Il silenzio è complice del male

Una «nuova colonizzazione» per l’Africa? Nonscherziamo, per favore!
Il problema del continente africano e del mondo intero è un sistema economico dove detta legge una «trinità satanica», formata da «Fondo monetario
internazionale», «Banca mondiale» e «Organizzazione mondiale del commercio». Un mondo unificato sotto le insegne dell’«impero del denaro» (il cui cuore pulsante è la speculazione finanziaria), dove la politica è al guinzaglio dell’economia, totalmente asservita ad essa. Parole di fuoco (e, a volte, anche discutibili) quelle di Alex Zanotelli, missionario scomodo.

LA «TRINITÀ SATANICA»

È riduttivo dire che l’Africa è in pasto alle multinazionali. Non si tratta solo di questo. La cosa è molto più sofisticata. Le multinazionali, essendo molto intelligenti, usano le strutture inteazionali per fare la loro politica. In particolare, usano il «Fondo monetario», la «Banca mondiale» e l’«Organizzazione mondiale del commercio» (io li chiamo la «trinità satanica» dell’impero del denaro) per portare avanti i loro interessi.
Ricordate il Mai, l’«accordo multilaterale sugli investimenti», che (per ora) siamo riusciti a bloccare? Esso non è altro che la politica delle multinazionali per entrare negli stati e prendersi i mercati senza colpo ferire.
Il Mai è stato poi tradotto e affinato dagli Stati Uniti nel «Nafta for Africa» («African Growth and Opportunity Act», approvato dal congresso nordamericano lo scorso maggio).
Qual è la filosofia che sottende? In pratica la seguente: diminuire il potere degli stati, perché «meno stato c’è, meglio si va»; abbattere tutte le barriere, affinché i potentati economici siano facilitati ad investire e comperare ovunque. Una multinazionale può comperare quello che vuole.
Guardate quello che sta avvenendo in Mozambico, dove le multinazionali (magari attraverso i boeri del Sudafrica) si spostano là per acquistare migliaia di ettari di terreno. Lo comperano in chiave agricola, con un occhio di riguardo per il sottosuolo.
La politica è quella di favorire una agricoltura da esportazione e non per la sussistenza. Il Kenya produce tè e caffè, ma il caffè buono lo potete bere solo in Italia e il tè buono solo a Londra. I kenyiani o non lo bevono o hanno il peggiore. Questo è il tipo di logica.
Pensate al Congo, con una guerra voluta, ma voluta fino in fondo e andrà avanti così. Perché meno stato c’è in Congo, meglio le multinazionali funzionano. Le multinazionali dell’oro, dei diamanti, del cobalto hanno i loro eserciti.
Pensate al ruolo del Sudafrica (e qui Mandela si è fatto… fregare). Nella guerra del Congo sono coinvolte 11 nazioni, una vera guerra mondiale o continentale almeno. Ho visto le statistiche: si parla di 1 milioni e 700 mila morti in 22 mesi di guerra. Ma sui nostri giornali e le nostre televisioni non se ne parla…
Ora sto a guardare cosa farà la politica nordamericana nel Sudan, perché, da quanto mi dicono, i giacimenti di petrolio sudanesi sono i più grandi del mondo. Si dice che gli Stati Uniti potrebbero fare a meno del petrolio mediorientale se il petrolio del Sud Sudan andasse a Mombasa…
Nel 1998 Clinton fece un lungo viaggio africano proprio per promuovere la filosofia americana del «trade, not aid» (commercio, non aiuto). Chiarissimamente per favorire gli Stati Uniti (utilizzando la potenza amica e subalterna del Sudafrica) nella conquista di un grande mercato potenziale di 700 milioni di consumatori! È questo in fondo quello che sta dietro a tutto. Ormai i mercati sono saturi. Non sappiamo più a chi vendere, continuiamo a produrre, ma alla fine dobbiamo domandarci per chi produrre. L’Africa è un mercato nuovo, perché non aprirlo?, si sono detti gli americani. Sapete che, durante il suo ultimo viaggio in Nigeria, Clinton aveva con sé 1.000 uomini d’affari statunitensi?
Questo è lo scopo essenziale. Questa legislazione permetterà ai presidenti americani di stipulare accordi bilaterali con i presidenti degli stati che risponderanno ai requisiti di «elegibility». È chiaro che le nazioni africane desiderano moltissimo entrare nell’accordo. Perché vedono arrivare i soldi americani. È una maniera per salvarsi dal suicidio collettivo in cui l’Africa sta sprofondando.
E ora che gli Stati Uniti si stanno preparando per un altro grande trattato: quello con la Cina. Quello con l’Africa è soltanto l’antipasto, dopo c’è la Cina. Con il Nafta per l’Africa gli Stati Uniti stanno entrando (ma entrando alla brutta o alla grande) nel continente.
Dal Nafta per l’Africa sta emergendo chiaramente che la politica americana è di un imperialismo incredibile. Mi fa un male boia ammettere questo, perché gli Stati Uniti partirono (solo 200 anni fa) ribellandosi contro il colonialismo britannico. Tredici repubbliche che volevano la loro dignità e che sognavano un mondo alternativo. Guardate in 200 anni come si può cambiare.
PRIVATIZZARE… LA MISERIA
Altrettanto importante è la logica delle privatizzazioni. Osservate l’insistenza sul privatizzare l’educazione, la sanità… Sapete cosa vuol dire questo per l’Africa? Cosa significa per 300 milioni di persone che vivono con meno di 1 dollaro al giorno? Significa privatizzare la miseria. Anche in Italia questo tipo di politica la pagano i poveri. Negli Stati Uniti oggi siamo arrivati a 40 milioni di poveri. Mai il paese più potente del mondo era arrivato ad avere un tale numero di poveri…
Io non ho bisogno delle statistiche per capire la sofferenza della gente. Basta che guardi Korogocho e il Kenya. La scuola è un macello: i ragazzini non riescono più ad entrarvi, perché i genitori non hanno soldi per pagarla. E mi riferisco alla scuola pubblica! Fra qualche anno a Nairobi ci sarà il 50 per cento di ragazzi che non potranno entrare in prima elementare. Sapete cosa vuol dire il 50 per cento in una città di 4 milioni di abitanti? È una bomba! Ecco il risultato delle privatizzazioni.
Vedo la sofferenza della gente che non può più andare a curarsi all’ospedale, perché non ci sono soldi. Vedo sempre più gente che abbandona i cadaveri al governo o che cerca di seppellirli di nascosto…
Una volta vidi un uomo disperato, perché gli era morto il bambino. Questo padre era andato al fiume per cercare di seppellire il figlio, ma la gente lo aveva notato. Da tre giorni teneva il bambino morto in casa, perché non aveva i soldi per seppellirlo. Alla fine, l’uomo chiese una cosa soltanto: essere aiutato per tornare al suo villaggio, dove la sepoltura gli sarebbe costata molto meno. Pose il corpicino in un sacco e con esso si mise in viaggio.
Questi sono i drammi quotidiani che viviamo in Africa.
Lo stesso Fondo monetario internazionale dice che 1 su 5 bambini in Africa muore prima dell’età di 5 anni. Il 50 per cento degli africani vive sotto la linea della povertà assoluta e il 40 per cento con meno di un dollaro al giorno. L’interesse sul debito assorbe già oggi l’80 per cento di tutto quello che le nazioni africane ottengono vendendo i loro prodotti sul mercato. Il 40 per cento degli africani soffre di malnutrizione e di fame; oltre 42 milioni di bambini non riescono ad entrare in prima elementare. L’Africa è il solo continente al mondo dove l’immatricolazione nelle scuole è in declino, è l’unico continente dove l’educazione perde di qualità perché non ci sono più soldi per investire.
Quando avete una situazione economica del genere e fate passare una legislazione come quella del Nafta per l’Africa, io non ho dubbi nel dire che si tratta di un genocidio pianificato.
Però, sento gente come Indro Montanelli e Sergio Romano, ma anche padre Piero Gheddo, che invocano una nuova colonizzazione per l’Africa. Fare affermazioni di questo tipo è scandaloso, dopo tutto quello che abbiamo fatto a quel continente.
LA VERGOGNA DELLE ARMI ITALIANE
In Italia, a tutte le manifestazioni cui partecipo, continuo a ripetere: ma voi sapete da dove vengono molte delle armi (soprattutto le cosiddette «armi leggere») delle guerre africane? Dal nostro paese. Però, un silenzio incredibile è calato su questo problema. È scandaloso che si vada avanti a spendere quello che spendiamo in armi, a produrre quello che produciamo in armi.
L’altro giorno ero a Quarrata (Pt) con il capogruppo di rifondazione della Camera, Giordano. Questi mi ha detto: «Alex, hai saputo le ultime novità?» No, dico, vengo da Korogocho e le ultime novità non le so. Cosa c’è? «L’Italia ha appena comperato l’Eurofighter, un aereo da guerra del costo di 120 miliardi. E ne ha ordinati 100».
È possibile che debba venire un imbecille da Korogocho per ricordarvi questo? Questo è un fatto di una gravità estrema. Non so perché Pax Christi non protesti immediatamente. Non si trovano soldi per le scuole, per la sanità e li trovano per 100 aerei militari. Ma per fae che cosa? Domandatevelo.
Voi sapete tutte le armi che si producono in questo paese? Ma è possibile che in Parlamento dorma ancora la norma sulle armi leggere? C’è una proposta per mettere al bando la loro produzione e l’export. Ma la legge non va avanti.
Però quello che più mi preoccupa è il vostro silenzio. Quando sento queste cose io mi sento male e mi domando perché nessuno protesti. Sulle armi vi prego di tornare agli anni Ottanta; allora c’era molta più vivacità in questo paese, c’era molto più senso della lotta.
Ronald Reagan (un presidente che io metto a fianco di Stalin, per tutti i massacri che, coscientemente, ha perpetrato nel Centro America) per primo parlò di guerre stellari. Poi però rinunciò a quel folle progetto. È concepibile che ora se ne torni a parlare? Può darsi che Gore abbia qualche idea più liberale di Bush, ma alla fine chiunque vinca deve fare quello che la logica del mercato richiede. Altrimenti non vanno avanti.
NO AL «DIO» DEL SISTEMA
Davanti a noi non c’è soltanto l’Africa, ma è l’intero mondo che è minacciato, gravissimamente minacciato di morte. Tutti noi siamo minacciati. Questo è un sistema che crea morte a tutti i livelli.
L’Africa è emblematica come continente e su di essa scende sempre il silenzio e il non parlarne accresce ancora di più l’impressione. L’Africa è un paradigma dove impegnarsi.
Io ho come riferimento la tradizione profonda della bibbia e del giubileo. Il quale, per favore, non è roba da pellegrinaggio, soprattutto in questo tipo di società. Sono tutte cose che facciamo, ma il giubileo biblico è un’altra cosa. Non lo possiamo dimenticare. Il giubileo biblico è «il sogno di Dio».
Il problema di oggi non è l’ateismo. Per me l’ateismo è il primo passo verso la fede. Quando abbiamo ridotto Dio al dio del sistema, al dio degli Stati Uniti, al dio di questa società, l’unica maniera per riscoprire la fede è l’ateismo perché devi sbarazzarti di «questo» dio.
Il vero problema è il materialismo quotidiano, l’idolatria. Anche noi come chiesa abbiamo adottato tutti gli idoli di questa società dal massimo profitto: soldi, successo e via di questo passo.
Fare giubileo vuol dire ritornare al «sogno di Dio», legare economia e vangelo. Un gesuita inglese dice: noi leggiamo il vangelo come se non avessimo soldi in tasca e usiamo i soldi come se non conoscessimo nulla del vangelo. E questa è la nostra realtà. Ecco perché siamo così integrati, così parte del sistema. Il giubileo è una cosa seria, è ritornare all’ideale che ci può essere una economia di uguaglianza dove i beni di questo pianeta servano a tutta la gente del mondo. Significa ritornare a una politica di giustizia, perché solo questa permetterà una economia di uguaglianza. Significa ritornare ad una esperienza di Dio, dove Dio è sentito come il Dio di schiavi, oppressi, marginalizzati, forestieri, immigrati. Di tutta la gente, insomma.
LA BOMBA DEI POVERI
Io dico a tutti di svegliarsi, perché l’altra bomba atomica è proprio quella dei poveri. Può scoppiare in qualsiasi momento. E, se scoppia, sorrideremo sul macello del Rwanda.

IL CAMMINO DI LILLIPUT

Oltre mille persone si sono ritrovate nel primo incontro nazionale della «Rete di Lilliput». Questa è la dichiarazione finale preparata dal Tavolo intercampagne e letta da Alex Zanotelli.

Marina di Massa, 6-7-8 ottobre 2000.

Nel momento in cui le leggi del profitto pretendono di dominare ogni ambito del vivere umano distruggendo la base naturale su cui si fonda la vita sul Pianeta e la politica è incapace di contrastare lo strapotere dell’economia dominante, noi oltre mille tra semplici cittadini, associazioni e gruppi, riuniti a Marina di Massa per il primo incontro della Rete di Lilliput, rivendichiamo il diritto di riappropriarci della facoltà di decidere sul nostro futuro e ci sentiamo parte integrante di una nuova forma di cittadinanza sociale che sta prendendo corpo nel Pianeta e che ha avuto una sua prima manifestazione a Seattle.
Nel contempo affermiamo che non basta battersi contro le principali storture del sistema, ma che dobbiamo ricercare delle alternative eque e sostenibili a questo assetto economico che genera esclusione, ingiustizie e distruzione del Pianeta.
I tratti fondamentali dell’alternativa che noi ci impegniamo a costruire si basano sulla sobrietà, la riduzione dell’impronta ecologica e sociale, l’esaltazione dell’economia locale ed il riconoscimento che i bisogni fondamentali sono diritti da garantire a tutti gli abitanti del Pianeta. Noi ci impegniamo fin d’oggi a costruire questa prospettiva organizzando gruppi di lavoro e campagne:
– per riaffermare la dignità del lavoro e la democrazia economica, costringendo le multinazionali alla trasparenza e alla responsabilità sociale e ambientale
– per ottenere una radicale riforma dell’Organizzazione mondiale del commercio, della Banca mondiale, del Fondo monetario internazionale che fino ad oggi hanno generato disuguaglianze e oppressione sociale
– per l’annullamento del debito e il riconoscimento del debito ecologico dei paesi del Nord verso quelli del Sud
– per ridurre l’impronta ecologica e sociale dell’Italia proponendo alle famiglie un diverso modo di consumare, e spingendo gli enti locali e le istituzioni nazionali alla costruzione di filiere produttive alternative
– per promuovere la riconversione dell’industria bellica, per spingere le banche a non finanziare i traffici d’armi, per promuovere la tutela e i diritti dei migranti.
Sul piano della vita intea della Rete vogliamo costruire dei rapporti che esaltino la partecipazione, l’identità dei gruppi locali e il loro radicamento sul territorio, la costruzione di campagne comuni proponibili da tutti i punti della Rete, la costruzione di una struttura leggera di riferimento nazionale con compiti di informazione e servizio. Sappiamo che la nostra Rete costituisce una sfida per tutti perché è una novità assoluta che rompe con gli schemi del passato. Per questo ci impegniamo ad avviare un approfondimento interno a tutti i livelli per individuare forme ottimali di aggregazione e dilazione. Un segnale importante che va in questa direzione è la nascita di gruppi tematici emersi durante lo svolgimento dell’assemblea. Il primo passo di questo cammino è la costituzione di un gruppo di lavoro composto dal nodo locale genovese e dal tavolo intercampagne per organizzare la nostra opposizione alle politiche del G8 che si riunirà a Genova nel 2001.

L’IMPERO DEL DENARO

Caro onorevole, jambo! Penso che il viaggio in Africa e la visita a Korogocho sia stato un evento importante per te. Ti sarai accorto che vedere con i tuoi occhi e sentire con il tuo naso è tutt’altra cosa che guardare gli esclusi, in televisione o leggerli nelle statistiche.
Penso che le sofferenze dei poveri hanno cominciato a cambiarti come uomo: in questo ti sento vero e sincero.
Come leader politico ti ringrazio perché stai tentando di mettere l’Africa e la povertà globale al centro del dibattito. Non vorrei però che le sofferenze dei poveri diventassero semplicemente oggetto di manipolazioni, tatticismi e furbizie per ottenere consensi elettorali.
Per questo ho sentito il dovere di scrivere questa lettera aperta in cui esprimo la mia maniera di guardare alla realtà e ciò che da questo sguardo ne consegue.
Io guardo il mondo stando dalla parte degli impoveriti, cioè dalla parte dell’80% dell’umanità. Lo faccio come credente, perché tutta la tradizione biblica, ebraica e cristiana, da cui provengo sta dalla parte degli esclusi, perché il Dio di Mosé non è il Dio dei faraoni o di Clinton, ma il Dio dei crocefissi. Per la prima volta nella storia, il mondo è retto da un unico sistema: l’impero del denaro, il cui cuore è la speculazione finanziaria. Mai nella storia si era visto un impero tanto vittorioso e suadente, grazie alla forza dei mass media, da prenderci tutti nella sua ideologia.
Viviamo in un sistema economico dove il 20% degli uomini si pappa l’82% delle risorse a spese del resto dell’umanità. Il 20% dei più poveri ha a disposizione solo l’1,4% dei beni. Per me questo è un sistema di peccato. E la politica che cosa fa? Oggi la politica è al guinzaglio dell’economia, totalmente asservita ad essa.
Questo sistema di oppressione si regge sullo strapotere delle armi: spendiamo ogni anno 800 miliardi di dollari in armamenti (ma il muro di Berlino non era crollato?). A che cosa ci servono? Per difendere i nostri privilegi dalla minaccia dei poveri.
Non dimentichiamo che chi vive nell’opulenza e la difende a denti stretti pone anche una gravissima ipoteca ambientale. Molteplici studi ci dicono che abbiamo non più di 50 anni per cambiare: è in ballo la vita del pianeta. L’impero del denaro uccide, quindi, con la fame (30 milioni: un «olocausto» ogni anno), con le armi (conflitti africani, regimi repressivi, guerre stellari), con la distruzione dell’ambiente, con l’annientamento delle culture.
È un sistema di morte che ci interpella tutti, credenti e non, perché mina la vita stessa. Se questa analisi è vera e condivisibile, dobbiamo smetterla di raccontarci la storia di uno «sviluppo sostenibile». O cambiamo rotta o cadiamo nel baratro.
Tocca alla politica reinventare la politica e anche lo stato, perché l’economia torni a servire la polis. La politica e il far politica devono rispondere alle esigenze della gente e soprattutto della vita, della vita per tutti.
Alex Zanotelli

(*) Sintesi di una lettera aperta indirizzata da padre Zanotelli a Walter Veltroni. La scorsa estate il segretario dei Ds aveva effettuato un lungo viaggio in Africa, visitando anche Korogocho. Quell’esperienza è stata raccontata nel libro Forse Dio è malato (Rizzoli, 2000).

IL DIVERSO E’ VERAMENTE UNA MINACCIA?

Le affermazioni del card. Biffi sull’immigrazione islamica sono di una gravità estrema. Ne sono rimasto esterrefatto, perché se incominciamo a dividere la gente così, non usciamo più dallo scontro. E potremmo davvero muoverci verso forme di pulizia etnica.
La grande domanda posta da Susan George è semplicissima: il miliardo e mezzo di persone, i poveri, gli inutili per il sistema attuale, hanno diritto sì o no di vivere? Sapete voi quanti episodi di razzismo ci sono in giro? È chiaro che c’è un rifiuto dell’altro. E guardate che qui anche Marx (che pure ha indovinato tante cose) si è preso una bella sventola. La teoria marxista, riprendendo quella di Rousseau, afferma che l’uomo è buono: è la società che lo rende cattivo. Purtroppo altri hanno dimostrato che la violenza non viene dalle istituzioni, ma da ogni uomo. Il rifiuto dell’altro ce lo portiamo dentro. Me lo trovo anch’io, a Korogocho, tra i derelitti.

Un giorno incontrai una ragazza di 23 anni. La salutai, chiedendole come si chiamasse. Lei rispose: «Mi chiamano Omarì». Come – dissi – ti chiamano, ma tu come ti chiami? «Mi chiamano». E io: non prendermi in giro! «Mi chiamano Omarì» insistette. Allora chiesi: a che etnia appartieni? «Non lo so». La guardai stupefatto: sei il primo africano che non sa a che etnia appartiene; l’appartenenza è talmente forte per un africano! «Tu non mi conosci, Alex. Io sono una ragazza che, piccolissima, si è ritrovata sulle strade di Nairobi insieme ad altri ragazzi e loro mi chiamavano Omarì. Non so quale sia il mio vero nome, non so chi sia mio padre, mia madre, non so niente. Sono cresciuta sulle strade. Un giorno, verso i 12-13 anni, un uomo mi violentò ed ecco il mio primo bimbo. Andai avanti così. Poi un secondo uomo mi fece violenza ed ecco il secondo bimbo. A quel punto, vinta dalla città, scappai nella discarica vicino a Korogocho. Qui la gente mi guardava e chiedeva da dove venivo, cosa facevo, perché non ero dei loro. Alla fine mi hanno sbattuta fuori. Fuori dalla discarica».
Le domandai dove era andata a vivere. «Vivo nella parte estrema di Korogocho, raccogliendo frutta marcia per me e i miei bambini e, di notte, dormendo anche sotto le bancarelle che di giorno vendono frutta. Alex aiutami!». La mandai nel gruppo della discarica dove per un po’ fu aiutata. Poi sparì.
Poche settimane fa Omarì è ritornata. Con tre ragazzi… Ho guardato la bambina più grande e le ho chiesto: e questa chi è? La ragazza mi ha risposto: «L’ho incontrata l’altro giorno per strada. Le ho chiesto chi fosse e dove erano i suoi genitori. Lei mi ha detto: non li conosco, non ho nessuno, posso venire con te?». Insomma, oggi Omarì è una donna di 23 anni con tre bambini… Non ho potuto fare altro che dirle: «Vieni, vieni con noi, Dio provvederà!».
Una storia assurda per una logica assurda che esclude, perché «non è una di noi, non è dei nostri».

Oggi in Italia è importante uscire da questa logica dell’altro. Provo una grande sofferenza nel vedere il razzismo crescente, il rifiuto dell’altro, anche in chiave religiosa. Io dico a tutti: perché abbiamo paura dei musulmani? Ho studiato teologia musulmana, corano, arabo classico, storia, e ne sono rimasto profondamente impressionato. Quando, per esempio, leggevo i mistici musulmani, non ci trovavo nessuna differenza con Giovanni della Croce o Teresa d’Avila. Quanto più entriamo nella realtà e le situazioni si rivelano complesse, tanto più i nostri slogan diventano semplicistici. Perché tutto ciò che non è bianco non è nero. Tutto ciò che non ci appartiene non è contro di noi, tutto ciò che non è cristiano non è marxista, tutto ciò che non è musulmano non è imperialista o diabolico, tutto ciò che non ci rassomiglia non è una minaccia. Le generalizzazioni, alimentate dalla propaganda politica e religiosa, sono un pericolo.
Al.Za.

Alex Zanotelli




Trentotto minuti, predica inclusa

Fra le messe africane (che si protraggono anche per due ore)e quelle italiane (che non devono superare i quaranta minuti, omilia compresa)
esiste una via di mezzo?
Ma, più che al tempo, bisogna mirare alla qualità,
specialmente da parte del sacerdote.
Per celebrare e far festa.

Di ritorno dal Kenya,
una domenica celebro la messa nella chiesa di un mio amico parroco. Al termine, il sacerdote mi invita per un caffè. «Bene, bene. Vedo che non hai dimenticato l’italiano e che sei abbastanza sbrigativo» mi dice.
È un complimento. Ma per me è più amaro del caffè in cui ho dimenticato di mettere lo zucchero.
In Italia mi mancano molto le liturgie africane, così piene di vita, dove il tempo non conta. Invece, nel nostro «stivale», prova a superare i 10 minuti di predica e vedrai subito la gente guardare l’orologio con impazienza. Già, in Italia il tempo è denaro! Anche se abbondano le chiacchiere televisive, giornalistiche, salottiere…
Durante la messa si intonano quei tre-quattro canti che tutti conoscono (o quasi), ma si cantano solo poche strofe. Alla fine ci sono gli avvisi del parroco, la benedizione… E, mentre ci si avvia in sacrestia, si controlla l’orologio: 38 minuti e mezzo. Così va bene. Guai a sgarrare!
Un’altra domenica il parroco non c’è. Dopo la comunione, mi permetto un momento, brevissimo, di silenzio. In sacrestia il chierichetto (mio nipote) mi chiede se mi sia addormentato…
Oggi si parla molto di «religioso» come elemento strutturale dell’uomo. Di fronte al disorientamento provocato dalla società dei consumi, si auspica un ritorno al sacro. È vera fede? O un semplice desiderio di tranquillità psicologica, distensione? In tale contesto le sètte mietono numerosi proseliti.
L’africano ha insito il senso sacro della celebrazione e della festa. Per lui celebrare significa festeggiare.

Prima del Concilio
ecumenico Vaticano II, in chiesa esisteva una separazione tra il sacerdote e il popolo. Si celebrava l’eucaristia in una lingua morta (il latino), con la preghiera più significativa (il canone) in silenzio, voltando le spalle alla comunità. Sui banchi si contavano molte donne con la corona del rosario in mano. Oggi, però, tutto questo è solo un ricordo dei cinquantenni.
Ma la presente messa, in Italia, è davvero quella voluta dalla riforma liturgica del Concilio? Ne dubito. E rimpiango le celebrazioni nella mia parrocchia in Kenya.
Nella pasqua Gesù Cristo ha realizzato la nostra salvezza. Celebrare e festeggiare l’eucaristia è attualizzae il mistero. Parola, rito, canto, danza, silenzio: tutto ha valore.

Quando ero bambino,
la domenica era una festa anche esteamente. Per la messa si indossavano le scarpe e i vestiti migliori, non quelli di tutti i giorni. Una volta a casa, bisognava cambiarli subito per non sciuparli. È quanto sta avvenendo oggi in Africa. La domenica è festa e la gente (soprattutto la più povera) viene in chiesa con gli abiti migliori. Non sono «firmati», ma i colori sono sgargianti.
Spesso mi chiedo come riescano i giovani e le ragazze del Kenya a conservare così bene i loro vestiti in abitazioni di fango, senza armadi, e come facciano a salvaguardarli dalle capre, che sono così di casa…
Penso pure ai gruppi neocatecumenali. Dopo numerosi incontri di formazione, ecco finalmente la domenica con la messa. I nuovi membri del gruppo sono invitati a vestirsi bene, quel giorno, per partecipare ad «un avvenimento molto importante». È celebrazione, festa.
Le comunità africane
sono giovani, piene di vita e giorniose, anche se soverchiate da enormi problemi. Amano far festa. I canti, le danze e i tamburi esprimono anche fede.
Le comunità italiane, invece, mi sembrano talora vecchie e stanche; forse hanno perso la gioia di vivere, di celebrare, di cantare.
Ricordo le animate discussioni, in Kenya, con qualche maestro di canto. Era difficile fargli capire che, alla domenica, non era sempre necessario cantare tutto il… cantabile! Qualche volta il «credo» si poteva anche «recitare». Allora il choirmaster mi «boicottava», anticipando con il canto la mia recitazione. E che sforzo far capire al coro che, di una lode di 20 strofe, se ne possono cantare anche soltanto 15! «Niente affatto! Bisogna cantarle tutte» era la risposta.
È con grande nostalgia che risento le preghiere spontanee dei fedeli da ogni angolo della chiesa: implorano aiuto, guarigione, pioggia. Drammatiche queste ultime, quando sui campi il granoturco e i fagioli ingialliscono anzi tempo per la siccità, e il cielo continua ad essere terso. Mi chiedo spesso come Dio non si commuova a tali suppliche. Forse ha problemi di udito anche Lui?

Oggi sono in Italia,
dove l’eucaristia non deve superare i 40 minuti. «La messa è finita» dice il prete. Mi sembra che qualcuno tiri un sospiro di sollievo. Dio è servito. Adesso si può vivere tranquilli per un’altra settimana.
E i giovani dove sono? Se non vanno più in chiesa, è tutta e sempre colpa loro? Come possono accettare liturgie così «pallose», senza il senso della festa? Allora la discoteca diventa la loro chiesa. Forse sono proprio i nostri giovani ad apprezzare le liturgie africane, così «gasate»! Dimenticando l’orologio.
Quanto a me, spero di non abituarmi ai 38 minuti e mezzo di messa. Cercherò di spiegarlo anche al parroco, mio amico. Se mi riesce. E lui capirà?

Adamo Nostalgia




Quando le genti non balbettano più

Qual è per la chiesa l’eredità più ricca del secolo appena trascorso?
Senz’altro il Concilio ecumenico Vaticano II.
Il Concilio è una grazia anche per il 2000.
«Missioni Consolata»
ne ricorda il decreto sull’attività missionaria,
aggiornato da altri significativi documenti.
E sorge spontanea
la domanda:
dopo 35 anni
di «Ad gentes»,
i missionari
sono in crescita?

R icordo ancora il libro di Piero Gheddo Concilio e terzo mondo del 1964. Dal titolo se ne intuiva già il contenuto; ma più espliciti erano la copertina e il suo retro, che riportavano foto di vescovi e cardinali provenienti soprattutto dal sud del mondo. Così pure la «seconda» e la «terza» di copertina. Complessivamente si contavano 30 prelati con tricorno, zucchetto, colbacco, fez o altri copricapo.
Il libro attirò la mia attenzione anche perché, tra le foto, spiccava quella di Carlo Cavallera, missionario della Consolata, vescovo sui verdi altopiani di Nyeri e, poi, nel deserto di Marsabit (Kenya). Con lui trascorsi alcuni mesi a Roma durante il Concilio ecumenico Vaticano II.
«Nell’aula conciliare – confidò un giorno monsignor Cavallera – c’è battaglia tra noi missionari e gli altri vescovi: vogliono liquidare in fretta il problema delle missioni, facendone un’appendice di qualche altro tema. Ma noi insistiamo per un documento a parte, perché il futuro della chiesa si gioca soprattutto nel terzo mondo. Eppoi: la chiesa è o non è missionaria?».
Vinsero la battaglia i padri conciliari missionari, ma sul filo di lana. Ecco perché il decreto su «l’attività missionaria della chiesa» fu approvato «in zona Cesarini», cioè il 7 dicembre 1965, ad un solo giorno dalla chiusura del Concilio.
Barbari, pagani e Genti
Il documento sulle missioni è noto come «Ad gentes», le due parole latine di inizio: un’espressione che si è imposta specialmente fra i missionari. «Ad gentes» significa «alle genti».
E chi sono le «genti»? Il termine ricorre nelle lettere di san Paolo, che si definisce «apostolo delle genti», mentre san Pietro è «apostolo dei giudei» (cfr. Gal 2, 8). Nella concezione di Israele, «popolo eletto», l’umanità è divisa in «ebrei» e «genti».
Esisteva anche un’altra distinzione: «greci» e «barbari». Questa era etnocentrica: esprimeva un giudizio tutt’altro che positivo sui «barbari». Infatti barbaròs, secondo l’etimologia greca, era colui che (parlando una lingua straniera) balbettava; significava pure rozzo, incivile e crudele.
«Genti», invece, era un termine neutro e, forse, più rispettoso sotto il profilo culturale; ma non nella valutazione dell’ebraismo, perché «le genti» praticavano l’idolatria, sinonimo di peccato… Fu un merito di san Paolo, il più grande missionario di tutti i tempi, l’essersi dedicato all’evangelizzazione dei «non ebrei» e avere imposto alla chiesa nascente l’apertura a tutti i popoli.
Accanto a «genti» e «barbari», ricorreva anche «pagani». Era una parola innocua: definiva semplicemente gli abitanti dei villaggi di campagna. Ma, a partire dal quarto secolo, «pagani» assunse un significato negativo, in contrapposizione a «cristiani». Il messale romano, edito dal papa Pio V e riformato da Pio X, conteneva una Missa contra paganos, in cui si invocava Dio «affinché i popoli pagani, che confidano nella loro ferocia, siano schiacciati».
Oggi, caduto l’uso di «pagani», resta quello di «gentes», che designa coloro a cui non è stato annunciato il vangelo. È da sottolineare l’«ad» gentes. La preposizione ad significa «verso»: suggerisce attenzione, disponibilità e comprensione verso i popoli da evangelizzare.
Dunque: non «contra», ma «ad» gentes.
«Sembra strano (però ce lo dobbiamo pur dire) – commentava a Torino il cardinale Anastasio Ballestrero – che qualche volta facciamo i missionari con spirito di conquista, di dominio, per contare le nostre vittorie e i nostri trionfi».
Al contrario, la chiesa non deve mirare ad ambizioni politiche, sociali o religiose; non è mandata per giudicare, ma per salvare e servire.
Non basta un tocco
di vernice
Già prima del Concilio ecumenico Vaticano II, alcuni missionari illuminati avevano parlato di «adattamento» alle culture dei popoli. Poi il decreto Ad gentes ha richiesto che, nei paesi di missione, la vita cristiana fosse «commisurata al genio e all’indole di ogni civiltà» (n. 22). Si è auspicato un cristianesimo più rispettoso delle culture: quindi adattato nello stile delle chiese e nelle celebrazioni liturgiche, con la valorizzazione di canti, ritmi e danze locali. Ma era un modo di evangelizzare ancora superficiale.
Pertanto dall’«adattamento» si è passati all’«inculturazione», cioè all’incarnazione del messaggio evangelico in una cultura non cristiana e non europea. È un problema complesso. Ci si dibatte tutt’oggi.
Il nocciolo della questione è il seguente: l’accoglienza del vangelo deve sfociare nella nascita di nuove espressioni cristiane. Ebbene: sono state composte orazioni eucaristiche particolari e manuali di preghiere che accolgono elementi tradizionali. Ma non basta. Si richiedono elaborazioni teologiche «dal» sud del mondo.
Incombe però un rischio: quello del miscuglio, della confusione, del sincretismo. Ciò crea sconcerto e (fatto assai più negativo) divisione. Ecco perché nell’esortazione apostolica del 1975, Evangelii nuntiandi, Paolo VI insistette sull’evangelizzazione delle culture: «Occorre evangelizzare, non in modo decorativo, a somiglianza di vernice superficiale, la cultura e le culture dell’uomo, partendo dalla persona e tornando sempre ai rapporti delle persone tra loro e con Dio» (n. 20).
Tuttavia i pericoli, insiti talora nelle novità, non devono comportare il riflusso verso posizioni teologiche stantie. Si camminerebbe fuori della storia. Il servizio dell’evangelizzazione deve continuare con coraggio, «anche quando bisogna seminare nelle lacrime». Parole di Paolo VI.
un «Ad gentes» in crescendo
Il decreto sull’attività missionaria della chiesa Ad gentes è da completarsi con altri documenti conciliari: specialmente la costituzione dogmatica sulla chiesa Lumen gentium, il decreto sull’ecumenismo Unitatis redintegratio, la dichiarazione sulle relazioni della chiesa con le religioni non cristiane Nostra aetate, la dichiarazione sulla libertà religiosa Dignitatis umanae, la costituzione pastorale sulla chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes.
Sono testi che sollevano problemi cruciali per il missionario: si pensi alla Nostra aetate nel contesto del Sudan, dove i cristiani sono perseguitati dal regime islamico. Anche il rapporto con il fondamentalismo induista è spigoloso. Giovanni Paolo II l’ha sperimentato nel suo recente viaggio in India.
Traumatico per alcuni missionari (che fino a ieri predicavano che «fuori della chiesa non c’è salvezza») può essere il tema della libertà religiosa. Al che il cardinale Ballestrero rilevava: «Purtroppo i pavidi che rifiutano quel testo ci sono ancora, eppure esso è intriso dell’audacia dello Spirito e va letto in questa prospettiva e con questa sensibilità. La chiesa, proprio perché missionaria, non è mai sulla difensiva e non deve esserlo. Non siamo mandati a difendere una cittadella, ma a servire il mondo con il messaggio della parola che salva».
Il messaggio del Concilio sull’Ad gentes va aggiornato pure con i successivi documenti che ne sviluppano i problemi. Ho già ricordato l’Evangelii nuntiandi.
Nel 1967 appariva l’enciclica Populorum progressio. In essa Paolo VI sottolineava lo sviluppo integrale di tutto l’uomo come un aspetto fondamentale dell’evangelizzazione. Inoltre il documento sensibilizzava i cristiani sui problemi nel sud del mondo e stimolava la solidarietà verso i fratelli impoveriti da poteri nazionali e inteazionali.
L’ultima charta magna sull’evangelizzazione dei popoli è l’enciclica di Giovanni Paolo II Redemptoris missio (1990). Ha riaffermato l’urgenza della missione ad gentes, anche di fronte alla penuria di vocazioni sacerdotali in Europa. Però il problema della scarsità di sacerdoti non si supera chiudendo i cancelli delle diocesi, affinché nessun prete «scappi».
«La fede (in crisi) si rafforza donandola» (n. 2).
N el 1976, ritornato in Italia dalla missione in Tanzania, mi capitò tra mano una rivista missionaria, di cui non ricordo la testata. Mi colpì, come nel libro di Gheddo, la copertina: ritraeva un ragazzo che scriveva sulla lavagna: «Anch’io sono missionario».
Da questa affermazione, in perfetta sintonia con l’Ad gentes del Vaticano II, ci si sarebbe aspettati una crescita di vocazioni missionarie. Ma la dichiarazione del ragazzo è stata «una» rondine che… non fa primavera. In compenso, sono cresciuti i laici impegnati. Gli istituti missionari (che lamentano la mancanza di vocazioni) non dovrebbero forse fare i conti con i volontari, ripensando i propri comportamenti e regole? Però i laici, missionari part time, non sostituiscono gli evangelizzatori full time.
Allora «udii la voce del Signore che diceva: “Chi invierò? E chi andrà?…”. Io risposi: “Eccomi, manda me”» (Is 6, 8-9).

Francesco Beardi




Testimoni coraggiosi

Il 10 giugno il cardinale Angelo Sodano ha inaugurato la grande mostra multimediale missionaria.
Ai pellegrini che giungono a Roma per il Giubileo
è offerta una suggestiva panoramica sull’opera
di evangelizzazione della chiesa e uno stimolo
per continuare la missione di Cristo nel mondo d’oggi.

A llestita presso l’abbazia delle Tre Fontane, luogo del martirio di s. Paolo, l’Expo Missio 2000 racconta, in un percorso realizzato con mezzi multimediali, i fondamentali dinamismi della missione: ricerca di Dio, incontro con Cristo e missione in mezzo agli uomini. È quindi un coinvolgente itinerario di spiritualità, che sollecita il visitatore a compiere un suo personale cammino missionario e suscita in lui una domanda, oltre a fornire una risposta, sul significato della missione universale di Cristo e dei cristiani, come dono, appello e mistero. In un luogo di altissima spiritualità, qual è l’abbazia, ai visitatori è offerta una serie di suggestioni e contenuti lungo un itinerario in cui storia, geografia, antropologia, ispirazione artistica, riflessione teologica e soprattutto fatica missionaria di uomini e donne, consacrati per tutta la vita all’evangelizzazione dei popoli s’intrecciano, si spiegano e si completano a vicenda.
LA RICERCA
Expo accompagna i visitatori lungo tre passaggi fondamentali. Il primo, all’aperto, immette gradualmente nel fluire continuo della storia umana, con le sue bellezze e tragedie, slanci di carità, giustizia, solidarietà e ingiustizie. Un’umanità contrassegnata comunque da un impulso comune a tutti i popoli: la ricerca di Dio. Quest’ansia istintiva della trascendenza si manifesta nella grande varietà di religioni e fedi, riti e simboli, e nel mistero dei libri sacri su cui molte religioni si fondano.
L’idea centrale di questa prima parte dell’esposizione è che il primo missionario è Dio stesso: tutto parte da lui e dal suo amore per l’uomo, a cominciare dalla creazione, per continuare in un dialogo ininterrotto con ogni singola persona e con ogni popolo, cultura e religione, nonostante peccati, errori, tradimenti.
L’INCONTRO
Il secondo passaggio conduce a incontrare la risposta di Dio a questa ricerca, secondo la fede cristiana: Gesù di Nazaret. Il suo volto è il volto di Dio. All’interno della chiesa abbaziale, viene proposto un intenso momento di meditazione intitolato «dal volto ai volti»: una sacra evocazione dell’immagine di Cristo così com’è stata accolta, vissuta e rappresentata nelle culture del mondo. Essa consiste nella proiezione di gigantesche immagini integrate da testi, musiche, effetti di luce. Le icone sono tratte da opere d’arte cristiana di Africa, America, Asia, Europa e Oceania, ed evocano aspetti e momenti diversi della figura di Gesù: bambino, amico, maestro, giornioso, sofferente, glorioso.
Il fascino della rappresentazione è accentuato dal movimento lento e continuo delle immagini della vita di Gesù, che si dilatano sull’enorme schermo e percorrono i diversi piani della chiesa, disegnandovi un cangiante e fascinoso affresco virtuale.
All’uscita dalla basilica, i pellegrini sono invitati a entrare nella chiesa dedicata al martirio di s. Paolo per un momento di silenzio e preghiera. Questa sosta nel luogo del martirio dell’apostolo delle genti, il primo, grande testimone-missionario della fede cristiana, è un invito a riflettere su cosa comporta annunciare Cristo e il suo vangelo: il rischio sempre presente del martirio, del dover sacrificare la vita per testimoniare in prima persona l’amore ai fratelli.
LA MISSIONE
Il terzo passaggio dell’esposizione vuole essere un percorso nella storia e nelle realtà e forme attuali della missione. S’inizia con l’annuncio: in una specie di «giardino missionario» vengono presentate le tappe fondamentali di 20 secoli di evangelizzazione, insieme a una schiera di volti noti o sconosciuti di missionari, fino a quelli che operano oggi in tutto il mondo.
Entrando nel contesto attuale della missione, il visitatore è invitato a una partecipazione non solo ideale e di principio, ma gli viene offerta l’occasione di un gesto concreto di solidarietà con i poveri: egli può partecipare a comporre un gigantesco puzzle (4×20 metri), acquistando una o più tessere e contribuendo così a realizzare alcuni progetti di cooperazione internazionale in varie parti del globo.
Di fronte al grande puzzle sono allineate una serie di tende, alternate a grandi tele che, in più lingue, sintetizzano i grandi bisogni delle popolazioni con le quali i missionari condividono la loro vita: armonia, vangelo, pace, acqua, cibo, salute, scuola. Ci sono le tende degli istituti missionari, che cambieranno periodicamente. C’è la tenda della giustizia e pace, in cui il visitatore può firmare, su un rotolo di carta di tre quintali, e aderire alla campagna per la remissione del debito estero dei paesi più poveri.
Nella tenda della vocazione, attraverso l’interpretazione in chiave missionaria delle beatitudini evangeliche, i pellegrini possono scoprire il fascino della chiamata che Dio rivolge a uomini e donne di ogni continente, perché siano partecipi della missione di Cristo con tutta la loro persona e per tutta la vita.
Nella tenda del dialogo interreligioso, una mostra audiovisiva illustra l’impegnativo cammino che porta gli uomini di religioni diverse a incontrarsi nel rispetto reciproco e collaborazione, operando insieme per il bene. Un’atmosfera carica di luce e di pace invita a pregare in dialogo con altre esperienze religiose.
Al termine del percorso le tende dell’ascolto e dell’incontro: i pellegrini possono ascoltare dalla voce dei missionari le loro esperienze, per comprenderne meglio fatiche e speranze e rimanere contagiati dalla loro fede ed entusiasmo.

Beppe del Colle




Il ritorno del Nazareno

Nasce universale

È pentecoste. Spinto dallo Spirito, Pietro prende la parola davanti ai giudei provenienti dai quattro punti cardinali del mondo allora conosciuto, da Roma all’Arabia, dalle coste della Libia a quelle del Mar Nero. Tre mila persone accolgono il primo annuncio della morte e risurrezione di Gesù Cristo e sono battezzate. Poco tempo dopo se ne aggiungono altre cinque mila.
Nasce la missione. Nasce universale. Ma non senza tensioni. Tra i convertiti ci sono giudei della diaspora, chiamati «ellenisti»: questi fanno una lettura diversa della storia d’Israele. Relativizzano il ruolo del tempio e della legge di Mosè e scoprono nel vangelo una dimensione più universale che sorprende gli stessi discepoli di Cristo. Il giudaismo ufficiale reagisce con veemenza: Stefano viene lapidato. Gli ellenisti abbandonano Gerusalemme e portano il vangelo fuori delle mura della città santa.
Intanto gli apostoli sembrano dimenticare il comando del Signore: «Andate in tutto il mondo, fino agli estremi confini della terra; battezzate tutti i popoli e insegnate loro ciò che io stesso vi ho insegnato». Ed ecco altre persecuzioni che costringono discepoli e apostoli a uscire fuori dei confini geografici ed etnico-religiosi a cui sono abituati.
Pietro capisce per primo che l’evangelizzazione è destinata anche ai non giudei, quando lo Spirito Santo lo tira per i capelli nella casa del centurione romano Coelio a Cesarea: tutta la famiglia si apre alla fede in Cristo, viene battezzata e confermata dalla discesa dello Spirito.
Ma chi si distingue nella direttrice universalistica è Paolo, apostolo dei gentili. Uomo di grande statura culturale e spirituale, persecutore dei cristiani, afferrato da Cristo sulla via di Damasco, si butta anima e corpo nella predicazione del vangelo. Tra il 46 e il 58, intraprende tre viaggi missionari, percorre diverse regioni dell’Asia Minore, fino a raggiungere la Macedonia e l’Acaia. Si rivolge dapprima ai giudei, destinatari prioritari del vangelo. Ma di fronte al loro rifiuto, si dedica all’evangelizzazione dei pagani. Un quarto viaggio lo porta a Roma in catene; ma continua a presentare a tutti il Cristo, fino al giorno in cui subisce il martirio, l’anno 67.
Gli apostoli sono affiancati da collaboratori, per lo più laici, missionari itineranti, che si spostano di città in città per annunciare il vangelo (profeti) e per consolidare la fede con la catechesi (dottori). Apollo di Alessandria d’Egitto, Lidia di Tiatira, i coniugi Aquila e Priscilla, collaboratori di Paolo, sono solo alcuni nomi di una folta schiera di anonimi uomini e donne che collaborano alla diffusione del vangelo nel primo secolo della chiesa.
Ma l’apertura universale non è indolore. Una corrente conservatrice esige che i pagani, prima di entrare nella comunità cristiana, diventino giudei, sottoponendosi alle leggi e costumi tramandate da Mosè. Una pretesa impraticabile: i pagani aborriscono la circoncisione; i divieti alimentari impediscono ai cristiani di cultura e origine diverse di prendere insieme i pasti. Per di più, osservava Paolo, l’imposizione della legge mosaica annulla l’assoluta novità e gratuità dell’azione liberatrice operata da Cristo.
La situazione diviene insostenibile. Perfino Pietro una volta la dà vinta ai conservatori, rifiutando di mangiare con gli «incirconcisi». Paolo gli rinfaccia l’incoerenza senza peli sulla lingua. Per dirimere la questione, verso l’anno 50, si raduna a Gerusalemme un «concilio ecumenico», il primo nella storia della chiesa: apostoli, anziani (collaboratori) e delegati di Antiochia, guidati da Paolo, raggiungono un compromesso: le prescrizioni giudaiche non devono essere imposte ai cristiani provenienti dal paganesimo; in compenso questi devono astenersi da comportamenti che fanno rabbrividire i giudei, specie in fatto di matrimonio.
La fede cristiana si sgancia dal giudaismo; con la distruzione del tempio (70), il distacco è definitivo. Ormai anche le autorità romane sanno distinguere i cristiani dai giudei, come dimostra la persecuzione scatenata da Nerone, in cui periscono Pietro e Paolo.
La chiesa diventa veramente cattolica (universale) anche sotto l’aspetto geografico: alla fine del I secolo il vangelo è ormai annunciato in tutte le grandi città dell’Oriente mediterraneo, dall’Egitto all’Asia Minore, dalla Grecia a Roma e alle coste della Gallia.
Le comunità sono piccole; i cristiani sono una minoranza, ma si fanno ammirare e notare per lo stile di vita singolare: preghiera comune e, soprattutto, solidarietà nel soccorrere i fratelli più bisognosi sparsi per il mondo greco-romano.

Evangelizzazione per osmosi

M orti gli apostoli, i loro successori diventano sedentari, facendo un tutt’uno con i vescovi. Anche i missionari itineranti scompaiono gradualmente. Eppure la chiesa cresce e si dilata, grazie a un certo numero di cristiani, come mercanti, soldati, funzionari, schiavi e altre persone costrette a spostarsi a causa del mestiere: evangelizzati, diventano evangelizzatori. Si potrebbe dire che i cristiani, chi più chi meno, si sentano tutti in «stato di missione».
Se da una parte, nel II e III secolo, il vangelo viene comunicato quasi per osmosi, non mancano i missionari veri e propri, che portano il vangelo fino agli estremi confini dell’impero; alcuni, addirittura, passano al di là delle frontiere. Gregorio il Taumaturgo (213-270), per esempio, predica il vangelo nelle regioni estreme del Mar Nero; Gregorio l’Illuminatore evangelizza l’Armenia, fonda ben 12 sedi vescovili, spingendosi fino alla Mesopotamia, Persia ed India.
Alla fine del III secolo i cristiani costituiscono il 15% della popolazione dell’impero, anche se ripartiti in maniera assai disuguale: in molte regioni orientali costituiscono più della metà della popolazione (5-6 milioni); in Occidente il cristianesimo avanza più lentamente (2 milioni), ma raggiunge gli estremi confini dell’impero. Alcune sedi vescovili compaiono in Britannia; una trentina sono in Gallia; nel 256 papa Coelio riunisce in assemblea 60 vescovi italiani; Cipriano ne convoca 87 a Cartagine; il concilio di Elvira (300) parla di 33 sedi vescovili in Spagna e Portogallo. «Siamo nati ieri – scrive l’apologista cristiano Tertulliano – e abbiamo già riempito la terra e tutto ciò che era vostro: città, quartieri, fortificazioni, municipi, borgate, palazzi, senato e foro. Vi abbiamo lasciato solo i vostri templi».
Senza togliere nulla allo zelo dei primi cristiani, la straordinaria espansione del vangelo è favorita dall’organizzazione dell’impero romano, all’apice della sua potenza. La pax romana è una realtà tangibile; ordine e diritto regnano in tutte le regioni; una fitta rete di strade e collegamenti marittimi raggiunge tutto il mondo allora conosciuto.
I missionari possono circolare in tutta sicurezza e andare dove vogliono, godendo della protezione legale dell’ordinamento romano; col greco possono farsi capire dappertutto.
Sotto l’aspetto religioso la società greco-romana è pervasa da confusione e tendenze contraddittorie. Per l’élite gli antichi dèi sono ormai fuori uso; la filosofia non offre soluzioni adeguate ai problemi della vita; allora si rifugia nei culti misterici di divinità orientali, che promettono esperienze del divino, dignità umana, pace interiore e immortalità felice. Le disuguaglianze sociali provocano malcontenti e risentimenti tra le classi meno fortunate. Per tutti, schiavi e liberi, ricchi e poveri, plebei e aristocratici, nobildonne soprattutto, l’ideale cristiano diventa la vera risposta alle più profonde aspirazioni di salvezza radicale, redenzione spirituale e felicità eterna. E così il vangelo abbatte ogni barriera di lingua, razza e ceto sociale.
Il sangue dei martiri

I nizialmente tollerati come una delle tante sètte orientali che pullulano nelle regioni dell’impero, i cristiani si trovano presto nell’occhio del ciclone. Scatenata per scherzo da Nerone, la persecuzione continua per oltre due secoli e mezzo; da Roma si estende alle più lontane regioni dell’impero, con intermittenza e intensità variabili, che va dal sospetto prudente alla caccia al cristiano.
Perché tanto accanimento contro i cristiani, in un impero fondamentalmente tollerante verso tutte le religioni dei popoli vinti? Le cause sono molteplici: ignoranza, calunnie, interessi, fanatismi. Ma c’è un motivo più profondo: in un ambiente in cui anche la religione è a servizio dello stato, fino a prestare culto agli imperatori, come segno di civica lealtà, i cristiani, che inorridiscono di fronte ad ogni idolatria, sono sentiti come corpi estranei e accusati di alto tradimento.
In alcuni periodi la persecuzione è devastante. A migliaia i cristiani d’ogni età e ceto cadono sotto la spada dei persecutori o finiscono in pasto alle fiere, negli spettacoli di circhi e anfiteatri, per il sollazzo della plebe.
Eppure il martirio si dimostra un efficace strumento «missionario» e molti evangelizzatori si identificano di fatto con i martiri. «Il sangue dei martiri è seme di cristiani – afferma Tertulliano -. Alla vista di tanto coraggio il popolo s’interroga e vuole sapere di che si tratta. E quando un uomo ha conosciuto la verità, è dei nostri». Le persecuzioni rafforzano lo sviluppo del cristianesimo e ne consolidano la struttura comunitaria, tanto che la chiesa, in tutti i suoi membri, si identifica con la sua missione.
Altri pericoli, più micidiali delle persecuzioni, minacciano vita e sviluppo delle comunità cristiane: le eresie. Per arginare tali sbandamenti dottrinali vengono radunati vari concili, che condannano gli errori e affermano la vera dottrina del vangelo. Un valido aiuto viene anche dagli intellettuali che, una volta convertiti, mettono penna e cultura a servizio del vangelo.
Fiorisce una letteratura cristiana ricca e variegata, per dimostrare ai persecutori la bellezza del messaggio evangelico e la lealtà dei cristiani; per confutare gli errori degli eretici; per confrontare i valori del vangelo con quelli della cultura corrente.
Non solo vescovi, preti e diaconi, ma anche i laici di ogni strato sociale (soldati, commercianti, nobili, schiavi, filosofi e scrittori) danno un solido apporto all’evangelizzazione. Senza dimenticare le donne, che danno luminose testimonianze di fede, sia affrontando impavide il martirio, sia cornoperando intelligentemente all’evangelizzazione.

Il vangelo nelle campagne

C on l’editto di tolleranza religiosa, promulgato dall’imperatore Costantino nel 313, il cristianesimo acquista finalmente la libertà, fino a diventare vera e propria religione di stato (380). Per combattere lo sfascio morale della società, gli imperatori puntano tutto sulla chiesa.
Col connubio tra stato e chiesa, l’evangelizzazione s’impone sui diversi ceti sociali, soprattutto sulle masse popolari. Farsi cristiano diventa quasi uno status symbol: chi non è cristiano non è chic. Un atteggiamento non privo di ambiguità. Al tempo stesso prova la autorevolezza di cui la chiesa gode presso tutto il popolo, tanto che alcuni pastori non esitano a condannare i monarchi per le loro eventuali violenze e fanatismi.
Del momento di grazia la chiesa approfitta per portare avanti la sua missione nella società, riuscendo a far legalizzare certi valori cristiani: proibizione di uccidere gli schiavi; autorità patea non deve essere dispotismo; abolizione dei giochi cruenti del circo; assistenza alle vedove e agli orfani.
Un nuovo slancio missionario è diretto alle popolazioni delle campagne (pagus, da cui i termini «pagano» e «paganesimo»), fino ad ora trascurate dai missionari e rimaste attaccate a riti e superstizioni pagane. A mano a mano che il vangelo raggiunge le zone più isolate, l’attività missionaria si trasforma in azione pastorale, con istituzioni di parrocchie, affidate a preti distaccati dalle urbane sedi vescovili.
È chiaro che la cristianizzazione non fa cambiare necessariamente i costumi. Vescovi e preti hanno il loro daffare per purificare le motivazioni di tutti coloro che in massa si precipitano verso le chiese per adottare la religione dell’impero. Fortunatamente si registrano apostoli capaci di ascoltare e dialogare. Vescovi come Filostrato di Brescia, Vigilio di Trento, Martino di Tours, Germano di Auxerre, Vitricio di Rouen, Valentino di Chartres, il monaco Gionata di Almirisso (Tracia)… non si accontentano di lavare teste con l’acqua battesimale, ma si prodigano nella formazione di veri cristiani.

Alla fine del IV secolo il vangelo si è consolidato all’interno dell’impero, fino agli estremi confini. In Oriente li ha superati, spesso grazie a circostanze fortuite. I prodigi e la saggezza di alcuni schiavi cristiani destano tale impressione sui loro conquistatori, da indurli a chiedere all’imperatore di Bisanzio o ai vescovi più vicini l’invio di missionari tra la propria gente. In seguito a un miracolo, santa Nino converte la Georgia. Frumenzio, giovane intellettuale prigioniero in Etiopia, fonda la chiesa in questa regione. Wulfila, portato prigioniero a nord del Danubio, elabora un alfabeto per la traduzione della bibbia e, per 40 anni (341-383), trasmette il cristianesimo nella versione ariana a goti e visigoti. Attraverso di essi il cristianesimo ariano si diffonde tra numerosi popoli germani.
Lo slancio missionario è forte anche tra molte chiese orientali, rimaste fuori della comunione ecclesiale più per motivi politici che religiosi. I nestoriani dell’impero persiano, per esempio, si dimostrano prodigiosi missionari in tutta l’Asia, fino all’India e alla Cina.




Fra intrighi e quisquiglie

Nel secolo V l’impero romano si divide:
quello d’Oriente sopravvive per altri
dieci secoli, ma quello d’Occidente
tramonta, sotto l’incalzare dei «barbari».
Successivamente in Europa nasce
la «cristianità»: una forma di società
in cui la vita religiosa e politica
si amalgamano in un’unica fede
religiosa. Ma, dopo mille anni di evangelizzazione, mentre l’islam cancella
le comunità cristiane in Africa e Medio Oriente e minaccia l’Europa, la chiesa
latina e la chiesa orientale si scomunicano
a vicenda. Un pessimo affare per tutti.

Nuova era missionaria

Il V secolo segna una svolta epocale nella storia europea. L’impero romano è definitivamente spaccato in due. L’impero d’Oriente, con capitale Bisanzio, sopravvive per altri dieci secoli; ma quello d’Occidente muore nel 476, schiacciato dalle invasioni di popoli che i romani chiamano «germani» e i greci «barbari». Roma è più volte messa a ferro e fuoco. Papa Leone Magno cerca di salvare il salvabile. Ogni gruppo etnico si ritaglia il proprio regno; l’unità dell’impero è frantumata.
«È la fine del mondo» balbettano i cristiani, vedendo la città eterna calpestata da Alarico. «Tutta colpa dei cristiani, che hanno distrutto i nostri dei» rispondono gli ultimi pagani incalliti. San Gerolamo piange sulle rovine romane. Agostino, vescovo di Ippona, cerca di dare un senso a tale apocalisse: passano i regni, Roma compresa, spiega nel suo capolavoro La città di Dio; «in mezzo a queste impalcature provvisorie l’Architetto (Dio) sta costruendo la città futura, che non cadrà mai».
«Non dovremmo accogliere i germani nelle nostre chiese?» si domanda lo storico Orosio, amico di Girolamo e Agostino. Passato lo stordimento, papi e vescovi si adoperano per integrare gli invasori nella vecchia società e nella chiesa. I barbari, da parte loro, eccetto i vandali, apprezzano la civiltà romana, ne accolgono la struttura politica e l’unità spirituale e culturale operata dalla chiesa e dalla romanità.
L’attività missionaria riprende con nuovo slancio, e si prolunga per oltre otto secoli, su diversi fronti: diffusione del vangelo nelle zone rurali; evangelizzazione dei nuovi arrivati; riconquista degli eretici alla fede cattolica. Varie popolazioni, infatti, professano il cristianesimo nella versione ariana, come i visigoti, ostrogoti, vandali, svevi, burgundi, turingi e parte dei longobardi. Franchi, angli e sassoni sono rimasti pagani.
A prima vista la fede ha poca speranza di penetrazione: il cristianesimo richiede un’adesione personale, mentre questi popoli hanno reazioni sempre collettive, seguendo in blocco ordini ed esempi dei propri capi. Ma basta convertire il re, e i sudditi lo seguono al fonte battesimale come sul campo di battaglia. Un metodo di evangelizzazione che per molti secoli sarà privilegiato.
Sotto la pressione di spose cattoliche, vescovi e popolazioni, tutti i principi ariani passano a poco a poco alla chiesa romana. Il re dei visigoti di Spagna, per esempio, fa giustiziare il figlio Ermenegildo, perché si è fatto cattolico (585); ma l’altro figlio, Reccaredo, salito sul trono, si converte al cattolicesimo con tutta la popolazione (587).

Conversione dei franchi

Esemplare è la conversione della Francia, «figlia primogenita della chiesa cattolica». Il re dei franchi, Clodoveo (465-511), si mostra aperto alla fede cristiana, grazie all’influenza della sposa cattolica Clotilde e del vescovo Remigio. L’argomento che determina la sua conversione è per lo meno singolare, ma di un certo peso per quei tempi: il re invoca il Dio dei cristiani e giura di convertirsi a lui se si mostrerà più forte degli dei del popolo nemico. Clodoveo vince e, nel natale del 496, a Reims, si fa battezzare da Remigio, insieme a 3 mila soldati.
I vescovi vedono in Clodoveo un nuovo Costantino e legano le sorti della chiesa a quelle del regno franco, a spese di altri capi barbari: burgundi, bavari e turingi. Avito, vescovo di Vienne, legge tale battesimo con tono profetico: un re franco sarà il successore dei romani imperatori e la cristianizzazione dell’Europa sarà opera dei franchi.
Lo stesso Avito attrae i burgundi dall’arianesimo alla fede cattolica, conquistandosi la fiducia del principe Sigismondo, che si converte nel 500, seguito dai suoi sudditi. Nel 532 i burgundi si uniscono al regno franco, formando un solo popolo.
La profezia di Avito aspetta per tre secoli: nel natale dell’800 Carlo Magno viene dal papa solennemente incoronato «imperatore dei romani». Con zelo infaticabile, Carlo Magno e i suoi successori riportano gran parte dell’impero d’Occidente sotto il controllo del «Sacro romano impero», cristianizzando i popoli che via via vengono sottomessi. Spesso i popoli vinti non hanno alternativa: la fede o la morte. Il metodo non ha nulla di evangelico. Ma questi sono i tempi che corrono.
La stretta collaborazione tra i re franchi dilata la chiesa geograficamente, a scapito del radicamento del vangelo nella vita dei nuovi battezzati, monarchi compresi. L’acqua del battesimo non cancella la slealtà di Clodoveo, che fa uccidere i suoi parenti: lo zelo di Carlo Magno, monarca geniale e analfabeta, fa arricciare il naso perfino al papa e provoca le rimostranze del consigliere Alcuino, che gli ricorda un precetto di s. Agostino: «La fede è atto della volontà e non di costrizione».
A lavorare in profondità saranno i monaci.

Pellegrini per Cristo

M entre i monaci orientali si ritirano nel deserto, lontano dalla società, quelli occidentali vanno a vivere in mezzo alla gente, svolgendo un’azione missionaria completa: evangelizzazione in senso stretto e promozione umana. Vivendo come i contadini, essi ne conoscono la psicologia, adattano il cristianesimo al loro genere di vita e cristianizzano molti aspetti religiosi e culturali dei pagani.
Vari ordini monastici, con diverse regole, sorgono in Francia, Irlanda e Inghilterra. Tra i più benemeriti va annoverato quello fondato a Montecassino, nel 520, da Benedetto da Norcia. Ramificandosi in tutta l’Europa e fedeli al motto ora et labora, i benedettini semineranno vangelo, progresso e civiltà.
A mano a mano che i monasteri vengono fondati, la fede e la vita cristiana vengono consolidate nella regione circostante e i monaci partono per nuove imprese missionarie tra i non cristiani, mediante frequenti spostamenti in varie parti d’Europa. Sono i «pellegrini per Cristo», un movimento apostolico che diventa storicamente efficace grazie soprattutto agli irlandesi.
La loro evangelizzazione non è programmata, né guidata dall’alto. Tuttavia i campi di azione appaiono distinti chiaramente, a seconda della provenienza dei missionari. I monaci franchi e irlandesi si espandono prevalentemente nel centro-nord del regno franco, fino alle regioni della Baviera. Gli anglosassoni si dedicano all’evangelizzazione dei frisoni e degli stessi sassoni.

Irlanda evangelizzata ed evangelizzatrice

N on sfiorata dalla colonizzazione romana né dalle invasioni barbariche, l’Irlanda diventa totalmente cristiana per opera del monaco bretone Patrizio. Per 30 anni, con zelo infaticabile, egli fonda monasteri, punti di riferimento della vita religiosa e culturale del paese. Nella sua attività apostolica ha una geniale intuizione: associare i bardi (poeti e maestri di scuola) all’annuncio del vangelo.
Ne nasce una chiesa dai tratti originali, ma fieramente cattolica. L’abate è spesso anche il vescovo; alcuni elementi della liturgia, come la confessione privata, passeranno alla chiesa universale; la vita cristiana è solida e rigorosa. L’Irlanda sarà chiamata «l’isola di santi».
Una delle pratiche ascetiche dei monaci irlandesi è la «peregrinazione per Cristo». Essi si spargono presto nella Bretagna e poi in tutto il continente: da evangelizzati diventano evangelizzatori. Tra questi itineranti, il più famoso è Colombano: predica il vangelo e fonda monasteri in Francia, Svizzera e Italia.

Missione in Inghilterra

U n altro monaco, discepolo di s. Benedetto, diventato papa Gregorio Magno, si lancia nell’organizzazione missionaria: s’interessa della chiesa in Lombardia, Spagna e regno franco; ma prende a cuore, soprattutto, l’evangelizzazione della Gran Bretagna.
In buona parte già romanizzata e cristianizzata, l’isola è ripiombata nella barbarie: l’invasione di angli, juti e sassoni ha cancellato ogni traccia di cristianesimo. Nel 596 papa Gregorio vi invia 40 monaci, guidati dall’abate Agostino. L’anno seguente, a pentecoste, i missionari battezzano Etelberto, re di Kent, insieme alla sua corte; a natale 10 mila sudditi. A Canterbury Agostino costruisce la sede episcopale.
Per accelerare l’azione missionaria e l’organizzazione della chiesa, il papa manda altri missionari e alcune direttive, in cui si trovano i primi elementi della dottrina missionaria pontificia: evangelizzare non significa capovolgere le tradizioni nazionali; le usanze vanno cambiate in feste cristiane; distruggere gli idoli, ma non i templi, da usare eventualmente per il culto cristiano; imparare le lingue delle popolazioni locali.
Il nuovo metodo, ben lontano da quello distruttivo dei re franchi e dei monaci irlandesi, porta ottimi frutti. Alla morte di Agostino (605) gran parte dell’isola è cristiana. Roma invia un altro gruppo di missionari (657) e la riunificazione religiosa e politica del paese è completata.
L’Inghilterra è la prima nazione passata alla chiesa per iniziativa papale. Per molti secoli, monaci, principi e vescovi continueranno a evangelizzare l’Europa senza mandato né programmi specifici, per iniziativa privata e in modo un po’ anarchico, anche se poi, a cose fatte, tutti si premurano d’avere l’approvazione pontificia.

Dalla Germania i popoli scandinavi

A nche l’Inghilterra da evangelizzata diventa evangelizzatrice e continua la cristianizzazione avviata dai franchi in Germania. Comincia Vilfrido, abate di Ripon e vescovo di York: in viaggio per Roma, converte alcuni capi della Frisia (Paesi Bassi). Tornato in patria, manda il monaco Villibrordo, che converte la regione di Utrecht. Quindi passa in Danimarca, Turingia e Lussemburgo.
Nel 716, a 40 anni suonati, arriva nella Frisia anche il monaco Winfrido. Il primo tentativo missionario è deludente. Il monaco chiede aiuto a Roma, dove viene consacrato vescovo (622) e, col nome di Bonifacio, rimandato dal papa tra i frisoni.
Per tre anni Bonifacio affianca l’attività di Villibrordo; poi passa in Turingia, Assia e Baviera, fondando monasteri maschili e femminili. Organizza la chiesa tedesca, introducendo le parrocchie, riformando la vita spirituale del clero e fondando nuove diocesi, affidandole a vescovi anglo-sassoni.
Nel 732 Bonifacio è nominato vescovo di tutta la Germania, con sede a Magonza. Per mandato pontificio riorganizza la chiesa in Francia, ottenendo dai vescovi la professione collettiva di fede cattolica e la sottomissione a Roma per tutta la vita.
Bonifacio si distingue anche per il metodo missionario, ben lontano da quello dei suoi colleghi irlandesi. «Bisogna illuminare le intelligenze – dice -, procedere con argomenti opportuni e far sì che i pagani espongano le loro credenze». E dialoga anche con gli amici lasciati nella chiesa di origine: questi accompagnano la sua attività missionaria con preghiere, consigli e aiuti materiali (denaro, oggetti sacri, manoscritti della bibbia).
Quasi ottantenne Bonifacio ritorna al primo amore: l’annuncio diretto del vangelo ai pagani. Ritorna nella Frisia dove muore martire insieme a 42 compagni (754).
Al di là delle frontiere del Sacro romano impero, tra il Baltico, i Balcani e gli Urali, scorrazzano paurosamente grandi masse popolari. Per la chiesa si presenta un’altra occasione di evangelizzazione. I monaci anglosassoni accorrono tra le popolazioni baltiche e scandinave. Dalla Sassonia il monaco-maestro Ansgario (Oscar 801-865) raggiunge la Danimarca e poi la Svezia, ove nessun missionario è mai arrivato. Nominato da Gregorio IV vescovo di Amburgo (831) e legato pontificio per gli slavi e i popoli dei paesi nordici, lavora indefessamente per convertirli a Cristo. Ottiene buoni risultati. Ma tutto viene distrutto dalle invasioni dei normanni (845). Ridotto a vita raminga, Oscar riprende la sua missione: fonda la chiesa in Svezia e raggiunge la Scandinavia.
Dopo alcuni decenni, la missione di Oscar è ripresa dal monaco Unni (936). Il nuovo arcivescovo di Amburgo converte Harald, re della Danimarca (950). Alcuni anni dopo Olaf, re di Norvegia, abbraccia la fede cristiana (1026), lotta contro i ribelli pagani e muore in battaglia, diventando sant’Olaf (1030). L’Islanda si fa cristiana verso il 1000, seguita dalla Svezia e Groenlandia.
L’evangelizzazione dei paesi scandinavi è complessa e confusa. La creazione di diocesi è lentissima; ancor più lento l’abbandono delle abitudini pagane, come esposizione di neonati, divorzio, concubinaggio e pirateria.

Evangelizzazione dei popoli slavi

Sia la chiesa di Roma che quella di Bisanzio sono coinvolte nell’evangelizzazione dei popoli slavi. Questi vengono divisi in tre grandi gruppi: slavi meridionali (croati, sloveni, serbi, bulgari), slavi occidentali (moravi, boemi, cechi, poloni), slavi orientali (russi, ungari).
Croati e sloveni, confinanti con l’impero franco, sono i primi a entrare nella chiesa latina, nel secolo VIII, grazie ai missionari inviati dalle diocesi della Sassonia e di Aquileia. Presso i serbi arriva la chiesa di Bisanzio. I bulgari accolgono i missionari dalla chiesa di Roma.
Anche gli slavi occidentali sono tra i primi a ricevere il cristianesimo: a metà del IX secolo, 14 dei loro principi sono già battezzati. Ma nell’862, Ratislao, principe di Moravia, caccia i preti latini e chiede a Bisanzio missionari che parlino la lingua slava. Imperatore e patriarca mandano due fratelli di Tessalonica, Cirillo e Metodio.
Questi arrivano nell’863 e mettono a punto l’alfabeto glagolitico (ispirato alle minuscole del greco) e traducono in slavo i libri biblici e liturgici. L’uso della lingua slava nella liturgia, permessa dalla chiesa bizantina, favorisce l’attività missionaria dei due fratelli e l’espansione della chiesa orientale. In Occidente, invece, i preti franchi s’incaponiscono nel sostenere che non ci si possa rivolgere a Dio con una lingua barbara, ma solo con le lingue usate sulla croce di Gesù: ebraico, greco e latino.
Dalla Moravia, i due fratelli sono accolti con entusiasmo dagli slavi di Pannonia (parte dell’attuale Ungheria). Ma il clero sassone rende loro la vita dura. Dopo una serie di contatti con Roma, Metodio ottiene da Giovanni VIII l’approvazione ufficiale della liturgia slava (880). Cinque anni dopo, alla morte del grande missionario, il clero latino torna alla carica e Stefano V si rimangia la concessione. I discepoli di Metodio si rifugiano in Bulgaria.

Intanto missionari boemi portano la fede tra i polacchi e magiari (o ungheri). In occasione del matrimonio con la principessa boema Dubrawka, il principe Mieszko viene battezzato da Adalberto, vescovo di Praga: nasce la chiesa e lo stato polacco (966). Benedettini e camaldolesi consolideranno la chiesa in Polonia.
Venti anni dopo lo stesso Adalberto battezza il duca di Ungheria Geisa e suo figlio Stefano (985). Gli ungari si convertono in massa. Ma lo sviluppo della vita ecclesiale avviene sotto il regno di Stefano, che riceve la corona regale da papa Silvestro II (1001) e il titolo di «re apostolico». Alla sua morte il popolo torna alla vita pagana, fino a odiare il cristianesimo; ma la comunità cristiana riprende vita sotto Bela I (1061-1063).
Nel secolo IX i missionari bizantini portano il vangelo anche agli slavi orientali: i russi. La presenza cristiana si fa più consistente un secolo dopo, quando la principessa Olga, vedova di Igor, principe di Kiev, si fa battezzare a Costantinopoli (975). Ma sono i contatti con la Bulgaria che imprimono una svolta all’evangelizzazione dei russi. Affascinato dalla liturgia bizantina, il principe Vladimiro, nipote di Olga, e i suoi sudditi si fanno battezzare in massa nel fiume Dnieper. Nasce la chiesa della Russia, che adotta la liturgia in lingua slava. Da Kiev il cristianesimo si estenderà fino agli Urali.

La chiesa lacerata

Dopo mille anni di evangelizzazione, il cristianesimo si estende dall’Atlantico agli Urali e diventa l’unica religione dell’Europa. Nonostante tutti gli sconvolgimenti, la chiesa riesce a salvare l’eredità di Roma: universalità e civiltà dell’impero romano vengono integrate efficacemente nella cultura dei popoli germanici. Stato e chiesa procedono mano nella mano. È nata la «cristianità»: forma di società in cui la vita religiosa e politica di una moltitudine di popoli è amalgamata dalla fede cristiana.
Nel frattempo, però, la chiesa universale ha perso enormi pezzi sotto l’avanzata dell’islam. In tutta l’Africa mediterranea, dal Marocco all’Egitto, la chiesa è cancellata. In Asia la mezzaluna sventola sulla penisola arabica, Palestina, Siria, Mesopotamia, Persia, Armenia, Turkestan e India anteriore. Poche comunità cristiane riescono a mantenere la loro fede, disperse ed isolate nell’impero islamico.
I musulmani hanno cercato di espandersi anche in Europa, attaccando Costantinopoli e invadendo la Spagna, rimasta cattolica solo nelle Asturie.
Ancor più doloroso è il dramma che si consuma all’interno della chiesa: sette secoli di quisquiglie teologiche (in cui i bizantini sono maestri) e di intrighi politici… avvelenano i rapporti tra Oriente e Occidente, in un’altalena di dissapori e abbracci, dissidi e riconciliazioni, scontri e concili ecumenici. Finché nel 1054, in un ennesimo e svogliato tentativo di comporre vertenze antiche e nuove, il patriarca di Bisanzio, Michele Cerulario, e il legato del papa Leone IX si scambiano reciproche scomuniche.
È lo scisma d’Oriente. Nasce la chiesa ortodossa, cioè la chiesa che si contrappone a quella latina, ritenuta eretica. L’oriente cristiano si stacca da Roma, trascinando nello scisma tutte le chiese dell’Asia Minore, delle regioni del Caucaso, la Grecia, la Russia e vari paesi balcanici.




Fino al favoloso Catai

Lotta tra chiesa e potere politico;
minacce dell’islam e dei mongoli;
convulsioni ecclesiali intee…
Nonostante tutto si fa strada un modello
di chiesa più evangelica e più missionaria.
Nasce un nuovo stile di evangelizzazione
che si spinge fino agli estremi confini del mondo
allora conosciuto: il continente cinese
o Catai, come si diceva a quei tempi.

Voglia di riforma

L’abuso imperiale di conferire cariche ecclesiastiche produce effetti deleteri nella cristianità. La chiesa è asservita al potere politico; corruzione e mercanteggio di ordini sacri ne avvelenano la vita; vescovi e abati, con immense proprietà fondiarie, si comportano più da signori feudali che da guide spirituali. Dall’alto e dal basso soffiano venti di riforma.
Gregorio VII, diventato papa nel 1073, emana leggi severissime per stroncare simonia e clerogamia e per strappare all’imperatore il diritto di nominare gli ecclesiastici alla guida delle comunità cristiane. È uno scontro duro, conosciuto come «lotta per le investiture».
Dal basso la voglia di una chiesa più santa si fa strada anche tra la gente di ogni strato sociale. Nascono vari movimenti popolari: alcuni vogliono riformare la chiesa dal di fuori, con ribellione e fanatismo; altri cercano di cambiare la comunità cristiana dal di dentro, con la predicazione del vangelo e la testimonianza di vita evangelica. Grandi santi riformano diocesi e monasteri, rinnovando la vita del clero secolare e dei gloriosi ordini religiosi.
I movimenti popolari danno origine a una grande fioritura di nuove famiglie religiose, con spiccato carattere missionario, come gli ordini mendicanti dei frati minori, fondati da Francesco d’Assisi nel 1210, e dei predicatori o domenicani, nati nel 1215 per opera di Domenico di Guzman.
In una chiesa ancora tanto credula di non poter svolgere la sua missione senza l’appoggio della potenza, ricchezza e prestigio, i due ordini predicano e praticano valori rivoluzionari: povertà, umiltà, frateità. Entrambi hanno uno sviluppo strepitoso: dopo un secolo di vita i francescani contano 1.400 case e 30 mila frati; i domenicani 600 case e 10 mila religiosi. Ma ancor più impressionante è il ruolo che essi svolgono nell’evangelizzazione, sia per l’organizzazione metodica della missione che per la formazione regolare e continua del personale missionario.

Voglia di crociate… pacifiche

Quando nel 1076 i turchi occupano e devastano Gerusalemme, si crede che la fine del mondo sia vicina. Papa Urbano II lancia un appello a tutta la cristianità per la liberazione dei luoghi santi, la difesa della chiesa orientale dall’espansione musulmana e, magari, convertire a Cristo i saraceni. Un nuovo movimento di entusiasmo «missionario» esplode in Francia e contagia tutti i paesi europei.
Dal 1095 al 1270 otto grosse spedizioni militari o «crociate» si riversano in Oriente, facendo un buco nell’acqua: i luoghi sacri rimangono in mano islamica; le relazioni con la chiesa orientale sono avvelenate più che mai; di conversioni dei saraceni neppure l’ombra. Solo la Spagna è in gran parte liberata dal dominio islamico.
Stanchi di scannarsi a vicenda, dopo oltre sei secoli di «guerre sante», musulmani e cristiani scendono a compromessi. Nuove strade e relazioni tra Oriente e Occidente sono aperte a navigatori, armatori, commercianti e missionari.
Di fronte al fallimento delle armi, tra gli ordini mendicanti si fa strada l’idea di organizzare crociate «pacifiche». Il dovere di convertire i non cristiani è così forte che i missionari non arretrano neppure di fronte alla prospettiva del martirio.
Quando i superiori chiedono volontari da inviare tra i saraceni, i frati si offrono piangendo dalla commozione, come testimonia il famoso «capitolo delle lacrime» dei domenicani (1255).
Anche negli ordini di vita claustrale il dovere missionario è sentito con impellenza: nel 1245 i cistercensi cominciano a recitare ogni giorno sette salmi «secondo le intenzioni dei francescani e domenicani, mandati dal signor papa nei paesi più lontani a propagare la fede».
Francesco per primo dà l’esempio del nuovo stile missionario: armato solo di fede e crocifisso, va a convertire i musulmani marocchini (1214). Una malattia lo rimanda a casa; ma riparte per l’Egitto e riesce a incontrare il sultano El Kamil, proprio mentre i crociati assediano Damietta (1219). Il sultano non si converte, ma prova tanta tenerezza e simpatia che permette al missionario di visitare tutti i luoghi santi prima di tornare in Italia.
Altri francescani sono inviati in Tunisia, Marocco, Palestina, Turchia, Mesopotamia a convertire scismatici e musulmani. Altrettanto fanno i domenicani in Grecia, Cipro, Persia, Ungheria, Ucraina, Russia e paesi baltici. Ma le conversioni dei saraceni sono rare; i missionari possono circolare liberamente nel paese, al pari dei mercanti, ma non predicare in pubblico; chi si azzarda può finire male. Non pochi missionari d’ambo gli ordini finiscono martiri in Marocco e Tunisia.
Qualche successo è ottenuto, invece, nel riavvicinamento con varie chiese orientali, alcune delle quali rientrano nella comunione con Roma, come i maroniti del Libano e vari gruppi di armeni, giacobiti e nestoriani.

Nasce la scienza missionaria

«B isogna scrivere libri che foiscano ai missionari argomenti per convertire le nazioni barbare, pagani, saraceni, giudei, eretici, scismatici e quanti altri sono fuori della chiesa» esorta Umberto da Romans, generale dei domenicani. Rispondono Tommaso d’Aquino (1225-1274) con la Summa contro i gentili, Argomenti della fede contro saraceni, greci e armeni e varie opere; Raimondo Martini, con Combattimento della fede contro mori e giudei; Guglielmo da Tripoli, missionario in terra santa, con lo Stato dei saraceni; Ricoldo da Montecroce con un vademecum zeppo di consigli per i missionari. Un altro generale dei domenicani, Raimondo di Peñafort, fonda due collegi per lo studio delle lingue orientali e la formazione dei missionari.
Tra i francescani, Ruggero Bacone (1210-1294) scrive l’Aspetto geografico della terra santa e Raimondo Lullo (1234-1315) il Trattato sulla maniera di convertire gli infedeli e altri numerosi trattati missionari.
Quest’ultimo, soprattutto, è considerato un fondatore della missiologia. Insiste sulla formazione enciclopedica dei missionari: lingue, soprattutto, e poi usi e costumi, ambiente e cultura, filosofia e religione dei popoli da evangelizzare. Egli esorta i suoi superiori ad aprire collegi di lingue e lui stesso ne fonda uno a Maiorca; scrive ai papi e alle università perché istituiscano cattedre di lingue orientali.
Un altro geniale suggerimento di Raimondo Lullo: un cardinale abbia l’incarico della politica missionaria del papato.
L’attuazione dell’idea dovrà aspettare 300 anni, ma non è del tutto scartata. Il papato diventa sempre più il peo dell’evangelizzazione estera: ordina inchieste su missioni e missionari, riceve le richieste di personale e le trasmette ai superiori; raccomanda i missionari ai sovrani e raccoglie fondi per i viaggi ed edifici.
Pur continuando ad esistere i missionari pellegrini, battitori liberi che vanno dove li porta il cuore, la missione diventa sempre più centralizzata e meglio organizzata. Si fa strada una convinzione fondamentale: la missione è, nella chiesa, un’attività specifica ed essenziale.
Il vangelo in Cina

«L a cristianità è in pericolo» si grida in tutta Europa nel 1241, quando il generale mongolo Batu porta i suoi cavalli a rinfrescarsi nelle acque dell’Adriatico. In pochi anni, Gengis Khan e figli hanno costruito un impero colossale, dalla Corea alla Polonia e Ungheria, dal mar Giallo al golfo Persico, passando per l’Asia centrale e le vallate dell’Indo. Il passaggio dei mongoli (o tartari) semina dappertutto terrore e morte: città ridotte a cumuli di macerie; abitanti sgozzati come capre o deportati come schiavi. La stessa sorte tocca a molti cristiani russi, polacchi, ungheresi.
Il «remedium contra tartaros» è posto all’ordine del giorno nel concilio a Lione (1245). Scartata l’idea di una crociata, papa Innocenzo IV vede nell’espansione mongola una nuova sfida missionaria, per convertire il gran khan al cristianesimo o, almeno, farselo alleato contro l’islam.
Quello stesso anno, il francescano Giovanni da Pian del Carpine parte per la Mongolia. Attraversando a piedi le sterminate steppe centroasiatiche, dopo quindici mesi di viaggio raggiunge Karakorum e consegna a Kuyuk-Khan il messaggio papale, che invita l’imperatore mongolo alla pace e alla conversione al cristianesimo. L’accoglienza è gentile; ma il missionario è rimandato con un messaggio inequivocabile: «Voi tutti, papa e imperatore, re e governanti, affrettatevi a venire di persona e sentirete le nostre proposte di pace. Quanto a convertirci, non ne vediamo la ragione».
Altri missionari vengono inviati con lettere del papa e di Luigi re di Francia: il domenicano Andrea da Longiumeau (1249) e il francescano Guglielmo di Rusbruk (1255). Anch’essi, però, non hanno maggiore fortuna: il gran khan risponde di non conoscere altro Dio, in cielo e sulla terra, al di fuori di Gengis Khan.
I loro viaggi tuttavia hanno risvolti positivi: le notizie raccolte dai missionari svelano all’Occidente un mondo ancora sconosciuto; le loro imprese aprono ai mercanti la strada verso il favoloso Catay, com’era chiamata la Cina, dove nel frattempo si è spostata la capitale dell’impero mongolo.
Più delle missioni diplomatiche, riescono quelle commerciali, come l’avventura dei mercanti veneziani Nicolò e Matteo Polo (1260-69). Quando questi si congedano, il gran khan Kubilai li prega di portargli «un po’ d’olio della lampada che arde sul sepolcro di Cristo» e chiedere al papa d’inviare 100 uomini esperti nelle arti e nella religione.
Nel 1271 il papa manda due domenicani, insieme ai due mercanti veneziani, cui si è aggiunto il piccolo Marco Polo; ma i frati tornano subito indietro. Nel 1277 sono inviati quattro francescani, che spariscono nel nulla. Dieci anni dopo lo stesso Kubilai invia in Europa un monaco nestoriano, che ripete la richiesta di missionari. Nel 1289 Nicolò IV, primo papa francescano, manda un missionario collaudato: fra’ Giovanni da Montecorvino.
Con un manipolo di francescani e domenicani, fra’ Giovanni attraversa l’Armenia, Persia, India, predicando, battezzando e organizzando comunità cristiane. Continuando il viaggio via mare, giunge solo a Pechino e comincia con successo l’evangelizzazione di mongoli e cinesi. Rimane da solo per 13 anni, svolgendo un lavoro immenso, finché papa Clemente V gli manda alcuni missionari e vescovi, per consacrarlo arcivescovo di Pechino (1307). In pochi anni vengono erette altre diocesi suffraganee.
Nel 1325 un altro grande missionario francescano, Odorico da Pordenone, dopo aver percorso innumerevoli regioni e isole dell’Asia meridionale, sempre predicando e battezzando, raggiunge Pechino; per tre anni aiuta il vecchio Montecorvino e pianifica con lui nuove imprese missionarie. Ritorna in Italia, via terra, per chiedere rinforzi per la missione in Cina. Purtroppo muore un anno dopo il suo arrivo: ha macinato per mare e per terra oltre 50 mila chilometri.
Prima di morire, però, Odorico ha il tempo di dettare a fra’ Guglielmo di Solagna le sue memorie, intitolate: Relatio (relazione), che non ha nulla da invidiare al Milione di Marco. Il libro di Odorico diventa subito un best seller: ne sono stati ritrovati oltre 130 manoscritti, senza contare le traduzioni in italiano, francese e tedesco.

Alla morte di Giovanni da Montecorvino (1328)
i cristiani cinesi sono oltre 30 mila. La sua opera viene proseguita da una cinquantina di confratelli. Ma nel 1368, con la caduta dell’impero mongolo e l’avvento della dinastia dei ming, i confini della Cina si chiudono, le cristianità cinesi si dissolvono e lentamente scompaiono nel nulla. Bisognerà attendere 200 anni prima che l’evangelizzazione venga ripresa dai gesuiti.




Ma lo spirito è libero

Con la «scoperta» dell’America l’evangelizzazione assume dimensioni planetarie. Per portare il vangelo in Asia e Nuovo Mondo il papato
deve servirsi delle caravelle e del sostegno finanziario dei re di Spagna
e Portogallo. Tanto di cappello per i loro sforzi economici; ma a che prezzo!
Le nuove chiese fanno fatica a prendere le distanze dagli intrighi politici;
i missionari contestano le violenze dei conquistatori;
la loro attività è spesso confusa con quella della colonizzazione.
Eppure il vangelo avanza inarrestabile.

Scoperte e conquiste

Il 12 ottobre 1492, data della «scoperta» dell’America, segna un cambiamento epocale nella storia dell’umanità. Nello stesso anno in cui la Spagna si libera dall’ultima presenza saracena, si lancia nelle avventure marinare, sostenendo il sogno di Cristoforo Colombo: raggiungere le Indie navigando verso ovest. Il navigatore genovese s’imbatte in un Nuovo Mondo, più tardi chiamato America.
Alla fine dello stesso secolo, dopo decenni di esplorazioni lungo le coste africane e la circumnavigazione del continente nero, il Portogallo si apre la via marittima verso est e raggiunge le Indie sognate da Colombo.
Alle scoperte segue la conquista. In pochi anni i portoghesi seminano basi fortificate lungo le coste africane e asiatiche: India, Ceylon, Birmania, Thailandia, Penisola Indocinese, Cina. Nel 1500, una tempesta sbatte Pedro Alvarez Cabral sulle coste del Brasile. Nove anni dopo comincia la colonizzazione portoghese.
Gli spagnoli arrivano con cavalli, fucili e cannoni, piegando con estrema facilità la debole quanto inutile resistenza degli indigeni. La conquista sfocia nella colonizzazione e sfruttamento delle ricchezze dei territori occupati: torme di avventurieri, nobili spiantati e contadini affamati cercano di fare fortuna nel Nuovo Mondo, a scapito degli indigeni, ridotti in servitù. Il primo impatto con gli europei è micidiale, secondo la testimonianza, per quanto esagerata, di Bartolomeo de las Casas: in meno di 30 anni dalla scoperta, gli indiani delle Antille sono già totalmente scomparsi, a causa delle guerre, lavori forzati e fulminanti epidemie.
Ma gli indigeni si rivelano troppo deboli per certi lavori; allora vengono sostituiti con gli schiavi neri, catturati in Africa e trasportati nel Nuovo Mondo da compagnie portoghesi e spagnole, inglesi, olandesi e francesi.
Sotto l’avanzata dei conquistatori scompaiono non solo le popolazioni più deboli, ma anche i grandi imperi del continente americano e le loro civiltà: maya, aztechi, incas. Non è certo questo lo scopo inteso dai cristianissimi sovrani di Spagna e Portogallo, che si sono impegnati a portare il vangelo ai nuovi popoli. Ma chi può controllare una conquista portata avanti da condottieri senza scrupoli e per giunta alla testa di una soldataglia drogata dall’avventura e dall’oro?

Evangelizzazione e «patronato»

Le grandi scoperte geografiche e l’incontro con popoli sconosciuti offrono alla chiesa un’altra occasione, la più ghiotta mai incontrata, per un’avventura missionaria su scala planetaria: il vangelo giunge veramente fino ai confini della terra; la chiesa diventa realmente «cattolica», cioè universale.
Per quanto i tempi stiano cambiando, la società cristiana è ancora pervasa dallo spirito di crociata: bisogna battezzare, nel più breve tempo, il maggior numero possibile di eretici e pagani, altrimenti condannati alla dannazione eterna.
Tale urgenza non è sentita solo dai predicatori, ma anche dai laici come Erasmo da Rotterdam. «I viaggiatori portino con sé dalle terre lontane oro e pietre preziose, ma sarà più grande trionfo il portare, di qui a là, la saggezza di Cristo, più preziosa dell’oro, e la perla del vangelo, che vale tutte le ricchezze della terra» scrive il grande umanista.
L’urgenza dell’evangelizzazione è sentita soprattutto dal papato, che vede nelle scoperte un evento provvidenziale, che compensa la chiesa delle perdite subìte con lo scisma protestante. Ma come far fronte a un’impresa di dimensione planetaria e tanto dispendiosa?
Già in precedenza il papa ha concesso ai sovrani portoghesi il diritto di possedere le terre strappate agli infedeli. Per prevenire qualsiasi conflitto tra Spagna e Portogallo, il papa Alessandro VI traccia una linea di demarcazione «da un polo all’altro», passante a occidente delle Azzorre, successivamente spostata 270 miglia più a ovest (1494). A est di tale linea le terre sono riservate al Portogallo; quelle a occidente alla corona spagnola.
Con tale spartizione e ulteriori accordi, il papa legittima per i re di Spagna e Portogallo la presa di possesso delle terre scoperte e da scoprire. In compenso, essi hanno l’obbligo di diffondervi la fede. Diritti e doveri chiamati col termine «patronato». I sovrani sono i «patroni», capi delle nuove chiese: fondano diocesi e nominano i vescovi; sostengono le spese per i viaggi dei missionari, sostentamento del clero e gerarchia, costruzioni di chiese, conventi e parrocchie.
Non c’è dubbio che il «patronato» imprime un impulso decisivo all’espansione dell’evangelizzazione e della chiesa. Ma c’è anche il rovescio della medaglia. Il connubio tra stato e chiesa finisce per snaturare l’opera missionaria, facendo apparire l’evangelizzazione come una componente della politica coloniale. Il meccanismo del «patronato» condiziona gli evangelizzatori, quando questi non sono confusi con gli agenti del potere politico; le nascenti comunità cristiane, più che nuclei di credenti, paiono isole dell’Europa, i neofiti dei venduti più che convertiti. Molti missionari avvertono il pericolo ed entrano in conflitto con le autorità coloniali.
Lo sforzo maggiore nella nuova crociata di evangelizzazione, però, è assunto in blocco dagli ordini religiosi. Pur essendo spesso delegati dai sovrani, più che dal papato, i missionari sono animati da entusiasmo, volontà di sacrificio, desiderio di martirio, certezza della vittoria. L’opera di evangelizzazione inizia con fervore, conseguendo brillanti risultati. Spuntano promettenti comunità cristiane in Africa, in Asia e nelle Americhe.




In barba ai “cattolicissimi”

Alla Spagna, l’altro beneficiario della spartizione del globo, toccano l’America e, dopo varie scaramucce, le Filippine. A differenza del Portogallo, che si accontenta di occupare punti strategici lungo le coste, la Spagna cerca di stabilirsi in profondità. Conclusa la conquista comincia l’evangelizzazione sistematica. I re di Spagna s’interessano personalmente dell’amministrazione ed evangelizzazione dei territori. E prendono sul serio gli impegni imposti dal patronato. Dal 1535 al 1592, per esempio, sono inviati nelle colonie 2.682 religiosi e 376 preti diocesani. In un secolo sono create 34 diocesi in America Latina.

Il vangelo in America

«I nostri re ci hanno mandato non per soggiogarvi, ma per insegnarvi la vera religione» dice Cristoforo Colombo agli indigeni de La Española (Haiti), mentre pianta la croce al suolo, prendendo possesso dell’isola in nome dei re di Spagna. Una promessa mantenuta solo per metà: di fatto gli indigeni verranno soggiogati; quanto all’insegnamento della vera religione è tutto merito dell’azione della chiesa.
Le Antille sono le prime a ricevere coloni e missionari: una quindicina di francescani (1502), seguiti da un gruppo di domenicani. Nel 1511 vi sono già tre diocesi. Ma non è una facile impresa. I missionari si scontrano spesso con i propri compatrioti: soldati, mercanti, avventurieri d’ogni risma che, di per sé, non sono ostili alla religione, anzi. Ma della religione hanno un concetto talmente distorto, da non saper più distinguere tra fede e cupidigia, tra devozione e istinto. Per il fatto di essere cristiani, si sentono autorizzati a sottomettere chiunque e con qualsiasi mezzo.
Nell’intento di reperire manodopera per la coltivazione delle terre occupate e il lavoro nelle miniere, la Corona propone l’istituzione di un sistema già collaudato in patria: l’encomienda. Ai proprietari terrieri viene dato un certo numero di indigeni con l’impegno di nutrirli, proteggerli e istruirli nella fede cristiana; questi ripagano con il lavoro. I coloni trattano gli indigeni come bestiame umano: deportazioni, smembramenti di famiglie, lavori forzati.
Contro tali abusi insorgono i domenicani. Se ne fa portavoce Antonio de Montesinos: «Non vi salverete più dei turchi. Siete tutti in peccato mortale e in esso vivete e morite, a causa della tirannia con cui trattate questa povera gente» tuona dal pulpito il 21 dicembre 1511. Il fatto è raccontato da Bartolomeo de las Casas, domenicano pure lui, strenuo difensore dei diritti degli indigeni, tanto da meritarsi l’appellativo di «padre e protettore degli indiani».

Nel 1524, due anni dopo la mostruosa conquista operata da Ferdinando Cortés, arrivano in Messico i «dodici apostoli» francescani. A sette anni di distanza, il primo vescovo di Città del Messico, Zumárraga, traccia un bilancio del lavoro svolto: «Un milione di persone sono state battezzate; 500 templi di idoli distrutti; 20 mila dipinti di dèmoni bruciati. Un fatto ancor più meraviglioso: una volta gli abitanti di questa città sacrificavano ogni anno ai loro idoli 20 mila cuori umani; oggi offrono a Dio sacrifici di lode, grazie all’insegnamento e buon esempio dei religiosi». Dopo 15 anni i battezzati erano 6 milioni. La sera i frati andavano a dormire con il «crampo da battesimo». Lo testimonia il più famoso dei «dodici apostoli», Toribio da Benavente, detto Motolinía, cioè il povero.
Ai francescani si uniscono domenicani, agostiniani e, più tardi gesuiti, fondando scuole, ospedali, orfanotrofi e lanciandosi in una spettacolare gara di dedizione e carità. Il cristianesimo viene costruito sulla rovina della religione e cultura azteca, ma non mancarono tentativi di adattamento. Per trasmettere il messaggio del vangelo i missionari sfruttano gusti e attitudini degli indigeni: pitture, teatro religioso, gesti simbolici, splendore del culto ed esuberanza architettonica delle chiese.
A differenza dei conquistatori, i missionari non hanno alcuna intenzione di ispanizzare gli indiani. Fondano le loro missioni lontano dai villaggi dei coloni; imparano le lingue indigene; preparano grammatiche, dizionari e catechismi e tendono a capire in profondità i popoli che evangelizzano.
In questo campo si distingue soprattutto il francescano Beardino da Sahagun: scrive la Storia generale delle cose della Nuova Spagna (Messico), frutto di 40 anni di ricerche sulle antiche usanze religiose azteche; a mano a mano che procede nella descrizione, s’innamora dei popoli descritti, fino a sognare, insieme ad altri missionari, uno stato cristiano e messicano libero dalla colonizzazione. Tale simpatia suscita i sospetti delle autorità; Filippo II fa distruggere tutte le cronache scritte dai missionari. L’opera di Sahagun si salva e sarà pubblicata solo nel XIX secolo.

Altro centro di evangelizzazione è il Perù. Vi arrivano prima i domenicani nel 1531; 13 anni dopo sono già 55. Seguono i francescani (1540), agostiniani, mercedari, gesuiti (1568). Questi si dedicano all’insegnamento e alla linguistica. A Lima viene fondata l’università, centro culturale per tutta l’America Centrale e Meridionale.
L’organizzazione della chiesa in Perù è tutto merito di Toribio de Mogrovejo: conosce la lingua degli incas, il quechua, come quella insegnatagli da sua madre; raduna sinodi e progetta piani pastorali; visita l’immensa diocesi da capo a fondo e a più riprese.
Il Perù diventa centro di irradiazione del vangelo nelle regioni confinanti. Francesco Solano, il «taumaturgo del Nuovo Mondo», evangelizza gli indios dell’Argentina. Gesuiti e francescani penetrano nel Cile e predicano agli araucani. Il domenicano Alfonso di Montenegro fonda la chiesa in Ecuador. San Luigi Bertrand, domenicano, è l’apostolo della Colombia.
Alla fine del secolo XVI, la chiesa è saldamente impiantata in quasi tutto il continente latino americano, con arcidiocesi e diocesi ancora vastissime, ma già in grado di trasformare quelle regioni nel continente più cattolico del mondo.
Nei due secoli seguenti l’evangelizzazione si spinge sempre più nell’interno del continente. Due missionari si distinguono per zelo e santità: il gesuita trentino Francesco Chini (1645-1711) e il francescano spagnolo Junipero Serra. Il primo evangelizza l’Arizzona; il secondo dissemina la costa della Califoia di stazioni missionarie, destinate a diventare grandi metropoli. Entrambi sono onorati come «padri fondatori» degli Stati Uniti.

Il vangelo nelle Filippine

L e Filippine sono raggiunte solo nel 1564; il lavoro missionario si presenta meno difficile e dà subito risultati clamorosi. La nuova città di Manila già manifesta la sua vocazione di capitale cattolica del Pacifico. Nel 1579 è eretta in diocesi, nel 1595 in arcidiocesi con tre suffraganee; i cattolici filippini sono 670 mila. Nel 1611, a Manila, viene fondata l’università «San Tommaso». Nel 1620 i battezzati raggiungono i 2 milioni.
I missionari sono ormai in tutte le isole dell’arcipelago. Nel 1668 alcuni gesuiti fondano una missione nelle isole Marianne (Oceania) e quattro anni dopo padre Diego Luìs de Sanvitores finisce martire: sarà beatificato nel 1985. Altri 12 gesuiti lo seguono nel martirio. Soppressa la Compagnia (1773), subentrano agostiniani e francescani.

LA TRATTA DEGLI SCHIAVI

Che cos’è che ha spinto gli europei a trasformarsi in negrieri? La richiesta di manodopera dei paesi del Nuovo Mondo. Gli indios sono stati decimati e poi non sembrano fatti per i lavori pesanti. I negri invece sono buoni lavoratori.
Nel 1518, si stacca dalle coste del golfo di Guinea il primo carico umano diretto alle Antille. A partire da quell’anno, i viaggi si intensificano a ritmo accelerato. Un’altra «linea» viene aperta più a sud: congiunge l’Angola con il Brasile. Nel secolo XVII, dal solo regno del Congo, vengono deportati un milione di africani. Il monopolio della tratta in principio è in mano ai portoghesi. Ma la domanda è troppo superiore all’offerta e altri stati, Olanda, Spagna, Inghilterra, Danimarca, Francia, istituiscono i loro mercati. Le coste occidentali dell’Africa, dal Senegal all’Angola, sono disseminate di posti di raccolta, ciascuno con la sua bandiera, dove gli schiavi rastrellati nelle razzie vengono valutati, pagati e imbarcati. In cambio degli schiavi, i negrieri bianchi offrono agli schiavisti neri stoffe, utensili, ma soprattutto armi e polvere da sparo. Per fare più schiavi.
Le traversate transoceaniche sono spaventose. Una volta a bordo, gli schiavi vengono ammassati sotto i ponti, incatenati a coppie, caviglia a caviglia, polso a polso. Le donne, invece, sono sciolte, tenute in compartimenti separati. Febbre e dissenteria fanno stragi. I morti vengono gettati in mare.
Ritornando dalle Americhe le navi, con il loro carico di zucchero, cotone, caffè, tabacco e rum, dirigono le loro prue verso l’Europa, per puntare poi ancora sull’Africa, dove altri schiavi sono già in attesa.
Il delirante girotondo ultramarino rallenta solo ai primi dell’ottocento, dopo che il re di Danimarca, nel 1772, ha abolito per primo la tratta; seguono Inghilterra (1807), Spagna (1820), Stati Uniti (1865), Brasile (1888). Con l’accordo di Bruxelles (1890) tutta l’Europa dichiara la tratta degli schiavi illegale.
Ma il bilancio per l’Africa è disastroso: secondo cifre attendibili (e benevole), dai 20 ai 30 milioni di africani sono stati strappati alla loro terra; buona parte periscono nel viaggio di stenti e di crudeltà; gli altri sfruttati fino alla morte. Regni prosperi distrutti o trasformati loro malgrado in mercati di schiavi, pacifiche etnie ridotte in guerra tra di loro, e infine l’immensa diaspora negra, tuttora alienata ed emarginata, degli Stati Uniti, delle Antille e del Sudamerica.

HANNO COSTRUITO L’AMERICA LATINA

Bartolomé de las Casas (1484-1566). Arriva a Santo Domingo nel 1502. Colono, prete, domenicano, vescovo di Chiapas: 82 anni vissuti con passione, lotta con tutti i mezzi (predicazione, relazioni, dibattiti) per difendere la dignità degli indios.

Antonio de Valdivieso (+1550). Domenicano, consacrato vescovo di Nicaragua da Bartolomé de las Casas. Difende gli indios fino a pagare con la vita. È l’Oscar Romero del secolo XVI.

Pedro de Gand (1480-1572). Francescano laico belga, imparentato con Carlo V, arriva in Messico nel 1523; s’innamora degli indigeni e ne sfrutta le inclinazioni alla pittura, musica, danza, teatro per educare i bambini; una cinquantina li trasforma in predicatori e catechisti. Costruisce oltre 100 chiese.

Martín de Valencia (1475-1534). Capo gruppo dei «12 apostoli» francescani, è considerato uno dei padri della chiesa messicana. Muore consumato dal lavoro e dalle penitenze.

Toribio de Benavente (1495-1565). Il più popolare dei «12 apostoli» francescani arrivati in Messico nel 1524. Chiamato Motolinía (il povero), fedele allo spirito francescano, per 45 anni percorre Messico, Guatemala e Nicaragua, predicando, battezzando e prodigandosi per la promozione umana degli indigeni. Fonda la città di Puebla.

Juan de Zumárraga (1468-1548). Primo vescovo di Città del Messico, «difensore degli indios», organizza la chiesa messicana, porta in Messico artigiani e 6 donne per l’educazione delle bambine indiane; fa istallare la prima tipografia nel Nuovo Mondo. Riconosce le apparizioni di N. S. di Guadalupe (1531).

Vasco de Quiroga (1470-1565). Inviato in Messico come giudice (1531), si appassiona alla causa indigena; a 67 anni, ancora laico, è eletto vescovo di Mochoacán. Muore quasi centenario, venerato dagli indios come tatá (padre), è considerato un padre della fede della chiesa messicana.

Beardino de Sahagun (1500-1590). Francescano spagnolo, arriva in Messico nel 1529. Insegna per 40 anni in un collegio, alla formazione degli indigeni e del clero locale. Raccoglie tutto ciò che si riferisce alla vita degli antichi messicani prima dell’arrivo di Cortés. Precursore dell’etnologia.
Alfonso de Montenegro, domenicano, fonda la chiesa in Ecuador.

Pedro de la Peña (1522-1583). Domenicano, missionario in Messico nel 1550; vescovo di Quito (Ecuador) nel 1565. Difende i diritti degli indios, prepara candidati al sacerdozio, ordina preti meticci, obbliga gli encomenderos a rispettare i loro obblighi, comanda ai preti di insegnare agli indigeni agricoltura, allevamento, igiene e medicina. Si attira le ire delle autorità, ma diventa il «fondatore della vita rurale ecuadoriana».

Jeronimo de Loáyza (1498-1575). Domenicano, vescovo di Lima dal 1541, grande organizzatore pastorale, si distingue nella difesa degli indios e dei neri, che definisce «la maggior ricchezza del Perú».

S. Luis Bertrand. Domenicano, in soli 7 anni (1562-69) catechizza, battezza, erige chiese, difende gli indios e opera miracoli: è l’apostolo della Colombia. Schifato degli abusi dei dominatori, torna in Spagna.

Toribio de Mogrovejo (1538-1606). Evangelizzatore laico, a 42 anni è consacrato arcivescovo di Lima (Perù). Organizzatore di sinodi e concili, sempre in cammino per le visite pastorali, oppositore degli abusi di governatori e coloni, conoscitore delle lingue indigene è il più grande vescovo dell’America Latina. Canonizzato nel 1726.

Francesco Solano (1549-1610). Francescano, percorre Argentina, Uruguay e Paraguay, incantando gli indigeni col piffero, amore e santità. Canonizzato nel 1726.

Luis Bolaños (1549-1629). Grande missionario francescano, evangelizza i guaraní del Paraguay. Difensore degli indios, inventa le riducciones e scrive grammatiche e catechismi in guaraní.

Antonio Ruiz di Montoya (1585-1652). Gesuita, organizzatore delle reducciones del Paraguay.

Roque Gonzales (1576-1628). Gesuita paraguayano, appassionato dei guaraní e delle reducciones, è il primo martire nato in Sudamerica. A lui si ispira il film Mission. Beatificato nel 1988, assieme ai compagni martiri Alonso Rodrigues e Juan Castillo.

Pietro Claver (1580-1654). Gesuita catalano, missionario in Colombia, si fa «schiavo degli schiavi per sempre», risvegliandone la dignità. Li evangelizza con sussidi didattici creati da lui stesso, ne impara le lingue, crea numerosi interpreti e battezza oltre 300 mila africani che la crudeltà umana aveva gettato sulle spiagge americane. Impressionante per la sua eroica carità, è canonizzato nel 1888 e dichiarato patrono universale della missione tra i neri.

Eusebio Francesco Chini (1645-1711). Gesuita trentino, sbarca in Messico nel 1681. Studioso, esploratore e viaggiatore, percorre 40.000 km a piedi o a cavallo, alla scoperta della Califoia messicana e dell’Arizona, dove, per 30 anni, evangelizza gli indios di diverse etnie e fonda numerose missioni. Battezza oltre 100 mila indigeni. Una statua in bronzo nel Campidoglio di Washington lo ricorda come «padre e fondatore dell’Arizona», unico italiano tra i grandi degli Stati Uniti.

Junipero Serra (1713-1784). Francescano di Maiorca, approda in Messico nel 1749.
Camminatore infaticabile (20.000 km a piedi), dissemina la Califoia di una dozzina di fiorenti missioni, evangelizza gli indigeni e ne promuove lo sviluppo, introducendo agricoltura e allevamento.
Una statua nel Campidoglio di Washington lo ricorda come «padre degli indiani» e «fondatore della Califoia». Beatificato nel 1988.




Pellirosse e mandarini

Per liberare l’evangelizzazione dai laccioli del «patronato», il papato istituisce un dicastero speciale: la Congregazione «de propaganda fide».
Le nuove direttive e l’istituzione dei «vicariati
apostolici», dipendenti direttamente da Roma,
vengono attuate nelle nuove frontiere
aperte dalla colonizzazione
francese in Nord America
e nella regione indocinese,
mentre nelle colonie
portoghesi e spagnole
ci sono forti resistenze.
Ma ormai la nuova strategia
missionaria è avviata
e Propaganda fide riprenderà in mano
le redini dell’attività missionaria
in tutto il mondo.

Nasce Propaganda Fide

L’aveva suggerito Raimondo Lullo nel 1373; Ignazio di Loyola era ritornato alla carica, come pure eminenti personalità del tempo: la Santa Sede deve prendere in mano le redini dell’azione missionaria. Nel 1622 Gregorio XV istituisce finalmente la Congregazione de Propaganda Fide (dal 1968 «Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli»).
Con questo dicastero la chiesa assume in proprio e in esclusiva, per la prima volta nella storia, tutta l’opera di evangelizzazione. Non più patronati né deleghe a re o imperatori, non più interferenze di carattere politico. Nessun missionario può predicare il vangelo senza la missio o investitura, diretta o indiretta, di questa Congregazione.
Vengono emanate direttive precise: l’evangelizzazione deve essere apolitica e adattata al carattere dei popoli evangelizzati; sono proibiti metodi coercitivi; dare priorità assoluta alla formazione del clero locale. Per liberare l’attività missionaria dai patronati, si propone l’erezione dei vicariati apostolici, dipendenti direttamente da Roma.
Tali innovazioni non si attuano di punto in bianco. In alcuni territori, soprattutto portoghesi, il dualismo giurisdizionale di Roma e dei patronati durerà ancora a lungo (in Mozambico fino al 1975!) e sarà causa di tanti conflitti; ma ciò non impedisce all’evangelizzazione, dopo 150 anni di patronato, di rientrare a poco a poco sotto la guida della chiesa.
Come sostenere l’attività missionaria senza l’aiuto economico delle potenze coloniali? Dove pescare nuovi vescovi e vicari fuori di Spagna e Portogallo? Per Propaganda è un rompicapo. Al primo problema si comincia a rispondere con la vendita degli anelli cardinalizi, eredità, offerte di privati, elargizioni straordinarie di principi e pontefici. In seguito si farà appello alla responsabilità di tutto il popolo cristiano.
Nel 1627, cinque anni dopo la fondazione di Propaganda, Urbano VIII erige il collegio Urbano di Propaganda Fide con lo scopo di formare alunni «di qualsiasi popolo e nazione, da inviarsi, per mandato del sommo pontefice, in tutto il mondo a diffondere la chiesa cattolica». Tale Collegio (oggi Università) formerà nei secoli posteriori migliaia di missionari d’ogni lingua e colore, e sussiste tuttora sul Gianicolo.
Intanto la Francia, esclusa dalla spartizione del mondo, si sta lanciando nell’avventura coloniale e missionaria. È un’occasione per liberarsi dai patronati. Nel 1663 a Parigi viene fondato il seminario delle Missioni estere, con lo scopo di reclutare sacerdoti secolari e prepararli alla missione. Il papa vi attingerà a piene mani, pur continuando a servirsi dagli ordini religiosi.

Evangelizzazione del Nordamerica

«Il sole splende per me come per gli altri – protestava Francesco I, re di Francia, di fronte alla papale spartizione del globo tra Spagna e Portogallo -. Vorrei proprio vedere la clausola del testamento di Adamo che mi esclude dalla spartizione del mondo». Allo stesso modo la pensano i paesi protestanti di Inghilterra, Olanda, Svezia. Tutti vogliono il loro pezzo al sole.
Siccome l’America centro-meridionale è già in mano a spagnoli e portoghesi, i nuovi contendenti puntano più a nord: i francesi occupano il Canada; inglesi e olandesi si contendono le zone sottostanti. I primi hanno la meglio e fondano tredici colonie lungo la fascia atlantica. Gli olandesi hanno più fortuna in Estremo Oriente e Sudafrica.
Varietà di colonie, varietà di religioni. Nella Nuova Francia (che all’inizio comprende l’attuale Canada e vari territori ora sotto gli Stati Uniti) arrivano i missionari cattolici; con i coloni inglesi sbarcano i pastori protestanti: anglicani, luterani, calvinisti, quaccheri e via dicendo.
In ritardo di oltre un secolo rispetto a Spagna e Portogallo, intralciata da inglesi e olandesi, che vedono come fumo negli occhi la formazione di una colonia cattolica alle loro spalle, l’evangelizzazione in Canada sfocia in autentica crociata mistica a partire dal 1632. Nel giro di cinque anni arrivano 54 gesuiti, tre suore orsoline e tre ospedaliere, le prime nella storia delle missioni. Coniugando azione e contemplazione, le religiose curano gli infermi, istruiscono i fanciulli, raccolgono anziani e malati, tutti pesi morti della tribù durante il periodo della caccia. Numerosi volontari laici (medici, artigiani, gentiluomini e dame dell’aristocrazia) si lanciano a briglia sciolta nell’avventura missionaria.
I gesuiti seguono gli indiani nel loro nomadismo. Poi, lungo le rive del fiume San Lorenzo e dei Grandi Laghi, costruiscono comunità stabili, con chiese, scuole, campi e strutture varie. In pochi anni migliaia di famiglie di algonchini e uroni sono battezzate. In tempo di caccia i cristiani diventano apostoli presso i fratelli ancora nomadi; per questi i missionari organizzano missioni volanti.
Un lavoro esaltante, ma rischioso. Gli stregoni, sentendo minacciata la loro autorità, sobillano la gente contro i «veste-nera». Ma il pericolo più grave viene dagli irochesi: aizzati dagli inglesi, muovono guerra agli uroni, che nel giro di otto anni (1642-50) vengono sterminati insieme ai missionari: i martiri canadesi.
Ufficialmente sono 8 gesuiti: 6 padri e 2 fratelli laici, canonizzati nel 1930. Numero simbolico, rispetto ai tanti missionari e fedeli, europei e indiani, che, con fede eroica, hanno scritto in pochi anni una delle pagine più gloriose della storia della chiesa. Immensità del territorio e rigori del clima, ferocia e lotte tribali, conflitti politici e religiosi, solitudine nei deserti di ghiaccio, martirio fisico e spirituale… costituiscono un’epopea indimenticabile.
Ma il sangue dei martiri non cade invano. Dieci anni dopo comincia un’altra crociata missionaria: gesuiti, sulpiciani, cappuccini fondano missioni tra gli irochesi. Cristiani algonchini, uroni e irochesi cominciano a vivere insieme nei villaggi, coltivando i campi comunitari. E fiorisce il «giglio degli irochesi»: Caterina Tekakwitha, prima tra tutti gli indigeni dell’America a salire agli onori degli altari (1980).
Intanto la storia continua. Nel 1658 Québec diventa vicariato apostolico (il primo istituito da Propaganda Fide) affidato al vescovo François de Laval.
Nel 1763 le colonie francesi passano sotto la corona britannica. I cattolici vengono discriminati. Ma nel 1777 nella regione del Québec vengono ristabilite le leggi francesi e garantita piena libertà religiosa.
Con l’indipendenza degli Stati Uniti (1776), la situazione dei cattolici migliora in tutto il Nord America. Cessa a poco a poco l’ostilità riservata ai cattolici durante il periodo coloniale. Con le nuove immigrazioni cresce il loro numero e anche la loro presenza nei quadri direttivi del paese. Nel 1789 con la creazione della diocesi di Baltimora, la prima negli Usa, i cattolici sono poco più di 20 mila, su 5 milioni di americani; ma nei secoli successivi la chiesa cattolica assumerà proporzioni tali, che finirà per diventare la comunità religiosa più consistente del paese.
Nello stesso tempo due grossi problemi affliggono l’America del Nord: i massacri di indiani perpetrati dai coloni, lanciati alla conquista dei territori dell’est; la deplorevole condizione degli schiavi negri, che superano ormai il milione. Sono problemi che l’evangelizzazione affronta solo marginalmente per l’impossibilità di inviare missionari e per l’intransigenza degli stessi coloni, troppo convinti che indiani e negri siano esseri inferiori.

Altre frontiere missionarie

N el 1658, insieme a quello di Québec, Propaganda Fide istituisce altri due vicariati: Tonchino e Cocincina (Vietnam). In queste regioni dell’Indocina avevano lavorato alcuni gesuiti, ma con scarsi risultati. L’evangelizzazione sistematica comincia nel 1624, per opera del gesuita francese Alexandre de Rhodes, e continua, con una presenza a singhiozzo fino al 1645; ma lascia il segno. Egli diffonde la scrittura vietnamita; distanzia il cristianesimo dalla politica portoghese; redige un catechismo in lingua locale e fonda una congregazione di catechisti. Questi esercitano tutte le funzioni che non richiedono il sacerdozio, fanno voto di castità e vivono in comunità con i missionari; in tempo di persecuzione mantengono viva la chiesa. Il sogno della formazione del clero indigeno rimane nel cassetto.
Tornato in Europa per evitare la condanna a morte, de Rhodes accelera la fondazione del seminario delle Missioni estere di Parigi e preme su Propaganda perché istituisca la gerarchia in Vietnam: François Pallu e Pierre Lambert de la Motte vengono nominati rispettivamente vicari del Tonchino e della Cocincina.
Attraversando l’Asia via terra, per consegnare ai vescovi, di nascosto dalle autorità coloniali, le «Istruzioni» di Propaganda Fide, mons. Pallu arriva in Indocina. E poiché nel Tonchino infuria la persecuzione, si stabilisce nel Siam (Thailandia), dove si adopera per la formazione del clero indigeno.
La Motte è più fortunato: riesce a soggioare per qualche tempo nel Vietnam; celebra il primo sinodo del Tonchino e Cocincina; istituisce la «Casa di Dio» per raccogliere missionari, seminaristi e catechisti; ordina i primi preti vietnamiti, crea una congregazione religiosa femminile, fonda il seminario per tutto l’Estremo Oriente.
L’evangelizzazione dell’Indocina continua, tra persecuzioni a momenti di bonaccia. Le cristianità sono esigue, complessivamente 400 mila cattolici, ma ben stabilite e in grado di svilupparsi con le proprie forze.
In Corea, caso più unico che raro nella storia della chiesa, il vangelo arriva prima dei missionari: alcuni membri dell’ambasciata che ogni anno si recano a Pechino a rendere omaggio all’imperatore (la Corea è paese vassallo della Cina) avvicinano i gesuiti, si foiscono di libri cristiani e li diffondono tra gli amici.
Nel 1784 si reca a Pechino un letterato di nome Ni-Seung-houn, che riceve il battesimo con il nome di Pietro Ly. Ritornato in patria battezza altri compagni e con essi continua a diffondere il cristianesimo.
Dieci anni dopo, il sacerdote cinese Giacomo Tiyon, inviato in Corea dal vescovo di Pechino, vi trova una comunità di quattromila cristiani. Arrivano le persecuzioni, ma il cristianesimo coreano non sarà più sradicato.
Il Tibet, invece, è un osso duro. Nel 1630 il gesuita portoghese Antonio De Andrade vi apre una missione, ma è subito distrutta. Ritentano inutilmente altri gesuiti. Più fortunato è il gesuita pistorniese Ippolito Desideri: riesce a stabilirsi a Lhasa, la capitale tibetana, e per cinque anni studia, commenta e traduce i testi sacri del lamaismo.
Nel 1703 Propaganda affida la missione del Tibet ai cappuccini italiani. Sotto la direzione del marchigiano Francesco Orazio da Pennabilli, essi riescono a costruire una chiesa e un convento nella capitale, ma le conversioni sono scarse. Nel 1742 una persecuzione orchestrata dai lama costringe i cappuccini a lasciare il Tibet.
Ci provano ancora i lazzaristi francesi e, a più riprese, i preti della Missione di Parigi, convertendo parecchi tibetani presenti nei territori cinesi; ma anche questi sono raggiunti dall’odio dei lama: i cristiani sono massacrati nel 1905. I preti delle Missioni lasciano sul campo otto martiri, l’ultimo è ucciso nel 1940.

La disputa dei riti

Propaganda Fide è appena nata e si trova tra le mani una delle patate più bollenti nella storia della chiesa: la «questione dei riti cinesi e malabarici». Dopo le dispute trinitarie e cristologiche dei primi secoli, non si è mai visto diatriba più accanita, meschina e devastante per l’evangelizzazione.
Ricci, De Nobili e altri gesuiti riscuotono buoni successi adattando al cristianesimo quegli elementi religiosi e culturali delle popolazioni locali che meglio si prestano per esprimere il messaggio evangelico. Sono tre i punti su cui ruota tale adattamento: 1) la «terminologia» religiosa locale è usata per invocare e parlare di Dio; 2) nella liturgia sono assunti riti secondari tradizionali e omessi certi gesti nell’amministrazione dei sacramenti, come l’uso della saliva nel battesimo; 3) tolleranza di usanze sociali tradizionali, come il culto degli antenati in Cina e certi riti matrimoniali e di fecondità in India. Finché i gesuiti ne discutono tra loro, va tutto liscio. Ma nel 1631-33 arrivano in Cina un domenicano e un francescano spagnoli: partecipando a una cerimonia civile, restano scandalizzati nel vedere che anche i cristiani, con l’accondiscendenza dei gesuiti, compiono riti in onore di Confucio e degli antenati. I due frati avvertono i rispettivi superiori; questi si appellano a Roma e la questione diventa una disputa teologica europea.
Il domenicano Morales pone a Propaganda Fide una domanda a brucia pelo: possono i cristiani onorare gli idoli (intendendo Confucio e antenati)? Evidentemente la risposta è negativa (1645). I riti sono condannati.
Dieci anni dopo i gesuiti domandano: si possono rendere a Confucio onori puramente civili? La risposta è affermativa. I riti cinesi sono riammessi.
Ma la questione non si placa. Gli schieramenti pro e contro i riti cinesi e malabarici spaccano i missionari d’Oriente: domenicani e francescani contro i gesuiti; gesuiti contro gesuiti. Dispute furiose si scatenano anche in Europa, coinvolgendo le Missioni estere di Parigi, vescovi e curialisti, teologi e moralisti, politici e scrittori (Pascal). Quasi tutti contro i gesuiti.
Tra studi e reazioni, condanne e concessioni, accettazioni e rifiuti, interventi canonici e diplomatici, la confusione si protrae fino al 1744, con la condanna senza appello dei riti cinesi e malabarici. Solo nel 1939 Roma cancellerà quelle posizioni intransigenti. Ma ormai il guaio è fatto: la mentalità estremorientale non farà più differenza tra cristianesimo e potenze coloniali; la missione continua vivacchiando.

La missione segna il passo

Lo chiamano il «secolo dei lumi». Per la chiesa e l’evangelizzazione, il 1700 è un secolo disgraziato. Lo scontro tra l’assolutismo di stato e la chiesa si fa ogni anno più aspro. Il conflitto tra patronati e Propaganda Fide incancrenisce. Nuovi sistemi di pensiero minacciano di spazzar via il cristianesimo in blocco. Le vocazioni entrano in crisi. L’anticlericalismo si abbatte su chiesa, papato, ordini religiosi.
Vittime illustri del secolo dei lumi sono i gesuiti. Già bersagliati all’interno della chiesa per la «questione dei riti», incappano nelle ire dell’intellighenzia europea, che vede in essi il più forte baluardo del papato e dell’ortodossia. Uno dopo l’altro i paesi cattolici li cacciano, ne confiscano i beni e ne chiedono al papa la soppressione. Nella speranza di avere un po’ di tregua, nel 1773 Clemente XIV sopprime la Compagnia in tutta la chiesa: 30 mila missionari devono lasciare le loro opere e non sono rimpiazzati. A corto di personale, Propaganda è impotente a tamponare tale emorragia. Con la rivoluzione francese e l’impero napoleonico, Propaganda viene soppressa, insieme alle istituzioni che le foiscono missionari.
In Cina, dove 3 diocesi e 3 vicariati coprono un territorio immenso, il personale missionario è dimezzato. All’inizio del ’700 i cristiani sono circa 300 mila; alla fine del secolo scendono a 200 mila e cercano di sopravvivere con le proprie forze.
In India, ai francescani, domenicani, agostiniani, gesuiti, si aggiungono carmelitani spagnoli, cappuccini francesi e teatini italiani. Alle numerose diocesi del patronato portoghese, si affiancano i quattro vicariati istituiti da Propaganda. Nei primi 50 anni del 1700 i cattolici indiani passano da 800 mila a un milione. Ma nella seconda metà del secolo l’evangelizzazione avanza a passo di lumaca. Alla controversia dei riti malabarici e alla cacciata dei gesuiti, si aggiunge il crollo del patronato portoghese sotto i cannoni degli olandesi, francesi e inglesi. Nel 1763 l’India passa nelle mani della Compagnia inglese delle Indie Orientali. E comincia la concorrenza delle missioni protestanti.
In America, le missioni dei territori soggetti a Spagna e Portogallo sono ormai quasi tutte assorbite da un regolare ordinamento territoriale, articolate in arcidiocesi e diocesi. Ma con l’espulsione dei gesuiti le «riduzioni» cadono in rovina. Quello splendido processo di salvaguardia fisica e culturale delle popolazioni e di graduale integrazione nella nuova società viene bloccato e si ripropone daccapo il problema indigenista, ancora attuale ai giorni nostri.

EPOPEA CANADESE

I Martiri canadesi (1642-49). Sono otto gesuiti: sei padri e due fratelli. Renato Goupil: dottore, cura i suoi carnefici prima di spirare. È il primo martire, spirato per le torture subite (1642). Isacco Jogues: catturato e torturato insieme a Goupil, se la cava con le dita mozze e un anno di schiavitù. Ritorna a convertire gli uroni, suoi carnefici e viene ucciso con un colpo d’ascia (1646). Giovanni La Lande: fratello coadiutore, muore insieme a padre Jogues. Antonio Daniel: bersaglio di frecce e di archibugi, viene gettato nella chiesa in fiamme (1648). Giovanni de Brébeuf: in Canada dal 1625, è l’animatore della missione gesuita in Canada. Evangelizza algonchini e uroni: è bruciato vivo nel 1649. Gabriele Lalemand: muore insieme a Brébeuf, con le mani mozze. Carlo Gaier: colpito da archibugio, è finito a colpi d’ascia (fine 1649). Natale Chabanel: ucciso da un urone rinnegato e gettato nel fiume (1649).

Maria dell’Incaazione (1599-1672). Sposa, madre, vedova, a 31 anni diventa monaca orsolina. Prima missionaria nella storia della chiesa dell’era modea, approda a Québec nel 1639. Maestra e mistica, è definita «Teresa del Nuovo Mondo»; educatrice di generazioni di giovani indiane ed europee, è venerata come: «Madre della chiesa canadese».
Beatificata nel 1980, insieme a Caterina Tekakwitha.

MISSIONARI DI PROPAGANDA FIDE

Alexandre de Rhodes (1591-1660). Gesuita francese, missionario in India, Molucche e Macao: fluente in 12 lingue. Fonda la chiesa nel Tonchino e Cocincina (Vietnam), adattando il vangelo alla cultura locale e preparando ministri locali. Più volte cacciato, altrettante volte vi ritorna, finché è preso, condannato a morte ed espulso. Nel 1655 è in Persia, dove morirà.

François Pallu (1626-1684). Confondatore della Società per le Missioni Estere di Parigi. Vicario apostolico del Tonchino e amministratore in Cina, si stabilisce nel Siam, ma l’opposizione portoghese e la necessità di visitare i territori a lui affidati lo costringono a girare mezzo mondo, senza mettere piede nel Tonchino. Fonda un seminario per il clero locale. Muore in Cina.

Pierre Lambert de la Motte (1624-1679). Confondatore delle Missioni Estere, vicario apostolico della Cocincina e amministratore del Siam: perseguitato dall’inquisizione portoghese, difende i diritti di Propaganda Fide; fonda un seminario per il clero locale e una congregazione religiosa per donne indocinesi.

Ippolito Desideri (Pistornia 1684 – Roma 1733). Gesuita, esploratore e missionario in Tibet nel 1716. Stimato da re e Dalai-Lama, predica il vangelo, scrive vari volumi su lingua, cultura e religione tibetana e compone opere apologetiche accolte con favore. Nel 1721 passa in India, quando Propaganda Fide assegna il Tibet ai cappuccini.

Francesco Orazio da Pennabilli (1680-1745). Il più illustre missionario cappuccino in Tibet (1716-45), guida due spedizioni missionarie nel paese. Propaganda Fide lo nomina prefetto della missione di Lhasa. Lavora fino allo spasimo nella predicazione, compilazione di dizionari italiano-tibetano, italiano-hindi, opere etnografiche e traduzioni di libri biblici e di catechesi.