelle imprese, nei territori e nel benessere delle persone.

Il presidente Trump, appena insediato, ha messo mano alla legge Dodd-Frank, approvata dall’amministrazione Obama dopo il crac della Lehman con l’obiettivo di mettere ordine nella finanza e impedire alle banche di speculare con i propri patrimoni che servono, invece, a coprire i rischi di credito.

Le grandi banche statunitensi hanno protestato contro i controlli previsti dalla legge e il nuovo presidente si è precipitato ad accontentarle.

Eppure esiste una finanza che, non solo funziona, ma fa del bene.

Banca Etica ne è un esempio italiano, è stata fondata nel 1999 da centinaia di organizzazioni e singoli cittadini che hanno raccolto il capitale per creare un istituto che agisse secondo i principi della finanza etica, primo fra tutti considerare il credito un diritto umano e valutare sempre l’impatto delle attività economiche su società e ambiente.

Banca Etica funziona come una banca normale: raccoglie risparmio e lo investe in progetti. Ciò che la rende «etica» sono – oltre ai principi ispiratori – alcune peculiarità: ad esempio rende pubblico l’elenco delle attività finanziate, è una banca cooperativa in cui i soci sono molto attivi ed esercitano un controllo reale sulle scelte degli amministratori, nel processo del credito associa l’istruttoria sul merito creditizio con la valutazione socio ambientale del richiedente, infine, in Banca Etica, la differenza tra la retribuzione massima e quella minima non può superare il rapporto 6 a 1.

Del gruppo Banca Etica fa parte Etica sgr, una società di gestione che investe esclusivamente in fondi selezionati sulla base di un centinaio di criteri molto rigorosi che ne misurano l’impatto sociale e ambientale, la governance, l’impegno contro la corruzione, ecc. I fondi di Etica non solo premiano aziende e stati virtuosi, ma hanno anche un rendimento molto elevato, a conferma del fatto che l’etica conviene sempre.

La Banca Etica agisce seguendo determinati criteri che rendono più etica e giusta l’attività bancaria, non si tratta di criteri irrealistici, anche altre banche potrebbero adottarli e questo sicuramente renderebbe il sistema più trasparente e meno rischioso per i risparmiatori.

Una cosa è sicura: chi deposita il proprio denaro in Banca Etica ha la certezza che servirà a migliorare la vita delle persone e a cambiare in meglio il nostro paese.

Sabina Siniscalchi

 




Si chiamava Ilaria Alpi


Dal 20 marzo 1994 si cerca (inutilmente) di capire chi l’abbia uccisa. Lei era una giovane giornalista della Rai che indagava sui traffici di rifiuti tossici e armi tra la Somalia e l’Italia. Il 19 ottobre 2016 l’unico imputato per quell’omicidio è stato assolto, dopo aver trascorso in carcere 16 anni. Questa bruttissima storia di depistaggi e bugie di Stato non riesce a trovare la parola fine.

Domenica 20 marzo 1994. La notizia dell’eccidio in Somalia di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin mi arrivò dietro le quinte del «concertone», l’evento organizzato davanti la Basilica di San Giovanni in Laterano dalle forze progressiste che si preparavano alla consultazione elettorale della settimana seguente.

Quella notizia – un assassinio apparentemente senza senso, ma legato alla piaga della mala cooperazione italiana con il continente africano – sembrò un segnale sinistro per il nostro paese.

Non conoscevo personalmente Ilaria e l’operatore Hrovatin. Avevo già apprezzato, però, il lavoro della Alpi che con molta sensibilità raccontava il mondo islamico. Come fanno i giornalisti di razza, aveva impiegato il suo tempo per laurearsi in lingua araba all’Università del Cairo invece di fare subito la cronista embedded su un tank o su un camion di uno dei tanti eserciti di occupazione dell’epoca.

La comunicazione, però, è un magistero complicato. Non ero sicuro che una piazza traboccante di mezzo milione di ragazzi avrebbe saputo adeguare i propri umori alla tristezza improvvisa che l’assassinio di due connazionali impegnati nella ricerca della verità sui traffici di rifiuti tossici e di armi nell’ambito della nostra malefica «cooperazione» con la Somalia, avrebbe imposto. Così presi per mano Piero Pelù, il leader dei Litfiba, e gli chiesi di uscire con me sul palco, non per cantare, ma per commemorare il coraggio di Ilaria e Miran. Pelù capì il momento.

Uscimmo e io detti la notizia tutta d’un fiato. Sulla piazza calò un silenzio assordante. Allora chiesi di ricordare con un gesto qualunque il sacrificio di due giornalisti che non subivano l’informazione acriticamente, ma andavano a cercare la verità anche quando era scabrosa, nei posti dove si poteva trovare e documentare. Per quei due colleghi che non avevano tradito il loro mestiere, come è sempre più di moda in un universo informativo in cui l’apparenza, l’interesse del più forte, è ormai più importante della realtà, piazza San Giovanni rispose all’invito con un applauso lunghissimo e commovente.

Dopo pochi giorni le salme di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin tornarono in Italia, accompagnati subito dalle bugie di Stato, che Luciana e Giorgio, gli intrepidi genitori di Ilaria, dovettero immediatamente imparare a decifrare per dar corpo a quello che sarebbe diventato il loro unico obiettivo nella vita: la verità sulla morte della figlia.

In questi anni, le istituzioni non li hanno molto aiutati. Per chiarire questo vero e proprio scandalo politico hanno lavorato di più alcuni colleghi, come Maurizio Torrealta, e tre giornalisti di Famiglia Cristiana come Barbara Carazzolo, Alberto Chiara, Luciano Scalettari, un’indomabile parlamentare di quello che allora era il Pds, Mariangela Gritta Grainer, e un avvocato di incrollabile etica, Domenico D’Amati, capace di costringere il mondo politico a istruire una Commissione parlamentare sul caso Alpi (anche se ben presto fallita soprattutto a causa del suo presidente, l’avvocato Carlo Taormina) e di svegliare, più volte, dal suo torpore la Procura di Roma, non a caso soprannominata il «Porto delle nebbie».

In verità un magistrato, Giuseppe Pititto, era inizialmente arrivato vicino a una ricostruzione credibile dei fatti e di alcune responsabilità.

Dal ruolo ambiguo svolto dal faccendiere italiano Giancarlo Marocchino, all’inefficacia degli agenti dei servizi segreti italiani, una dozzina, che lavoravano all’epoca in Somalia e che avevano segnalato al loro capo, il colonnello Luca Raiola Pescarini, il pericolo che correvano i due giornalisti del Tg3 in cerca di prove sui traffici illegali di rifiuti tossici e armi tra la Toscana e la Somalia. Il Pm Pititto fu però subito esautorato dall’indagine con la scusa «di aver creato un clima di mancanza di lealtà e spirito di collaborazione nei rapporti con il procuratore di Roma».

Anni dopo, nel processo svoltosi a Roma contro Omar Hashi Hassan – uno dei presunti componenti del commando da cui sarebbe uscito quel giorno a Mogadiscio il killer che freddò, con un colpo alla nuca, Ilaria e Miran – proprio il colonnello Luca Raiola Pescarini avrebbe rischiato l’incriminazione per falsa testimonianza. Questo per ricordare quale è stato il clima che, fin dall’inizio, ha accompagnato il tentativo di far luce su questa scabrosa vicenda.

Una storiaccia. Perché l’esecuzione di Ilaria e Miran fu richiesta, ormai è più che mai palese, proprio dall’Italia, dove c’era una società che amministrava, come qualcosa di personale, il traffico di cinque navi per la pesca, donate dal governo italiano al tempo di Craxi al dittatore somalo Siad Barre. Questa piccola flotta, invece di frequentare i porti del commercio ittico, toccava sistematicamente quelli in cui veniva praticato, più o meno palesemente, il traffico d’armi. Forse con la copertura dei nostri servizi di intelligence.

Mi resi conto di questo stato delle cose quando, quattro anni dopo, nell’estate del 1998, decisi di imbastire una delle puntate del programma «Storie» della Rai con i genitori di Ilaria, instancabili nella loro richiesta di giustizia.

Un filmato, che mi aveva passato la Tv svizzera e che era stato girato pochi secondi dopo l’eccidio, aveva una volta di più smentito la versione dei fatti sostenuta in una lettera alla famiglia, inviata all’epoca (e senza che fosse stata richiesta) dal comandante del Corpo di spedizione italiano in Somalia Carmine Fiore.

Al contrario di quello che scriveva l’alto ufficiale, le immagini confermavano che: il primo ad arrivare sul luogo dell’eccidio era stato Giancarlo Marocchino, collaboratore dei nostri servizi segreti in quella Somalia disperata e senza legge, e non qualcuno dei militari acquartierati sul cacciatorpediniere Garibaldi. Era stato lo stesso Marocchino a trasferire i corpi di Ilaria e Miran dal van in cui erano stati colpiti a una jeep di sua proprietà, dopo un tesissimo scambio di battute a un radiotelefono con qualcuno che si rifiutava di intervenire e che, alla fine del colloquio – carpito dal microfono della cinepresa dell’operatore svizzero – lo spingeva a commentare: «Quei bastardi non vengono, hanno paura». I bastardi erano evidentemente i militari del corpo di spedizione italiana, a cui lo stesso Marocchino, subito dopo, sarebbe andato a consegnare il suo tragico carico al Porto Vecchio, dove finalmente era in arrivo un elicottero delle nostre forze armate.

Ad Ilaria Alpi, nel momento dell’intervento di Marocchino, come confermano le immagini, colava sangue dal naso. Un dettaglio che segnala come il suo cuore pompasse ancora sangue e quindi, pur con sicuri danni cerebrali, che la giornalista fosse ancora viva.

Sulla Garibaldi sarebbe stato fatto un esame dei corpi, sicuramente fondamentale per stabilire i particolari della morte, ma del quale il generale Fiore non avrebbe fatto nessun cenno nella sua lettera. Di quell’esame i genitori di Ilaria sarebbero venuti a conoscenza solo parecchi anni dopo.

Le scarne notizie della lettera del generale Fiore erano comunque quasi tutte inesatte, tanto che Luciana e Giorgio Alpi non avrebbero partecipato al riconoscimento della salma al suo arrivo in Italia, perché era stato loro preannunciato che la figlia era sfigurata dalle pallottole, mentre invece il colpo mortale era stato uno solo e alla nuca.

L’enormità e la crudeltà di queste bugie sollecita, ancora adesso, una domanda fondamentale: che interesse potevano avere certe istituzioni dello Stato italiano a coprire simili efferatezze? In nome di cosa l’hanno fatto? Quali realtà il cittadino della Repubblica italiana non deve sapere? Nello studio della Rai Luciana e Giorgio Alpi (nella foto in alto) ripercorsero, in quel torrido luglio del ’98, le tappe della loro infinita amarezza finché, alla fine di un filmato sul ritorno a casa delle salme, Luciana si accorse che i bagagli di Ilaria e Miran, nello scalo di Luxor, in Egitto, dove l’aereo di linea era stato sostituito da un velivolo della nostra aeronautica militare, erano legati e saldati con la cera lacca, mentre all’arrivo a Ciampino la corda che li imbrigliava era sparita.

Per caso due operatori diversi avevano diretto i loro obiettivi sul nastro di discesa delle valigie. Solo l’angoscia di una madre poteva cogliere quel dettaglio così importante e inquietante.

Sull’aereo, infatti, oltre ai militari dell’aeronautica c’erano: ufficiali del Corpo di spedizione in Somalia, agenti dei servizi segreti, funzionari del nostro ministero degli Esteri e dirigenti della Rai. Chi aveva avuto l’ardire, durante il volo, di aprire quelle borse, quei pacchi, e perché? Forse per far sparire i taccuini di Ilaria o alcune cassette di Miran? Quale era il segreto di Stato che dovevano coprire?

«Dove sono finiti i 1.400 miliardi della cooperazione italiana con l’Africa?». Aveva scritto Ilaria prima di partire per quello che sarebbe stato il suo ultimo viaggio.

Sono passati 23 anni aspettando la verità. Lo scorso 19 ottobre la Corte d’appello di Perugia ha riconosciuto che per 16 anni c’è stato un innocente in carcere, il somalo Hassan Omar Hashi (nella foto a sinistra), condannato per un doppio omicidio che non aveva commesso, e chiaramente usato come capro espiatorio per una testimonianza organizzata anche dall’apparato dei servizi segreti italiani. Un errore giudiziario dovuto all’esigenza politica di trovare a qualunque costo un colpevole di questo crimine che nascondeva gli oscuri traffici tra l’Italia e la Somalia dell’epoca. «Dopo 23 anni di depistaggi e bugie – ha commentato la mamma di Ilaria Alpi – che la Procura di Roma ha elargito alla mia famiglia, mi auguro che alla luce di questa sentenza, i magistrati romani ci diano verità e giustizia. Inoltre, sarei felice se il presidente della Repubblica leggesse le motivazioni della Corte di Perugia».

Anche il «Premio Ilaria Alpi», istituito nel 1995 per ricordare la giornalista, è stato chiuso nel 2014 su sollecitazione di Luciana Alpi, tradita dalle istituzioni italiane che, in 23 lunghissimi anni, non hanno voluto o saputo fare giustizia per la morte della figlia Ilaria.

Gianni Minà

 




Volti della nostra storia

Addis Abeba, Etiopia, anni ’30

La ricorrenza dei 100 anni dei missionari e missionarie della Consolata in Etiopia (1916-2016) è stata per noi l’occasione per riguardare vecchie foto «di famiglia». Ne abbiamo trovate di straordinarie. Purtroppo non catalogate e quindi senza data e altre informazioni. Di sicuro precedenti al 1941, anno in cui i missionari sono stati espulsi dal paese per ritornarvi poi nel 1970.

Le due foto di questa pagina ritraggono alcuni ragazzi della scuola italiana di Addis Abeba, probabilmente a fine anni ’30. Se fossero ancora viventi, oggi dovrebbero essere ultra novantenni. Sarebbe eccezionale scoprire che alcuni di loro sono ancora vivi. In ogni caso, ricordarli è non solo bello, ma utile per ravvivare la memoria di un pezzo della nostra storia (quella coloniale e fascista) che abbiamo forse messo nel dimenticatornio. Una memoria vera può aiutare a evitare gli errori compiuti in passato.

Un vostro nonno o nonna, zio o zia ha vissuto la sua infanzia in Etiopia? Lo riconoscete tra questi volti? Se sì e ne conoscete la storia, condividetela con noi. Diamo un nome a questi volti. Raccontateci di loro. Scriveteci.

 

 




Europa unita


Un tempo i giovani vedevano l’Europa come portatrice di pace. Oggi l’Unione si associa a crisi, disoccupazione, respingimenti di migranti, paura. I populismi xenofobi guadagnano punti. Mentre l’Italia ha almeno il merito di puntare i piedi.

Per la mia generazione l’Europa unita era un bellissimo sogno, in grado di far battere il cuore. Guardavamo sereni al processo di unificazione, confidando in un avvenire di pace, cooperazione e sviluppo non solo per noi europei, ma per il mondo intero. A scuola e nelle università ci parlavano di Altiero Spinelli, Robert Schuman e Konrad Adenauer, spiegandoci che il progetto di un’Europa forte e coesa era il frutto della loro grande statura politica e morale.

Nel corso degli anni questo sogno si è pian piano sgretolato sotto le rigide imposizioni del mercato, gli egoismi nazionali e lo strapotere delle tecnocrazie. Oggi nessun giovane sogna grazie all’Europa, anzi l’appartenenza europea suscita apprensione, è considerata, a ragione o a torto, la causa della disoccupazione e dell’impoverimento delle nuove generazioni.

Se si chiede a un giovane cosa rappresenti per lui l’Unione europea, la risposta più benevola è: burocrazia, eccesso di regole, costi esagerati, vertici inconcludenti. Ancora più triste sarebbe una risposta come: l’Europa è un giogo per i più deboli, un’inespugnabile fortezza per i poveri del mondo.

Non è una bella Europa quella che non apre le braccia a chi fugge dalla guerra e dalla miseria, che non si commuove di fronte alle migliaia di esseri umani che affogano nel Mediterraneo, che lascia soffrire di stenti e freddo chi si ammassa lungo i suoi confini.

Le idee e le parole che influenzano le scelte dei politici europei sono paura, minaccia, respingimenti, muri. Le stesse idee e parole che circolano tra la gente e ispirano il voto popolare più rozzo.

Ne consegue che l’accordo sulle quote, che pure riguarda numeri trascurabili – un totale di 160mila trasferimenti entro il 2017 – è bloccato da mesi, mentre l’Ue ha deciso di versare alla Turchia 3 miliardi di euro (e altri 3 nel 2018), perché si faccia carico dei migranti che essa non vuole, invischiandosi malamente con l’arrogante Recep Tayyp Erdogan che calpesta sistematicamente i diritti umani e viola le convenzioni inteazionali.

Si è creato un orribile circolo vizioso tra governanti e governati dove nessuno ha l’autorevolezza di proporre una visione differente.

Per questo ci ha favorevolmente colpito la presa di posizione di Matteo Renzi che, lo scorso novembre, ha posto il veto sul bilancio europeo, un gesto che, nella pratica, ha solo un effetto dimostrativo, ma riveste un alto significato politico: non vogliamo che si costruiscano muri con il denaro che l’Italia versa alla Ue.

Anche Emma Bonino, già stimata commissaria Ue e convinta europeista, ha predisposto una sorta di prontuario sull’immigrazione in cui sfata i falsi miti che alimentano sospetto e rifiuto.

Dimostra ad esempio che la cosiddetta invasione degli stranieri è un inganno: nell’Unione europea, su 510 milioni di residenti, solo il 7% è costituito da immigrati (35 milioni). La quota di stranieri varia notevolmente tra i paesi europei: il 10% in Spagna, il 9% in Germania, l’8% nel Regno Unito e in Italia, il 7% in Francia. Paradossalmente i paesi più ostili all’accoglienza degli immigrati sono quelli che ne hanno di meno: la Croazia, la Slovacchia e l’Ungheria, ad esempio, ne hanno circa l’1%.

Nel mondo ci sono 16 milioni di rifugiati, ma solo 1,3 milioni sono ospitati nei 28 paesi dell’Unione europea, meno del 10%. Nel mondo i paesi che ospitano il maggior numero di rifugiati sono la Turchia (2,5 milioni), il Pakistan (1,6 milioni), il Libano (1,1 milioni) e la Giordania (664mila).

E ancora, in Europa solo il 5,8 per cento della popolazione è di religione islamica, mentre il terrorismo – che tuttavia ha ben poco a che fare con la vera religione – colpisce molto di più al di fuori dei confini europei: le nostre vittime rappresentano meno dell’1% del totale, perché le maggiori e continue stragi avvengono in Siria, Afghanistan, Iraq, Nigeria, Niger e Somalia, proprio nei paesi da cui fugge la maggioranza dei migranti.

Nel dibattito e nelle scelte europee sull’immigrazione, l’Italia si distingue per umanità e capacità, e sono in gran parte italiani i mezzi e il personale, civile e militare, di pattuglia nel Mediterraneo, dove soccorrono decine di migliaia di esseri umani stremati. Non diamo retta alle proteste sguaiate della minoranza xenofoba, che purtroppo esiste anche nel nostro paese, godiamoci l’orgoglio di essere cittadini di una nazione che incarna nei fatti i valori della civiltà europea.

Sabina Siniscalchi




Dossier droghe


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Glossario essenziale

A cura di Luana Oddi
(medico tossicologo presso il Sert di Reggio Emilia)

Dipendenza – Tossicomania – Craving

La dipendenza è considerata dall’OMS una malattia cronica ad andamento recidivante, che riconosce come eziopatogenetici fattori biologici, sociali e psicologici. Più corretto è parlare di addiction cioè di tossicomania: «condizione psichica caratterizzata da un comportamento sostenuto da una forte spinta (craving) intensa, sintonica e ricorrente verso la consumazione di un oggetto o di un atto, senza la capacità di limitare il comportamento anche in presenza di condizioni che producono conseguenze negative sul grado di accettazione e soddisfazione individuale» (Maremmani, Pacini – manuale trattamento ambulatoriale con metadone). Da un punto di vista neurobiologico la tossicodipendenza da eroina è un disordine del comportamento appreso e indotto dall’uso cronico delle sostanze alla cui base sono presenti precise alterazioni del sistema della motivazione e della gratificazione. Dal punto di vista comportamentale la dipendenza è caratterizzata da: perdita di controllo sull’uso; ricerca compulsiva della sostanza indotta dal craving (desiderio intenso, ossessivo e urgente per una sostanza psicoattiva, per un cibo o per qualunque altro oggetto o comportamento gratificante), uso delle sostanze nonostante le conseguenze negative.

Disforia

Alterazione dell’umore in senso depressivo, ma associata ad agitazione e irritabilità, sensazioni di frustrazione, fino a manifestazioni di aggressività sia fisica che verbale.

Free base

Sostanza ottenuta trattando il cloridrato con etere ed ammoniaca, che evapora sotto il calore generato da un apposito cannello (base pipe), permettendone la inalazione. Viene da molti considerato come una versione «europea» del crack e come quest’ultimo agisce rapidamente, con alto rischio di intossicazione acuta. La stessa letteratura scientifica è spesso ambigua nella classificazione e differenziazione di queste due forme di cocaina. In realtà entrambe queste forme hanno le stesse caratteristiche chimiche, essendo entrambe forme alcaloidi, e come tali fumabili, della cocaina, ma si usano con tecniche differenti. La cocaina freebase si ottiene dissolvendo, a caldo, la cocaina cloridrato nell’acqua e quindi aggiungendo una sostanza basica come l’ammoniaca. A tale soluzione viene aggiunto l’etere, solvente organico che ne permette l’estrazione per vaporizzazione. Tale sistema permette la rimozione di tutte le sostanze adulteranti solubili in acqua, dalla quale viene separato l’estratto in forma di piccoli cristalli, che sono pertanto più «puri» in quanto privi o contenenti minime quantità di sostanze da taglio. A causa della possibile permanenza di etere, però, i fumatori di cocaina sono ad alto rischio di ustioni, in quanto l’etere può causare esplosioni a contatto con la fiamma.

Merla – Oxi

Nel Nord America un’altra tipologia di cocaina fumata è la cosiddetta «Merla», un preparato fangoso derivato della cocaina contenente un’alta percentuale di solventi, in particolare acidi ottenuto da batterie per auto, a volte in combinazione con diversi solventi organici. Anch’esso riconosce il Brasile come terra originaria di provenienza.

Più recentemente un altro analogo del crack è circolante in Brasile, l’«oxi», una denominazione, che sta per oxidation e coniata dagli stessi consumatori di droga dello stato di Acre (situato nella parte nord-ovest della foresta pluviale amazzonica), da dove tale droga si sta diffondendo raggiungendo le principali città del Brasile, come Manaus e Brasilia, e negli scorsi anni, anche gli stati dell’America del nord. È fatta di avanzi di pasta di cocaina cucinati con quantità variabili di benzina o kerosene e calce (la diversa proporzione tra tali sostanze determina il colore della oxy, variabile dal viola al giallo al bianco). L’oxy, può essere fatta rientrare nel gruppo di quelle sostanze psicostimolanti diffusesi nel periodo della crisi e accomunate dai bassi costi e dalla facilità di produzione, così da poter essere sintetizzate in casa, dando una soluzione all’impossibilità di poter accedere alle sostanze del mercato della droga per mancanza di risorse monetarie. Tutto ciò a prezzo di danni fisici conseguenti all’uso, nella fase di preparazione, di additivi di scarsa qualità e spesso tossici.

Piramide di Maslow

La piramide dei bisogni di Maslow è una scala gerarchica dei bisogni, su cui si basa il modello motivazionale proposto nel 1954 dallo psicologo Abraham Maslow. Essa prevede la disposizione dei bisogni, dalla base al vertice della piramide, partendo da quelli primari (bisogni essenziali alla sopravvivenza), fino a quelli, salendo, più immateriali: la soddisfazione dei primi permette la elaborazione ed emersione di quelli superiori, più complessi. Sinteticamente le 5 classi di bisogni individuati da Maslow sono: i bisogni fisiologici (fame, sete, sonno); di salvezza (protezione e sicurezza); di appartenenza (essere amato e amare, far parte di un gruppo, partecipare, ecc.); di stima (essere rispettato, approvato, riconosciuto, ecc.); di autorealizzazione (realizzare la propria identità, occupare un ruolo sociale, ecc.).

Psicostimolanti

Sono le sostanze in grado di esplicare un’azione eccitante. Il più noto psicostimolante è la caffeina, la droga di uso più comune, che si trova in eguale quantità in the e caffè (circa 100-150 mg per tazza), nonché nel cacao e nelle bevande alla cola (circa 50 mg per tazza). Anche se si tratta senz’altro della sostanza psicostimolante più blanda, una overdose di caffeina può causare sovrastimolazione, tachicardia e insonnia. Tra gli altri psicostimolanti vi sono oltre la cocaina, la nicotina, gli antideoressivi e le anfetamine, quest’ultime causa di sensazioni di euforia particolarmente intense.

Sostanze psicotrope

Per sostanza ad azione psicotropa (o farmaco psicotropo o psicotropo) si intende un qualsiasi medicamento o principio attivo in grado di agire sulle funzioni psichiche e sul SNC, si da modificarle. Gli effetti psicotropi si riferiscono a tali modificazioni che possono essere di tipologia differente: depressiva (psicolettica), eccitatoria (psicoanalettica) e di alterazione (psicodislettica).

Ser.T

Acronimo di «Servizi per le Tossicodipendenze», che sono servizi pubblici ad accesso gratuito e diretto: non è richiesto il pagamento di ticket, né la richiesta del medico di base. In molte regioni le aziende sanitarie hanno mutato tale sigla in Ser.D. ad indicare, più correttamente, un servizio deputato alla cura delle Dipendenze Patologiche sia quelle derivanti dal consumo di una sostanza (tossicodipendenze) sia quelle cosiddette comportamentali o «senza» sostanza (gioco patologico, shopping compulsivo, web addiction, ecc.).

Servizi a bassa soglia

Nel campo delle tossicodipendenze si parla di bassa soglia qualora ci si riferisca a quei servizi che sono facilmente accessibili agli utenti e, come tali, anche in grado di raggiungere la potenziale utenza costituente il cosiddetto sommerso (persone che potrebbero aver bisogno di cure, ma non riescono a raggiungere i servizi stessi), andando loro incontro (lavoro di outreach, fuori dalle strutture). Per essere a bassa soglia di accesso, un servizio deve richiedere pochi ed essenziali requisiti alla persona, accogliendo questa nella sua condizione socio-sanitaria attuale. Per le dipendenze ciò si traduce in assenza di vincoli burocratici (accesso anche a persone senza una residenza anagrafica o stranieri non regolari) e di richiesta di disintossicazione o di trattamento volto all’interruzione del consumo.

Disturbo da uso

Nel DSM 5 l’uso patologico di sostanze psicoattive viene incluso nella categoria dei Disturbi Correlati a Sostanze, comprendenti sia i disturbi secondari all’assunzione di una sostanza di abuso (incluso l’alcornol), sia i Disturbi da Uso di Sostanze, che raggruppa in un’unica categoria sia la dipendenza che l’abuso.

Recidiva

Come da dizionario: «Ricomparsa dei sintomi di una malattia in un paziente che ne era stato colpito in precedenza e che ne era guarito». Nel caso dei disturbi da uso, la recidiva si riferisce alla ripresa delle condotte consumatorie e alla riattivazione del craving.

Anedonia

Come da dizionario medico; «incapacità di provare piacere», quadro psico-emotivo spesso associato alla depressione.


BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

A cura di Luana Oddi
(medico tossicologo presso il Sert di Reggio Emilia)

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