Il piccolo popolo di Batack


A Batack, villaggio nella zona centro occidentale del Camerun, la gente vive prevalentemente di agricoltura. Case di fango e bambù, e costruzioni dai tetti appuntiti in lamiera ondulata (in passato fatti di paglia) costellano il paesaggio come denti d’argento.

Elysée, uno dei giovani maestri della scuola elementare, mi accompagna con la sua motocicletta a fare visita al signor Tchapa, il presidente dell’associazione locale Covideba.

La sua residenza è un vero e proprio museo della cultura camerunense e africana: libri, statue, tappeti, quadri, antiche maschere tribali, reperti e testimonianze della cultura bamiléké.

Tchapa è una figura rappresentativa dell’intera comunità di Batack. Tutti i suoi sforzi sono volti a migliorare le condizioni di vita del villaggio e dei suoi abitanti che si definiscono Petit peuple de Batack.

Con la sua organizzazione è promotore di opere e progetti a favore dell’educazione scolastica, dell’agricoltura, dell’assistenza sanitaria.

Un uomo di grande umanità che, pur vivendo da solo, ha fatto della sua casa un luogo di riferimento per decine di persone con cui condivide spazi e risorse.

Il maestro Elysée

Il popolo bamiléké

Questa zona, ricca di montagne, altipiani e di una vegetazione lussureggiante che incornicia le strade rosso rame, è la casa del popolo Bamiléké, gruppo etnico organizzato in diverse chefferie (chiefdom in inglese, dominii o regni governati da un capo tradizionale, o chef, ndr) risultanti da un complesso movimento di migrazioni e conquiste avvenute nel XVIII secolo e in seguito alla penetrazione coloniale.

Quando i tedeschi raggiunsero la cresta dei monti Bamboutos, designarono la popolazione della zona con l’espressione Ba Mbu Léké, che significa le «popolazioni della valle».

I Bamiléké sono oggi raggruppati in sette dipartimenti (Bamboutos, Haut-Nkam, Hauts-Plateaux, Koung-Khi, Menoua, Mifi e Ndé) e in un centinaio di chefferie, di cui dieci di primo grado (Bandjoun, Bamougoum, Babadjou, Bana, Foto, Banka, Bangang, Bangangté, Batcham e Bafou).

Batack appartiene al dipartimento di Haut-Nkam segnato nel corso dei decenni da guerre tribali che hanno portato all’attuale configurazione delle chefferie.

Tipici villaggi mosernizzati con il tetto in lamiera invece del tradizionale tetto conico, sedi di chiefdom o Chefferie, dette in italiano dominio o capitanato.

Un mosaico di regni

Durante i nostri dialoghi serali, Tchapa mi racconta che nei territori del dipartimento di Haut-Nkam, molti membri dell’etnia Tikar arrivavano come cacciatori o guaritori e, in seguito, si univano in alleanze per soggiogare le popolazioni locali.

Tutta la regione è disseminata di chefferie, comunità locali guidate da capi depositari di un potere ancestrale, garanti dell’ordine, sia sul piano spirituale che sociale, culturale, amministrativo ed economico, delegati in questo dalle istituzioni pubbliche.

Lo chef di Batack è «Sa majesté Nguelieukam Deuna Christophe».

Povertà e diseguaglianze

Con un Pil pro capite di circa 1.500 dollari all’anno nel 2019, il Camerun si colloca a un livello medio basso sia in riferimento al reddito che all’indice di sviluppo umano.

A causa delle precarie condizioni alimentari e sanitarie, l’aspettativa di vita è di circa 59 anni. Quasi il 50% della popolazione vive con meno di tre dollari al giorno e lo sviluppo socioeconomico è fortemente influenzato da disuguaglianze persistenti, soprattutto nelle zone rurali come quella di Batack.

Anche la disuguaglianza di genere è importante.

Questi fattori portano a differenze anche nell’accesso alle opportunità educative.

L’assenteismo degli insegnanti e la corruzione nel ministero dell’Istruzione influiscono sulla qualità della scuola. Solo grazie a giovani insegnanti dediti come Elysée, le piccole comunità come Batack possono garantire l’istruzione ai bambini del villaggio.

L’accoglienza della comunità

Nonostante il contesto di povertà, l’accoglienza che l’intera comunità del villaggio mi riserva è emozionante.

Adulti, donne e bambini, si privano di quel poco che hanno per donarlo a me in segno di ospitalità: un mango, una papaia, un ananas, arachidi, semi di mais, cibo a base di manioca.

Di episodi come questi ne ho vissuti molti negli ultimi anni in Africa come in Asia, ma ogni volta mi fanno pensare, come se fosse la prima, al divario tra la nostra società «iper connessa» e la generosità e la condivisione di cui sono capaci queste popolazioni.

Dan Romeo
www.iviaggididan.it

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Camerun. La speranza è nella scuola


A distanza di tre anni sono ritornato nel paese per documentare una risposta di pace a una situazione di guerra le cui prime vittime sono i bambini. Anche solo una scuola materna diventa segno di speranza in un futuro migliore.

Nel mio viaggio precedente sono stato a Yaoundé, la capitale, e Douala (vedi Mc 04/2020). Questa volta la mia destinazione è il villaggio di Batack nell’Ovest del paese, nella provincia di Bafang, nell’area francofona, a un’altitudine di circa 1.500 metri, in una regione montuosa dalla vegetazione lussureggiante. Andando per qualche chilometro più a Ovest mi sarei addentrato nell’area anglofona della regione, epicentro di conflitti e di violenza etnica. Visitando i villaggi, incontro molte famiglie di lingua inglese, spesso costituite solo da donne e bambini. Fuggite dalle aree di crisi, hanno trovato rifugio nelle province confinanti. Molte di queste madri mi riportano racconti di distruzione dei loro villaggi e di violenze fisiche di cui portano spesso i segni. Segni che per alcune di loro e per i loro bambini, saranno permanenti.

Cameroon – Aprile 2022 – Nord-Ovest – Batack – Bafang District

La crisi umanitaria

Nove regioni su dieci del Camerun sono colpite da crisi umanitarie ormai croniche, causate dalle violenze nel bacino del lago Ciad e nelle regioni del Nord Ovest, aggravate delle azioni di Boko Haram, e nel Sud Ovest, dove perdura il conflitto nella zona anglofona.

A complicare tutto questo si aggiunge anche la presenza, nelle regioni orientali del paese, di oltre 300mila profughi provenienti dalla Repubblica Centrafricana. Il tutto aggravato dal deficit di sviluppo strutturale e da vulnerabilità che sfidano costantemente la popolazione.

Anche la pandemia ha contribuito a complicare la situazione colpendo la popolazione con circa 120mila casi confermati e quasi due mila decessi alla fine di maggio 2022. Numeri lontani da quelli a cui siamo abituati in Europa e nel resto del mondo, ma anch’essi influenti sul peggioramento della generale condizione sanitaria del paese.

La Repubblica del Camerun è al 153° posto su 189 nella classifica dei paesi per l’indice di sviluppo umano delle Nazioni Unite (che misura, oltre al Pil, le disuguaglianze di istruzione, la speranza di vita e altri indicatori).

In questo contesto, il supporto umanitario delle Ong internazionali e, tra esse anche quelle italiane, è determinante.

Natura incontaminata e piste rosse

La difficoltà maggiore nel visitare l’area di Batack è quella degli spostamenti tra i villaggi. Una volta lasciata la strada principale, le uniche vie di comunicazione sono le piste di terra rossa che si snodano nel mezzo della vegetazione. A causa delle piogge intermittenti, queste piste diventano difficili e faticose da percorrere. I nuclei familiari vivono sparsi e isolati in quelli che si definiscono compound (pezzo di terra di proprietà di una famiglia dove sorge la casa, ndr) e quindi visitarli significa percorrere in ogni direzione tutto il versante della montagna. Muoversi con un mezzo diverso da una motocicletta è impensabile. Ringrazio Elysée, uno dei maestri della scuola elementare di Batack, che si è offerto di accompagnarmi con la sua moto.

La scuola materna di Batack

A Batack c’è una scuola materna realizzata grazie alla collaborazione tra la Ong Movimento Sviluppo e Pace e l’organizzazione locale Covideba, il Comitato per lo sviluppo del villaggio di Batack. Il progetto della scuola vuole dare una risposta concreta, anche se parziale e locale, a una situazione di necessità o, meglio, d’emergenza.

Questa situazione è causata principalmente dalla scarsa capacità del sistema scolastico nazionale di creare infrastrutture per l’istruzione e di provvedere insegnanti qualificati sul territorio. Inoltre quelli assegnati dal governo a queste aree disagiate non trovano stimoli né strumenti per  svolgere il loro lavoro.

La mancanza di scuole e di insegnanti non aiuta certo i bambini nella loro formazione, anche perché le famiglie spesso non hanno la capacità di sostenere le spese dell’istruzione a causa della povertà. I minori sono esposti all’abbandono scolastico e, di conseguenza, costretti a lavorare per aiutare la famiglia.

I matrimoni precoci, la delinquenza giovanile, il consumo di droga, la prostituzione ne sono alcune delle conseguenze.

La spesa statale per l’istruzione in Camerun è relativamente bassa rispetto ad altri paesi africani, e la situazione di conflitto degli ultimi anni ha portato alla chiusura, alla distruzione o all’abbandono di molte scuole.

Nonostante questi problemi che affliggono la vita dei piccoli camerunesi, c’è speranza. I tassi di iscrizione all’università in Camerun sono aumentati del 22% negli ultimi 20 anni e l’alfabetizzazione media degli adulti è in costante crescita. Ne è un esempio l’Università di Bafang, che ho avuto modo di visitare, nella quale grazie al supporto di alcune Ong, verranno avviati progetti di formazione e innovazione tecnologica e di sviluppo sostenibile in ambiti come agricoltura, sanità, istruzione e formazione.

Dan Romeo
www.iviaggididan.it  Camerun /1 – continua)

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Libano, rifugiati e con pochi diritti /2


Tra i profughi palestinesi e siriani in alcuni dei molti campi presenti in un paese attraversato da una profonda crisi sociale ed economica che pesa anche sulla vita dei rifugiati.

Accompagnato da personale della Wpa (Women’s program association), da Beirut scendo verso Tyre (l’antica Tiro dei Fenici). Qui ci sono tre campi profughi: Rashidiye, Burj Shamali e El Buss.

Come per tutti i campi, l’accesso a Rashdiye è permesso solo attraversando un checkpoint presidiato da militari armati e dotati di mezzi blindati. Il campo è circondato da muri di recinzione sormontati da filo spinato. Per problemi di sicurezza posso visitare solo la sede della Wpa. Alcune donne siriane mi raccontano della loro fuga dalla guerra e delle enormi difficoltà che ancora oggi affrontano a causa delle discriminazioni che il governo libanese attua nei loro confronti. Diritti negati soprattutto per le cure mediche dei loro bambini a volte affetti da patologie che richiederebbero anche un ricovero ospedaliero. Durante la riunione, sentiamo diversi colpi di arma da fuoco esplosi a poca distanza. I responsabili di Wpa mi chiedono di abbandonare rapidamente il campo.

Campo di Burj Shamali

Ci muoviamo alla volta del campo di Burj Shamali. Qui, come da prassi comune ovunque, ogni rifugiato riceve 17 dollari al mese dall’Unrwa, del tutto insufficienti per la sussistenza e per garantire ai bambini l’istruzione e il diritto di frequentare la scuola. Manal mi invita a visitare la sua casa dove vive con i suoi quattro figli dopo essere fuggita senza il marito, catturato e probabilmente ucciso dai militari in Siria. La donna era un’insegnante e oggi vive una vita di stenti, priva di riconoscimento dello status di rifugiata e alle prese con una malattia del sangue di suo figlio minore di nome Mostafah. Incontro decine di famiglie. Quasi tutte prive della figura paterna. Ognuna di esse porta con sé la testimonianza di una vita distrutta dalla guerra e di un dolore passato che si lega alle difficoltà presenti.

Campo di El Buss

El Buss è uno dei campi più grandi del Libano. Al centro educativo del Wpa siamo accolti dalle donne e dai bambini che seguono le attività formative pomeridiane. I bambini sono attratti dalla mia macchina fotografica e così improvviso un corso di fotografia accelerato. Mentre i piccoli prendono confidenza con la mia reflex, una bambina attira la mia attenzione per la sua spontaneità e per il fatto per porta un rosario attorno al collo. Il suo nome è Asia, ha undici anni ed è l’unica che ho visto manifestare apertamente la sua fede cristiana (foto qui a destra).

Frequentare le attività post scolastiche ha un costo mensile di 10mila lire libanesi (circa 7 €) per bambino, ma la maggior parte delle famiglie non riesce a sostenere questa spesa.

Nel campo di El Buss incontro una coppia di anziani palestinesi che mi invita nella propria abitazione. I due sono in compagnia di figli e nipoti, e mi raccontano la storia drammatica del loro arrivo in questo campo. La donna (nella foto qui a destra) è arrivata nel 1948, aveva dodici anni ed era fuggita a piedi nudi, da sola, per raggiungere il Libano. Nel campo ha incontrato quello che sarebbe diventato suo marito, anch’egli arrivato a El Buss in condizioni disperate.

Campo di Wavel

Situato nella regione orientale del Libano al confine con la Siria, il campo profughi di Wavel era originariamente un sito dell’esercito francese nella valle della Beqaa. Ha fornito rifugio ai palestinesi nel 1948 e l’Unrwa ne ha assunto la responsabilità nel 1952. Grazie alla lontananza da Beirut, i controlli da parte dell’esercito libanese per l’accesso sono meno severi che altrove.

Qui l’istruzione viene fornita a circa mille studenti della Secondary School e sono presenti due asili entrambi gestiti da organizzazioni non governative locali. A causa della posizione remota del campo, l’accesso ai servizi sanitari è difficile e costoso.

Per la vicinanza alla Siria, ci sono migliaia di profughi siriani e palestinesi-siriani. Questi ultimi sono palestinesi che erano rifugiati in Siria e che oggi si trovano a essere nuovamente rifugiati in Libano. Molti di loro mi raccontano che nell’area intorno a Wavel ci sono decine di campi non ufficiali e fuori dalla giurisdizione libanese e dagli aiuti ufficiali di Unrwa.

Una delle famiglie accetta di farmi visitare la propria casa. Il filo conduttore dei loro racconti è sempre la guerra in Siria. Fuggiti dalla guerra, i due genitori con i quattro figli si sono rifugiati in Libano. La casa ha due stanze molto piccole. Durante l’inverno sono costretti ad installare un sistema molto precario di riscaldamento a carbone che scarica all’interno delle due stanze gran parte dei fumi della combustione. La donna non ha un lavoro stabile e l’unico sostentamento per i suoi figli è quello che arriva da Unrwa, appena sufficiente per sfamarli, ma non per la scuola. Il loro desiderio più grande, come per tutti gli altri rifugiati che ho incontrato, è quello di raggiungere un qualsiasi paese europeo. Con ogni mezzo.

Quale futuro

Il giovane scrittore siriano palestinese Bassam Jamil, incontrato nel campo di Wavel, mi spiega che i rifugiati sono convinti di essere tenuti in ostaggio in modalità indefinita senza una seria e concreta intenzione di risolvere la loro situazione. Una condizione di immobilità priva di ogni diritto umano. Ciò che più manca loro è di avere un’opportunità per dimostrare di poter emergere, di essere in grado di costruire il proprio futuro attraverso un lavoro riconquistando la loro dignità. Non hanno bisogno di sussidi. Hanno bisogno di opportunità.

Dan Romeo

Prima puntata: Libano, nei campi dei rifugiati palestinesi, MC 03/2022

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(Libano 2 – fine)

 




Libano, nei campi dei rifugiati palestinesi /1


Ritorno nel Libano segnato dalla crisi economica e politica, dalla distruzione del porto di Beirut, e dalla presenza dei campi dei palestinesi, arrivati a partire dal 1948 e poi moltiplicatisi con il divampare della guerra in Siria.

Nell’ottobre del 2021 sono tornato in Libano a due anni dal reportage nel campo di Burj El Barajneh di Beirut (vedi MC 8-9/2020) grazie alla collaborazione con Wpa – Women’s program association, un’organizzazione umanitaria palestinese che svolge la propria attività nei campi profughi del paese.

Travolta dalla crisi economica iniziata nel 2018, Beirut è una città profondamente cambiata in termini di organizzazione, condizioni di vita, povertà, disagio sociale, igiene pubblica, livelli di militarizzazione. A contribuire a questo degrado c’è stata anche l’esplosione del porto del 4 agosto 2020 a causa della quale persero la vita 218 persone.

Un po’ di storia

Nel Medio Oriente ci sono 58 campi profughi palestinesi ufficiali. Si trovano in Giordania, Cisgiordania, Gaza, Siria e Libano. Molti sono stati creati nel 1948 a seguito della prima guerra arabo israeliana. Altri sono nati dopo le guerre del 1967 e 1973 e, più recentemente, dopo la guerra in Siria, per i palestinesi siriani. Circa 1,5 milioni di rifugiati vivono nei campi ufficiali. I rifugiati palestinesi, secondo la definizione accettata dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), sarebbero le «persone il cui luogo di residenza era la Palestina nel periodo dal 1° giugno 1946 al 15 maggio 1948 e che hanno perso sia la casa che i mezzi di sussistenza a causa del conflitto del 1948».

Dal 1948 ne sono stati registrati circa 450mila in Libano. Più della metà vive in 12 campi sovrapopolati che avrebbero dovuto fornire loro alloggi temporanei. Tuttavia, settanta anni dopo, centinaia di migliaia di palestinesi apolidi vivono ancora in quelle strutture ormai fatiscenti.

Visita campo profughi di Burj El Barajneh a Beirut

Vita nei campi

Le condizioni di vita nei campi sono pessime. Le abitazioni sono sovraffollate e i campi mancano di infrastrutture di base come strade o servizi igienico sanitari. Spesso, durante i periodi di crisi, rimangono senza elettricità anche per tempi molto lunghi. Circa un quarto delle famiglie non ha il riscaldamento e la maggior parte delle abitazioni sono in condizioni di elevata umidità e hanno perdite d’acqua.

Ad aumentare le precarie condizioni è la carenza di finestre nelle abitazioni. Queste, quindi, hanno una ventilazione molto bassa, oltre all’assenza di illuminazione naturale. Il problema maggiore è il sovraffollamento: quasi la metà delle famiglie vivono in spazi ristretti e con una media di quattro persone per stanza.

Salute, igiene e nutrizione

I rifugiati palestinesi hanno un accesso limitato a cure mediche e farmaci e soffrono di un’alimentazione non adeguata e di una scarsa igiene. La malnutrizione è un problema in tutti i campi del Libano, indipendentemente dalla loro ubicazione. Questa costituisce il principale ostacolo al normale sviluppo dei bambini. Le organizzazioni internazionali e l’Unrwa (United Nations relief and works agency for palestine refugees in the Near East) forniscono assistenza sanitaria di base, ma spesso i rifugiati devono ricorrere a ospedali privati, quindi costosi. Un alloggio fatiscente e una cattiva igiene portano a malattie e problemi di salute che creano altre difficoltà finanziarie per le famiglie e le spingono ancora più nella povertà.

Lavoro

Il tasso di disoccupazione tra i profughi palestinesi arriva al 56% e la quasi totalità dei rifugiati vive con l’equivalente di 6 dollari al giorno. Circa il 50% della popolazione ha solo le competenze minime necessarie per un lavoro. Un altro 10% non ha mai frequentato la scuola. La situazione è particolarmente grave per i profughi palestinesi giunti dalla Siria. In Libano solo il 38% dei rifugiati in età lavorativa ha un impiego. Sebbene nove su dieci siano nati in Libano, questi sono trattati come lavoratori stranieri. Inoltre, per lavorare sono necessari permessi costosi, che pochi datori di lavoro libanesi sono disposti a pagare. I rifugiati non possono svolgere una serie di professioni, come quelle di avvocati, ingegneri e medici. La competizione per i posti di lavoro disponibili è diventata ancora più serrata da quando la crisi siriana ha portato in Libano due milioni di rifugiati siriani. Questi, disperati per sostenere le loro famiglie sono disposti a lavorare spesso per un salario al di sotto del minimo. È difficile per i palestinesi trovare un lavoro diverso da mansioni umili con salari molto bassi in settori come servizi igienico sanitari, agricoltura, edilizia. Le donne trovano invece lavoro come badanti, infermiere o domestiche.

Visita campo profughi di Burj El Barajneh a Beirut

Istruzione non adeguata

Un altro grave problema nei campi è la mancanza di accesso a un’istruzione adeguata. L’Unrwa provvede risorse educative a mezzo milione di bambini nei vari campi, e organizzazioni locali come la Wpa – Women’s program association – offrono risorse e supporto aggiuntivo. Tuttavia, queste risorse sono insufficienti e non forniscono ai giovani palestinesi le competenze di cui hanno bisogno per trovare un lavoro. Nei campi le scuole sono sovraffollate e oltre i due terzi di esse funzionano su doppi turni. Un altro ostacolo all’istruzione è l’impossibilità per i rifugiati di accedere alle scuole pubbliche libanesi. Ciò significa che l’unico accesso all’istruzione è consentito in una di quelle gestite dall’Unrwa o in quelle private, che però vanno al di là dei mezzi finanziari di quasi tutte le famiglie. Le scuole nei campi sono spesso fatiscenti. Ai rifugiati palestinesi non è permesso riparare alcun edificio per questo le strutture sono destinate a un inesorabile degrado.

I tassi di abbandono scolastico in Libano sono più alti che in Giordania, Cisgiordania e Gaza, arrivando a circa il 25% tra i bambini di età superiore ai sei anni. Coloro che nonostante tutte le difficoltà riescono a diplomarsi alla scuola secondaria non proseguono con l’istruzione superiore (collegi professionali o università) sia a causa dei costi per loro inaccessibili, sia perché sentono che non saranno in grado di trovare un lavoro al termine degli studi.

Dan Romeo
(Libano 1 – continua)

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I villaggi galleggianti del lago Tonlé Sap

Tonlé Sap è un bacino idrografico della Cambogia. Nel 1997 è stato designato dall’Unesco come «riserva della biosfera». Il nome letteralmente significa «Grande fiume dalle acque fresche», più semplicemente detto «Grande lago».

Riconosciuto come il più grande lago d’acqua dolce dell’intera regione, il Tonlé Sap è alimentato da un fiume dello stesso nome e poi va a defluire nel fiume Mekong. Il flusso d’acqua si inverte a seconda del periodo dell’anno. Durante la stagione delle piogge (da maggio a ottobre) la superficie del lago aumenta fino a sei o sette volte la sua dimensione normale, che è di circa 2.600 km², perché il fiume Mekong si ingrossa tanto che le sue acque ritornano nel lago. Quando torna la stagione secca e le acque del Mekong si abbassano, anche il lago defluisce normalmente e rientra nelle sue dimensioni normali. Si crea quindi un ecosistema unico con le regioni costiere caratterizzate da terreni resi molto fertili dalle periodiche inondazioni, e quindi ottimi per la coltivazione del riso. Il lago stesso è molto pescoso.

Il Tonlé Sap ha segnato in profondità la vita della gente, caratterizzandone la cultura e il modo di vivere. La natura fluttuante del lago e il litorale in continua espansione e diminuzione hanno obbligato la gente del posto ad adattarsi. La loro soluzione è stata quella di progettare villaggi galleggianti.

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Nel villaggio galleggiante

Save the Children Cambodia e Actionaid sostengono l’educazione e il sistema scolastico di alcuni villaggi del lago. Le immagini di queste pagine mostrano la vita di una scuola galleggiante frequentata daii bambini del villaggio di Kampong Luong nella parte Sud del grande lago.

Superate in qualche modo le devastazioni dell’invasione vietnamita e del regime dei Khmer rossi, oggi i villaggi galleggianti sono diventati un rifugio sicuro per molte famiglie di pescatori che vivono godendo di una vita relativamente tranquilla garantita dalla pescosità del lago. Qui i bambini possono frequentare la scuola.

Piccola come una casa di poche stanze, l’edificio galleggiante offre spazio per l’istruzione primaria a circa cinquanta studenti ogni anno.

La barca è il mezzo di trasporto più comune per gli studenti. Alcuni ne usano una comune, altri ne prendono una da soli. Libri e quaderni vengono accuratamente chiusi in sacchetti di plastica per proteggerli da spruzzi di acqua o in caso di pioggia lungo il tragitto.

Sebbene tutti gli studenti indossino uniformi, non sempre arrivano in ottime condizioni. Quasi nessuno dei bambini porta le scarpe a scuola. Non è un obbligo scolastico, perché sul lago le scarpe sono superflue.

La voglia di riscatto di questi bambini è simile a quella di tutti i ragazzi del mondo, indipendentemente dalla loro condizione sociale.

Dan Romeo
www.iviaggididan.it

Il villaggio galleggiante di Kampong Luong (da Google Earth)




Phnom Penh, vita ai margini

testo e foto di Dan Romeo | iviaggididan.it |


Viaggio nelle periferie di una città che fatica a rinascere dopo le violenze dei Khmer rossi e l’occupazione vietnamita. Periferie dove degrado e abbandono sembrano i padroni, ma dove il sorriso dei bambini è canto di speranza.

Profondamente segnata dalla guerra, dal genocidio perpetrato dai Khmer rossi e dalla successiva invasione dell’esercito vietnamita ritiratosi solo nel 1989, la Cambogia si sta lentamente ricostruendo e da alcuni anni sta attraversando una fase di crescita economica. Tuttavia, con i suoi quasi 17 milioni di abitanti, rimane uno dei paesi più poveri del Sud Est asiatico e del mondo. Secondo la Banca Mondiale, nel 2019 il reddito nazionale lordo (Rnl) pro capite in Cambogia era di circa 1.643 dollari, 20 volte inferiore a quello medio italiano.

In questo contesto di estrema povertà, è difficile per molti cambogiani vivere in condizioni dignitose e nella sola Phnom Penh si contano circa 500 comunità urbane (baraccopoli) sotto la soglia di povertà. Queste rappresentano circa il 25% della popolazione della capitale.

Tipicamente le comunità urbane povere devono affrontare molte sfide, tra cui le scarse condizioni igienico-sanitarie e gli alti tassi di dissenteria e malnutrizione. La mancanza di servizi igienici, di un adeguato drenaggio delle acque piovane, di un sistema fognario e di quello di smaltimento dei rifiuti, e la presenza di baracche sovraffollate, sono problemi comuni in queste comunità. La situazione è aggravata dagli alti tassi di violenza domestica, in particolare sui bambini.

Con gli occhi di Save the Children

Alcuni anni fa, con l’aiuto di Save the children Cambodia ho potuto visitare queste comunità. La Ong sostiene il governo cambogiano nel promuovere l’accesso alle cure sanitarie per le persone vulnerabili e offre supporto a progetti di istruzione scolastica in decine di villaggi.

Grazie a questo supporto, la diffusione delle malattie è diminuita, tuttavia resta ancora molto da fare per garantire la salute di tutti i bambini e delle loro madri.

Ho visitato alcuni tra i più grandi slum di Phnom Penh: Andong, Phum 15, Sangkat Tek L’Eok 1, Khan Toul Kork, Borey Keyla, Beng Kork. In questi slum si vive in baracche fatte di lamiera ondulata e assi. I bambini vi giocano davanti, circondati da cumuli di spazzatura. La gran parte di queste cosiddette case non hanno servizi igienici, e spesso sono costruite su palafitte sopra pozze di liquami coperte di spazzatura galleggiante. Barattoli di ogni genere sono usati per raccogliere l’acqua piovana per bere o cucinare. Quando non piove ogni acqua diventa buona, però bere e lavarsi con acqua inquinata causa spesso malattie intestinali e infezioni della pelle.

Tra le baracche scorrono canali, nei quali spesso i bambini giocano, il che provoca loro decine di malattie. Quest’acqua, stagnante nella stagione secca, è anchel’habitat ideale per le zanzare che portano la febbre Dengue, ormai endemica.

La situazione sanitaria della comunità diventa ancora più grave durante la stagione delle piogge, quando le inondazioni sono frequenti.

Cura della salute

Uno dei principali problemi legati all’assistenza sanitaria di bambini e di adolescenti in queste comunità è la mancanza di certificati di nascita. È una realtà molto comune in queste baraccopoli cresciute per l’afflusso senza controllo di gente dalle campagne, costrette a fuggire da situazioni di insicurezza a causa delle mine disseminate nei campi e della violenza della guerra. Per questo motivo, la maggior parte delle comunità non sono censite e gli abitanti non hanno una residenza ufficiale. Formalmente non esistono e non possono godere dei loro diritti primari. Inoltre le autorità non fanno nulla per risanare l’ambiente e negano pure l’autorizzazione a trasformare le baracche in strutture permanenti.

La mancanza della residenza porta anche alla difficoltà di espletare pratiche basilari come l’iscrizione dei figli a scuola o la regolarizzazione del lavoro per gli adulti. I bambini vivono quindi in uno stato di abbandono e violenza e spesso sono costretti a lavorare per contribuire alla sopravvivenza della propria famiglia.

Dan Romeo
dan@dan.ph

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Bambini ai margini:

nella trappola della povertà

testo e foto di Dan Romeo |


Conosciuta come il «Tibet delle Americhe», a causa della sua posizione ad alta quota, la Bolivia vive un forte contrasto tra i celebri e prevedibili paesaggi immortalati sui social e la realtà vissuta dalla gente, soprattutto i più giovani e i bambini.

Quasi la metà della popolazione boliviana ha meno di 18 anni, la maggioranza della quale vive al di sotto della soglia di povertà stabilita dall’Onu. Circa due milioni di bambini vivono in condizioni di estrema povertà. Si calcola che di questi più di 700mila siano costretti a lavorare per aiutare la famiglia, e che oltre 300mila trascorrano le loro esistenze per strada.

Nell’ottobre del 2019 sono andato a Cochabamba, una delle principali città della Bolivia, per documentare l’impegno della Ong Bolivia Digna, una Ong locale che lavora con l’obiettivo di promuovere e difendere i diritti dei bambini, degli adolescenti e di altri gruppi sociali vulnerabili che vivono nell’esclusione e nella povertà. L’organizzazione offre loro la possibilità di essere e sentirsi semplicemente bambini, alleviando la pressione del lavoro infantile per alcune ore durante l’arco della giornata.

Il lavoro della Ong è reso possibile grazie al supporto di volontari locali e internazionali che si uniscono per offrire ai piccoli la possibilità di giocare, imparare e sviluppare abilità che altrimenti non sarebbero a loro disposizione. L’Organizzazione opera principalmente in alcune aree situate nei sobborghi di Cochabamba e in particolare in alcune comunità rurali del Mercado Campesino e di Arocagua.

Mercado Campesino

Cochabamba si mostra agli occhi dei turisti di passaggio come una città dalla vitalità esuberante. E in rapida crescita a causa della migrazione di migliaia di persone che vi si trasferiscono dalle aree rurali. Questi flussi migratori interni hanno causato il fiorire di una miriade di agglomerati fatiscenti nelle aree di periferia, i barrios, baraccopoli prive delle infrastrutture e servizi di base come acqua, elettricità e fognature.

Mercado Campesino è uno di questi barrios nella zona Nord della città, abitati da persone povere e spesso senza un lavoro che garantisca loro il sostentamento. Molti adulti sono analfabeti e lavorano con orari massacranti per paghe insufficienti ai bisogni della famiglia. Così i bambini soffrono di una mancanza cronica di attenzioni e cure da parte dei genitori che non sono in grado di provvedere alla loro crescita. Bambini e adolescenti sono spesso abbandonati a se stessi, impegnati a prendersi cura dei fratelli più piccoli, e a rischio di diventare vittime di abusi fisici, psicologici e sessuali e di tratta di esseri umani. Mancano del sostegno necessario per poter sfuggire alla trappola della povertà.

Arocagua, situato a Est, è un altro di quei barrios. Là ho trascorso la maggior parte delle giornate con le macchine fotografiche riposte nello zaino, dedicandomi a interagire e giocare con i bambini. Le mie buffe battute e i racconti improvvisati con uno spagnolo molto elementare e spesso sgrammaticato hanno fatto il resto, rompendo gli indugi e mettendo i bambini a proprio agio. Due settimane sono trascorse veloci alla scoperta delle vite di quei piccoli bambini e delle loro famiglie. Qui ho incontrato Ester. Abbandonata appena nata dai suoi genitori, ha avuto la fortuna di essere affidata alle cure della nonna, una anziana di etnia quechua che non ha mai imparato lo spagnolo e che si prende cura di sua nipote tra le lamiere della loro «casa». Grazie al supporto di Bolivia Digna, Ester è stata adottata a distanza.

Ester con la nonna

Ester

Il Parco Nazionale di Torotoro

Cochabamba è anche la base per avventure ed escursioni ad alta quota, comprese le gite al Parco nazionale di Torotoro. Uno dei parchi più piccoli della Bolivia, Torotoro è rimasto fuori dai percorsi turistici, il che ne rende la scoperta ancora più meravigliosa. I suoi tesori sono geologici, archeologici e storici, con oltre 2.500 impronte di dinosauri incise nelle rocce del periodo paleozoico e cretaceo, canyon e gole profonde dalla vegetazione lussureggiante e grotte calcaree a decine di metri di profondità, grandi abbastanza da ospitare laghi e cascate. Tutto questo accompagnato dalla calda ospitalità, dall’umorismo e dalla curiosità del mosaico culturale e linguistico della gente di qua.

Dan Romeo
www.iviaggididan.it

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Mongolia, verso il deserto del Gobi


Il deserto del Gobi è una vasta regione di terra desertica e semi desertica che si estende dalla Cina settentrionale alla Mongolia meridionale coprendo quasi un milione e 300mila km2 (almeno 4 volte l’Italia). Il suo nome evoca immagini di un paesaggio remoto, e di nomadi che cavalcano liberi attraverso la steppa.

Poche esperienze riuniscono l’insolito e l’epico come quella di attraversare il deserto della Mongolia. Si viaggia su strade sterrate e non segnate sulle mappe, sballottati sul sedile posteriore di un fuoristrada, e si spera che lungo il tragitto non capitino imprevisti che, nel mezzo del nulla, diventerebbero problemi di difficile soluzione.

Spesso immaginato come luogo di un caldo insopportabile e di dune di sabbia in movimento, il deserto del Gobi è tutto questo e molto di più.

Lungo il percorso verso le Khongoryn Els (le «dune cantanti»), attraversiamo vaste pianure, passando tra alte vette e catene montuose, dune di sabbia e valli rocciose. Un ambiente benedetto da un cielo eternamente limpido, sabbie dorate, miraggi blu e una distesa infinita di terre steppiche. Qui, le strette pareti della Yolyn Am («la valle degli avvoltoi», una profonda gola sempre ghiacciata nelle montagne del Gurvan Saikhan, ndr) sembrano fuori posto, così come i lastroni di ghiaccio che storicamente ne ricoprivano il fondovalle anche durante l’estate. Oggi purtroppo, a causa dei cambiamenti climatici, né il ghiaccio né gli omonimi avvoltoi Yol resistono al calore dei giorni più torridi di luglio.

Quando arriviamo a Bayanzag ci sorprende la bellezza selvaggia delle sue «Scogliere fiammeggianti» (The flaming cliff). In queste terre Roy Chapman Andrews scoprì nel 1923 i primi fossili scientificamente riconosciuti di uova di dinosauro. Al tramonto, le Scogliere fiammeggianti assumono un colore rosso profondo e un aspetto misterioso con le loro ombre viola tra i canyon, le grotte, le rovine di templi e villaggi un tempo abitati dai monaci.

Cavalli al pascolo sullo sfondo delle Singing Sands del Gobi Gurvansaikhan National Park

Verso le Khongoryn Els

Siamo sorpresi dalla presenza di molta vita rurale nel deserto. Ci imbattiamo in diverse famiglie di pastori nomadi che vivono nelle loro gher. Al nostro arrivo, le abitazioni si animano improvvisamente di bambini che escono di corsa dal loro rifugio. L’eccitazione poi si trasforma rapidamente in timidezza quando vedono che siamo stranieri.

Il Gobi è anche l’esperienza di dormire in una gher. Le notti trascorse nelle tipiche strutture mongole portano con sé anche indimenticabili momenti di contatto e di dialogo con persone del luogo sorseggiando tè e airag, il latte di cavallo leggermente fermentato.

Le Singing Sands del Gobi Gurvansaikhan National Park

Le Singing Sands del Gobi Gurvansaikhan National Park

Il tramonto finale

L’ultima tappa è stata organizzata nei minimi dettagli per fare in modo di arrivare alla destinazione finale prima del calare del sole. Il tramonto sulle dune di Khongoryn Els è uno dei desideri più forti nel nostro immaginario.

Khongoryn Els è il deserto che abbiamo sempre sognato: arrampicarsi sulle sommità delle dune mentre i passi scivolano all’indietro lungo il pendio sabbioso, guardare il deserto più grande dell’Asia da «montagne» di sabbia alte fino a 300 metri. Osservare dune susseguirsi a perdita d’occhio e contemplare il calare del sole.

È un momento di totale e silenziosa simbiosi con l’ambiente, la sabbia e l’orizzonte che si fondono nel rosso intenso che lentamente lascia il posto al blu profondo dell’immenso cielo stellato.

I paesaggi sconfinati, la sabbia dorata, il rosso, il verde, il blu cobalto, ma soprattutto i sorrisi dei bambini, lo sguardo fiero dei nomadi, sono solo alcune delle molte istantanee che la Mongolia può regalare.

Le Singing Sands del Gobi Gurvansaikhan National Park

Deserto del Gobi

Il Festival del Naadam

Per ricordare le gesta e la potenza di Chinggis Khan, il guerriero che fondò l’impero più vasto nella storia dell’umanità, ogni estate i mongoli si riuniscono durante la festa del Naadam per gareggiare nei «tre sport virili»: equitazione, lotta e tiro con l’arco. Il più grande evento del Naadam si svolge a luglio presso lo Stadio nazionale di Ulaan Baatar, ma ogni regione ha poi il suo festival, e le gare delle zone rurali sono i veri baluardi della tradizione nomade e guerriera di questo popolo. Il festival è il punto di incontro più autentico con la cultura mongola: bambini a cavallo in gara lungo percorsi di 20 km, lottatori di ogni stazza, arcieri che perforano bersagli con precisione millimetrica.

Un’esperienza indimenticabile.

Dan Romeo | dan@dan.ph




Mongolia. Lo sguardo oltre l’infinito

testo e foto di Dan Romeo | www.iviaggididan.it |


Ricordi impressi nelle immagini che dipingono paesaggi desertici, scenari lunari, cieli blu cobalto, orizzonti infiniti dai colori saturi e contrastati. Memorie romantiche e nostalgiche.

La Mongolia è un paese sorprendente che ti porta, attraverso una grande varietà di paesaggi sconfinati, dalla terra arida e piatta della steppa al caldo soffocante (o al freddo a -40°) del deserto del Gobi. Le distanze sono incredibilmente grandi, possono passare molte ore di viaggio (in fuoristrada) senza intravedere alcuna presenza umana, quando in lontananza si scorgono finalmente piccole strutture bianche circolari. Sono le yurte, dall’antico nome turco adottato dai Russi, ma i Mongoli le chiamano gher, che significa abitazione.

Nelle parole di suor Esperanza, missionaria della Consolata di origini colombiane, c’è una definizione che descrive perfettamente il rapporto simbiotico tra la gente di qui e l’ambiente. «Il popolo mongolo ha bisogno della purezza dell’aria per respirare e per vivere, dell’ampiezza di un respiro infinito come l’orizzonte del cielo che ti viene incontro e ti sostiene. Quando sembra che stia per finire dietro una montagna, si riapre e riparte verso l’indefinito offrendosi allo sguardo incredulo di chi supera la cima. È come il senso della nostra vita».

I numeri da record fragile ecosistema

La Mongolia detiene molti record. È una nazione tra le prime 20 più estese al mondo, ma con appena 3 milioni di abitanti (dei quali oltre la metà vivono nella capitale Ulaanbaatar e dintorni). Il deserto del Gobi è il quinto deserto più grande e copre un’area di quasi 1,3 milioni di km2, quattro volte l’Italia, mentre la Mongolia stessa si estende per quasi 1,6 milioni di km2. Quello che colpisce di più è però il numero di animali da allevamento: ben 64 milioni di capi tra pecore, capre, mucche, cavalli e cammelli. Ma la Mongolia è molto di più che questi enormi numeri e uno dei deserti più affascinanti del mondo. È un paese di contrasti e di colori.

Il popolo mongolo è costituito da circa 20 gruppi di etnie diverse.  I Khalkh sono il gruppo più numeroso e quello più diffuso in tutta l’Asia settentrionale. Gli appartenenti a questa etnia sono considerati i discendenti diretti del clan di Chinggis Khaan (che noi conosciamo come Gengis Khan), e quindi i veri conservatori della cultura mongola. Nel tredicesimo secolo, Chinggis Khaan formò il più grande impero nella storia del mondo. La lingua khalkha è di conseguenza la principale lingua mongola.

Un popolo nomade

La vita del popolo nomade della Mongolia, che costituisce circa un terzo della popolazione totale della nazione, è stata plasmata dal clima per oltre tre millenni. Questi pastori, che vivono nelle vaste steppe del paese, dove pascolano il loro bestiame, fonte principale del loro sostentamento, hanno sviluppato un elevato livello di resilienza che li aiuta a rimanere in equilibrio con la natura.

Il clima secco e la scarsità d’acqua dell’Asia centrale, combinati con il suolo in gran parte inadatto all’agricoltura, hanno portato le popolazioni locali a prendersi cura del proprio ambiente. Conoscono infatti i tempi lunghi che l’ecosistema nel quale vivono impiega per rigenerarsi. Il sostentamento dei nuclei nomadi dipende dal loro bestiame e quando i pascoli si esauriscono, essi sono costretti a spostarsi.

Purtroppo, a causa degli imperativi economici di un mercato globalizzato e dei cambiamenti climatici, che stanno entrambi degradando rapidamente i pascoli della Mongolia, i pastori nomadi non riescono più ad adattarsi.

Oggi, a causa della scarsità di cibo e delle difficili condizioni climatiche e naturali, molti di loro sono costretti a migrare verso i centri urbani e a unirsi ai ranghi dei poveri.

I «Gher District»

Negli ultimi tre decenni, più di 600mila pastori, circa il 20% della popolazione del paese, hanno abbandonato il loro stile di vita nomade e si sono trasferiti nella capitale Ulaanbaatar, che ora sta lottando per fornire servizi di base alla sua popolazione in rapida espansione. Queste famiglie hanno abbandonato i loro animali e, in alternativa alle steppe sconfinate, hanno scelto la relativa sicurezza dei «Gher District», aree alla periferia di Ulaanbaatar costituite dalle tradizionali dimore mongole.

Non c’è stata alcuna pianificazione urbanistica nel modo in cui questi distretti sono stati creati, e gli agglomerati di gher sono cresciuti a dismisura.

Il tenore di vita in queste zone è molto basso. Inoltre, il carbone bruciato durante l’inverno dalle famiglie in questi insediamenti ha trasformato Ulaanbaatar in una delle città più inquinate del mondo.

Le sfide

La Mongolia sta affrontando sfide vitali per preservare il suo stile di vita tradizionale e l’equilibrio naturale. L’alto livello di inquinamento della capitale e l’aggressiva politica mineraria attuata in collaborazione (e dipendenza) con i Cinesi, creano seri problemi all’ambiente.

Tuttavia l’aspetto positivo è che c’è una popolazione di giovani, istruita e ambiziosa con una formazione solida nell’ambito dell’ecoturismo, delle tecnologie, delle scienze ambientali e dello sviluppo sostenibile. Tutto questo sta portando a un cambiamento di atteggiamento. Molte iniziative dal basso stanno prendendo forma con l’obiettivo di risolvere i problemi della dipendenza dal carbone e dello sfruttamento delle risorse naturali, comprese iniziative per salvare la fauna selvatica in via di estinzione.

Dan Romeo

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Questo reportage fotografico in una terra difficile e complessa come la Mongolia è stato possibile grazie ai Missionari della Consolata e all’organizzazione sul campo di mons. (allora ancora «padre») Giorgio Marengo che ci ha accompagnato alla scoperta delle radici, della cultura, delle religioni e delle sfide di questo popolo. Nel prossimo appuntamento andremo alla scoperta del tradizionale Naadam Festival e dei paesaggi selvaggi e surreali che fanno della Mongolia uno dei luoghi più suggestivi al mondo.




Myanmar:

Lotta alla polio sui monti dei Chin

testo e foto di Dan Romeo | www.iviaggididan.it |


Era il febbraio del 2016 quando per la prima volta ho visitato il «Chin state», un piccolo stato che fa parte di quello che, con il dominio coloniale britannico, era chiamato la Birmania e poi, sotto la dittatura militare, è stato ribattezzato Myanmar.

Gli abitanti del Chin sono di origine sino-tibetana e occupano quella catena montuosa che copre approssimativamente la Birmania (oggi Myanmar) occidentale fino a Mizoram, nel Nord Est dell’India, e piccole parti del Bangladesh. Non costituiscono un unico gruppo, ma hanno tra di loro diverse etnie come Asho, Cho, Khumi, Kuki, Laimi, Lushai e Zomi, ciascuna con la propria lingua appartenente alla famiglia linguistica tibeto-birmana.

Per circa l’80% sono cristiani, mentre la popolazione rimanente è buddhista o animista. Il loro numero in Myanmar è incerto a causa dell’assenza di statistiche demografiche affidabili sin da prima della seconda guerra mondiale. Oggi si stima che ci siano circa mezzo milione di Chin nello stato omonimo e nel Sagaing, nel Nord Ovest del Myanmar.

Poveri e accoglienti

La maggior parte dei Chin vive in villaggi o piccolissime città. Le loro case sono tradizionalmente costruite in legno e appoggiate spesso in maniera precaria su pilastri consumati dal tempo; hanno tetti di paglia e pareti di bambù. Nonostante le loro condizioni di vita siano estreme, i Chin sono sempre disposti ad aprire le porte delle loro case con il sorriso per accogliere i rari stranieri che riescono a raggiungere i loro villaggi remoti. Hanno un desiderio insaziabile di conoscere e scoprire tutto ciò che sta al di là delle loro montagne.

Lo stato di Chin è una delle zone più povere del Myanmar. Più di sette persone su dieci sono sotto la soglia di povertà e circa l’80% delle famiglie vive in condizioni al limite della sopravvivenza e con carenza alimentare. Recenti statistiche stimano che un bambino su dieci muoia entro entro i cinque anni di vita, con un tasso di arresto della crescita infantile pari al 41% e con il 20% dei bambini sottopeso. Basti pensare che qui solo il 15% dei bambini è nato in una struttura sanitaria.

I bambini protagonisti

Nel 2016 Unicef Myanmar mi affidò l’incarico di documentare la campagna di vaccinazione contro la poliomielite appena lanciata. Il team sul campo mi informò della difficoltà del viaggio, soprattutto durante la stagione dei monsoni, quando interi versanti delle montagne franano a valle rendendo le strade impraticabili. Ma la proposta costituiva per me un’opportunità più forte di qualsiasi difficoltà. Mi ritrovai nella capitale dello stato del Chin, Hakha, dopo tre settimane di viaggio estenuante, prima in aereo e poi in auto su strade sterrate, spesso ridotte a pietraie, che si inerpicano sulle montagne al confine con l’India e il Bangladesh. Tracciati di terra di un giallo intenso su strapiombi mozzafiato, con pareti di roccia, spesso segnati da frane, contro le quali lungo tutto il percorso sono pronti scavatori e camion durante tutto l’anno.

Per due settimane sono poi passato di villaggio in villaggio, di casa in casa con gli operatori sanitari per sensibilizzare sui benefici della vaccinazione contro la poliomielite e somministrare i vaccini. Una campagna che ha cercato di colmare i ritardi decennali causati da strutture inadeguate e soprattutto da anni di guerra civile che hanno provocato la fuga e la migrazione di gran parte della popolazione.

in basso, in primo piano, la cattedrale di Hakha, la capitale del territorio Chin.

Il racconto di Eint

Particolarmente toccante per me fu la testimonianza di Eint, una mamma di sette figli, che con il suo ultimo nato appena vaccinato in braccio, mi raccontò che non avrebbe mai dimenticato quanto era accaduto un anno prima, nell’ottobre 2015, quando suo figlio di circa due anni era stato in condizioni fisiche precarie e, nonostante le medicine, aveva continuato ad avere una febbre persistente. «Un giorno, dopo aver partecipato a una festa nel villaggio dei miei genitori, tornati a casa, notai che mio figlio era febbricitante e cadeva a terra ogni volta che cercava di alzarsi».

Per questo Eint lo aveva portato d’urgenza in ospedale. Dopo la visita medica, «i medici mi hanno detto che era la poliomielite. È stato un momento molto duro e complicato», mi disse Eint. «Mi sentivo una mamma inutile».

Suo figlio era uno delle decine di migliaia di bambini che ogni anno contraggono l’infezione da virus della poliomielite, ma era stato salvato grazie alla prontezza della madre che lo ha portato all’ospedale ai primi sintomi.

La sfida

I servizi di immunizzazione, specialmente nelle aree difficili da raggiungere come lo stato del Chin, rappresenta una sfida per il sistema sanitario del Myanmar. Di conseguenza, i bambini sono meno protetti dai virus. Nei villaggi dove la maggioranza della popolazione è musulmana, ci sono anche barriere linguistiche e culturali che aumentando la distanza tra la comunità e il personale sanitario e i volontari.

La violenza intercomunitaria scoppiata nel 2012 nel vicino stato di Rakhine – dove vivono i Rohingya – ha complicato ulteriormente la situazione e, di conseguenza, i bambini di tutte le comunità corrono rischi maggiori.

Sono stato testimone di come l’Oms, insieme a Ong internazionali e al ministero della Salute del Myanmar, stia cercando di debellare la polio, sia con l’informazione e campagne di sensibilizzazione che con la vaccinazione sistematica in tutto il Myanmar e in particolare nelle aree più remote come Rakhine, Chin, Magway, Bago e Ayeyarwady. Le immagini di queste pagine cercano di documentare l’ambiente nel quale vive la minoranza cristiana Chin e la campagna di vaccinazione rivolta a salvare bambini sotto i cinque anni dalla polio.

Daniele Romeo
dan@dan.ph

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